DEMOCRAZia: il Modello
Professore
Onorario, Università di Bari ‘Aldo Moro’
SOMMARIO: 1. Democrazia oggi. Estraneazione
del popolo. – 2. La prospettiva
storica. – 3. Popolo e governanti – 4. Verso un nuovo modello. La democrazia ricorrente. – Abstract.
Partirei
da un postulato, che, per quanto ovvio, è spesso dimenticato.
Perché
ci sia democrazia è necessario che
il popolo possa partecipare ed intervenire sull’esercizio del potere in ogni
momento: altrimenti si assiste all’affermazione ed alla prepotenza di
oligarchie di vario genere (politiche, sociali, economiche), cosí come oggi
avviene in tutto l’Occidente ed in Italia. Non è ammissibile che il popolo sia
interpellato soltanto al momento delle votazioni, peraltro del solo Parlamento,
perché questo consegna il Paese agli arbitri dei poteri forti (Stato ed Enti
locali, con le vessazioni fiscali, banche, gruppi finanziari, multinazionali
ecc.).
Il tema dei diritti
inalienabili nella sua complessità ha conosciuto superfetazioni e,
alternativamente entusiasmi ed illusioni o scetticismo e disillusione.
Sia le normative sia la
bibliografia sia le proposte sono ormai una selva quasi inestricabile.
Spesso si è operato un
collegamento con la ‘natura’, che è, a dir poco ‘ambiguo’ e si disperde nella
congerie di concezioni della ‘natura’.
Molti preferiscono parlare di
diritti umani, senza addentrarsi nei
penetralia del loro fondamento e del loro significato.
Ma, anche in questo caso, le
incertezze e le perplessità sono molte.
Perciò penso che sia
opportuno un approccio differente: quello
del riconoscimento della priorità dell’uomo rispetto alla società ed a
qualsiasi forma di aggregazione sociale e/o politica.
Personalmente ritengo che
occorra affermare con forza che l’uomo è un prius
rispetto allo Stato e/o alle unioni di Stati e che in qualsiasi momento debba
poter esercitare il proprio diritto a far valere questa sua priorità,
dissociandosi dallo Stato.
In proposito, riconsidererei
le performanti visioni già espresse da Cicerone, il quale proclamò l’esistenza
di tre condizioni (status) degli uomini: quella individuale, quella della famiglia e quella
della società. Ognuna autonoma e sia storicamente che ontologicamente in
successione cronologica, di modo che, come sfere intersecanti tra loro ma senza
che nessuna si annulli, non è concepibile che l’una sopprima o limiti l’altra.
Oggi, invece, appare di tutta
evidenza l’estraneazione dei singoli rispetto alla gestione della politica,
sempre piú appannaggio di oligarchie[1].
Questo distacco sembra
favorito dall’assenza di forme idonee a consentire al popolo la conoscenza ed
il controllo di ciò che fanno o si propone di fare i detentori del potere.
Infatti manca o è epidermico il controllo
del potere durante l’esercizio di esso.
L’estraneazione tra singoli e
‘poteri’ è oggi ampliata e, in parte, giustificata con la crisi, che si è abbattuta un po’ dappertutto. Infatti, la crisi
economico-finanziaria, che sta investendo l’Europa, non sta incidendo solamente
sull’economia, perché si proietta in uno scenario di crisi generale
dell’assetto delle società (spingendo a parlare di crisi della società dei
consumi, di crisi della società del possesso o, piú in generale di crisi
dei valori) e, in nome della
necessità di interventi, necessari al rilancio, sta sopprimendo ogni
espressione della volontà popolare.
Essa, perciò, impone anche
una riconsiderazione della democrazia, poiché mi sembra la conseguenza
del modo con il quale è stata strutturata la società contemporanea e sono stati
concepiti la democrazia e, con essa, lo Stato contemporaneo. Infatti,
appare, a mio avviso, evidente la doverosità di una riflessione radicale,
diretta a mettere in discussione l’attuale ‘modello’ e a lavorare alla
costruzione di un nuovo modello[2]
di democrazia, che sappia dare risposte adeguate alle aspirazioni degli
uomini, ponendo rimedio all’estraneazione dei singoli rispetto alla gestione
della politica, che viene avvertita sempre piú appannaggio di oligarchie[3].
Questo è tanto piú urgente
quanto piú vasta diventa la convinzione che oggi la crisi sia irreversibile e
che i governanti non affrontano il nodo del problema istituzionale, ma si
illudono di potervi porre rimedio con l’adozione di soluzioni provvisorie e
parziali, dalle quali spesso nascono illusioni destinate a cadere nel corso
degli anni[4].
Poiché, tuttavia, il distacco
esistente tra governanti e governati rimane immutato e, anzi, tende a crescere,
sono indotto a ritenere che esso sia conseguenza dell’assenza di un’avvertita
riflessione progettuale sul ‘modello’ organizzativo piú consono alle necessità
del presente, alla cui costruzione non bastano provvedimenti e/o istituti
miranti a far fronte all’emergenza.
È su questi aspetti che va
incentrato il dibattito sugli assetti congrui alle nostre società; di esso si
avverte l’assenza, poiché, pur quando c’è, è frammentario, episodico e, mi
sembra, carente di una riflessione organica e prospettica. Non di rado è
rissoso e confuso.
Sta di fatto che si dimentica
o si sfiora superficialmente uno dei nodi che, sin dall’antichità, è stato
ritenuto centrale per assicurare un corretto rapporto tra potere (e ‘potenti’)
e singoli o collettività: l’efficace controllo
del potere in tutte le sue fasi (prima, durante e dopo il suo esercizio).
Su di esso appare sempre piú
grave l’assenza di un’attenta e consapevole considerazione. Eppure si tratta di
uno snodo che ha radici molto risalenti.
Fin dall’antichità,
particolarmente in Sparta, dove per realizzare il controllo del potere furono creati gli Efori[5]
e nella Respublica populi Romani,
dove era assoluto e tranciante il controllo dei Tribuni plebis[6],
è stata avvertita la necessità di porre argini all’esercizio del potere; non
solo attraverso i normali organi dell’organizzazione
di tipo costituzionale, ma anche con l’introduzione di autorevoli
controllori della correttezza ed opportunità delle scelte operate da qualsiasi
‘potere’[7].
E si ebbe cura di fare in modo che, comunque, la durata sia degli Efori che dei
Tribuni fosse limitata nel tempo (duravano, infatti, un solo anno), onde
evitare che essi stessi potessero abusare delle proprie prerogative.
Le antiche figure e le
istanze di base che ne avevano decretata la nascita sono state riproposte
riguardo alla società moderna e contemporanea. Si è aperto un dibattito, oggi
di grande attualità, indirizzato alla prospettazione di soluzioni idonee a
regolare, in maniera soddisfacente per tutti, il complesso rapporto tra
l’esercizio del ‘potere’ ed il popolo, con la finalità di approdare ad un equo
bilanciamento tra le prerogative dei singoli uomini ed i detentori del potere;
spesso partendo proprio dalle antiche istituzioni dell’Eforato e del Tribunato
della plebe.
Vediamo perché.
Eforato. Le
caratteristiche scorte nell’Eforato fecero in modo che esso fosse additato come
‘modello’ da quanti avvertivano l’esigenza del controllo del potere e della
partecipazione popolare. Perciò, a partire dal sec. XVII venne riproposto come
argine al potere del Sovrano. Nel 1603 Johannes Althusius
pubblicava la Politica, opera ritenuta l'atto di nascita del diritto
pubblico moderno, fondamentale per il pensiero federalista e la riaffermazione
della sovranità popolare. Secondo l’autore nella comunità politica vi è un
momento unitario, costituito dalla confluenza tra l'operato dei sommi magistrati
che esercitano il potere ed il concorso del popolo (con le sue molteplici forme
di aggregazioni), il quale si esprime attraverso propri rappresentanti diretti:
gli Efori. In tal modo la società si organizza intorno ad un’istanza di guida
(espressa dai governanti) e ad un’istanza di partecipazione collegiale, che
esprime direttamente la volontà della comunità. Perciò sono gli Efori ad avere
l’auctoritas e la potestas piú elevata, proprio perché promanano
direttamente dal popolo, consentendo al popolo stesso di farsi valere realmente
di fronte all’azione di governo del sommo magistrato. Piú tardi Johann Gottlieb
Fichte riprese le fila del rapporto magistrato-popolo, ma da altra angolatura:
non quello positivo della rappresentatività, bensí quello del controllo. Egli
ripropose l’Eforato non come potere positivo, ma come controllo sul potere.
Le caratteristiche
dell’Eforato, tuttavia, sono state spesso anche esaltate nei momenti nei quali
si cercava di riposizionare il popolo al centro della vita politica e
costituzionale, come avvenne intorno alla metà del secolo XVIII, quando
l’Eforato è stato talora ripresentato come modello di giustizia e di difesa
delle istanze popolari. Significativa appare la sua riproposizione ad opera del
Pagano, il quale lo ipotizzò come organo idoneo a soddisfare l’esigenza di
porre in essere efficaci strumenti giuridici volti a impedire ogni forma di
usurpazione da parte dei detentori del potere. Compito dell’Eforato, per
l’autore partenopeo, era quello di dare spazio al popolo, in modo da garantirlo
contro gli abusi di potere e la violazione dei diritti, evitando di diventare a
sua volta fonte di potere incontrollato. La ricerca di una forma di controllo
efficace e il ricorso all’Eforato (proprio nell’epoca del Pagano) erano oggetto
di attenzione e tensioni anche in Francia, attraverso alcune proposte
presentate all’Assemblea legislativa. Nel febbraio del 1793, Jacques-Marie
Rouzet prospettò la creazione di un organo collegiale di 85 membri preposto al
controllo della correttezza delle leggi, da effettuarsi prima ancora della loro
approvazione da parte dell’Assemblea. Ai membri di tale organo, il Rouzet,
molto prima che il Pagano redigesse il suo Progetto, dava il nome di Efori. La
sua proposta si inseriva all’interno del progetto rivolto ad assicurare la
legalità, considerata parte essenziale dei diritti dell’uomo. Allo stesso
obiettivo si ispirò anche il ben piú articolato e complesso progetto
presentato, all’Assemblea, dall’abate Sieyès, il quale prevedeva l’introduzione
di un jury constitutionnaire (da lui denominato altrove anche tribunal
des droits de l’homme) incaricato di una triplice funzione: vegliare sulla
salvaguardia del dettato costituzionale, proporre dei perfezionamenti della
Costituzione ed esercitare un controllo sulle sentenze della giurisdizione
ordinaria sulla base del diritto naturale. Conseguenza del giudizio dinanzi al jury
sarebbe stata la possibilità di dichiarare “nuls et comme non avenus” gli atti
incostituzionali. Benché apprezzato da molti, il progetto del Sieyès venne
respinto, ma, l’istanza, della quale si faceva portatore, restò un punto di
riferimento, per la cultura europea.
Tribunato. Il
Tribunato, ripetutamente nel corso del tempo, è stato considerato lo strumento
piú immediato ed efficace per la salvaguardia dei diritti e delle aspettative
dei cittadini. Per la sua carica potenzialmente rivoluzionaria e la capacità di
essere vicino alle esigenze dei cittadini, esso è stato riproposto anche ai
tempi d’oggi, riconoscendogli una eccezionale attualità e l’idoneità a
contribuire alla soluzione della crisi dello Stato moderno. Il quale avrebbe
tanto da guadagnare dal richiamo del modello “giuspubblicistico” dell’antica
Roma, particolarmente quello della Repubblica, ritenuto il piú rispettoso della
sovranità del popolo. In quel modello i Tribuni erano centrali, al punto che
Cicerone arrivava a dire che non si sarebbe potuto parlare di Respublica
se non ci fosse stato il Tribunato. L’origine plebea, il suo inserimento nelle
lotte patrizio-plebee, prima, per la riforma agraria e, piú in generale, il suo
intervento a favore degli oppressi, dettero all’istituzione un fascino
trascinante, che perdura ai tempi d’oggi; al punto che alcuni hanno ipotizzato
l’attualizzazione del Tribunato, per rimuovere le cause della crisi di fiducia
dei cittadini. I Tribuni della plebe erano presenti in alcune città medievali:
è rivelatrice la circostanza che il governo popolare cittadino instauratosi a
Bologna nel 1300 fosse articolato intorno ai Tribuni della plebe e desse vita a
costumi che durarono fino al 1700. Nell’età moderna troviamo il Tribunato al
centro del dibattito tra Montesquieu e Jean-Jacques Rousseau riguardo al
‘modello’ piú adatto all’età contemporanea. Al primo, contrario al Tribunato
perché convinto che esso fosse inconciliabile con la democrazia rappresentativa
di matrice inglese, da lui perseguita, il Rousseau controbatteva con la
proposta di introduzione di una magistratura di mediazione (un magistrat
intermédiaire) forgiata in assonanza con il Tribunato romano. I
rivoluzionari Robespierre e Babeuf, il quale, volendo estremizzare
l’affermazione del ruolo del popolo, aveva visto nel Tribunato la soluzione piú
pertinente, addirittura mitizzarono il Tribunato. Robespierre però diffidò dei
travisamenti degli uomini e propose che fosse il popolo stesso ad esercitare il
Tribunato. Babeuf fece del Tribunato il suo modello di eccellenza, tanto che
(il 5 ott. 1774) ribattezzò il suo giornale (Journal de la liberté) con
il nuovo nome di Tribun du peuple e vide nel Tribunato lo strumento per
la giustizia e la lotta dei poveri contro i ricchi ed i potenti, nel
perseguimento della democrazia popolare al posto della democrazia borghese. Tra
i filosofi il Tribunato, ignorato da Kant, fu riproposto da Schlegel, nella
rivalutazione pre-romantica del popolo, il quale vide nell’istituzione di un hochheiliger
Tribun lo strumento ultimo di difesa della parte migliore del popolo.
Il Tribunato è stato
considerato la figura cui ispirarsi per superare i limiti della ‘democrazia’,
consistente nella possibile ‘tirannia’ della ‘maggioranza’. Si è, infatti,
affermato che la sola maggioranza,
contrariamente a quanto si crede sulla scorta del modello di democrazia degli
Stati Uniti d’America, non può essere garanzia di democrazia, poiché può
diventare facilmente ‘oligarchia’,
per il fatto che essa «fondando il potere della maggioranza, ha trascurato di
sottoporlo a questo sindacato permanente >il Tribunato< di cui tutti i
poteri hanno bisogno». In quasi tutte le proposte, tuttavia, piú che al
complesso dei poteri e delle prerogative dei Tribuni il riferimento prevalente
è alla possibilità di opporsi al ‘potere’ dei magistrati e degli organi della
repubblica[8].
Parziale eredità di siffatte
proposte è stata la creazione in Svezia[9]
dell’Ombudsman. Esso è proliferato in numerose figure, che, con varie
denominazioni (Ombudsman, Médiateur, Defensor del pueblo, Parliamentary
Commissioner, Avvocato del popolo, Difensore civico, Défenseur des droits)
sembrano procedere in modo irrefrenabile in quasi tutto il mondo, ad eccezione
degli USA e dell’Italia, suscitando entusiasmo e speranze[10].
Ciò avviene perché la figura (secondo alcuni erede degli antichi Efori o
dei Tribuni plebis ovvero dei piú tardi Defensores Civitatum, sorti nel Basso Impero) è stata
concepita proprio come intermediaria tra potere e governati[11],
sicché spesso crea l’illusione di potere colmare il solco (come detto, sempre
piú profondo) esistente tra ‘potere’ e uomini, oggi avvertito come fonte di
disparità ed ingiustizie.
Anche nell’UE vi è un
mediatore, erede dell’Ombudsman di matrice svedese, ma con poteri tanto
ristretti da incidere poco nella vita dell’UE e sull’effettivo rispetto della dignità
umana, proclamata dal Trattato di Lisbona.
In realtà gli Ombudsman sono
soltanto una pallida replica del defensor civitatis e del glorioso Tribunato
della plebe. Quelle istituzioni erano concepite come reale freno
all’esercizio del potere, le odierne figure (Ombudsman, Mediatori, Defensor del
Pueblo, Avvocati del popolo, Difensori civici, o comunque sia denominate) sono
sorte come espressione del potere stesso o del Parlamento (ma chi si fida piú
del Parlamento?) e sono destituite di poteri reali e decisivi, poiché, per lo
piú svolgono compiti di denuncia.
Eppure quello del controllo del
potere durante il suo esercizio, come si è detto, è un grosso nodo; non basta,
eventualmente, sovrintendere all’emanazione dei provvedimenti, occorre
controllarne l’effettiva e corretta attuazione. Senza questo controllo,
attraverso un organo dotato di poteri incisivi, la stessa democrazia perde
senso e diventa un comodo paravento per decisioni unilaterali e non rispondenti
all’interesse della collettività; in Italia manca addirittura una figura
nazionale di tal fatta, malgrado l’invito rivolto dall’ONU alla fine della
prima metà del secolo scorso.
Specialmente per i diritti
fondamentali il controllo, per essere efficace, dovrebbe essere preventivo.
L’UE ha avvertito la delicatezza di ciò e, prima con il Trattato di Maastricht
poi in quello di Lisbona, ha introdotto il principio di precauzione, che
dovrebbe consentire di bloccare sul nascere[12] un atto offensivo
dell’ambiente o comunque temuto nocivo. Tuttavia ad oggi esso non appare
corredato di strumenti di incisiva efficacia.
Qualcosa potrebbe rappresentare
la procedura detta VIA[13],
ma in molti Paesi è stata depotenziata, perché a pronunciarsi, cosí come essa
richiede, sulla non nocività ed opportunità dell’atto e/o del procedimento
sospetto non sono chiamati i cittadini-utenti, bensí le Amministrazioni e gli
organismi che in molti casi sono essi stessi autori o comunque hanno
partecipato alla formazione del potenziale provvedimento sospetto.
Il punto, pertanto, rimane acuto
e richiede una radicale riconsiderazione. Cardini della riflessione degli
ultimi secoli sono stati ritenuti da un lato l’esigenza che il popolo non si
sentisse escluso dalle decisioni fondamentali che lo concernono, dall’altro la
prevenzione o il blocco di eventuali abusi da parte dei governanti. In
conseguenza di questa impostazione sono apparsi particolarmente significativi
gli istituti diretti al controllo dell’esercizio del potere, per assicurare il
‘buon governo’, che va perseguito attraverso la riscoperta della effettiva
centralità della sovranità popolare, e per reprimere l’uso arbitrario ed
immotivato del potere[14].
Oggi costatiamo l’attualità
di queste stesse istanze. Esse sono anche postulate dalla crescente richiesta
di tutela dei diritti fondamentali,
la quale ha posto a nudo l’inadeguatezza di due fondamenti della ‘democrazia’
occidentale, costituiti dalla rigida affermazione della sovranità statale (o di
unioni di Stati) e dal principio della divisione dei poteri. Questi
pilastri della democrazia rappresentativa hanno generato una crescente
mancanza di protezione di fronte all’Amministrazione Pubblica ed ai cosiddetti
‘poteri forti’, i quali appaiono invasivi, anche in conseguenza del fatto che,
nel frattempo, il bilanciamento ed i controlli tra i ‘poteri’ previsti dalla
dottrina della divisione dei poteri in realtà non vi è piú. Perché ci
sia democrazia è necessario che il popolo possa partecipare ed intervenire
sull’esercizio del potere in ogni momento: altrimenti si assiste
all’affermazione ed alla prepotenza di oligarchie di vario genere (politiche,
sociali, economiche), cosí come oggi avviene in tutto l’Occidente ed in Italia.
Non è ammissibile che il popolo sia interpellato soltanto al momento delle
votazioni, peraltro del solo Parlamento, perché questo consegna il Paese agli
arbitri dei poteri forti (Stato ed Enti locali, con le loro vessazioni fiscali,
banche, gruppi finanziari ecc.) e, in ultima istanza ad oligarchie, che operano
sotto il semplice paravento della democrazia.
Questo perché non ha
funzionato e sempre meno funziona il controllo che doveva essere realizzato
attraverso il principio della divisione
dei poteri, di modo che l’uomo avverte una crescente mancanza di protezione
di fronte all’Amministrazione Pubblica ed ai cosiddetti ‘poteri forti’[15].
Pur non essendo ipotizzabile una democrazia assembleare, del tipo di quella
ateniese (ad esempio), occorre trovare soluzioni che rassicurino i ‘governati’
sull’utilizzo del potere per il bene comune e non per finalità personalistiche
e, spesso, piú o meno vessatorie ed arbitrarie.
Invero, proprio il perno
destinato al corretto esercizio e al controllo del potere, vale a dire
la divisione dei poteri,
si dimostra sempre piú una mera finzione, incapace di creare il necessario
bilanciamento tra poteri e, meno che mai, di assicurare il ruolo protagonista
del popolo. Per convincersi di ciò basta un fugace sguardo alla struttura dell’Unione
europea.
In essa le cosiddette norme
primarie del diritto comunitario sono costituite in primo luogo dalle norme
convenzionali, contenute nei Trattati istitutivi della Comunità e negli accordi
internazionali successivamente stipulati, al fine di modificarli. A queste
norme si affiancano quelle (di diritto derivato), provenienti dai
regolamenti CE e dalle direttive del Consiglio o della Commissione (atti
normativi) e molte altre tutte non provenienti da alcun organo legislativo. È,
poi, anche opinione concorde che possano assumere valore normativo le decisioni
ed i pareri e le sentenze della Corte di Giustizia (o del Tribunale di primo
grado). Le quali finiscono per rivestire efficacia diretta negli ordinamenti
degli Stati membri, assumendo, di conseguenza, il carattere di fonti del
diritto comunitario: infatti, l’interpretazione di una norma comunitaria, resa
in una pronuncia della Corte di Giustizia, ha carattere di sentenza
dichiarativa del diritto comunitario.
Il potere giudiziario -
quello che doveva fungere da controllore dell’esecutivo, ponendosi come terzo
rispetto all’imparziale applicazione della legge ed ergendosi a garante della
legalità e della meritevolezza degli atti dell’esecutivo – è diventato un potere
autoreferenziale, senza rapporto reale con il popolo. Nella Costituzione
italiana e di molti altri Paesi i giudici, pur dichiarando enfaticamente nelle
loro sentenze, di agire in nome del popolo, in realtà sono lontanissimi
ed estranei al popolo, il quale né concorre alla loro designazione né li
conosce né è reso partecipe in alcun modo alle loro decisioni[16].
Nell’UE poi la loro nomina e la loro conseguente posizione è paradossale,
poiché sono emanazione diretta ed esclusiva dei Governi. Invero, secondo l’art.
9 F del Trattato di Lisbona:
1. La Corte di giustizia dell'Unione europea comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati. Assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati.
Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione.
La Corte di giustizia è composta da un giudice per Stato membro. È assistita da avvocati generali.
Il Tribunale è composto da almeno un giudice per Stato membro.
I giudici e gli avvocati generali della Corte di giustizia e i giudici del Tribunale sono scelti tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che soddisfino le condizioni richieste agli articoli 223 e 224 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Sono nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri per sei anni. I giudici e gli avvocati generali uscenti possono essere nuovamente nominati.
Ciò con buona pace
dell’esigenza di garantire a chicchessia un giudice indipendente ed
imparziale, precostituito per legge proclamata nell’art. 47 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, del 2000:
Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice
imparziale. Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto
dell’Unione
siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle
condizioni previste nel presente articolo. Ogni individuo ha diritto a che la
sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine
ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per
legge.
Tutto ciò accade nella paradossale situazione
dell’UE, nella quale l’esecutivo è nominato dagli esecutivi degli Stati membri
e non ha nessuna relazione né con il Parlamento europeo né, ancor meno, con i
governati, salvo il tentativo ancora timido di collegare almeno la presidenza
al popolo riflesso dal Trattato di Lisbona!
Come si vede della c.d. divisione
dei poteri non resta quasi nulla!
Rimane invece una sorta di
paravento che, fonte di illusioni ed ipocrisie, favorisce il consolidamento di
oligarchie e burocrazie e che fa sentire impotenti.
Eppure, mentre nell’800 si
distingueva tra repubblica e democrazia, a partire da quel periodo si cercò di
superare tale distinzione, la quale significava distinguere tra democrazia
partecipativa, indicata anche semplicemente parlando di repubblica, e
democrazia rappresentativa: si cominciò a distinguere tra democrazia pura,
indicativa della democrazia (degli antichi) partecipativa e democrazia,
senza aggettivi, corrispondente alla democrazia elettiva e rappresentativa[17].
Attraverso l’ONU e gli altri
Organismi internazionali è proprio questo modello di democrazia
rappresentativa ad essere assunto come sinonimo di democrazia ed
assistiamo al tentativo di esportarlo ed imporlo, addirittura con la forza. In
realtà ciò opera forzature dolorose e causa una riduzione ischemica nella
delineazione del rapporto tra governanti e governanti, tra uomini e potere.
Quanto questo sia devastante
per alcune culture è sotto gli occhi di tutti e crea tensioni e ribellioni.
All’interno di ciascuno
Stato, poi, vi è delusione ed un senso di cocente estraneazione dalla
‘politica’, vissuta come superfetazione, spesso improvvisazione o sopraffazione
di pochi (si parla sempre piú spesso di ‘caste’). D’altra parte chi oggi può
credere al primato della legge, emanazione di parlamenti sempre piú screditati
e strumento di ‘pochi’[18]?
Rebus sic stantibus, cosa fare? Rassegnarsi? Riaffidarsi
ancora al rispetto delle ‘regole’ della democrazia rappresentativa, alternando
periodi di risveglio democratico con periodi di ‘indignazione’ ed
allontanamento dalla vita pubblica o, peggio, ricorrendo ad atti di ribellione?
La verità è che (a mio
avviso) vi è la necessità di riprendere il discorso là dove era iniziato, cioè
intorno alla seconda metà del sec. XVIII, quando si definirono le basi del
modello costituzionale francese, che, desunto da quello inglese, diventò ‘il
modello’ universalmente adottato negli Stati contemporanei e, con varianti piú
o meno significative, è quello che ancora oggi è seguito. S’impone una
discussione profonda ed in grado di ridisegnare il ‘modello’ di Stato e,
ovviamente, di Costituzione, sia formale che materiale.
Ritengo che la prorompente
esigenza di riconoscimento e protezione dei cosiddetti diritti fondamentali
stia dimostrando l’inadeguatezza dei pilastri della ‘democrazia
rappresentativa’ e richieda una profonda discussione dei princípi sui quali
essa si fonda; nella realtà essi stanno dando spazio crescente all’affermazione
di oligarchie, con conseguente estraneazione del popolo. Il nuovo disegno di
Costituzione dovrebbe, perciò, partire dalla constatazione dell’inefficacia e
del mancato funzionamento della ‘divisione dei poteri’, per ipotizzare una
differente configurazione della società, con la riproposizione della centralità
dell’uomo, la quale può essere ottenuta solo attraverso forme performanti di controllo
del potere, in tutte le sue manifestazioni e durante il suo espletamento.
Purtroppo sono in pochi ad
avere intrapreso questa strada, mentre il nodo era ben presente nelle
discussioni sulla città antica e nel pensiero dei secoli XVIII-XIX, dal quale
deriva la configurazione delle ‘democrazie’ occidentali.
Sinceramente credo che
occorra non tanto inseguire rimedi temporanei e/o parziali, quanto ritornare a
riflettere su cosa occorra alla società di oggi, ponendo al centro la
discussione del ‘modello’, sulla ‘democrazia’, senza remore o prevenzioni. Cosí
facendo, forse, si scoprirà che è proprio il modello della democrazia
rappresentativa ad essere inadeguato ed anzi fuorviante, rispetto
alle esigenze delle comunità, che è soprattutto esperienza e
vive di esperienza (cioè della vita)[19].
Perciò, piuttosto che la
prospettazione di ipotesi teoriche[20],
si potrebbe esperire un approccio realistico, individuando, ove possibile, come
sia opportuno cambiare il ‘modello’ che regge le comunità dell’oggi e
soprattutto avviando una riflessione della quale qui si vogliono ipotizzare
alcune linee iniziali[21].
Essenziale riterrei la
rivisitazione del principio della divisione dei poteri.
Esso è stato ritenuto fondamentale
nella democrazia rappresentativa fino al punto di essere ritenuto di per
sé idoneo ad assicurare la democrazia (tout court). In realtà si
risolve in una limitazione di ruolo per il popolo, il quale è privato
della possibilità di interagire sia con il potere esecutivo sia con quello
giudiziario e, riguardo al potere legislativo, è ridotto al ruolo di distretto
elettorale, che si riunisce soltanto al momento dell’elezione del
Parlamento (e talora neanche di tutti i componenti di esso) e poi sparisce
dalla scena politica attiva, anche se altri (ovviamente il Parlamento, ma anche
l’Esecutivo ed i Giudici) dichiarano di agire in nome suo.
Di conseguenza, immaginare un
‘modello’ che prescinda dalla divisione dei poteri non costituisce
motivo di possibili derive antidemocratiche, bensí serve ad eliminare una
finzione ed a stimolare la ricerca di forme piú incisive di partecipazione
costante del popolo, con controllo effettivo dell’esercizio del potere, che è unico
ancorché si manifesti in varie forme, con modalità ed organismi distinti.
In altre parole, anziché
assistere al tacito assorbimento di competenze da parte dell’Esecutivo nei
confronti del Parlamento o dei Giudici nei confronti del Legislativo, appare
meglio e piú realistico affrontare l’ipotesi di una democrazia che
ritorni a porre i consociati al centro del Potere e del suo esercizio.
Ma qui sorge un
interrogativo: si può ipotizzare il ritorno alla democrazia diretta? Si
può ipotizzare la consultazione diretta e ricorrente dei consociati? Oggi si
parla di democrazia partecipata (talora partecipativa) e si
sperimentano varie modalità che dovrebbero consentire ai componenti della comunità
di partecipare in qualche modo al momento deliberante delle decisioni,
utilizzando, all’uopo, anche le grandi ed innovative possibilità offerte delle
nuove tecnologie. Se essa sia realizzabile o se, come è spesso obiettato, sia
possibile solo in società e/o gruppi poco estesi è oggetto di verifica. Certo
occorre riflettere scandagliando fino in fondo le potenzialità esistenti oggi
ed in grado di fare in modo che vi sia una partecipazione dei consociati al
momento deliberativo e, aggiungerei, a quello dell’attuazione dei conseguenti
atti e/o provvedimenti.
Occorre, comunque,
domandarsi: ci sono strumenti per rimediare alla prevalenza oligarchica delle
società odierne?
Parecchi, ma da esperire e
monitorare continuamente nella loro efficacia.
Ne esemplifico soltanto
alcuni con l’avvertenza che, sul punto, occorrerebbe sollecitare un dibattito
approfondito. Inizierei con alcune limitate indicazioni.
Primaria mi sembra la
reintroduzione dell’etica nel diritto; certamente non nel senso che etica e
diritto si debbano identificare, bensí nel senso (kantiano) che l’etica deve
essere nel diritto.
Si possono riconsiderare
alcune forme di mandato vincolante e
la verifica di metà mandato. La Costituzione aveva previsto tempi diversi per
l'elezione della Camera e del Senato: mai rispettati. Altrove, ad esempio negli
USA, alcuni rappresentanti vengono eletti ad una data altri dopo 2 anni: cosí
capita che un Presidente, che non soddisfi piú o non mantenga quanto promesso,
perda la maggioranza del Parlamento. In Italia, in nome della Governabilità,
invece si vota una soltanto ogni 5 anni, senza vincolo di nessun genere per gli
eletti.
Subito dopo si dovrebbe porre
mano a una ristrutturazione della Giustizia, la cui grave crisi, acuta
particolarmente in Italia, è eclatante ed allontana l’uomo dal diritto. Tanto
piú che oggi la tutela giudiziaria è riservata a chi abbia un interesse personale
attuale e diretto alla lite. Questo è retaggio consolidato e risale al
diritto romano, con la differenza che gli antichi Romani si resero conto che in
alcuni casi questi presupposti erano devianti, poiché, dinanzi agli interessi
della collettività o di persone deboli, apparve loro opportuno prescindere da
tali requisiti e concedere la legittimazione al processo a chiunque,
ancorché non portatore di un suo particolare e specifico interesse. Fu questa
la felice invenzione dell’azione popolare. Essa consente il controllo
sul corretto esercizio del potere. Infatti, poiché qualora chi ne è obbligato non
agisca, può vedersi sostituito da chicchessia, ne consegue da un lato uno
stimolo a ‘fare’ ciò cui il governante sia tenuto dall’altro un controllo
indiretto del suo operato. In altre parole, io, cittadino qualsiasi sarò
verosimilmente molto stimolato a verificare ciò che il governante fa se so che,
qualora egli non faccia il dovuto, potrò sostituirlo io stesso. L’azione
popolare, inoltre, va ben oltre la facoltà di supplenza, perché rappresenta
un caso concreto di esercizio diretto della sovranità popolare, normalmente
delegata al governante, ma il cui esercizio torna a ciascun cittadino
quando chi ne sia tenuto non adempia al suo ufficio/dovere[22]. Considerati la
complessità del processo dell’oggi ed i suoi alti costi, sarà opportuno che chi
esperisca un’azione popolare possa, per ciò solo, avvalersi del gratuito
patrocinio.
L’azione popolare è prevista da molte costituzioni
latino-americane, mentre è del tutto assente nel Trattato di Lisbona e, quindi,
all’interno dell’UE.
Nell’UE siamo quasi alla
beffa: non solo manca l’azione popolare e non vi è traccia di referendum,
ma, con toni roboanti, si propaganda come una grande novità a favore dei
cittadini la cosiddetta “iniziativa popolare”, per la quale occorrono un
milione di firme, in almeno 7 Stati e con una soglia minima per Stato[23]
non perché la proposta di legge sia accolta e se ne occupi il Parlamento, ma
semplicemente con il valore di suggerimento, perché i cittadini «possono
prendere l’iniziativa d’invitare la Commissione europea, nell’ambito delle sue
attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle
quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini
dell’attuazione dei trattati». Uno si aspetterebbe che se si mobilitano tanti
cittadini in almeno 7 Stati dovrebbero avere il potere di adottare direttamente
un provvedimento o almeno di avere la legittima facoltà di sottoporre
all’approvazione diretta dei cittadini il provvedimento richiesto.
Insomma tanto rumore quasi
per nulla o, comunque, poco?!
Per la Giustizia civile si
stanno sperimentando diversi rimedi, ma essi si rivelano parziali e non
risolutori. Il piú recente è del 2008, quando l’UE si è posta il problema
dell’effettività dell’accesso alla giustizia e della sua reale
fruizione; con la direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
del 21 maggio 2008, entrata in vigore il 12.6.2008, la Commissione ha inteso
promuovere il ricorso alla mediazione come metodo di risoluzione consensuale
delle controversie in materia civile e commerciale. La direttiva non menziona
la materia amministrativa, probabilmente perché per essa vi è la concorrente
azione del Médiateur européen.
La direttiva è stata
variamente interpretata ed applicata dai singoli Paesi membri. Ad esempio, in
Italia, come è noto, è stata intesa dal Governo non come alternativa al
processo, ma come rimedio contro la lungaggine eccessiva delle liti. Ho la
preoccupazione che, specialmente riguardo all’Italia, il ricorso alle procedure
alternative, di là dagli entusiasmi del primo momento, possa non avere molto
spazio[24],
diversamente dalle esperienze anglosassoni, nelle quali sono nate, che hanno
ben altri Weltanschauung. D’altro canto è rivelatrice la circostanza che in
Italia la loro introduzione sia stata prefigurata all’interno della semplificazione
e della competitività in materia del processo civile[25].
Sta di fatto che queste sono
strade che cercano di risolvere la questione della Giustizia senza porre in
discussione l’impianto tradizionale del processo, malauguratamente isterilitosi
in ritualità e azioni dilatorie, che per l’Italia risalgono al periodo fascista
ed in particolare al Chiovenda[26],
il quale prefigurò la presenza invasiva del giudice istruttore, creando un monstrum
del quale fin dal suo sorgere se ne denunciarono i pericoli e la potenziale
inefficienza.
Che la riforma funzioni è da
verificare e non vorrei che costituisca un alibi per dilazionare la riforma del
processo, sia riguardo ai costi sia riguardo al ruolo delle parti e dei giudici[27].
A mio avviso è su questo che occorre intervenire in via prioritaria,
restituendo alle parti il potere di scelta del giudicante (come avveniva nel
modello del diritto romano, durante la Respublica, cioè in un sistema a democrazia
partecipata), secondo una visione compartecipata e non autoritaria o
oligarchica della società[28].
Invero la questione
dell’accesso alla Giustizia e dell’organizzazione del processo non è mera
questione tecnica e non è risolvibile attraverso modifiche, piú o meno
radicali, settoriali o solamente processuali: essa attiene al modo stesso di
concepire la società ed il modello sociale e costituzionale cui ispirarsi[29].
Ma in via piú generale e
radicale si dovrebbe delineare un nuovo assetto del rapporto tra giudici e
popolo.
Oggi i giudici non hanno nessun legame con i cittadini.
L’uomo si sente ed è
pressoché impotente. Affidato, per la sua richiesta di ‘giustizia’ ad un
meccanismo non sempre ‘terzo’ e spesso avulso dal contesto storico-sociale,
tanto che non di rado si hanno sentenze che stupiscono per la loro estraneità
al contesto della realtà fattuale ed ai valori della società. Le motivazioni
alle sentenze, poi, costituiscono un campo nel quale è spesso impossibile
addentrarsi e certamente non sono, come dovrebbero essere, alla portata della
comprensione dell’uomo medio[30].
Oserei dire che talvolta sembra di trovarsi di fronte ad un linguaggio tanto
tecnico da essere appannaggio esclusivo di pochi, creando un altro motivo di
estraneazione dell’uomo dal diritto.
Amo ricordare che la nomina
‘a vita’ dei giudici era motivata dalla necessità di renderli indipendenti dal
Sovrano[31]
e comunque ancora oggi il giudice resta al suo posto during good behavior.
Ma nella Repubblica questo si giustifica ancora? Ne dubiterei. D’altra parte se
questa esigenza fosse ancora attuale non si giustifica perché nelle Corti
sovranazionali, come la Corte di Giustizia europea i giudici sono designati per
un periodo limitato (di 6 anni).
Accanto
alla riconsiderazione della ‘giustizia’, occorrono prospettare soluzioni
adeguate a dare ‘voce’ agli uomini, consentendogli di intervenire riguardo alle
decisioni che concernano loro e la collettività.
Appare sempre piú evidente
l’opportunità di attribuire l’iniziativa di proposta di legge anche a
persone o gruppi che non facciano parte del Parlamento, sia con la forma del referendum
propositivo sia attribuendo il potere di proposta ad organi o singoli, che
intendano agire per la collettività. Esempio significativo è la costituzione
albanese, la quale, in materia di diritti umani, attribuisce il potere
di iniziativa legislativa anche all’Avvocato del popolo[32].
Ora la domanda è questa:
poiché le questioni diventano sempre piú tecniche ed è palpabile la generale
sfiducia nei governi e nei parlamenti, non si dovrebbe dare in qualche modo
voce, anche sotto forma di proposta ed eventuale approvazione di legge, al
popolo?
Vitale potrebbe essere
l’introduzione di difensori dei diritti
(la figura esiste in Francia, accano al Médiateur de la République française),
da prevedere a tutti i livelli, come
difensori degli uomini, dotati di alcune prerogative incisive, come il diritto di seguito (cioè l’obbligo
dell’Autorità a dare risposta motivata alla lamentela dei cittadini entro 20
giorni, superando i costi e le lungaggini dei ricorsi e delle cause
giurisdizionali) e, in alcuni casi, con
la potestà di bloccare gli atti ritenuti ingiusti, fino a quando le Autorità ne
dimostrino la fondatezza e la giustezza. Ad essi potrebbe essere
riconosciuta la facoltà di proporre ricorso diretto
alle Corti Costituzionali e l’esperibilità dell’azione precauzionale. A difesa dei diritti fondamentali, preesistenti al diritto statale: soprattutto
riguardo all’ambiente.
In conclusione: occorre che il popolo sia riposizionato al
centro di ogni decisione o atto e che i Governi siano espressione di esso e non
di gruppi forti.
Il quadro, per la verità, è
certamente complicato dal fatto che questa forma di democrazia
investirebbe soltanto gli atti delle Pubbliche Amministrazioni e non avrebbe possibilità
di incidere sulle decisioni delle grandi imprese e dei potentati economici e/o
politici e sociali, dai quali, sempre piú spesso, dipendono questioni vitali.
Ecco dunque che, di
conseguenza, il campo d’indagine e di intervento si allarga e, diventando piú
arduo, impone di considerare ‘potere’ ogni centro decisionale ed autoritario in
grado di incidere sulla condizione e sulla qualità della vita degli uomini.
La settorizzazione esistente
tra diritto pubblico e diritto privato e la separazione funzionale tra
previsione normativante, momento decisionale e processo non aiuta, anzi è di
grave ostacolo. Però occorre individuare almeno alcuni capisaldi da cui
muoversi.
Il compito, per arduo che
sia, spetterebbe ai pensatori e, per lo specifico della materia, ai
giureconsulti. Ma essi, rispetto al grande ruolo avuto durante l’esperienza
romana e nel medio evo, sono stati estromessi dal grande gioco del diritto.
Montesquieu li espunse non menzionandoli in nessun luogo nella sua trama sulla divisione
dei poteri. L’esclusione era eclatante e Alexis de Tocqueville s’ingegnò a
giustificarla, sostenendone l’opportunità per il fatto che sempre i
giureconsulti si erano mostrati corrivi con i potenti. In realtà, in genere,
era vero il contrario: erano stati i giuristi a porre gli argini piú resistenti
agli arbitrii ed al dispotismo: un nome ed un esempio per tutti, quello di
Grozio, che aveva riaffermato il diritto naturale ed aveva fatto scaturire il
potere dal contratto sociale. Certo è che eliminati i giureconsulti si
erano al tempo stesso eliminate la maggiori voci critiche verso il potere e le
sue articolazioni.
Occorre, invece, ritornare
alla centralità del pensiero giuridico, come cardine della vita politica e
sociale. Esso si è mostrato in grado di arginare gli abusi, tanto riguardo alle
materie pubbliche quanto a quelle private[33]
ed è l’unico in grado di elaborare soluzioni per riporre la comunità al centro
della vita politica e sociale, ponendosi come generatrice, ma anche come
controllo del potere.
Da ultimo, mi sembra che sui diritti umani si faccia molta demagogia
e non si voglia vedere la realtà, che racchiuderei in un paradosso: il diritto
dell’uomo è meglio tutelato là dove gode già di un alto grado di protezione e
non là dove necessita di una qualsiasi protezione, perché del tutto
inesistente, come nei regimi dittatoriali.
Vogliamo affrontare fino in
fondo i nodi di questa problematica? Cominciando dal riflettere sul fatto che
le attuali concezioni sono frutto di visioni liberistiche e borghesi e non hanno
quel grado di universale condivisione (che invece si finge che abbiano), tanto
che in Asia non si concorda con le varie enunciazioni dell’Occidente[34]
e l’Islam[35]
ha proceduto ad elaborare proprie dichiarazione dei diritti umani.
Molto c’è da dire e molto c’è
da fare. Soprattutto occorre ridisegnare il ‘modello’ di società, superando
l’astrattezza del concetto di Stato, e proponendo articolazioni veritiere e non
schemi logori e spesso forieri di finzioni.
Va avvertito, comunque, che
non esiste il modello perfetto e, pertanto, è necessario ipotizzare un ‘modello
dinamico’.
L’esperienza dimostra che le
soluzioni prospettate spesso suscitano entusiasmo ed attese che, dopo un certo
intervallo, scemano e risultano inefficaci, Pertanto la democrazia ha bisogno
di sapersi rinnovare e rimodellare costantemente e periodicamente, secondo uno
schema il quale non può mai avere la pretesa della perfezione e della validità
perenne, ma deve continuamente rimodellarsi, in base alle esigenze dei singoli
e delle collettività, e che, perciò, definirei di democrazia ricorrente.
In questo un riferimento
significativo potrebbe essere quella della Respublica
populi Romani, la quale, nel corso della sua storia, seppe rinnovarsi
continuamente, non dimenticando l’insopprimibilità delle prerogative del
singolo e della famiglia.
Oggi non si dibatte più sul
modello di democrazia, come si faceva nel secolo XVIII. Si dà per scontato che
democrazia sia la democrazia rappresentativa, il cui modello viene visto come
quello della democrazia tout court e imposto, dove è possibile, a tutti.
Questo ha prodotto
l’allontanamento del popolo da ogni decisione fondamentale e dall’esercizio del
potere.
Occorre, invece,
riconsiderare il modello di democrazia riponendo al centro l’uomo ed introducendo
forme, non soltanto formali e giudiziarie, di controllo del potere durante il
suo esercizio.
Ma il ‘modello’ non può
essere unico e valevole per ogni luogo e per ogni tempo. Deve, invece, essere
continuamente rimodellato. Perciò occorre parlare di modello di democrazia
ricorrente.
Aujourd'hui
se discute pas sur le modèle de la démocratie. On suppose que la démocratie est
la démocratie représentative.
Cela
a abouti à la suppression des personnes de toutes les décisions fondamentales
et l'exercice du pouvoir.
Nous
devons, cependant, considérer le modèle de la démocratie en plaçant l'homme au centre et à
introduire des formes de contrôle du
pouvoir, non seulement formelles et judiciaires, au cours de son exercice.
Mais
le «modèle» ne peut pas être unique et valable pour chaque emplacement et pour
chaque fois. Il doit, bien au contraire, être constamment remodelé. Par conséquent, nous devons penser à un
modèle qui je dirais de démocratie récurrente.
Un
exemple instructif vient du droit romain.
Hoy
en día no hay mas discusión sobre el modelo de la democracia. Se supone que la
democracia es la democracia representativa.
Esto
dio lugar a la eliminación de personas de todas las decisiones fundamentales y el
ejercicio del poder.
Debemos,
sin embargo, tenga en cuenta el modelo de la democracia mediante la colocación de hombre en el centro e
introducir formas de control del poder,
no sólo formales y judiciales, durante
su ejercicio.
Sin
embargo, el "modelo" no puede ser único y válido para cada lugar y
para cada tiempo. Se debe, más bien, ser constantemente renovado. Por lo tanto,
hay que pensar en un modelo que yo llamaría DEMOCRACIA RECURRENTE.
Un
ejemplo instructivo es el derecho romano.
[Per la pubblicazione degli
articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Sul punto, cosí come per la
bibliografia che accompagna le riflessioni qui esposte, rinvio al mio articolo Il controllo del potere: ieri ed oggi,
in Studi in memoria di Giuseppe Panza
[cur. G. TATARANO e R. PERCHINUNNO], Napoli, 2010, 713-737.
[2]
Questa esigenza appare indilazionabile, dinanzi al fatto che si è generato «un
pessimismo duro e compatto come una lastra di piombo. Il futuro non è piú
quello di una volta, diceva il poeta Valéry. Oggi lo dice, pressoché
all’unisono, il popolo … Nessuna autorità, sia civile sia politica, riscuote
piú il consenso del popolo … serve una terapia d'urto, non basterà qualche
aspirina. E la crisi di libertà, di giustizia, d'efficienza, di legalità che si
è rovesciata sull'Italia è altrettanto micidiale d'una guerra, perché ha
corrotto il nostro tessuto connettivo, il nostro paesaggio umano, cosí come le
bombe devastano il paesaggio naturale». Perciò occorre intervenire «Rompendo il
potere delle corporazioni, delle camarille, delle lobby, che sono un ostacolo
all'affermazione dei migliori. Ma al tempo stesso rompendo il potere dei
partiti, restituendo lo scettro ai cittadini, innervando la democrazia
rappresentativa con un'iniezione di democrazia diretta». Per fare ciò bisogna
ridisegnare il modello, partendo dal passato, perché «il rimedio era stato
individuato nei secoli scorsi dai nostri antenati, per poi cadere nell'oblio:
l'esperienza dell'antica Grecia può ancora impartirci una lezione». Comunque
occorrono rimedi radicali, che devono partire dallo smantellamento di quanto
non ha funzionato, fossero anche le leggi; riguardo alle quali occorre riandare
a quanto disse Voltaire, il quale, ricordando che «Londra divenne una città
ordinata dopo che un incendio la ridusse in cenere, obbligando i londinesi a
ridisegnare strade e piazze», preconizzò un cambiamento radicale, che partiva
dal mutamento delle leggi: «Volete buone leggi? Bruciate quelle che avete, e
fatene di nuove»: M. Ainis, La
cura. Contro il potere degli inetti per una Repubblica degli eguali,
Padova, 2009, XIV- XV.
[3] Sul punto, cosí come per la bibliografia che accompagna
le riflessioni qui esposte, rinvio al mio articolo Il controllo del potere:
ieri ed oggi, cit., 713-737.
[4] Di
ciò è prova la stessa reiterazione dei tentativi di affidare a nuove figure il
compito di creare un collegamento tra governanti e governati.
[5] A
Sparta l’Eforato, introdotto sul modello dei Cosmi cretesi,
secondo alcuni già dal mitico Licurgo, secondo altri piú tardi (130 anni dopo)
dal re Teopompo. Gli Efori, dotati di poteri vasti ed incisivi, furono
concepiti come freno alla prepotenza dell’oligarchia e dei re. La ragione del
crescente potere degli Efori risiedette nel fatto che essi venivano eletti dal
popolo e, per questo, erano visti come rappresentanti di esso e quindi anche mallevadori
dei diritti dei cittadini. L’ampiezza del potere degli Efori venne bilanciata
dalla durata molto breve (soltanto un anno) della magistratura, e dal fatto di
potere essere chiamati a rispondere del proprio operato, allo scadere della
loro magistratura.
[6]
L’istanza fondamentale della protezione dei deboli e della difesa dei diritti
del popolo trovò migliore ed efficace collegamento con il Tribunato della
plebe. Il Tribunato suscitò nell’antichità (ed ancora promana) forti
suggestioni, non solo per il fatto che nacque in Roma, i cui destini furono
vincenti in tutto il mondo antico e si sono proiettati direttamente nelle età
successive, quanto perché evoca l’immagine della contrapposizione tra popolo e
potenti in maniera piú diretta e performante: la letteratura sul Tribunato
della plebe è tanto copiosa da non poterne dare riferimenti in questa sede;
soltanto per una sintesi d’assieme, rinvio ai manuali di Storia del diritto
romano, tra i quali AA. VARI,
Lineamenti di storia del diritto romano, Milano, 1989, ed in particolare
alle esposizioni di L. Capogrossi-F.
Càssola, alle pagine 83 s. (Le vicende fino alle XII tavole) 177
ss. (I tribuni della plebe).
[7] La
prima ideazione di organi in grado di controllare il potere forse risalgono
alla pacifica civiltà cretese, la quale, come ricordava Aristotele, ideò
l’istituto dei Cosmi, diretto al controllo del potere esercitato dai re.
[8] Sui
punti qui richiamati v. G. Lobrano,
Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino, 1996,
cui adde dello stesso autore, Diritto pubblico romano e
costituzionalismi moderni, Sassari, 1994.
[9] Dove
venne concepito come una delle istituzioni rivolte alla progressiva limitazione
dell’assolutismo del Re. In proposito si suole fare riferimento all’art. 96
della Costituzione del 1809, il quale previde, accanto al Justitiekansler,
un commissario parlamentare (Justitie Ombudsman), scelto tra persone di
comprovata capacità tecnica, imparzialità ed integrità, con il preciso compito
di controllare l’osservanza delle leggi da parte non solo dei pubblici
ufficiali, ma anche dei giudici, ed è munito del potere di citare in giudizio i
trasgressori. In realtà il suo nome risale a quasi un secolo prima e piú
precisamente ad un decreto del 1713 di Carlo XII che, per l’appunto, istituí l’Högste
Ombudsman.
[10] Sul
punto, rinvio a quanto ho già osservato in,
L'eredità dei «tribuni plebis», in [cur. Maria Pia Baccari e
Cosimo Cascione] Tradizione romanistica e Costituzione, diretta da
Luigi Labruna. Collana «Cinquanta anni della Corte costituzionale della
Repubblica italiana», vol. II, Napoli, 2006, 1845 ss.; Le radici.
Proposte, in L’avvocato del popolo albanese [cur. A. Loiodice, S. Tafaro, N. Shehu], Torino,
2008, 3 ss.; cui adde N. Shehu, Dall’Högste ombudsman
all’avvocato del popolo albanese, in L’avvocato del popolo albanese
cit., 3 s.; cui adde: S. Anderson, Ombudsman research
a bibliographical essay, in Ombudsman journal 1982, 32 ss.; E. Bernardi, v. Ombudsman, in Nuovissimo
Digesto Italiano, Appendice V, Torino, 1982, 413 ss.; P. Birkinshaw, Grievances Remedies and
the State, Sweet and Maxwell, London, 1985, 127 ss.; Id., Access to justice in the
privatized and regulated state, University Press, Hull, 1991, 68 ss.; D. Borgonovo
Re, Ombudsman in diritto comparato, in Digesto delle
discipline pubblicistiche, vol. X,
Torino, 1995, 306 ss.; D. Butler, V.
Bogdanor and R. Summers, (Essays in Honour of Geoffrey
Marshall) The Law Politics and the Constitution, Oxford University
Press, 1999 chapter 13; T.R. Colint, The Polish Ombudsman in Review
of Socialist Law 14 – 3-, 1988; M.
Comba, Ombudsman, in Digesto
delle discipline pubblicistiche, vol. X, Torino, 1995, 296 ss.; R. Delfino,
L’«Ombudsman» come modello di «alternative dispute resolution» nel
settore privato, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile
XLIX, anno 1995, 248 ss.; G. De Vergottini, v. Ombudsman, in Enc.
Dir., XXIX,
Torino, 1979, 880 ss.; M. Doyle, The Essential Guide to
Appropriate Dispute Resolution, Paperback, 2000; G. Drewry, The Ombudsman: Parochial
Stopgap or Global Panacea?, in Administrative Law Facing the
Future. Old Constraints and New Horizons (P.
Leyland and T. Woods
eds.), Blackstone Press, London, 1997, 88 ss.; H. Fix Zamudio, Reflexiones
comparativas sobre el Ombudsman, in Memoria de el Colegío Nacional de Mexico, 1979, 99-149; Id., Ombudsman, in Enciclopedia
giuridica Treccani, vol. XXI,
Roma, 1990, 2 s.; A. Gil Robles-A.
Delgado, El control
parlamentano de la administración (El Ombudsman), Madrid, 1981; M. Radi,
L’extension de l'Ombudsman: triomphe d'une idée ou déformation d’une
institution?, in Rev. Int. des Scien. admin. 1997, 530 ss.; W. Haller,
The place of the Ombudsman in the world community, in Fourth
International Ombudsman Conference Papers, Canberra, 1988, 29 ss.; M.M. Lasage,
Les moyens non judiciaires de protection et de promotion des droits
de l'homme, in Atti Convegno Siena 28-30 ottobre 1982, Siena, 1982,
35 ss.; A. Legrand, Une institution universelle: l’Ombudsman?,
in Rev. Int. Droit
comp. 1973; E.
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for the Protection of Civil Rights,
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difensore civico (scritti a cura di C.
Mortati), Torino, 1974; G.
Napione, L'Ombudsman,
Giuffrè, Milano, 1969; M.M. Padilla, La institución del
Comisionado parlamentano, Buenos Aires, 1972; M. Seneviratne, Ombudsman
in the Public Sector, Open University Press, Buckingham, 1994; Id., The European Ombudsman, in Journal of Social Welfare and
Family Law 21(3), 1999, 269-278; Id.,
Ombudsmen 2000 inaugural Lecture 17 april 2000, Centre for legal
Research Nottingam Law School, Nottingam, 2000 versione elettronica, 1 ss.; F. Stacey,
Ombudsmen Compared, Clarendon Press, Oxford, 1978.
[11] Il
termine adoperato (Ombudsman), alla lettera, significava ‘uomo che fa da
tramite’; perciò viene indicato anche con la parola ‘Mediatore’, la quale ha trovato
l’accoglimento piú significativo in Francia dove fu istituito con la legge n°
73-6 del 3 gen. 1973, piú volte completata e/o riformata: dalla legge n°
76-1211 del 24 dic. 1976, dalla legge n° 89-18 del 13 gen. 1989, dalla legge n°
92-125 del 6 feb. 1992 e da ultimo dalla legge n° 2000-321 del 12 apr. 2000. Da
ultimo la Francia è andata oltre il mediatore, istituendo la Figura del Défenseur des droits, attraverso
la riforma costituzionale del 23 giugno 2008, seguita dalla legge
organica no 2011-333 e dalla legge ordinaria no 2011-334 del 29 marzo 2011, la
quale ha definito i suoi poteri, unificando in un’unica figura il Médiateur
de la République, il Défenseur des Enfants, creato nel 2000, la Haute Autorité
de Lutte Contre les Discriminations (halde),
creata nel 2004, la Commission Nationale de Déontologie de la Sécurité (cnds), creata nel 2000.
[12] P. de
Aranjo Ayala, O principio de precauçao e a proteòao
juridica de fauna na costituiçao brasileira, in Revista de Dereito
ambiental 39, julho-setembro 2005, 147 ss.; L. Boisson de Chazournes, Le principe de précaution: nature, contenu et limites, in Le principe de précaution.
Aspects de droit international et communautaire [cur. C. Leben-J.
Verhoeven], Paris, 2002; P.
Martin-Bidou, Le principe de précaution en droit international de
l’environnement, in Revue générale de droit international public
1999, 632 ss.; C. Raffenspergen-J.
Tickner, Protecting Public health and the Environment. Implementing
the Precautionary principle, Washington, 1999; N. de Sadeleer, Les principes du polleur-payeur, de
prévention et de précaution. Essai sur la genèse et la portée juridique de
quelques principes juridiques du droit de l’environnement, Bruxelles, 1999;
O. Godard, Le principe de
précaution dans la conduite des affaires humaines, Paris, 1997; T.
O’Riordan-J. Cameron, Interpreting
the precautionary principle, London, 1994.
[14] Per
tutti, anche per la bibl., G. Lobrano,
Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere cit.,
partic. parte A cap. I; parte B cap. I; parte C cap. II; sul punto (anche per i
riferimenti bibliografici), rinvio anche ai miei articoli cit. sopra alla nt.
4., dove risalgo alle radici ed alle motivazioni dell’Ombudsman svedese
e delle altre figure che, partendo da esso, sono sorte alluvionalmente.
[15] Per
capire come la distorsione attuale sia potuta accadere, appare utile rivisitare
i termini della quaestio, che ha accompagnato la formazione dello stato
contemporaneo. Dobbiamo risalire al pensiero, perdente, di Rousseau ed a
quello, che risultò vincente, di Montesquieu, definitivamente fatto prevalere,
agli inizi del sec. XIX, da Bénjamin Constant. Al centro della discussione e
delle proposte era il modo di concepire la democrazia, che doveva essere
l’humus della Res publica. Per Rousseau la Repubblica «è una
forma di Stato essenzialmente democratico e quindi necessariamente
non rappresentativo». Tale ‘formula’ proponeva come ‘modello’ la res publica
romana, dove al centro vi era il populus, e rigettava il sistema rappresentativo
(ritenuto fonte di potere aristocratico). A lui si contrappose Montesquieu, il
quale, invece, propose come ‘modello’ di democrazia quello della monarchia
inglese, fondato sulla rappresentanza, secondo una formula che è
risultata vincente, anche perché adottata nel costituzionalismo anglo-americano
degli USA, nato dalla convenzione di Filadelfia di stampo nettamente
conservatore. In questa costruzione diventava essenziale il bilanciamento
dei poteri, che il Montesquieu ritenne assicurato dal rispetto della divisione
dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), ciascuno dei quali
sarebbe stato autonomo ed indipendente dagli altri, mirando al rispetto della legge,
cui tutti erano soggetti, ed al controllo ciascuno dell’operato degli altri. In
questa costruzione era essenziale sia il primato della legge sia la convinzione
che le leggi, frutto sia pur indiretto del popolo, erano ‘giuste’ e garantivano
giustizia. Sul punto, per tutti, v. G. LOBRANO, Res publica res populi. La
legge e la limitazione del potere cit., 221.
[16]
Eccezion fatta per l’Inghilterra, che però ha una posizione a sé stante, dove
vi sono le giurie popolari, cui è demandata la decisione sul fatto, mentre ai
giudici compete la decisione sulle conseguenze di diritto del fatto.
[17] A dir
il vero la distinzione era già prospettata da Démeurier, ammiratore del sistema
rappresentativo inglese e statunitense, e, soprattutto, dall’aristocratico
Alexis de Tocqueville, il quale riscosse grande successo proponendo come
‘modello’ di democrazia la costituzione nord-americana, nella sua fortuna opera
De la démocratie en Amérique (1835-1840): v. G. Lobrano, Res publica res populi cit., 239 s.
[18] Cfr.,
da ultimo, G. Acocella, Etica,
diritto democrazia. La grande trasformazione, Bologna, 2010, nello
specifico partic. 92, il quale denuncia l’inadeguatezza della ‘legge’, citando
Capograssi (uno dei pensatori piú originali e fecondi dell’età contemporanea,
cui appartiene la parte che qui riporto in corsivo): «La volontà di ridurre
sempre e comunque ad una legge dello Stato – con i suoi doverosi caratteri di
uniformità generale ed astratta – eventi centrali dell'esistenza umana che
devono restare affidati alla non ripetibile unicità dell'esperienza umana (e
per questa stessa possibilità messa in condizioni di divenire comune), quando
proprio la legge viene spogliata dei suoi caratteri universali e comuni per
essere assoggettata a pulsioni individuali, significa che: Lo Stato quasi si
direbbe si scorpora dall'esperienza giuridica, si entifica in sé diventa
un’entità a sé stante perché non è :dirti che un apparato il quale ha il
monopolio e la specialità della forza e perché il diritto non è altro che
comando imposto con la forza. Lo Stato diventa il creatore del diritto e la
volontà di quella forza che si è impadronita di questo appagami diventa
diritto. Qui il distacco dell’esperienza giuridica dalla volontà profonda e
oggettiva dalla quale nasce diventa completa, si compie in modo perfetto,
perché qui questa volontà profonda ed oggettiva è negata radicalmente e con
essa s'intende negato tutto il mondo dell'esperienza nel quale essa si
manifesta e s'incarna. Tutto il mondo dell’esperienza è privato di ogni valore
suo proprio, non esiste piú come valore autonomo, e come autonoma ragione di
vita, ed è oggetto della volontà arbitraria della forza che ha conquistato lo
Stato, che è riuscita ad impadronirsi di questo meccanismo di forze e di forme
che è lo Stato».
[19] Cfr.
l’illuminata sintesi compiuta da P.
Grossi, Società, diritto e Stato. Un recupero per il diritto,
Milano, 2006.
[20]
S’intende non perché se ne sottovaluta l’essenzialità e la rilevanza, bensí
perché consapevoli che esse sono già oggetto di attenta e circostanziata riflessione:
cfr. F. Fistetti, La svolta
culturale dell’Occidente. Dall’età del riconoscimento al paradigma del dono,
Perugia, 3a rist. 2010, cui rinvio per la bibliografia e di cui segnalo partic.
le pagine 28 ss.
[21] Esse
erano già in parte emerse nel Convegno Internazionale Democrazia rappresentativa o partecipativa? Crisi della divisione dei
poteri, realizzato a Varsavia il 14 maggio 2011 dal CEDICLO (Centro
Interdipartimentale di Diritti e Culture Latine ed Orientali dell’Università di
Bari) assieme all’Università Lazarsky ed il Dpt. di Bioetica di Varsavia.
[22] Di
essa si era parlato in Italia al momento dell’emanazione della legge quadro
sulla tutela dell’ambiente: la prevedeva il disegno di legge del Governo, ma fu
tolta dal Parlamento!
[23] Per le
quali vi è da superare una griglia di difficoltà, sotto forma di requisiti
formali, essendo previsto: A ogni iniziativa sono concessi 12 mesi per la
raccolta del milione di firme richieste e i firmatari devono provenire da
almeno sette Stati membri. Un numero minimo di firme per Stato membro deve
essere raccolto, numero che varia secondo la popolazione. Per l'Italia è
54.000, per la Germania 74.250 e per Malta 3.750. Gli Stati membri hanno
l'onere di verificare la validità delle dichiarazioni a sostegno delle firme e
potranno scegliere quale tipo d'informazione sia necessaria affinché le firme
siano convalidate. Nella maggioranza dei casi, il numero della carta d'identità
è obbligatorio. I firmatari dovranno essere cittadini europei e in età di voto.
La procedura termina con la decisione della Commissione europea, da adottare
entro tre mesi dal completamento della verifica delle firme, se procedere o
meno con una proposta legislativa. Tale decisione dovrà essere resa pubblica.
[24] Su di
esse v. S. Cera - D. Colangeli – F.
Paolella, Gli istituti alternativi alla giurisdizione ordinaria,
Milano, 2007; G. Cabras – D. Chianese – E. Merlino – D. Noviello,
Mediazione e conciliazione per le imprese. Sistemi alternativi di
risoluzione delle controversie nel diritto italiano e comunitario, Torino,
2003.
[27] Per
ora costituisce una speranza occupazionale della sterminata massa di avvocati
esistente in Italia ed una fonte di guadagno immediato e facile per i tanti centri
organizzatori di ‘corsi’ per mediatori e conciliatori, sorti come funghi e
che attraverso improbabili percorsi formativi (di 50 ore, a contenuto
esclusivamente giuridico), secondo lo Stato italiano, dovrebbero potere formare
operatori della mediazione e conciliazione, fuori da un percorso di formazione
profondo ed innovativo. Va poi segnalato il tentativo, quasi riuscito, degli
avvocati di riservare a sé gran parte della mediazione, senza tener conto che,
per dover essere basata sull’equità e la ragionevolezza, essa forse può essere
svolta con maggiori possibilità di successo da esperti di altre discipline (a
seconda dei casi, da psicologi, operatori sociali, economisti ecc.).
[28] Non
mi sfugge il peso delle forze contrarie a ciò (da un lato quella degli stessi
giudici, dall’altro quella degli avvocati), né trascura l’impatto provocatorio
di quanto qui affermato in una società nella quale si ritiene che debba
intervenire un’Autorità per designare i giudicanti (persino nelle partite di
calcio, che sono materia di società private, non è consentito scegliere
l’arbitro agli interessati!).
[29] Sul
punto, v. le conclusioni espresse da me nell’articolo Mediazione e
conciliazione: storia, origini, attualità, in La mediazione. Dalla
storia la creazione di valore, Napoli, 2011, 7-46.
[30]
Veramente io stesso, che pur mastico qualcosa di diritto, faccio spesso fatica
a comprendere le sempre piú elaborate sentenze dei giudici.
[31]
Secondo una lenta conquista iniziata nei confronti di Guglielmo II (sec. XI) e
conclusasi nel 1701 con l’Act of Settlement
promulgato dalla Regina Anna.
[32] Cost. alb. del nov. 1998, art. 63 co. 3.
[33] Un esempio illuminante è stato l’apporto dei giuristi per la tutela del consumatore, contro i grandi potentati economici, tradottasi in normative a differenti livelli, nazionali e dell’UE.
[34] Cfr.
T. Groppi, I diritti umani in Asia, relazione
al XVII Colloquio biennale AIDC, Global Law v. Local Law, Brescia 12-14 maggio
2005; E. Friedman, Asia as Fount of Universal Human Rights,
in P.Van Ness [a cura di] Debating Human Rights, London,
Routledge, 1999, 56.
[35] V.
la Dichiarazione islamica dei diritti
dell'uomo, proclamata il sabato 19 settembre 1981 presso l’UNESCO a Parigi, la quale è
la versione islamica della Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo e la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani
nell'Islam, Risoluzione 49/19-P della XIX Conferenza Islamica
dei Ministri degli Esteri, 5 agosto 1990. Esse si sono rese necessarie per il
fatto che la Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo non è compatibile con la concezione della persona e della comunità
che ha l'Islam.
R. Caspar, Les déclarations des droits de l'homme en Islam depuis dix ans, in Islamochristiana, n.9, 1983; F. Moroni, La nuova Carta islamica dei diritti dell'uomo, in I diritti dell'uomo, cronache e battaglie,
n.1 1990; S. Angioi, Le dichiarazioni sui diritti dell'uomo
nell'Islam, in I diritti dell'uomo
cronache e battaglie, 1, 1998, 15-23.