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foto-Vanni-PirasALCUNE NOTE E UNA IPOTESI SUL “POTERE” DI GIUDICARE

 

Vanni Piras

Università di Sassari

 

 

Sommario: I. Contemporaneo ‘stato dell’arte’ (costituzionale) sulla funzione del giudicare’: dalla ambiguità sulla sua natura di “potere” alla progressiva sovrapposizione sugli “altri poteri”. – I.1. ’700. La necessaria ambiguità: l’ossimoro (contradictio in adiecto) del giudicare “puissance nulle” nella dottrina di Montesquieu. – I.2. ’800-’900. “Giudici legislatori” e “giudici governanti”: l’esito della parabola “odierna” dal “Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft” alla “vocazione del nostro tempo per la giurisdizione”. – II. Prospettiva storica e dogmatica: la alternativa tra concentrazione feudale del potere e potere repubblicano del popolo. – II.1. Giudicare: la ‘essenza del potere’ nell’ordinamento giuridico del potere regio (monarchico-feudale germanico-inglese) e l’utile arte della confusione. – II.1.1. “Richter König”. – II.1.2. Confusione terminologica e dogmatica tra iurisdictio e iudicatio. – II.2. Giudicare: il ‘non-potere’ nel sistema giuridico del potere popolare (repubblicano romano) e la necessaria arte della distinzione. – II.2.1. Iudex privatus” e “populus in sua potestate. – II.2.2. Distinzione terminologica e dogmatica tra  iurisdictio e iudicatio. – Abstract.

 

 

I. – Contemporaneo ‘stato dell’arte’ (costituzionale) sulla funzione del giudicare’: dalla ambiguità sulla sua natura di “potere” alla progressiva sovrapposizione sugli “altri poteri”

 

I.1. – ’700. La necessaria ambiguità: l’ossimoro (contradictio in adiecto) del giudicare “puissance nulle” nella dottrina di Montesquieu

 

In epoca odierna, l’istituto dell’“equilibrio dei tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario”, come “mezzo di difesa della libertà dal potere”, è considerato fondamentale nel diritto costituzionale[1].

La scienza giuridica e quella politologica contemporanee hanno concentrato la attenzione sugli istituti della rappresentanza politica e dell’equilibrio dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) per costruire Costituzioni in grado di dare risposta, rispettivamente, alle essenziali e primarie questioni della formazione della volontà collettiva e della difesa delle libertà individuali e collettive[2].

Le stesse scienze però, abbastanza rapidamente e comunque in modo crescente, hanno, quindi, ritirato la propria fiducia ad entrambi questi istituti[3]. Di essi, la dottrina nega addirittura, oramai in maniera conclamata, le capacità di assolvere i rispettivi compiti essenziali. Dell’istituto della rappresentanza politica si nega la capacità di esprimere la volontà collettiva e dell’istituto dell’equilibrio dei poteri[4] si nega la capacità di limitare il potere[5] e, quindi, di fornire le garanzie – da esso attese – per la/e libertà[6].

Tuttavia, per entrambi gli istituti, insieme al fenomeno della loro crisi esistenziale, assistiamo anche alla loro crescita globale. Pensiamo all’imporsi, in questi ultimi anni, nell’Oriente e nel Sud del mondo, del costituzionalismo cosiddetto “occidentale” o “liberal-democratico” caratterizzato essenzialmente e precisamente da questi due istituti[7].

Registriamo, così, due contraddizioni: tra l’asserita essenzialità e la riconosciuta inefficacia e tra la crisi essenziale e la diffusione generalizzata del ‘costituzionalismo occidentale’.

Per quanto concerne specificamente l’istituto dell’equilibrio dei tre poteri, una chiave per comprendere tale contraddittoria fenomenologia è la natura di uno dei tre poteri, precisamente di quello inserito nella tripartizione da Montesquieu: il potere giudiziario[8].

Infatti, dentro e oltre le contraddizioni che segnano complessivamente l’istituto della tripartizione dei poteri (essenzialità e inefficacia, crisi e diffusione)[9] vi è la contraddizione che segna il solo potere giudiziario, del quale – da un lato – si discute se sia propriamente un ‘potere’ ma il quale – dall’altro lato – si va via via e sempre più proponendo come il ‘potere’ più importante dei tre, il potere per eccellenza, il vero potere del presente e del futuro[10].

In dottrina, c’è chi auspica un maggiore ruolo costituzionale del giudice, sostenendo sia anacronistica la soggezione del giudice alla legge, e si afferma che giudice e legislatore «vanno posti l’uno accanto all’altro, quali poteri direttamente fondati sulla costituzione … l’uno potere di rendere giustizia … l’altro di emanare le leggi»[11].

Peraltro, l’assimilazione della funzione giudiziaria al “potere” è già presente nel dettato della Costituzione italiana. Il ‘corpo’ dei giudici (denominato impropriamente, in prospettiva storica/dogmatica, ma significativamente, nella prospettiva dello sviluppo dogmatico auspicato e perseguito, “magistratura”)[12] «costituisce [secondo l’art. 104] un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»[13]. In tale formulazione la presenza dell’aggettivo dimostrativo “altro” esprime – chiaramente sebbene implicitamente – il riconoscimento, nell’“ordine” giudiziario e nella sua funzione, di un “potere”[14]. L’impiego seppure indiretto nel lessico costituzionale della parola ‘potere’ per indicare la attività giudiziaria, in luogo, ad esempio, della parola ‘funzione’, esprime chiaramente la intentio legis dei costituenti[15].

A tale riguardo, è indicatore dell’orientamento dell’Assemblea Costituente, il commento formulato dall’onorevole Ruini al Titolo IV del progetto di Costituzione: «La magistratura è autonoma e indipendente. Non è soltanto un ordine, è sostanzialmente un potere, anche se non si adopera questo termine … ad evitare equivoci e gli inconvenienti cui può dar luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente …»[16].

E’ più che noto il ruolo di Montesquieu nella costruzione della “ripartizione teorica” dei tre poteri, occorre però subito introdurre una precisazione, rispetto alla vulgata, secondo la quale sarebbe stato proprio Montesquieu il primo assertore della natura di potere della funzione giudiziaria[17].

Nel ’700, infatti, non si ha certamente un’emersione del potere giudiziario, il quale è più che presente nel mondo feudale germanico ed è ben vivo nell’Ancien Régime francese (dove caratterizza il potere dello stesso re: il re-giudice)[18], bensì si ha un suo nuovo assestamento. Anzi, nel secolo dei Lumi e durante la Rivoluzione tale potere, diviene (proprio in quanto espressione principe dell’Ancien régime) il bersaglio principale della critica riformista.

Nel secolo dei Lumi, viene formulata una vera e propria antitesi tra potere della legge e potere dei giudici, individuato come la colonna del ‘vecchio’ e combattuto arbitrio e il nemico principale della nuova, auspicata certezza del diritto. L’illuminista francese Voltaire, nel proprio Dictionnaire philosophique (1764), alla voce “Lois civiles et ecclésiastiques”, propone la legge come la via maestra per questo cambiamento: «Que toute loi soit claire, uniforme et précise: l’interpréter c’est presque toujours la corrompre»[19]. Questa tesi è fortemente presente anche presso gli illuministi italiani. Contemporaneamente a Voltaire, il milanese Cesare Beccaria formula la alternativa tra potere della legge o potere dei giudici, il quale ultimo si esprime attraverso il cavallo di Troia della “interpretazione”. Nel suo libro Dei delitti e delle pene (1764) Beccaria auspica, definendolo “sacro”, «un codice fisso di leggi»[20], dove l’aggettivo “fisso” indica la certezza del diritto non la sua immobilità, e il mezzo per raggiungere questa certezza è precisamente togliere al giudice ogni potere, lasciandogli nessuna «altra incombenza che di esaminare le azioni de’ cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta»[21]. Come Voltaire, anche Beccaria nega al giudice il potere di interpretare la legge: «Nemmeno l’autorità d’interpretare le leggi penali può risiedere presso i giudici criminali per la stessa ragione che non sono dei legislatori»[22]. Egli mette inoltre in guardia contro il ricorso allo «spirito della legge», che definisce: «argine rotto al torrente delle opinioni»[23]. L’anno dopo, un altro famoso illuminista milanese, Pietro Verri, nel saggio “Sulla interpretazione delle leggi” pubblicato sul «Caffè», vuole un giudice che «si riduce ad essere mero esecutore della legge» nel «puro e stretto significato della parola»[24]. Torna sulla questione un altro grande dell’Illuminismo italiano, il napoletano Gaetano Filangieri, il quale con l’opera La scienza della legislazione (1798) esprime una forte polemica con il diritto feudale e contro l’incertezza e l’oscurità del diritto vigente al suo tempo. Ma è soprattutto con il libretto Riflessioni politiche sull’ultima legge del sovrano (1774, dedicato a Bernardo Tanucci) che Filangieri invoca un argine contro l’arbitrio dei giudici, precisando doversi essi limitare alla «cognizione del fatto e [alla] applicazione litterale della legge»[25]. Occorre ricordare che Tanucci, uomo politico che aveva ricoperto diverse cariche presso i Borbone di Napoli, aveva formulato una legge proprio volta a limitare il potere dei giudici[26].

In questa ottica, la operazione montesquieuiana è piuttosto quella del salvataggio del ‘potere giudiziario’ mediante il suo inserimento in una nuovo schema (tri-archico) dei “poteri” insieme ai poteri legislativo ed esecutivo. Questi sono la antica di-archia propria della scienza e della esperienza giuridiche repubblicane romane (nelle quali è teorizzata e sperimentata la dialettica tra lo iubere legem ‘sovrano’ del popolo e il gubernare ‘esecutivo’ dei magistrati) e, quindi, ripresa nel ’700 insieme al “modello” gius-romano (in particolare ad opera di J.-J. Rousseau) precisamente contro il feudalesimo d’Ancien Régime. Il giudice Montesquieu, aristocratico e filo-germanista, mantiene il potere giudiziario, diretta espressione dell’ordinamento feudale, in un’operazione (è qui la reale novità montesquieuiana) in cui combina il modello/diritto romano repubblicano con il modello/diritto feudale germanico e, in particolare, nella sua espressione massima (in quanto più pura e costante) quella inglese.

Montesquieu non segue fedelmente l’ideale illuminista. Egli viene infatti descritto e criticato come troppo “storico” e poco “filosofo”, sempre pronto a salvaguardare e legittimare dal punto di vista storico le istituzioni del suo tempo, ed alcuni enciclopedisti considerarono l’Esprit des lois “arretrato[27]. L’amico Helvetius, proprio dopo aver letto l’Esprit des lois, attribuisce al suo autore la conservazione dei pregiudizi «di uomo di toga e di gentiluomo» [28]. La genialità di Montesquieu è infatti un’altra. Essa consiste nel cavalcare l’ideale dei Lumi e nel condizionarlo fino a dominarlo.

L’operazione con la quale Montesquieu effettua il salvataggio del potere giudiziario, come massima concentrazione del potere e pertanto espressione del modello feudale, è, quindi, oggettivamente contradditoria e tale contraddizione è la radice delle contraddizioni odierne, che abbiamo osservato in apertura del presente scritto.

In effetti, la sintesi della dottrina montesquieuiana in materia di potere dei giudici viene correntemente e coerentemente indicata nella espressione, che è un vero e proprio ossimoro, una contradictio in adiecto: “puissance nulle”. L’ossimoro “puissance nulle” è la sintesi della combinazione, nel discorso di Montesquieu, di due definizioni, tra loro ugualmente contradditorie: “puissance / pouvoir de juger”, a proposito della funzione giudiziaria, e “bouche de la loi”, a proposito del/i giudice/i[29]-[30].

La contraddizione è come abbiamo detto strumentale e mira al risultato di salvare il potere giudiziario dalle riforme e persino dalla Grande Révolution. Il risultato è stato raggiunto. Oramai la espressione “bouche de la loi” è definita «un logoro mito illuministico»[31]-[32].

La formulazione montesquieuiana ha costituito l’humus ideale per il terzo potere, propiziandone un processo di crescita inarrestabile nei «contesti contemporanei»[33]. In tali “contesti” (comunque [nesso di casualità a parte] marcati dalla sfiducia per la democrazia e dalla fede per la tecnocrazia) la funzione giudiziaria ha assunto l’‘allure’ di un potere tout court, anzi dell’unico vero potere. Oggi, in dottrina, si è arrivati a definire l’ossimoro montesquieuiano come «la contraddizione fondamentale che alberga nel cuore della cultura giuridica degli ultimi due secoli [la quale] consiste appunto in questo: il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo»[34]. E ‘si prende atto del fatto’ che sono presenti «nell’attività giudiziaria, spazi di potere specifici e in parte insopprimibili»[35].

L’eloquente espressione «montée en puissance», coniata da Delmas-Marty[36], riferita al crescente ruolo del giudice nella società, indica l’approccio alla funzione giudiziaria non più soltanto in termini di potere[37] ma anche in termini di «egemonia» della ‘puissace de juger’ rispetto alla ‘puissance législative’ e alla ‘puissance exécutrice’[38].

Oggi, si può constatare che la funzione giudiziaria non soltanto ha pienamente assunto la fisionomia e natura di potere tout court ma ha, quindi, anche esorbitato dalla dimensione di uno dei tre poteri, mettendo fine allo stesso “bilanciamento” dei “trois pouvoirs” solennemente affermato all’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto del 1789 [39]-[40].

Tutto ciò impone di ri-pensare l’istituto del giudiziario, o almeno darne una nuova lettura[41]. Delmas-Marty parla di rifondazione dei poteri, rimarcando una profonda trasformazione delle relazioni tra questi, dovuta al potenziamento del «pouvoir jurisdictionnels international»[42].

 

I.2. – ’800 - ’900. “Giudici legislatori” e “giudici governanti”: l’esito della parabola “odierna” dal “Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft” alla “vocazione del nostro tempo per la giurisdizione”

 

Gli inizi dell’’800 sono sotto il segno del ‘tempo della codificazione’. Friedrich von Savigny, col suo scritto Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft (1814)[43], rende atto, seppure con diversi ‘appunti’, della vocazione del proprio tempo per la legislazione. Con questo scritto, Savigny prende parte al dibattito sulla codificazione in Germania, e risponde al romanista e civilista Thibaut, che, con la sua opera Über die Notwendigkeit eines allgemeinen bürgerlichen Rechts für Deutschland (1814), sostiene, con fermezza, la necessità di un codice civile unico[44].

Già alla fine dell’’800, c’è però chi vaticina una preponderanza del “potere” del giudice. Oskar Bülow, nel suo scritto Gesetz und Richteramt (1885)[45], rimette in discussione il dogma dell’«ordinamento legislativo»[46], e rimarca la ‘forza’ di un diritto di origine giudiziaria, ossia un «diritto di origine non legislativa», risaltando il carattere creativo delle pronunce dei giudici[47]. Sulla linea del riconoscimento e ampliamento del potere dei giudici, è uno dei massimi esponenti della ‘Freirechtsbewegung’, Hermann Kantorowicz, secondo il quale nell’operazione di definizione del diritto, il giudice deve considerare, valutare e scegliere quale è il diritto da applicare[48].

Nel ’900, si prende ormai atto della preminenza dell’attività giusdicente[49], ossia del ‘diritto giudiziario’, divenuto il principale protagonista, in base alla constatazione di una «ascesa al potere dei giudici»[50]; si parla addirittura di un «gigantismo giudiziario»[51]. Le stesse espressioni “espansione” “accrescimento” “aumento” “ipertrofia”, che vengono riferite al potere giudiziario, danno atto di questo fenomeno, che, come è stato puntualmente rilevato, si traduce in un concreto incremento del “potere del giudice” sia «inteso come funzione, cioè potere di risolvere la singola controversia a lui sottoposta» sia «inteso come struttura o istituzione, cioè potere attribuito ad un complesso di organi (c.d. amministrazione della giustizia), in rapporto all’organizzazione complessiva della società»[52].

Anche in Italia, la giurisdizione non si trova più in una posizione ancillare, rispetto agli altri poteri dello Stato, anzi assume dei «compiti di supplenza», proprio rispetto alla legislazione, dato «il peso maggiore acquistato dall’attività giurisdizionale rispetto a quella legislativa»[53].

La legislazione mostra segni di patologia, che la fa oscillare tra due poli opposti: da una parte l’inflazione, ossia un’eccessiva presenza/proliferazione delle leggi in alcuni settori, e dall’altra parte una totale assenza/inattività[54].

Certamente, è venuta meno la fede nella legge e nel legislatore, costruite tra ’700 e primo ’800: quando (così si scrive) il legislatore era considerato come un «personaggio numinoso puntellato da una mistica adeguata»[55]. Per indicare il fenomeno di ‘involuzione’ della legge si utilizza un’espressione forte, ma densa di significato: «inflazione ed inquinamento legislativo»[56].

Così, è stato affermato che la codificazione legislativa, ossia un diritto esclusivamente identificato con la legislazione[57], può provocare più mali di quelli che intende curare; addirittura, può arrivare ad attentare e persino negare quella libertà che si propone di difendere[58]. In definitiva, la speranza illuministica nella legge, misurata e valutata in prospettiva storica, è stata giudicata mal riposta, in quanto la legge avrebbe mancato il fine di garantire l’unità dei diritti di ogni singola nazione. L’esperienza del ’900, appare avere prodotto un effetto dissolvente della fede nella ‘legge’ in quanto «ha consumato in modo probabilmente irreversibile l’immagine della legge necessariamente giusta, dotata per sua natura delle qualità della generalità e della astrattezza, espressione della volontà generale, atto di ragione più che di volontà»[59].

Sono state affermate l’inadeguatezza di un ordinamento, basato sulla centralità della legge e sulla cultura del codice[60], alla soddisfazione delle aspirazioni di completezza e certezza del diritto[61], e, pertanto, la fine del ‘tempo della codificazione’. Ciò pare indicare/segnalare anche all’Europa continentale la opposta direzione della decodificazione[62] dei diritti nazionali[63]. Anche chi nega che la decadenza del codice abbia una portata così totalizzante, tale da far parlare di tramonto del codice, constata che «è superata l’idea che un codice possa nascere privo di lacune, e che la sua sola lettera possa offrire una buona soluzione per tutti i possibili casi del futuro»[64].

Ci si interroga se sia formata una nuova istituzione, portatrice di una nuova sovranità[65]: il giudice legislatore[66], che ha preso corpo dalle macerie dello Stato sovrano-legislatore, l’esclusivo detentore del potere normativo e che, attraverso il processo di codificazione[67], ha dato il volto giuridico all’Europa[68]. 

Ma non è tutto. Ai giudici si tende a riconoscere ormai il monopolio totale dei tre poteri montesqueiani: oltre il giudiziario, non solo il potere legislativo, ma persino il potere di governo; pertanto, si teorizzano non solo i “giudici legislatori” ma anche il “governo dei giudici”[69].

In conclusione, pare che la ‘vecchia’ esortazione-‘slogan’ di Carnelutti «torniamo al giudizio»[70] sia stata, infine, accolta e si registri l’inversione della “vocazione” proto-ottocentesca. Si è arrivati, infatti, ad affermare (rovesciando la formula di Savigny) che la vocazione del nostro tempo è per la giurisdizione[71]-[72].

Questa è dunque la vocazione dei ‘tempi nuovi’. Non certo ‘nuova’ e inedita è, però, come abbiamo visto, tale vocazione. Viceversa, essa è, non soltanto di Ancien Régime, ma, come vedremo, ha un momento genetico ancora più risalente, nel “modello” stesso di Montesquieu, il modello inglese di “nos péres le Germains”: il “re giusdicente” e la sua «iurisdictio quale espressione originale del costituzionalismo medievale»[73].

Si può dunque ipotizzare che l’ambiguità della formula montesquieuiana sia la conseguenza della convergenza contro-natura di due tradizioni di pensiero e di prassi giuridici: quella germanica per la quale il giudicare è l’unico vero potere (e, infatti, è il potere del Re) e quella romana, per la quale i veri poteri sono lo iubere legem del Popolo e il gubernare dei Magistrati (mentre lo iudicare è compito dello iudex, il quale, come vedremo, non soltanto è, per definizione, privo di potere, cioè privatus, cioè senza potestas ma anche inquadrato negli schemi giuridici forniti dal Magistrato mediante quella sorta di ‘potere di mezzo’ che è la iurisdictio).

La combinazione delle due tradizioni (che sono anche due logiche) giuridiche in-combinabili, espressa ambiguamente nel famoso ossimoro, propizia – stranamente ma non troppo – la rottura dell’“equilibrio” tra i tre poteri (senza del quale “non c’è costituzione”) proprio a vantaggio di quello tra i tre più dubbio. In ipotesi, recuperare la identità e la alternatività tra le due tradizioni e logiche giuridiche consente di comprendere scientificamente i fenomeni giuridici, con la libertà conseguente di governarli a favore o del potere del re giudice o del potere del popolo legislatore. 

 

 

II. – Prospettiva storica e dogmatica: la alternativa tra concentrazione feudale del potere e potere repubblicano del popolo

 

II.1. – Giudicare: la ‘essenza del potere’ nell’ordinamento giuridico del potere regio (monarchico-feudale germanico-inglese) e l’utile arte della confusione

 

II.1.1 – “Richter König”

 

Il re medievale è il giudice ordinario che ha proprio iure la iurisdictio plena, è il re fonte di tutta la giustizia detentore del potere giudiziario. Prende avvio nell’ambito di questo costituzionalismo medievale un processo di differenziazione di prerogative regali, si badi bene non marcata autonomia o separazione, che porta alla distinzione tra il potere di ‘sentenziare’ da quello del ‘legem condere’, tra la ‘sentenza’ e la ‘legge’, affermandosi l’assoluto primato della attività di giudicare rispetto a quella di legiferare, che si concretizza in una gestione giudiziaria del potere.

Il sovrano medievale[74], presenta la connotazione, oltre e più che di capo militare[75], soprattutto di “re giudice” (Richter König). E’ la tradizione germanica[76], secondo la quale il «re è il giudice comune sopra tutti»[77], definizione – questa – formulata esemplarmente dal giurista tedesco Eike von Repgow[78], profondo conoscitore del diritto consuetudinario, – data anche la sua ‘professione’ di scabino – autore dello Specchio sassone (Sachsenspiegel 1220-1230)[79]. Pietro Costa scriverà con didascalica chiarezza «il re è tale perché giudica e il giudice non può non essere re»[80].

Secondo tale tradizione, il re giudice è la cifra di identificazione della monarchia medievale: reggitore del popolo, mediante la missione di giudicare. Egli è il veicolo della giustizia, il portatore di un diritto non legificato, elaborato per mezzo del giudizio.

La ‘decisione’ giudiziaria del re – data sul singolo “caso” e che ovviamente, lo segue – è la alternativa della ‘legge’, comando generale (del popolo: nel diritto romano) che invece precede i fatti, nonché i singoli “casi”.

Il giudizio presuppone un diritto consuetudinario che, però, è precisato proprio attraverso l’attività giudiziaria, e non si basa su una norma espressamente emanata. Infatti il Cortese, riferendosi ai giudici come principali protagonisti del diritto medievale, afferma che nel «mondo germanico ch’era tuttora largamente consuetudinario, le cui consuetudini, come sempre e ovunque, non erano regole astratte vaganti tra le nuvole, ma nascevano appunto dalla conformità di reiterate decisioni giudiziali»[81]. La “civiltà” medievale, dunque, non può essere identificata come «civiltà legalitaria»; da parte del «Principe medievale» vi è, infatti, non creazione del diritto mediante legge, ma applicazione creativa del diritto mediante giudizio[82]. Detto «Principe», infatti, non è ‘legislatore’, si attiene ad «una acquisizione della coscienza collettiva che coglieva il diritto alle radici della società e pertanto da identificarsi prevalentemente nella fonte materna della consuetudine»[83]. La formula / prerogativa regale, dell’amministrazione della giustizia, ovvero nella definizione stessa della giustizia, si attua giudicando, mediante il giudizio, non mediante la legge.

Nel XII secolo, si registra una vera esaltazione del potere giudiziario[84], l’emblema dell’autorità reale è data dalla figura del rex-iudex[85], il supremo giudice, ossia il «realizzatore» della giustizia[86].

Il diritto di giudicare è non soltanto il tratto distintivo di questa regalità medievale, dove risalta la preminenza del giudicare rispetto alle altre attribuzioni del ‘sovrano’[87] (inteso come il capo di un territorio ad assetto feudale) ma è anche il tratto unificante delle diverse parti della società medievale. Marc Bloch, ad esempio sottolinea la gestione giudiziaria del potere, e rileva che nella società feudale «ogni capo … ambiva di essere giudice, giacché solo il diritto di giudicare permetteva di mantenere efficacemente nella via del dovere i subordinati o, evitando che si piegassero alle sentenze dei tribunali estranei, forniva il mezzo più sicuro di proteggerli e insieme dominarli»[88].

Il re giudice, fonte del diritto, ha la ‘missione’ di risolvere la conflittualità sociale decidendo sul “caso”. Egli ‘produce’ così diritto – come nella tradizione giuridica romana – fa la legge, del resto «applicazione è creazione giuridica non meno della promulgazione d’una legge»[89]. Nella pronuncia giudiziaria del re si realizza una commistione tra diritto e giudizio, tanto che nell’amministrazione della giustizia il momento giudiziario coincide con quello della ‘produzione della norma’[90]. Come scrive Hermann Heller, nella sua opera postuma Staatslehre (1934), non vi è una netta distinzione tra sentenza e norma: «Nel concetto di prudenza [Weistum], dell’accertamento del diritto caso per caso, appaiono confusi diritto [Recht] e giudizio [Gericht[91]. Il re è l’autore di queste forme giuridiche, e il suo volto ha un’espressione essenzialmente giudiziaria; il suo comando sia come produzione del diritto e perfino come governo si esprimono attraverso atti giudiziari.

Una attività giusdicente così concepita attribuisce al ‘sovrano’ che la esercita, natura di tramite intermedio, moderatore[92] e mediatore tra realtà socio-politica e diritto; nel componimento delle controversie, all’atto del decidere, il re giudice deve infatti tener conto e valutare la ricaduta e l’impatto, ossia l’incidenza effettiva della sua pronuncia nei confronti dell’assetto sociale.

Il potere/dovere di giudicare, esternato attraverso il decidere/sentenziare, è la naturale e principale concretizzazione della auctoritas e della potestas regalis germanica. Il monopolio giudicante, o meglio il «potere giudiziario» come precipua caratteristica della regalità germanica è un mezzo indefettibile per la definizione e il mantenimento dell’ordine di una società feudale[93].

Il «governo feudale»[94] è la specifica forma di governo germanica: il precipuo contenuto del cosiddetto “modello gotico”, che, infatti, secondo la definizione di Portinaro, non è il «governo delle leggi» bensì il «governo degli uomini»[95]. In tali governo e modello, l’ordine sociale e la certezza del diritto sono perseguiti dall’attività del re-giudice.

La nozione di “potere giudiziario” ha, dunque, il suo naturale alveo nella tradizione vetero-feudale del pensiero e della prassi ‘giuspubblicistici’ germanica feudale. In tale alveo il “potere giudiziario” è specifica espressione e affermazione ‘regale’, l’instrumentum regni del “governo gotico”[96].

Anche Grossi fa riferimento, per inquadrare il re medievale, alla figura del giudice: «Il paesaggio giuridico che l’alto medioevo ci propone, ha dunque al suo centro un principe il cui compito essenziale è gubernare et regere cum aequitate et iustitia, giacché è soprattutto giudice munito di una virtù primaria, la giustizia; il cui compito essenziale appare anche debitas leges servare, e cioè rispettare l’ordinato scorrimento della vita del diritto»[97].

 

II.1.2. – Confusione terminologica e dogmatica tra iurisdictio e iudicatio

 

Dunque, l’essenza potestativa del re è data dallo iudicare, il potere regale si esprime così nella potestà giudiziale; essa, però, viene indicata con il termine iurisdictio.

Infatti, ora, per iurisdictio s’intende «… la funzione del giudicare propria del giudice ordinario, ma - anche e sopratutto - qualcosa di più alto e di più complesso: è il potere di colui - persona fisica o giuridica- che ha una posizione di autonomia rispetto agli altri investiti e di superiorità rispetto ai sudditi … la funzione emergente e tipizzante è quella del giudicare: si è principi perché si è giudici, giudici supremi»[98].

La parola romana iurisdictio occupa un posto centrale nel ‘discorso’ giuridico della civiltà di mezzo; tale parola, però, è, oramai, confusa, con la parola iudicatio: evoca una unica categoria, quella precisamente di giudicare.

Il Costa – ad esempio – indica la iurisdictio, riferendosi sempre al potere di giudicare, come tratto ed eredità peculiare dell’età feudale[99].

Il “potere” giudiziario è il prius dell’‘ordinamento monarchico’ di tradizione germanico-feudale e il re medievale è il giudice ordinario ma di lui si afferma che ha proprio iure la iurisdictio plena. Il ‘sovrano’ viene indicato come iudex ma l’esercizio del potere sovrano viene indicato come iurisdictio[100].

Il binomio iurisdictio-imperator[101], nel contesto storico medievale dove «ad ogni inflessione semantica di iurisdictio corrisponde una correlazione sistematica di iudex», acquista un significato assolutamente nuovo rispetto a quello romano.

In conclusione, il termine iurisdictio è riferito al reggitore giusto, al re servus equitatis, iudex per definizione, il cui potere deriva da Dio, al quale è affidata la realizzazione della giustizia (facere iustitiam)[102].

Forse, per l’influenza della logica feudale, l’attività del giudicare, chiamata iurisdictio, costituisce principio cardine anche della riflessione dei canonisti; nel regno terreno, ma in spiritualibus, è il pontefice «supremo giudice della cristianità (iudex ordinarius omnium[103]. In ogni caso, questa costruzione dottrinaria canonistica[104], che si richiama al modello del re biblico[105], in cui l’autorità regale viene tradotta nell’esercizio del potere di giudicare[106], sempre definito iurisdictio, contribuisce a fornire quegli elementi teorici che stanno a fondamento della figura dominante nel medioevo del sovrano reggitore-giudicante.

Persino la struttura organizzativa del Comune risente del primato medievale della giurisdizione (iurisdictio), intesa come giudizio, rispetto al potere politico (gubernaculum)[107].

La categoria di iurisdictio, propria, in origine, del sistema e del lessico giuridico romano, dove indica lo ius dicere del magistrato, certamente e nettamente diverso dallo iudicare che può essere opera del privatus, nel medioevo in un contesto storico-giuridico di matrice germanica, assume un significato totalmente altro appoggiandosi sulla categoria della iudicatio, la quale, a sua volta diventa un potere. Ciò appare influenzare il diritto canonico e la stessa esperienza comunale[108].

 

II.2. – Giudicare: il ‘non-potere’ nel sistema giuridico del potere popolare (repubblicano romano) e la necessaria arte della distinzione

 

II.2.1. – “Iudex privatus” e “populus in sua potestate

 

La storia romana del giudicare viene tradizionalmente e non scorrettamente distinta in tre epoche. Nell’ordine cronologico: l’epoca delle legis actiones, l’epoca delle formulae e l’epoca della cognitio extra ordinem.

Durante l’epoca più antica, nel procedimento delle legis actiones, il ruolo marginale del giudice è evidente. Il processo è distinto in due fasi: fase in iure, di fronte al Magistrato che ius dicit, e fase apud iudicem, di fronte allo iudex privatus che iudicat. Il Magistrato, in alternativa e contro il ricorso all’autotutela dei controvertenti/contendenti, valuta se e quale delle actiones giudiziarie previste dalla legge corrisponde alla pretesa di giustizia di chi si dichiara offeso[109]. Se la valutazione è positiva e l’azione è concessa, il Magistrato invia i litiganti di fronte a un “giudice”[110]-[111]. Questi, restando all’interno del quadro giuridico individuato dal Magistrato, sente le ragioni delle parti, valuta le prove addotte e pronuncia la sentenza. Vi è, dunque, una cesura netta tra questione di diritto e questione di fatto.

Intorno al 242 a.C. viene introdotto un nuovo tipo di processo, detto per formulas. Il processo formulare presenta rispetto alle legis actiones, le quali vengono assorbite dal nuovo processo, una maggiore adattabilità e flessibilità, ottenuta valorizzando e incrementando il potere / iurisdictio dei Magistrati, che rientra nel loro imperium. L’accresciuto potere del Magistrato giudiscente (non giudicante) viene espresso con lo strumento dell’editto, mediante il quale il Magistrato può – andando oltre le poche actiones rigidamente pre-formulate dalla legge ma conservandone ovviamente la logica – formularne di nuove. Per il resto, anche questo processo consta delle medesime due fasi, quella in iure (di fronte al magistrato appunto) e quella apud iudicem. I giudici restano, come prima, privi di potere.

Novità importanti sono introdotte con l’avvento di quella specifica forma della Repubblica che è il Principato o Impero. Con l’introduzione della cognitio extra ordinem, che prende gradualmente il posto del processo formulare, vengono meno le due fasi. Non c’è più la dialettica tra Magistrato e iudex privatus. L’intero processo è affidato ad un giudice espresso dalla burocrazia imperiale. Il nuovo “Giudice” è un funzionario imperiale, inserito in una struttura organizzata gerarchicamente. Se si ha un’immediata identificazione dello iudex con il funzionario imperiale, a questa immediatezza non corrisponde però un facile inquadramento della sua attività: in generale e giudiziaria in particolare. Il nuovo iudex – funzionario imperiale può avere, infatti, le competenze più varie: oltre quelle giudiziarie, competenze di governo e persino militari[112].

La varietà delle funzioni che possono essere e che vengono assolte dal giudice / funzionario imperiale, insieme a quella di iudicare, non possono certamente far pensare ad una sorta di impazzimento logico generale, per il quale quelle funzioni non si distinguono più tra loro.

Peraltro è riaffermato il monopolio interpretativo della legge nelle mani del legislatore, come è chiaramente espresso nel Codex e confermato nella Novella 82 e nella Novella 113 [113].

Meno evidente è il senso della Novella 125 [114], nella quale si richiamano i giudici ad esaminare perfecte le cause a loro sottoposte e li si esorta a sentenziare secondo come eis iustum legitimumque videtur esprimendo la preclusione di ricorrere all’imperatore per eventuali chiarimenti o direttive. Stando ad una possibile interpretazione del dato normativo di tale novella, questa parrebbe alludere ad un primo nucleo del ‘potere’ di giudicare. Alcuni giuristi invece vedono enunciato un semplice divieto di proporre all’imperatore mere questioni di fatto[115].

In ogni caso non può essere una “novella” di dubbia interpretazione a far ‘saltare’ un sistema giuridico caratterizzato per secoli una rigorosa scala entropica del potere.

 

II.2.2. – Distinzione terminologica e dogmatica tra iurisdictio e iudicatio

 

La osservazione sia pure velocissima della storia processuale romana ci mette di fronte ad una notevole capacità di distinguere.

La scienza è, secondo la celebre definizione di Galileo[116], il distinguere e l’ars giuridica romana ha, come è stato osservato, natura scientifica[117].

La propensione capacità di distinzione dei giuristi romani si manifesta nella soluzione del problema «fondamentale complesso e (sempre) attuale» che è «la concezione teorica e il regime operativo unitari della pluralità degli uomini», sia dal punto di vista del diritto pubblico, sia dal punto di vista del diritto privato.

Nello specifico del nostro discorso, circoscriviamo la nostra attenzione al solo regime operativo, e dal solo punto di vista del diritto pubblico della “soluzione romana”[118].

Qui, la propensione/capacità di distinguere si manifesta nella distinzione su ben quattro tipi (che, come vedremo, sono altrettanti livelli) dell’attività volitiva umana collettiva/unitaria. Questa attività volitiva appare distinta una prima volta tra quella di gestione/conduzione della collettività e quella della soluzione delle controversie che possono nascere nel seno della collettività. Ciascuna di queste due ‘sub-attività’, viene ulteriormente distinta in due – per così dire ‘sub-sub attività’. La attività della gestione/conduzione viene distinta nella legge e nel governo. La attività della soluzione delle controversie viene distinta nella giurisdizione e nel giudicare. Siamo di fronte ad una vera e propria scansione dell’atto umano volontario imputato ad una organizzazione collettiva; atto il quale viene, per così dire, smontato e rimontato in una sequenza di distinte ma connesse e complementari attività.

L’attività della produzione della legge appartiene al- / è propria del Popolo; la attività del governo appartiene al- / è propria del Magistrato[119]. Anche la attività della giurisdizione appartiene al- / è propria del Magistrato; infine, la attività del ‘giudicare’ appartiene al- / è propria dello iudex[120].

Sono, quindi, presenti tre ‘soggetti’ agenti (Popolo, Magistrato e giudice) e quattro tipi di attività (legge, governo, giurisdizione e giudizio) connessi in un sistema complesso di attività, in ordine gerarchico di potere decrescente.

Il senso della gerarchia è espresso dal ricorrere del verbo iubere nelle due distinzioni principali: lo iubere legem del popolo e lo iudicare iubere del magistrato (Ulp. D. 2.1.13 pr. Eum qui iudicare iubet magistratum esse oportet): una sequenza di comandi che costituiscono una sorta di ‘spina dorsale’ volitiva del sistema.

Il potere è massimo nel Popolo, il quale produce la legge, è minore nel Magistrato, il quale governa e dice il diritto, è nullo presso il giudice, il quale giudica. Il Popolo, infatti, è caratterizzato dall’essere nella potestas di sé medesimo (e la sua potestas è detta simile a quella divina); il Magistrato è nella potestà del Popolo, ma anche “con la potestà” del Popolo, il giudice invece non ha bisogno di potere. Egli è, in quanto tale, privatus, cioè “privo di potere”.

Siamo di fronte ad una sorta di entropia del potere che va dal massimo potere umano all’assenza di potere, e che coincide con il passaggio dalla massima discrezionalità umana alla discrezionalità nulla, e dalla massima generalità di competenza (Ateio Capitone) alla competenza ristretta all’unicità dell’evento oggetto del giudizio.

Questo complesso sistema concettuale con le distinzioni in esso comprese (tra cui quella fra iurisdictio e iudicatio) proprio del Diritto romano, è evidente nel processo per legis actiones e in quello per formulas. E’ certamente meno evidente ma non è detto che venga meno nella cognitio extra ordinem, quando l’attività dello ius dicere e l’attività dello iudicare sono svolte dallo stesso agente, ma restano logicamente distinte e operativamente – quanto meno – distinguibili.

In questa logica, il “giudicare” non può essere e non è mai esercizio di discrezionalità/potere[121]-[122].

 

 

Abstract

 

L’hypothèse, vérifiée dans cet article, est que le “pouvoir” judiciaire confié à un corps spécifique, qu’on trouve dans la doctrine de Montesquieu (1748), a trouvé son origine pendant le Moyen Age, à l’intérieur du monde germanique et féodale, en restant externe et carrément en contradiction avec l’expérience, la science et la tradition juridiques romaines républicaines. Pendant le XVIIIe siècle, il n’y a donc pas l’émersion du “pouvoir” judiciaire, car, au contraire, il est plus que présent dans le monde germanique et féodale et même caractéristique de l’Ancien Régime, selon le schéma du roi juge, mais une novelle combinaison avec d’autres “pouvoirs”. Le magistrat Montesquieu dans sa théorie ‘éclairée’ de la “séparation des pouvoirs”, garde le “pouvoir” judiciaire, expression de la féodalité, en le rassemblant avec le couple des pouvoirs législatif et exécutif, qui vient de la tradition juridique républicaine, par une opération de combinaison du “modèle” du droit germanique (particulièrement anglais) avec le “modèle” du droit romain. Cette théorie c’est avérée l’humus idéal pour le “tiers pouvoir”, dont elle a permis le processus de croissance qui semble inarrêtable dans les contextes contemporains. L’éloquent expression “montée en puissance”, employée par la doctrine française pour indiquer le rôle des juges, indique aussi clairement l’actuelle prise de conscience de la nouvelle dimension d’hégémonie du “pouvoir” judiciaire au regard du pouvoir législatif et du pouvoir exécutif.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Si è utilizzata deliberatamente l’espressione ‘equilibrio dei poteri’ anziché ‘separazione dei poteri’ o ‘divisione dei poteri’, espressioni che danno vita a classificazioni di tecniche e modelli distinti. Vedi Guastini R., La sintassi del diritto, Torino 2014, 335: «Nella storia delle dottrine costituzionali, l’espressione “separazione (o divisione) dei poteri˝ denota non già una, ma due distinte tecniche – o due modelli, se così si preferisce dire – di organizzazione del potere politico, che si suppongono funzionali allo scopo di evitare il dispotismo e garantire (tutelare, proteggere) la libertà dei cittadini (e a questa stregua vanno valutate). In entrambi i modelli il potere politico è “diviso˝, distribuito tra più organi, ma nei due modelli sono diversamente distribuite le funzioni statali e diversamente disciplinati i rapporti tra gli organi. Per evitare confusioni, d’ora in avanti userò l’espressione “separazione dei poteri˝ per riferirmi alla prima tecnica costituzionale, mentre userò l’espressione “bilanciamento dei poteri˝ per riferirmi alla seconda». Cfr. Barberis M., Divisione dei poteri e libertà da Montesquieu a Constant, in Materiali per una storia della cultura giuridica 1, 2001, 83-86; l’autore si sofferma sul differente senso attribuito alle espressioni ‘separazione dei poteri’ e ‘divisione dei poteri’.

 

[2] Tarello G., Organizzazione giuridica e società moderna, in Amato G., Barbera A. (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna 1984, 33: «Gli aspetti politicamente rilevanti di una grande famiglia di organizzazioni giuridiche moderne sono, essenzialmente, due e precisamente: a) la separazione dei poteri e b) la garanzia costituzionale delle libertà».

 

[3] Lobrano G., Dottrine della inesistenza della Costituzione e il modello del diritto pubblico romano”, in Diritto @ Storia 5, 2006 < http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Lobrano-Inesistenza-costituzione-modello-diritto-pubblico-romano.htm >. In questo scritto l’autore mette in discussione la consistenza-efficienza della Costituzione del modello inglese, con la conseguente possibilità storica e teorica, seppur nella consapevolezza della difficoltà di tale compito, di riproporre la Costituzione del modello romano. Cfr. Catalano P., Crise de la division des pouvoir et tribunat (le problème du pouvoir négatif), in Attualità dell’antico, 6, Vacchina M.G. (a cura di), Aosta 2005, 204; Kelsen H., Il primato del parlamento, tr. it. di Geraci C. (dalla ed. Wien-Leipzig 1925, Das Problem des Parlamentarismus), con la presentazione di Petta P., Milano 1982, 176; Weber M., Wirtschaf und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie 5, hrsg v. Winckelmann J., Tübingen 1976, lib. I cap. III, 172.

 

[4] Interessante in tale ordine di considerazioni la riflessione del Nicolini, che a proposito dei dubbi sulla efficacia della divisione dei poteri afferma che tutte le teorie che portano alla libertà del giudice non fanno altro che compromettere ulteriormente «la certezza del diritto, che è la prima, indiscutibile garanzia delle libertà civili». Vedi Nicolini U., Certezza del diritto e legge giusta nell’età comunale, in Id., Scritti di storia del diritto italiano, Milano 1983, 11.

 

[5] Labriola S., Relazione sulla forma dello Stato, in Commissione Parlamentare per le riforme istituzionali, Documenti istitutivi – Discussioni in sede plenaria – Progetto di legge di revisione costituzionale – Indici II [= Testi parlamentari 17 lavori preparatori e dibattiti], Camera dei deputati, Roma 1995. Cfr. Von Hayek F.A., Law Legislation and Liberty Rules and order, Chicago 1973, ora in Id., Legge, legislazione e libertà, tr. di Monateri P.G., Milano 1989.

 

[6] Picardi N., La responsabilità del giudice: la storia continua, in Rivista di diritto processuale 2, 2007, 283: «La responsabilità del giudice … una questione destinata ad emergere soprattutto nei periodi di crisi istituzionale quando si rompono i meccanismi di equilibrio ed emerge tutta la complessità di una tematica che si rifrange, come in un gioco di specchi, in molteplici direzioni, fino al livello costituzionale e finisce così per investire nodi fondamentali, quali il ruolo del giudice e la stessa separazione dei poteri».

 

[7] Touzeil-Divina M., Printemps et révolutions arabe: un renouveau pour la séparations des pouvoirs, in Pouvoirs 143, 2012, 29-45. L’autore rende atto che l’istituto della separazione dei poteri è uno degli obbiettivi della primavera araba, paesi come l’Egitto, la Tunisia e il Marocco attendono con fiducia e speranza l’introduzione e la sperimentazione, nella loro ‘futura’ organizzazione democratica, dell’istituto montesquieuiano. Cfr. Bahlul R., Prospettive islamiche del costituzionalismo, in Costa P. e Zolo D. (a cura di), Lo stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano 2003, 634-639.

 

[8] La formulazione ‘ufficiale’ della nozione di un “potere” giudiziario, così come noi la conosciamo, si riscontra per la prima volta nel corso del secolo XVIII, nell’opera di Montesquieu. Cfr. in particolare De l’esprit des lois, Paris 1949 (ed. orig. Genève 1748), T. I, livre XI, “Des lois qui forment la liberté politique dans son rapport avec la constitution”, 161 ss.; Montesquieu qui introduce l’esame della costituzione inglese come modello della migliore costituzione possibile,chapitre V, 163, «Il y a aussi une nation dans le monde qui a pour object direct de sa constitution la liberté politique»; apre precisamente con la teoria della divisione e dell’equilibrio dei poteri chapitre VI, 163: «Il y a dans chaque état trois sortes de pouvoirs»; chapitre VI, 164: «Tout serait perdu si le même homme, ou le même corps des principaux, ou des nobles, ou de peuple, exerçaient ces trois pouvoirs: celui de faire des lois, celui d’exécuter les résolutions publiques, et celui de juger les crimes ou les différends des particuliers». Il filosofo-giurista francese chiama il potere di giudicare le controversie “puissance de juger”. Questa espressione come quella di «pouvoir judiciaire», insieme alla formula «le pouvoir arrête le pouvoir» vanno ad arricchire e a ‘ridisegnare’ il lessico giuspolitico del XVIII secolo prefigurando una interazione e un reciproco bilanciamento tra i ‘poteri’, in tal modo nessun di questi può prevalere sull’altro.

 

[9] Cfr. Tarello G., Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna 1988, 361-368. L’autore in queste pagine descrive lo stato di crisi della giustizia e i problemi della magistratura, in particolare afferma che «La nostra costituzione codifica come principi fondamentali, congiuntamente, quello della separazione dei poteri e quello della garanzia costituzionale della libertà: principi che, in contesti contemporanei, inducono sempre e necessariamente tensione tra Parlamento e giudici e- perciò-qualche grado di instabilità dell’assetto costituzionale».

 

[10] Lazzaro G., La funzione dei giudici, in Rivista di diritto processuale 1, 1971, 1-16. L’autore enumera i compiti spettanti al giudice, ma pone alcuni interrogativi sul come nel loro operare essi svolgano un ruolo che fuoriesce dal novero di queste funzioni, in particolare quella di integrare un sistema di diritto codificato, che equivale alla palese, ma non dichiarata, ammissione e riconoscimento di un potere di creare diritto. Cfr. Fassò G., Il giudice e l’adeguamento del diritto alla realtà storico-sociale, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile 3, 1972, 926: «… aumento del potere di decisione dei giudici, fino a farli in qualche misura creatori del diritto. Incertezza per incertezza, si può pensare che a quella causata dalla vastità, dalla confusione e dalla mobilità della legislazione sia preferibile quella derivante dall’imprevedibilità della decisione del giudice, che per lo meno ha il pregio dell’aderenza al caso concreto, e quindi di una maggiore giustizia».

 

[11] Scoditti E., Riforma costituzionale e giurisdizione, in Democrazia e diritto 1, 1997, 50.

 

[12] Nel lessico giuridico latino-romano, da cui queste parole originano, il magistratus non è uno iudex e lo iudex non è un magistratus.

 

[13] Guastapane A., L’autonomia e l’indipendenza della magistratura ordinaria nel sistema costituzionale italiano. Dagli albori dello Statuto Albertino al crepuscolo della bicamerale, Milano 1999, 174-182. Cfr. Bartole S., Il potere giudiziario, in Amato G., Barbera A. (a cura di), Manuale di diritto pubblico, cit., 627-634.

 

[14] Bonifacio F. - Giacobbe G., La magistratura, II, articoli 104-107, in Commentario della Costituzione, Branca G. (a cura di), Bologna-Roma 1986, 3: «Laddove l’identificazione dei poteri verso i quali autonomia e indipendenza risultano affermati attraverso l’aggettivo “altro” può essere considerata segno che anche alla magistratura … si sia inteso attribuire la qualificazione di potere, nonostante l’uso – per individuarla del termine “ordine”»; 17: «la tendenza prevalente è nel senso di tradurre quanto meno sul piano operativo, il termine ordine col termine potere».

 

[15] Pajardi P., La funzione attuale del giudice, in Iustitia 1, 1971, 27: «Nel tentativo di identificare, con maggiore precisione di delineazione , il ruolo del giudice, può dirsi anzitutto che egli è portatore di un autonomo e sovrano potere. Ciò si ricava inequivocabilmente dagli artt. 1, 101 e 104 della costituzione, nei quali si legge che la sovranità appartiene al popolo, che la giustizia è amministrata in nome del popolo, che i giudici sono soggetti soltanto alle leggi, e infine che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». Giannini M.S., La funzione del giudice nella società contemporanea, in Il diritto dell’economia 4, 1971, 466: «… quanto è accaduto nelle assise dei magistrati doveva accadere, ed è utile che sia accaduto, ed è bene che si ripeta ancora: almeno se si vuole ottenere il risultato – che sembra stia a cuore a tutti – di avere nei magistrati uno dei poteri dello Stato, come sta scritto nella Costituzione, e non invece un ceto di burocrati non molto significanti».

 

[16] Meucci G.P., Potere giudiziario, in Novissimo Digesto Italiano, XIII, Torino 1966, 462.

 

[17] Padoa Schioppa A., Storia del diritto in Europa. Dal Medioevo all’Età contemporanea, Milano 2007, 396.

 

[18] In proposito, si veda, per tutti, la ricostruzione operatane da Alvazzi del Frate P., Appunti di storia degli ordinamenti giudiziari. Dall’assolutismo francese all’Italia repubblicana, Roma 2009, 15-30.

 

[19] Voltaire, Dictionnaire philosophique (1764), v. Lois civiles et ecclésiastique, 246.

 

[20] Beccaria C., Dei delitti e delle pene, Trento 2014 (ed. orig. Livorno 1764), 17.

 

[21] Beccaria C., Dei delitti e delle pene, cit., 17.

 

[22] Beccaria C., Dei delitti e delle pene, cit., 15.

 

[23] Beccaria C., Dei delitti e delle pene, cit., 16.

 

[24] Verri P., Sulla interpretazione delle leggi, in Il Caffè II, 1764-1766, fogli XX e XXVIII; quindi in Id., Scritti vari, Firenze 1854, 486.

 

[25] Filangieri G., Riflessioni politiche su l’ultima legge del sovrano, che riguarda la riforma dell’amministrazione della giustizia, Napoli 1774, § V; cfr. Cernigliaro A., «Difendere il cittadino dall’insulto, più che vendicarlo dall’offesa». Nuovi orizzonti nel penale per nuovi scenari costituzionali, in Quaderni fiorentini 36, 2007, 275 ss., in part. 287.

 

[26] FILANGIERI G., Riflessioni politiche su l’ultima legge del sovrano, che riguarda la riforma dell’amministrazione della giustizia, cit., § VII. Il Tanucci sosteneva si dovesse arginare il potere dei giudici: «a frenare l’arbitrio dei giudici, che dopo la partenza di Vostra maestà era arrivato a scandalo […] Tutti hanno applaudito, […] eccettuata la toga, che dal popolo per l’orgoglio e l’arbitrio si dice toga sovrana».

 

[27] Chevallier J.J., Le grandi opere del pensiero politico. Da Machiavelli ai nostri giorni, Imola 1982, 185-186.

 

[28] Chevallier J.J., Le grandi opere del pensiero politico. Da Machiavelli ai nostri giorni, cit., 186.

 

[29] Di Donato F., La costituzione fuori dal suo tempo, in Quaderni costituzionali 4, 2011, 909-910. L’espressione «bocca della legge», nell’Antico regime stava ad indicare la funzione nomotetica di cui era titolare il magistrato-giurista, colui che fa rivivere la legge nella sua «applicazione creatrice». Secondo Di Donato questo è il ruolo e l’essenza del corpo dei magistrati nella Francia dell’assolutismo. L’espressione montesquieuiana attraverso una forzata torsione semantica, operata dalla rivoluzione, mutò il senso originario, nella nuova accezione il giudice era «solo la bocca non lo spirito della legge», con una funzione meramente dichiarativa.

 

[30] Montesquieu, De l’esprit des lois, cit., chapitre VI, 165: «De cette façon, la puissance de juger, si terrible parmi les hommes, n’étant attachée ni à un certain état, ni à une certaine profession, devient, pour ainsi dire invisible et nulle»; chapitre VI, 168 : «Des trois puissances dont nous avons parlé, celle de juger est en quelque façon nulle».

 

[31] Ferrajoli L., Magistratura democratica e l’esercizio alternativo della funzione giudiziaria, in L’uso alternativo del diritto. Scienza giuridica e analisi marxista, in Barcellona P. (a cura di), Roma-Bari 1973, 106. L’autore è una voce fuori dal coro, portatrice di un verbo che contrasta con la vulgata che vede il giudice come automa, un meccanico applicatore della legge, ossia «semplice voce della legge».

 

[32] Cfr. Tarello G., Per una interpretazione sistematica de «L’Esprit des Lois», in Materiali per una storia della cultura giuridica 1, 1971, 13: «Che quest’opera sia ambigua, pur se appare così chiara, non è contestabile: è un fatto storico, il fatto cioè che essa sia utilizzata per i fini e le operazioni più disparate»; ancora Tarello G., Cultura giuridica e politica del diritto, cit., 262. L’autore utilizza la parola ‘ambigua’ riferendosi all’intera opera De l’esprit des lois: «l’opera grande e ambigua».

 

[33] Tarello G., Cultura giuridica e politica del diritto, cit., 362: «... nei contesti contemporanei, la configurazione del giudiziario come “potere nullo” … pur mantenendo intatto il suo valore preccettivo in quanto principio basilare della organizzazione e dell’assetto costituzionale, ha perso gran parte del suo valore descrittivo o di rispecchiamento della realtà; e viene percepita, in sede culturale, … come una mistificazione. Le ragioni di ciò sono varie; tutte, però, riconducibili al fatto che, strutturalmente, ogni oggettiva incertezza della legge viene necessariamente a trasferire il potere di creare diritto nuovo o di mutare il diritto … dall’organo legislativo – all’organo dell’ applicazione – cioè, essenzialmente ai giudici».

 

[34] Barberis M., Separazione dei poteri e teoria giusrealista dell’interpretazione, in Comanducci P. e Guastini R. (a cura di), Analisi e diritto 2004, Torino 2005, 1.

 

[35] Ferrajoli L., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari 1989, 10-11.

 

[36] Delmas-Marty M., «La mondialisation et montée en puissances des juges», in Le dialogue des juges, Bruxelles 2007, 95-114.

 

[37] Silvestri G., Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino 1997, 71: «Il potere giudiziario appare … affidato, nella sua interezza, a ciascun organo giurisdizionale, il quale, nel momento in cui si pronuncia, è il potere, non appartiene al potere».

 

[38] Marafioti D., Metamorfosi del giudice. Riflessioni su giustizia e potere, Soveria Mannelli 2004, 40-44.

 

[39] Daharendorf R., Dopo la democrazia, intervista a cura di Polito A., Roma-Bari 2001, 65: «dall’essere l’anello debole del sistema, il giudiziario è diventato l’anello più forte».

 

[40] In dottrina c’è chi indica l’evidenza della crisi della divisione dei poteri e afferma che «i consueti schemi di separazione, in Europa hanno ormai solo «un valore orientativo» e sono continuamente ridimensionati o smentiti da fenomeni di reciproca interferenza e da frequenti accavallamenti tra i vari poteri. Ferrarese M.R., La governance tra politica e diritto, Bologna 2010, 33. L’autrice in questo scritto prende atto dei cambiamenti che caratterizzano il nostro tempo, e rende atto dell’affermazione del diritto giudiziario.

 

[41] Barberis M., Le futur passé de la séparations des pouvoirs, in Pouvoirs 143, 2012, 12: «… le futur de la séparation des pouvoirs a pris souvent la forme d’un retour au passé; en particulier, le phénomène qu’en littérature toujours croissant appelle judicialisation, globalisation judiciaire ou même juristocratie est assez analogue à la Jurisdictio di Ancien Régime pour s’autoriser à hasarder une hypothèse. Les juges ont toujours partecipé à la production du droit, à titre d’interprétation ou de simple interprétation; la séparation du judiciaire prônée par Montesquieu, donc, n’a été au plus qu’une exeception, elle- même plus apparente que réelle».

 

[42] Delmas-Marty M., La refondation des pouvoirs, Paris 2007, 61: «En somme, qu’il s’agisse des questions procédurales ou substantielles, et quelle que soit le dynamique sous-jacente, la montée en puissance des jurisdictions internationales se focalise sur la jurisdictio. Plus difficiles en effet, les mutations de l’imperium appelleraient une transformation plus profonde des relations des pouvoirs, marquée par l’esquisse d’un pouvoir jurisdictionnel international qui pose à terme la question de l’équilibre des pouvoirs».

 

[43] Savigny F.C., La vocazione del nostro secolo per la legislazione e la giurisprudenza. Preceduta da una introduzione generale, e da un discorso sugli scritti di lui, e sulla scuola storica, Bologna 1968, 97: «… cosa giusta e lodevole che ognuno, il quale si senta in cuore la vocazione del secolo, altamente facciasi a proclamarla …».

 

[44] Ferrante R., Il problema della codificazione, in Enciclopedia italiana. Il contributo italiano alla storia del pensiero – Diritto, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 2012, 279.

 

[45] Bülow O., Legge e ufficio del giudice, trad. Pasqualucci P., in Quaderni fiorentini 30, 2011, 199-254. L’autore a proposito del lavoro istituzionale del giudice sostiene che si tratti di un «… potere che domina effettivamente la vita degli uomini, superiore ad ogni realtà ad esso scientemente contraria». Vedi per quanto attiene il diritto libero Kantorowicz H.U., La lotta per la scienza del diritto, Milano 1988. L’autore rifiuta la concezione secondo la quale solo gli organi dello stato sono deputati all’emanazione della legge e sostiene l’esistenza di altre forme normative. Cfr. Marinelli F., Ricchezza del diritto libero (rileggendo Kantorowicz cento anni dopo), L’Aquila 2012, si ripropone il superamento dell’assolutismo giuridico che ritiene la legge l’unica fonte del diritto. Cfr. Grossi P., Scienza giuridica italiana. Un profilo storico. 1860-1950, Milano 2000, in cui l’autore ricostruisce l’influenza e la ‘ricaduta’ che il giusliberismo ha avuto sulla scienza giuridica italiana. Ceccarelli M., Diritto giurisprudenziale e autonomia del diritto nelle strategie discorsive della scienza giuridica tra otto e novecento, in Quaderni fiorentini 40, 2011, 726-728.

 

[46] Cfr. Ferrara F., Potere del legislatore e funzione del giudice, in Rivista di diritto civile 3, 1911, 491-516. Il Ferrara esprime una valutazione critica al movimento per il diritto libero, sostiene che l’operazione intellettuale del giudice non può portare alla creazione del diritto.

 

[47] Satta S., Norma, diritto, giurisdizione, in Studi in memoria di Carlo Esposito, III, Padova 1973, 1623-1651, «Il giudice ius dicit, cioè afferma l’essere, il concreto, nei due momenti inscindibili, se pure di due momenti si può parlare, del fatto e del diritto. Il diritto è veramente ciò che il giudice dice di essere il diritto». Vedi Satta S., Il giudice e la legge, in Iustitia 1, 1971, 5: «… se il giudice dipende dalla legge anche la legge dipende dal giudice … mai riusciranno a renderlo un automa, mai impediranno che in un certo e non piccolo margine la legge dipenda da lui. E attraverso il giudice la vita penetra nella legge col suo bene e col suo male, il bene e il male si fanno vita».

 

[48] Kantorowicz H., La definizione del diritto, introduzione di Bobbio N., (trad. di Di Robilant E.), Torino 1962, 64. L’autore propone una definizione di diritto «Un insieme di norme regolanti la condotta esterna e considerate applicabili dal giudice».

 

 

[49] Costa P., Pagina introduttiva. Giudici, giuristi (e legislatori): un “castello dei destini incrociati”?, in Quaderni fiorentini 40, 2011, 1-17. L’autore riconduce la preminenza del ruolo del giudice a tre ordini di circostanze «in primo luogo, la complessità ed eterogeneità del sistema normativo (dovute all’inflazione legislativa e alla compresenza di norme infra e sovrastatuali) hanno indotto a chiedersi se proprio nell’interpretazione-applicazione del diritto potesse reperirsi un’ormai problematica ‘valvola di chiusura’ del sistema; in secondo luogo, il successo ‘planetario’ del discorso dei diritti ha spostato l’accento dal parlamento alle corti e ha indotto a vedere in una governance giudiziaria una più efficace risposta alle più diffuse istanze di giustizia sostanziale; in terzo luogo (e di conseguenza), e tornata al centro del dibattito quella antica, mai risolta tensione fra la voluntas e la ratio, fra il potere del demos e il sapere degli àristoi ,che, nella cornice degli odierni ordinamenti, si traduce nel problema del rapporto fra il legislativo e giudiziario». (1).

 

[50] Delmas-Marty M., Mondializzazione e ascesa al potere dei giudici, in Vogliotti M. (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, Torino 2008, 127: «… il fenomeno dell’ascesa del potere dei giudici, di cui da qualche tempo siamo testimoni, si tratti di un’opportunità o di un rischio. Un’opportunità, senza dubbio, se il fenomeno esprime l’emergenza di una comunità di giudici alla quale ogni cittadino, per quanto debole o emarginato, possa rivolgersi; anche un rischio, però, se quella comunità si rivela una tigre di carta dipendente dalla buona volontà delle grandi potenze e si mostra in pratica molto selettiva nel suo modo di far rispettare l’ordine internazionale».

 

[51] Cappelletti M., Giustizia, accesso alla, in Enciclopedia delle scienze sociali, 1994, disponibile on line in <http://www.treccani.it/enciclopedia/accesso-alla-giustizia_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali)>.

 

[52] Picardi N., La vocazione del nostro tempo per la giurisdizione, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile 1, 2004, 51.

 

[53] Zaccaria G., L’obiettività del giudice tra esegesi normativa e politica del diritto, in Rivista di diritto civile 6, 1979, 617.

 

[54] Prodi P., Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000, 11: «mentre sta venendo meno il principio, fondamentale nell’ordinamento degli ultimi secoli, della territorialità della norma … lo Stato ha invece reagito esasperando la produzione delle norme giuridiche: il diritto positivo ha così sviluppato due caratteristiche del tutto anomale rispetto alla tradizione giuridica dell’Occidente, la pervasività e l’autoreferenzialità».

 

[55] Grossi P., Giustizia e diritto tra medioevo e età moderna, in Filosofia politica 1, 2001, 52. Id., Il diritto tra norma e applicazione. Il ruolo del giurista nell’attuale società italiana, in Quaderni fiorentini 30, 2001, 497: «Il paesaggio giuridico di allora si presentava assai ristretto. Lo Stato si proponeva come il produttore necessario del diritto, l’unico ente capace di conferire a una regola sociale il crisma della giuridicità. Il diritto si riduceva perciò in leggi, cioè manifestazioni della volontà suprema dello Stato, e si inchiodò il sistema delle fonti in una rigida piramide gerarchica che toglieva vigore alle manifestazioni di grado inferiore. Si arrivò a presumere di poter controllare assolutamente questa riduzione escogitando una fonte, il Codice, che assommava in sé la completezza dell’ordine giuridico, con un’ulteriore presunzione di aver compiuto una operazione definitiva e perciò vocata alla perpetuità».

 

[56] Pagano R., Introduzione alla legistica. L’arte di preparare le leggi, Milano 2001, 7. L’autore indica il fenomeno degenerativo della legislazione con il termine inflazione, per l’aumento abnorme delle leggi, e con il termine inquinamento, per la non adeguata formulazione corretta della legge.

 

[57] Ciaramelli F., Legislazione e giurisdizione. Problemi di metodologia giuridica e teoria dell’interpretazione, Torino 2007, 99: «All’inflazione di norme spesso disattese, ma partorite con l’intento di far fronte all’ennesima emergenza, fa riscontro l’oscura percezione di un’impotenza, come se il tempo della creatività sociale fosse scaduto … Sul piano del diritto, l’eclissi della creatività e la carenza progettuale della democrazia si manifestano nella tendenza al primato giudiziale». L’autore nel delineare il rapporto intercorrente tra legislazione e giurisdizione, parla di un «nesso sistemico», e riconosce un’importanza centrale all’interpretazione della legge.

 

[58] Leoni B., La libertà e la legge, Macerata 2000, 7-29. L’autore mette in guardia da una cieca fiducia nella ‘legge’ come punto terminale di un processo legislativo in mano a una maggioranza politica la cui ‘volontà’ può anche non coincidere con il bene comune, e quindi non essere «un rimedio per tutti gli interessati».

 

[59] Fioravanti M., Legge e costituzione: il problema storico della garanzia dei diritti, in Quaderni fiorentini 43, 2014, 1088.

 

[60] Rebuffa G., La funzione giudiziaria, Torino 1993, 87-88: «Nei sistemi di diritto continentale si pongono nuovi problemi nel momento del declino degli ordinamenti incentrati sui codici e delle ideologie che ne costituivano il fondamento. Il fenomeno della “residualità˝ dei codici appare accentuato nel caso italiano, dove la proliferazione di leggi speciali ha sottratto ampie competenze ai codici, degradandoli da corpo normativo generale a semplice “diritto residuale˝, a cui è affidata soltanto la regolamentazione delle materie non disciplinate dalle normazioni speciali». Nel denunciare il fenomeno della decodificazione il Rebuffa sottolinea come conseguenza diretta che il potere giudiziario è titolare di poteri normativi.

 

[61] Bellomo M., L’Europa del diritto comune, Roma 1991, 12: «Il codice - ha scritto Tullio Ascarelli nel 1945 - è caratterizzato dalla pretesa di costituire un ordinamento giuridico ‘nuovo’, ‘completo’ e ‘definitivo’ che racchiude nelle sue formule le soluzioni per tutti i casi possibili; è appunto questa caratteristica che lo distingue dalle consolidazioni legislative delle epoche anteriori volte solamente a riordinare il diritto vigente».

 

[62] Irti N., L’età della decodificazione, Milano 1989, 33. Irti formula la fortunata espressione «età della decodificazione», riferendosi al periodo storico che prende le mosse dal secondo dopo guerra. A partire da questo periodo si è smarrita la «sicurezza» dei codici, venuta meno la forza centripeta, si parla di «fuga dal codice civile» in quanto questo «ha perduto il carattere di centralità nel sistema delle fonti: non più sede di garanzie dell’individuo».

 

[63] Bellomo M., L’Europa del diritto comune, cit., 38: «La decodificazione dei diritti nazionali … tocca tutti gli Stati dell’Europa continentale. I codici, che avrebbero dovuto rappresentare l’unità dei diritti nazionali, sono sommersi da centinaia di migliaia di leggi ordinarie vigenti entro ciascun Paese».

 

[64] Sacco R., Codificare: modo superato di legiferare?, in Rivista di Diritto Civile 2, 1983, 117-135. In questo scritto si parte dal dibattito sulla inattualità, vera o presunta, del codice, e del superamento della codificazione. L’autore, come voce fuori dal coro riporta comunque analisi, che non sostengono un totale superamento del codice.

 

[65] Bork R.H., Il giudice sovrano, Coercing virtue, Macerata 2007, 163 e ss. L’autore mette in rilievo le implicazioni che può comportare il trasferimento della autorità legislativa dal parlamento alle corti (giudici), ossia il passaggio della potestà normativa dal legislatore- parlamento, che ha legittimazione democratica al giudice che ne è sprovvisto in quanto non è legittimato dal popolo. Cfr. Marafioti D., Metamorfosi del giudice: riflessioni su giustizia e potere, cit., 11-19.

 

[66] Cappelletti M., Giudici legislatori?, Milano 1984, 5: «… vera e propria esplosione del ruolo della giurisprudenza come fattore di adattamento del diritto alle profonde trasformazioni della nostra realtà sociale». L’autore in questo studio comparativo sottolinea la ‘necessità’ della creatività dell’attività giudiziale nella società contemporanea, creatività indispensabile e capace di seguire con maggiore adesione le sinuosità della realtà sociale. Cfr. Meccarelli M., Un senso moderno di legalità. Il diritto e la sua evoluzione nel pensiero di Biagio Brugi, in Quaderni fiorentini 30, 2011, 467-469. In questo saggio l’autore richiama l’opera di Brugi B., L’analogia di diritto e il cosiddetto giudice legislatore, in Diritto commerciale 1, 1916, 261 e ss., dove si riporta l’art. 1 Einleitungstitel del ZGB svizzero che prevede, per la chiusura dell’ordinamento, la figura del Richter als Gesetzgeber. Tale esempio codificatorio indica la ‘non fiducia’ nella completezza dell’ordinamento positivo dunque di ispirazione filo-liberista.

 

[67] Viora M.E., Consolidazioni e codificazioni. Contributo alla storia della codificazione, Torino 1967, 27-55. L’autore traccia una precisa linea di demarcazione tra le ‘consolidazioni’, semplici collezioni/raccolte di leggi pre-illuministiche, e le ‘codificazioni’ moderne.

 

[68] Cappelletti M., La creatività della giurisprudenza nel tempo presente, in I poteri del giudice civile di fronte alla legge, in Atti del XVI convegno nazionale, Ferrara, 5-6 giugno 1982, Rimini 1985, 28-119. L’autore riconosce la creatività insita nell’interpretazione giudiziaria del diritto codificato, e parla di una creazione giudiziaria legislativa del diritto. Nonostante egli accosti la figura del giudice con quella del legislatore, riconoscendo entrambi come law-makers, ma tiene distinti i procedimenti con cui questi creano il diritto, il procedimento legislativo e il procedimento giudiziario.

 

[69] Lambert E., Il governo dei giudici e la lotta contro la legislazione sociale negli Stati Uniti. L’esperienza americana del controllo giudiziario della costituzionalità delle leggi, ed. it. a cura di D’Orazio R., Milano 1996, 7-25. Questo titolo è un calco derivante da un altro titolo, quello di un saggio di diritto costituzionale pubblicato nel 1911 Government by judiciary, il governo del potere giudiziario. Viene descritto lo sconfinamento del giudiziario nel campo della discrezionalità e viene pesata la sua incidenza sull’equilibrio politico istituzionale e sul principio della divisione dei poteri. Cfr. Casalini B., Sovranità popolare, governo della legge e governo dei giudici negli Stati Uniti d’America, in Costa P. e Zolo D. (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano 2003, 224-259. Vedi anche Timsit G., L’évaluation en science juridique: retour sur une querelle théorique à propos de la notion de gouvernement des juges, in Revue européenne des sciences sociales 138, 2007, 104: «… au lieu d’appliquer la loi, le juge l’élabore et la crée».

 

[70] Carnelutti F., Torniamo al “giudizio”, in Rivista di diritto processuale 1, 1949, 165.

 

[71] Tate G.N. e Vallinder T. (a cura di), The global expansion of judicial power, New York 1995. Vedi Zolo D., A proposito dell’”espansione globale” del potere dei giudici, in Iride 3, 1998, 445-453.

 

[72] Picardi N., La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Milano 2007, 1-5.

 

[73] Maglio G., L’idea costituzionale nel medioevo. Dalla tradizione antica al «costituzionalismo cristiano», San Pietro in Cariano 2006, 43.

 

[74] Vedi Costa P., Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano 1969, 218: «L’imperatore medievale è semplicemente il capo di una gerarchia, di un processo verticale di potere» e questo potere da lui procede e a lui tende. Fu proprio il Barbarossa ad introdurre lo Heerschildornung, clipeus militaris, una formale gerarchia feudale dove il primo clipeus (scudo), ossia il vertice gerarchico, è occupato dall’imperatore, si tratta di un ordine culminante nella figura del sovrano.

 

[75] Cfr. Benveniste É., Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, Torino 1976, 347-349. L’autore descrive la relazione tra regalità e nobiltà in ambito germanico: «Il ‘re’ è denominato grazie alla sua nascita come ‘colui che appartiene alla stirpe’, colui che la rappresenta, che ne è il capo. D’altronde ogni volta che si specifica la nascita, vuol dire che è nobile». Carlyle T., Gli eroi, Varese 1981, 272-339. La tesi di fondo dell’autore è che la regalità è una forma di eroismo.

 

[76] Cfr. Lombardi L., Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967, 238-240.

 

[77] Paradisi B., Studi sul medioevo giuridico, I, Roma 1987, 342. L’autore mette in risalto la contrapposizione tra la figura germanica del re giudice, con la figura giustinianea del sovrano legislatore.

 

[78] Wolf E., Grosse Rechtsdenkers der deutschen Geistesgeschichte, Tübingen 1963, 1-26.

 

[79] Sachsenspiegel, in Eckhardt K.A. (a cura di), Göttingen 1955, Landrecht, III, 26 §1. In questa raccolta normativa viene delineata la concezione dell'ordinamento giudiziario della Germania, al cui vertice c’è il re, che è il giudice supremo dell'Impero. Cfr. Shild W., Alte Gerichtsbarkeit. Vom Gottesurteil bis zum Beginn der modernen Rechtssprechung, München 1985, 126: «Oberster weltlicher Richter war der König, was der Sachsenspiegel ausdrücklich festhielt, sogar mit der Konsequenz, dass-wenn er zum ersten Male in ein Land kam-ihm alle noch nicht abgeurteilten Gefangenen zur Durchführung ihnes Gerichtsverfahrens vorgeführt werden mussten».

 

[80] Costa P., Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), cit., 181.

 

[81] Cortese E., Il diritto nella storia medievale. L’alto medioevo, Roma 1996, 136.

 

[82] Grossi P., Il sistema giuridico medievale e la civiltà comunale, in Zorzi A. (a cura di), La civiltà comunale italiana nella storiografia internazionale. Atti del convegno internazionale di studi, Pistoia, 9-10 aprile 2005, Firenze 2008, 6: «il Principe medievale è innanzi tutto giudice, giudice supremo del proprio popolo … L’essenza del suo potere si incarna in una iurisdictio, che è certamente sintesi di diverse potestà ma dove spicca una tipicizzante dimensione giudiziale». Cfr. Grossi P., Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano 1998, 285: «… il principe medievale identifica la sua funzione di supremo reggitore più nel rendere giustizia che nel legiferare. Quel principe è assai più il gran giustiziere del suo popolo che un legislatore … Manca il grande burattinaio, ed è irrisoria la manifestazione legislativa del diritto. Il potere non ha la presunzione di crearlo ma lascia a scienziati e operatori pratici (giudici e notai) il compito grave di estrarlo e definirlo da una profonda piattaforma consuetudinaria».

 

[83] Grossi P., Unità giuridica europea: un medioevo prossimo futuro?, in Quaderni fiorentini 31, 2002, 53.

 

[84] Sassier Y., Honor Regis Judicium diligit. L’exaltation de la fonction iudiciaire du roi (IX-XII), in L’office du juge: parte de puissance ou puissance nulle?, Paris 2001, 17-35. Vedi anche Jacob R., Le jugement de Dieu et la formation de la fonction de juger dans l’histoire europeénne, in Histoire de la justice 4, 1991, 56: «Les mutations des XIIe-XIIIe siècles engendrent, en même temps que la fin des ordalies, la formation irréversible, dans les villes et les Etats naissants, de pouvoirs judiciaires désormais capables d’imposer le respect de règles préconstituées destinées à trancher les conflits, l’ensemble de ce règles étant identifié à ce que nous appelons depuis lors droit. Or aussitôt, ces nouveaux juges apparaissent sous une double nature: organes de l’autorité au nom de laquelle ils agissent sans doute, mais aussi héritiers d’un pouvoir auparavant attribué à Dieu lui-même. L’histoire de la fonction de juger passe e Occident par un transfert de Dieu aux hommes». Cfr. Hilaire J., Le roi et nous. Procédure et genèse de l’Etat aux XIIIe et XIVe siècles, in Histoire de la justice 5, 1992, 3-18.

 

[85] Cortese E., Un personaggio in cerca di autore. La compilazione giustinianea nel medioevo, in Diritto @ Storia 3, 2004, < http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Cortese-Compilazione-giustinianea-medioevo.htm>: «quando lo studio della compilazione giustinianea ripropose all’attenzione l’immagine del princeps padre oltre che obbediente figlio delle leggi, l’opinione comune sarebbe rimasta affezionata alla biblica figura del rex-iudex, interprete della giustizia più che creatore dell’ordinamento».

 

[86] Marongiu A., Un momento tipico della monarchia medievale: il re giudice, in Jus. Rivista di scienze giuridiche 1, 1954, 403-406.

 

[87] Cfr. Olivier-Martin F., Histoire de droit français des origines à la Révolution, Paris 1951, 213-217.

 

[88] Bloch M., La società feudale, Torino 1949, 405-406.

 

[89] Grossi P., Prima lezione di diritto, Roma-Bari 2003, 44.

 

[90] L’espressione produzione della norma non deve essere equivocata, si ribadisce che si è in un contesto storico dove non è presente un soggetto legislatore, è invece presente un soggetto (rex iudex) non creatore bensì conservatore della consuetudine. Il volto sovrano ha un’espressione essenzialmente giudiziaria, il suo governare e il suo comando si traduce in un atto giudiziario.

 

[91] Citato da La Torre M., Il giudice, l’avvocato, e il concetto di diritto, Soveria Mannelli 2002, 19. L’opera citata, in originale è Staatslehre, in Id., Gesammelte Schriften, II ed., (a cura di) Müller Ch., III, Tübingen 1992, 232. Ancora in detta opera Staatslehre ma l’edizione curata da Gehart Niemeyer, Auflage Tübingen 1983, 52: «Das mittelalterliche Rechtsdenken kannte micht die Untersceidung von öffentlichen und Privatrecht, von Vertrag und Gesetz, von Recht und Gericht …».

 

[92] Benveniste É., Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, cit., 376-383. L’autore nello specificare la significazione dei lessemi misura e moderatore richiama il termine iudex «è il magistrato supremo che, oltre alla funzione di giudice, possiede autorità sulla comunità», lo iudex è il ‘capo moderatore’ che deve pronunciare la ‘misura’ giusta per la soluzione della controversia e scongiurare il ‘disordine’, foriero, di conflitti per la comunità.

 

[93] Vedi Arcari P.M., Idee e sentimenti politici dell’alto medioevo, Milano 1968, 382. L’autrice riporta la centralità del funzionamento della giustizia nel programma di governo dei re longobardi e mette in rilievo il parallelismo tra la concezione del re e quella magistrato: «il rendere giustizia in sede civile era il compito precipuo del principe, così il magistrato che non rendeva giustizia era colpevole verso Dio e verso il Re».

 

[94] Il governo feudale è di marca germanica, è figlio delle genti del nord e pertanto sconosciuto agli altri popoli. Questo è sostenuto da De Boulainvilliers H., Lettres sur les anciens Parlements de France que l’on nomme Etats Généraux, IV, London 1753, 127: «Je crois donc pouvoir terminer cette description en disant qu’encore que les philosophes grecs, et particulièrement Aristote, n’ayent aucune idée du gouvernement féodal, qu’en particulier ce dernier ne l’ait pas compris au nombre de ses catégories politiques, on peut regarder comme le chef –d’oeuvre de l’ésprit humain dans ce genre».

 

[95] Portinaro P.P., Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, Bologna 2007, 171: «Nella storia europea si è definito gotico, alludendo allo sfondamento barbarico del mondo romano, da cui l’ibridazione tra diritto romano e leggi barbariche, un sistema politico in cui la stratificazione e la pluralità conflittuale delle fonti giuridiche ha prodotto una durevole condizione d’incertezza del diritto contro la quale si sono infranti molteplici tentativi di razionalizzazione. Secondo un radicato stereotipo, quello gotico è il mondo dell’arbitrarietà di governo, e dell’irrazionalità amministrativa».

 

[96] L’espressione governo gotico è impiegata da Montesquieu quando, dopo aver asserito che gli antichi non avevano un’idea ben chiara di monarchia, ne intravede una prima forma nelle libere nazioni germaniche che prima della conquista potevano radunarsi per deliberare sul proprio governo, e successivamente alla conquista, con la territorializzazione, lo fecero per mezzo dei loro rappresentanti. Montesquieu, De l’esprit des lois, cit., chapitre VIII, 175: «Voilà l’origine du gouvernement gothique parmi nous».

 

[97] Grossi P., Alla ricerca dell’ordine giuridico medievale, in Rivista di storia del diritto italiano 67, 1994, 22. In questo saggio l’autore rimarca l’ambiguità del termine lex, il cui significato non può essere accostato alla nostra nozione di legge.

 

[98] Grossi P., L’ordine giuridico medievale, Bari 2006, 131, l’autore mette l’accento in maniera insistita sulla figura del princeps iudex e sul potere politico come iurisdictio.

 

[99] Costa P., Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), cit., 152: «‘Iurisdictio’, il potere simbolizzato sotto la specie del fare giustizia, è forse uno dei più duraturi lasciti dell’età feudale ad una età che cominciava ad essere ricca di fermenti, per certi versi, non più feudali, ma che del feudalesimo conservava caratteristiche in parte infra- in parte sovra-strutturali». La tesi del Costa è ripresa ed esplicitata da Vallejo J., Ruda equidad, ley consumada. Conception de la potestad normativa (1250-1350), Madrid 1992, 159: «El iudicial es, sin dudas el màs rilevante, iurisdictio implica potestad de iuzgar, y tal consideracion es absolutamente hegemònica en la jurisprudencia». L’autore qualifica l’opera del Costa come imprescindibile punto di partenza obbligatorio per la sua indagine, e mette in evidenza il frequente utilizzo, nel quadro storico di riferimento, del termine iudicare come sinonimo di ius dicere.

 

[100] Picardi N., Il giudice secondo l’ideologia medievale, in Rivista di diritto processuale 6, 2007, 1476-1477: «Il termine giudice stava ad indicare la suprema autorità, la stessa funzione legislativa appariva soltanto una componente complementare della funzione giudiziaria, che assumeva carattere prioritario … Il potere del giudice veniva designato come potestas, munus, imperium e, soprattutto, come giurisdizione, iurisdictio».

 

[101] Costa P., Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), cit., 180: «La funzione di iudex nel campo semantico considerato è quella di dare rilievo a iurisdictio come l’ombra di un corpo mette in risalto il corpo stesso, precisandolo, definendolo».

 

[102] Cfr. Mochi Onory S., Studi sulle origini storiche dei diritti essenziali della persona, in Rivista di storia del diritto italiano 12, 1937, 21.

 

[103] Prodi P., Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, cit., 85.

 

[104] Nel XII, le elaborazioni dottrinarie dei glossatori canonisti avranno una rilevante incidenza sulla dottrina dei glossatori civilisti, per quanto attiene alla sistemazione e definizione dei poteri spettanti al papa e all’imperatore. Per lungo tempo il diritto civile andò a rimorchio di quello canonico.

 

[105] Il giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, quando Dio gli concede di avanzare una richiesta, gli chiede «Dà dunque al tuo servo un cuore intelligente ond’egli possa amministrare la giustizia per il tuo popolo e discernere il bene dal male» (1 Re 3.9); 1 Re 3.28: «E tutto Israele udì parlare del giudizio che il re aveva pronunciato, e temettero il re perché vedevano che la sapienza di Dio era in lui per amministrare la giustizia»; 1 Re 7.7: «Poi fece il portico del trono dove amministrava la giustizia, e che si chiamò il ‘Portico del giudizio’»; 1 Re 8.32: «… agisci e giudica i tuoi servi; condanna il colpevole, facendo ricadere sul suo capo i suoi atti, e dichiara giusto l’innocente, trattandolo secondo giustizia»; 1 Re 10.9: «Sia benedetto l’Eterno, il tuo Dio, il quale t’ha gradito, mettendoti sul trono d’Israele! L’Eterno ti ha stabilito re, per far ragione e giustizia, perch’egli nutre per Israele un amore perpetuo»; 1 Cronache 18.7: «Davide regnò su tutto Israele e rese giustizia con retti giudizi a tutto il popolo».

 

[106] Vedi Paradisi B., Studi sul medioevo giuridico, I, Roma 1987, 340: «… il risalto attribuito alla iurisdictio nella definizione della sovranità ebbe una diffusione maggiore che non la legislatio. Qui forse tornavano ad emergere motivi antichi, specialmente biblici, per i quali la funzione del governante era quella di applicare una legge superiore a tutti, piuttosto che crearla». Cfr. Lupoi M., Alle radici del mondo giuridico europeo. Saggio storico-comparativo, Roma 1994, 44: «L’assunzione da parte del re di compiti di giustizia direttamente esercitati si giova di esempi biblici e plasmava uno fra i profili della sovranità altomedievale – il re quale giudice – che si manterrà ben oltre i limiti del nostro periodo storico».

 

[107] Giuliani A., Giustizia ed ordine economico, Milano 1997, 138.

 

[108] Villemin L., Pouvoir d’ordre et pouvoir de Juridiction. Histoire théologique de leur distinction, Paris 2003, 32: «iurisdictio désigne dans tous ces cas la capacité de dire le droit et de juger». Questa è la conclusione categorica cui giunge l’autore dopo aver esaminato il Decreto di Graziano. Cfr. Van de Kerchove M., La notion de juridiction dans la doctrine des décrétiste et de premiers décrétalistes de Gratien (1140) à Bernard de Bottone (1250), Assisi 1937, 34-36. Id., De notione jurisdictionis in jure romano, in Jus pontificium 16, 1936, 64: «Ius romanum enim ab ecclesia canonisatum et in legislatione Francorum conservatum, singulariter immutatum est additionibus elementorum iuris germanici et iure consuetudinario praesertim sponte sua immixto».

 

[109] Betti E., La creazione del diritto nella iurisdictio del pretore romano, Padova 1927, 67.

 

[110] Pugliese G., Istituzioni di diritto romano, Torino 1991, 64-67 e 322-326.

 

[111] Mantovani D., Praetoris partes. La iurisdictio e i suoi vincoli nel processo formulare: un percorso negli studi, in Il diritto fra scoperta e creazione. Giudici e giuristi nella storia della giustizia civile, Napoli 2003, 35-151.

 

[112] Barbati S., Studi sui ‘Iudices’ nel diritto romano tardo antico, Milano 2012, 1-62.

 

[113] Bassanelli Sommariva G., L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, Milano 1983, 115-117.

 

[114] «Quoniam quidam iudicantium post multa litis certamina et plurima litigantibus facta dispendia in negotiis apud eos motis suggestionibus utuntur ad nostram tranquillitatem, praesenti generali lege haec perspeximus emendare, ne dilationes negotiis ex hoc fiant et aliud rursus principium examinationes accipiant. Iubemus igitur nullum iudicatium quolibet modo vel tempore pro causis apud se propositis nuntiare ad nostram tranquillitatem, sed examinare perfecte causam et quod eius iustum legitimumque videtur secernere; et si quidem partes cessaverint in his quae decreta sunt, executioni contrahi sententiam secundum legum virtutem. Si autem aliquis putaverit ex prolata novissima sententia se laesum, appellatione utatur legitima, et haec secundum ordinem legibus definitium examinetur et perfectum suscipiat terminum. Si autem duo vel amplius fuerint cognitores litis, et aliqua inter eos emergat dissonantia, etiam sic iubemus unumque horum secundum quod videtur ei suam dare sententiam. Quae igitur per praesentem legem in perpetuum valituram nostra tranquillitas definivit, tam tua celsitudo quam omnes alii iudices maiores et minores custodire festinent, ut nullus penitus ignoret quae pro utilitate nostrorum collatorum a nobis disposita sunt, ita tamen ut universis interdicatis per propria praecepta, quatenus sine ullo iniusto dispendio nostris collatoribus insinuatio legis praesentis fiat».

 

[115] Bassanelli Sommariva G., L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, cit., 69-103.

 

[116] “Scienza è il distinguere”, Galileo G., Lettere, Torino 1978, 28.

 

[117] Schipani S., Il latino del diritto nella costruzione della identità dell’Europa, in Studi in onore di Remo Martini, III, Milano, 2009, 524.

 

[118] Lobrano G., La Respublica romana municipale-federativa e tribunizia: modello costituzionale attuale, in Diritto @ Storia 3, 2004 < http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Lobrano-Res-publica-Romana-modello-costituzionale-attuale.htm >.

 

[119] Lauria M., Iurisdictio, in Studi in onore di Pietro Bonfante, II, Milano 1930, 490: «… la potestas o l’imperium è un presupposto necessario, o meglio un aspetto della magistratura romana, e perciò non può aversi un magistrato privo assolutamente del potere di comandare. Ora, mentre potestas e imperium sono attribuzioni talmente inerenti alla magistratura che la circonlocuzione qui imperium potestatemve habebit è una denominazione usuale del magistrato, viceversa la iurisdictio non è mai posta in relazione con la potestas, ed è spesso contrapposta all’imperium». Cfr. Fabbrini F., «Auctoritas», «potestas» e «iurisdictio» in diritto romano, in Apollinaris commentarius instituti utriusque juris, I-II, Roma 1978, 528: «… iurisdictio esprime un potere non assoluto, bensì un diritto di comandare conferito a persona che si trova nello stesso piano dei soggetti amministrati salvo il fatto che gerisce il comando ma lo gerisce per loro e in funzione dell’ente che tutti sovrasta».

 

[120] Corre, infatti, una diversità essenziale tra le due azioni/articolazioni: la ‘azione’ di governo con l’articolazione nella lex/ generale iussum [da tutti a tutti] del popolo e nella administratio/ governo dei magistrati, e la ‘azione’ giudiziaria che si articola nella iurisdictio dei magistrati e nella iudicatio [per il ‘caso unico’] dello iudex. In queste azioni/articolazioni solo il populus è titolare della potestas (ha il massimo della potestas umana ed è l’unico ‘soggetto’ in sua potestate), i magistrati sono in potestate populi [servi del popolo] ma, con ciò, anche cum potestate populi. L’unico ‘soggetto’ totalmente senza potestas è il giudice che si caratterizza per la non potestas, l’atto dello iudicare non in-clude anzi es-clude il potere/discrezionalità.

 

[121] Vedi Lombardi L., Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit., 13: «il giudice è un privato ed è scelto da (o almeno con) l’accordo delle parti. Lo stesso oggetto della lite non può essere fissato se non dalle parti concordi nella litis contestatio; sta all’attore portare l’avversario in giudizio».

 

[122] Cfr. De los Mozos-Touya J.J., Le juge romain à l’époque classique, in La conscience du juge dans la tradition Juridique européenne, Paris 1999, 9-50, il quale osserva che il popolo romano non è il popolo dei giudici.