LA
LEZIONE DEL PASSATO E LE PROSPETTIVE PER IL FUTURO: PRIME CONSIDERAZIONI SULLA
RIFORMA MADIA
Università di Sassari
SOMMARIO: 1. “Principi e criteri direttivi”
della legge delega n. 124 del 2015. – 2. La
privatizzazione/contrattualizzazione del pubblico impiego nella rilettura
dell’articolo 97 della Costituzione. – 3. Il lascito
delle riforme degli anni ‘90: la declinazione del principio di buon andamento
nei criteri di efficienza, efficacia, economicità. – 4. Il
dirigente tra legge e contrattazione collettiva. – 5. L’ideal-tipo del dirigente nella riforma Madia.
– Abstract.
L’analisi della struttura della legge Madia nei suoi rapporti
con i contenuti deve imprescindibilmente procedere assumendo come back ground il palinsesto delle riforme
della pubblica amministrazione che si sono succedute nel tempo, al fine di
valutarne in funzione propositiva la continuità ovvero la discontinuità con
esse, così da capire la direzione delle misure correttive.
E’
indispensabile comprendere infatti, di volta in volta, se «i difetti e le
lacune» della precedente disciplina siano da ricondurre «ai limiti del
paradigma di regolazione», ovvero agli effetti distorsivi che su tale paradigma
hanno prodotto i successivi e contradditori interventi correttivi del
legislatore, spesso dettati da ragioni contingenti di carattere
politico-finanziario, «discutibili interpretazioni giurisprudenziali» e dal
ruolo di una contrattazione collettiva tendenzialmente corporativa.
Più
specificamente, in relazione al progetto riformatore degli anni ’90, è
fondamentale comprendere se «i difetti e le lacune» non siano piuttosto
riconducibili ad una sua «erronea e/o incompiuta attuazione» e «all’assenza di
una reale volontà, da parte di tutti gli attori coinvolti, di realizzare il
mutamento, anche culturale, che quel progetto presupponeva»[1].
Perché,
davvero in quegli anni, la «felice sinergia tra giuristi, sindacati,
legislatore» che, in un crescendo nel passaggio dalla prima alla seconda fase,
ha caratterizzato la privatizzazione degli anni ‘90, consentiva di coltivare la
speranza che si potesse radicare la cultura della responsabilità, come volano
di un effettivo rinnovamento dell’apparato amministrativo[2].
Ma,
nonostante gli indubbi «risultati acquisiti» da quelle riforme, questa speranza
è andata delusa a causa di una molteplicità di fattori di diverso genere[3].
Ora, con i suoi quattro Capi (Semplificazione amministrativa,
Organizzazione, Personale, Deleghe per la semplificazione), la legge n. 124 del
2015 fa propri esplicitamente molti dei principi informatori della legge n. 59
del 1997, legge delega di riforma della pubblica amministrazione e di
semplificazione amministrativa, fondamentale nella seconda fase della
privatizzazione/contrattualizzazione del pubblico impiego degli anni novanta[4]. Principi questi che, nel
passaggio dal piano dell’enunciazione al piano della attuazione, e dunque della
scelta degli strumenti, non possono non rispecchiare una dinamica diversa,
plasmata dalle vicende storico-giuridiche, e in senso lato culturali, degli
anni che intercorrono tra i due provvedimenti[5].
Già negli anni ‘90, infatti, il legislatore inscrive la riforma
della disciplina dei rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica
amministrazione nella riforma globale
dell’amministrazione pubblica, ponendo il criterio dell’efficienza al centro
del percorso per il miglioramento quali – quantitativo dei servizi erogati, che
devono essere valutati sia in relazione ai costi che al soddisfacimento dei
cittadini che di tali servizi sono i destinatari[6], abbandonando così,
definitivamente, quel concetto di Stato come soggetto puramente giuridico,
avulso dalla realtà sociale[7].
Sebbene due fossero le finalità intimamente collegate alle quali
tendeva l’estensione al lavoro pubblico delle regole, individuali e collettive,
del lavoro privato[8],
accrescere l’efficienza delle pubbliche amministrazioni e unificare la
disciplina del lavoro subordinato, l’accento era tuttavia posto sulla
definizione dello statuto normativo del rapporto di lavoro del dipendente
pubblico[9].
Sotto questo profilo, la legge Madia rende più evidente il
rapporto strumentale del «riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze
delle PP. AA.» rispetto all’obiettivo della semplificazione e della
riorganizzazione amministrativa. La legge, infatti, all’interno del Capo III,
dedicato al personale (art. 11, Dirigenza pubblica) e del Capo IV, dedicato
alla semplificazione normativa, all’art. 16, rubricato: «Procedure e criteri
comuni per l’esercizio di deleghe legislative di semplificazione», pone al
primo posto tra i settori oggetto della semplificazione il «lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di organizzazione
amministrativa». All’art. 17 prevede, poi, deleghe per il riordino della
disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche,
focalizzando l’obiettivo nell’individuazione e nella ridefinizione dei principi
e criteri, ma anche di strumenti nuovi, che possano soddisfare le esigenze dei
cittadini e delle imprese attraverso il corretto esercizio dell’azione
amministrativa e dando ormai per acquisita l’omogeneizzazione dei rapporti di
lavoro nei settori pubblico e privato.
La legge si muove lungo le direttrici dell’unitarietà e della
flessibilità. L’unitarietà è particolarmente evidente nella previsione di un
testo unico (art. 16, II c. lett. a) di riordino della disciplina del «lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di
organizzazione amministrativa» (artt. 16, I c., lett. a); nella previsione di
un ruolo unico (art. 11, I c. lett. b) all’interno di un istituendo «sistema
della dirigenza pubblica, articolato in ruoli unificati e coordinati (…)» (art.
11, I c. lett. a); e ancora di un concorso unico per la dirigenza (art. 11, I
c. lett. c). Strumenti questi concepiti per superare, senza intaccarne
l’autonomia, la separatezza tra le diverse amministrazioni e sollecitare tra di
esse un processo di “osmosi” anche ai diversi livelli territoriali, al fine
ultimo di ottenere che «le amministrazioni si presentino al cittadino con una
voce sola, coerente nel tempo»[10].
La flessibilità, invece, connaturata al concetto di
semplificazione permea per ciò stesso l’intero Capo I, soprattutto nelle norme
sulla digitalizzazione dei procedimenti amministrativi[11], in ragione dell’insita
esigenza di continuo adeguamento che impone il progresso tecnologico. Più
specificamente la flessibilità caratterizza la disciplina relativa alla
gestione degli organici (v. ad es. art. 17 I c., lett. q), alle assunzioni
(art. 17, I c., lett. p), alla valutazione del personale (art. 17, I c., lett.
r), all’esercizio del potere disciplinare (art. 17, I c., lett. s), alla
valorizzazione e alla regolamentazione dell’utilizzo del lavoro, flessibile
appunto, anche «al fine di prevenire il precariato» e purché compatibile «con
la peculiarità del rapporto di lavoro (…) e con le esigenze organizzative e
funzionali» delle pubbliche amministrazioni (art. art. 17, I c., lett. o)[12].
Particolarmente significativa in relazione all’obiettivo della
flessibilità è la norma che, facendo propri principi e criteri, in verità da tempo
consolidati nel nostro ordinamento[13], ribadisce l’esigenza
della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (art. 14, I c.) la quale, in
ossequio al principio personalistico che informa la nostra Carta
costituzionale, indica, tra gli altri, lo strumento della «sperimentazione,
anche al fine di tutelare le cure parentali, di nuove modalità spazio-temporali
di svolgimento della prestazione lavorativa» (telelavoro, orario flessibile)[14].
E, la ferma volontà del legislatore di rendere effettiva
l’adozione di tali misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi si
evince dalla previsione della loro rilevanza per la «valutazione nell’ambito
dei percorsi di misurazione della performance
organizzativa e individuale»[15].
«Trasversale all’intera riforma», è stato efficacemente detto, è
invece la tensione alla semplificazione normativa[16], come provano i ben
quaranta richiami ad essa[17].
Semplificazione nei fatti negata, ad esempio, dalla
farraginosità del procedimento amministrativo relativo alla tutela di interessi
“sensibili” (ambientali, paesaggistico – territoriali o relativi al patrimonio
storico – artistico, alla salute e alla pubblica incolumità) che viene, ora,
corretta con la riduzione del regime di specialità del quale godevano le
amministrazioni deputate alla cura di tali interessi[18].
La ratio della legge,
espressa del resto nello stesso titolo, così come era nella legge 59 del 1997,
è infatti la riorganizzazione e la semplificazione amministrativa quali
presupposti indefettibili per l’effettivo godimento dei diritti civili e
sociali da parte dei cittadini, con una evidente attenzione, come si è detto,
al cittadino-persona; attenzione che emerge, altresì, nella previsione di
disposizioni tese a «garantire un’efficace integrazione nell’ambiente di lavoro
delle persone con disabilità» (art. 17, c. I, lett. n).
Se dunque, rispetto ai provvedimenti degli anni novanta e sotto
questo profilo, la legge delega, anche per «l’ampiezza dell’intervento»[19], si pone in linea di
continuità, certamente essa si discosta dall’ultimo provvedimento organico in
materia: la riforma Brunetta del 2009 (l. n. 15/2009, d. lgs. n. 150/2009).
Riforma questa preceduta da interventi legislativi frammentati,
asistematici e spesso contradditori, tesi all’ambizioso obiettivo di imprimere
una decisiva svolta alla disciplina del lavoro pubblico[20] e che, complessivamente
considerati, mantengono la finalità di promuovere l’efficienza delle
amministrazioni per ottimizzare la qualità dei servizi offerti ai cittadini, in
un quadro di contenimento della spesa pubblica, anche e soprattutto, a causa
della pressione degli organi di controllo della Comunità europea.
Ciò è evidente anche dalla lettura dei due importanti documenti
che aprono la strada nel 2008 all’emanazione della legge delega n. 15 e del decreto
attuativo n. 150 del 2009: il primo documento intitolato “Linee programmatiche
sulla riforma della pubblica amministrazione. Piano industriale”, il secondo
“Riforma del lavoro pubblico e della contrattazione collettiva”.
Nel primo, in estrema sintesi, l’indicazione per la
“modernizzazione” della pubblica amministrazione prende in considerazione
«quattro nodi fondamentali: il capitale umano; il vantaggio retributivo e
normativo vis-à-vis del settore
privato; il basso tasso di produttività e di efficienza; il difetto della
“figura del datore di lavoro”, che dovrebbe rispondere, come nel privato con il
fallimento, nel pubblico “in termini politico-amministrativi”».
Il secondo documento comprende una “Base giuridica”, un
riepilogo cioè della disciplina normativa vigente, probabilmente, come ha
sottolineato un’attenta dottrina, per mantenere e mettere in risalto «una sorta
di continuità tra il “vecchio” e il “nuovo” in
itinere», che comunque fa propria «un’interpretazione riduttiva del lascito
della privatizzazione»[21], quando addiritura non la
nega.
In questi documenti si coglie, comunque, la volontà del
legislatore di condurre ad una svolta economicistica attraverso la quale «la governance della pubblica
amministrazione, così come dell’Italia, va conformata a quella di un’“azienda”»[22].
Il legislatore del 2015 inverte la rota abbandonando il
linguaggio e l’approccio aziendalistico e recupera, come si è detto, molti dei
principi ispiratori delle riforme degli anni ’90, facendo proprio l’impegno ad
applicare, in riferimento alla sola amministrazione centrale, «i principi e i
criteri direttivi di cui agli articoli 11, 12 e 14 della legge 15 marzo 1997,
n. 59, e successive modificazioni» (art. 8, c.1, lett. c, l. n. 124/2015)[23].
Principi e criteri che costituiscono l’approdo dell’intensa e
vivace elaborazione dottrinale e giurisprudenziale di quel periodo nel più
ampio contesto della riforma dello Stato in senso federalista che, peraltro,
non sembra aver raggiunto il suo scopo.
Aiuta, pertanto, a comprendere la ratio legis dell’attuale riforma e gli strumenti prescelti per
l’innovazione dei plessi normativi, uno sguardo retrospettivo ai numerosi e
incalzanti interventi del legislatore degli anni novanta; anni che si aprono
con l’emanazione di due fondamentali provvedimenti: la l. n. 142 del 1990
sull’ordinamento delle autonomie locali e la 241 del medesimo anno che detta
norme in materia di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai
documenti amministrativi.
Provvedimento quest’ultimo, non a caso inciso direttamente dalla
legge Madia, che riveste una particolare importanza in quanto ha anticipato
l’enunciazione del principio giusta il quale l’attività amministrativa «è
retta» dai criteri di economicità, efficienza, imparzialità, pubblicità,
trasparenza che costituirà il leit motiv
anche dei successivi interventi di privatizzazione del pubblico impiego[24].
Una serrata successione di leggi delega e decreti attuativi che
si suole distinguere in due fasi: la prima riconducibile alla legge delega n.
421 del 1992 (art. 2, c. I) e ai suoi decreti attuativi, tra i quali il decreto
n. 29 del 1993 che costituisce il testo base del processo di privatizzazione;
la seconda riconducibile alla legge delega n. 59 del 1997, per la riforma della
pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa, e, ancora, la
legge n. 127 del 1997, che detta misure urgenti per lo snellimento
dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo[25].
La seconda fase del processo di privatizzazione degli anni ’90 va
ricondotta ad un disegno complessivo di riforma della pubblica amministrazione
intesa in senso olistico, che trova la sua espressione più saliente nella nuova
ripartizione per materie della competenza legislativa tra Stato e Regioni,
delineata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. Oggi di nuovo al vaglio del
legislatore in direzione, per così dire, inversa[26].
Quella riforma, come ha osservato Franco Bassanini, aveva
infatti ridisegnato in maniera completa la struttura del Governo; i ministeri
erano stati riaggregati e riaccorpati nella previsione di «missioni omogenee»,
differenziando i modelli organizzativi con la scelta, ad esempio, delle agenzie
e delle Unità territoriali di governo. Vero è che, così come il «federalismo
incompiuto» ha prodotto «sovrapposizioni e conflitti di competenze tra Stato,
Regioni e enti locali, sprechi di risorse, esasperato contenzioso», lo
“spacchettamento” dei ministeri, dal 2001 in poi, ha generato effetti simili
all’interno delle amministrazioni statali.
Il piano di rinnovamento dell’amministrazione si è dunque
fermato, ma non solo, ha compiuto un percorso a ritroso col ritorno «alla
cultura dell’iperregolazione» per ciò che la responsabilità, il merito, la
valutazione della performance si sono
affermate come eccezione, solo in alcune aree di élite, mentre hanno preso
piede le pratiche di spoyl sistem, di
distribuzione a pioggia degli incentivi; sono lievitati notevolmente i costi
della politica, le resistenze della cultura burocratica, il conservatorismo
degli organi di controllo contabile; e, a completare il disastroso quadro
descritto, si aggiunge l’incapacità del ceto politico «di pensare le politiche
pubbliche in termini di strategie, obiettivi e risultati quantificabili e
misurabili»[27].
A distanza di quasi venti anni il legislatore deve intervenire a
dare applicazione a quei principi e criteri rimasti sulla carta[28], o male interpretati, che
subiscono ovviamente un processo di trasformazione che li rende declinabili, in
termini attuali, per rispondere alle immutate esigenze di efficacia efficienza,
economicità, ai quali si devono ormai giustapporre l’etica e l’equità, senza
alcuna ambizione di sovvertire il precedente sistema normativo, ma nella più
ragionevole prospettiva di correggerne i difetti ridefinendo la disciplina di
interi istituti.
E solo per fare un esempio, scorrendo la legge delega del 2015
si rinvengono le medesime finalità già espresse nell’articolo 11, I c., della
legge n. 59/1997: la razionalizzazione dell’ «ordinamento della Presidenza del
Consiglio dei ministri e dei Ministeri, anche attraverso il riordino, la
soppressione e la fusione di Ministeri, nonché di amministrazioni centrali
anche ad ordinamento autonomo»; il riordino degli enti pubblici nazionali
operanti in settori diversi dalla assistenza e previdenza, delle istituzioni di
diritto privato e delle società per azioni controllate direttamente o
indirettamente dallo Stato, che operano, anche all’estero, nella promozione e
nel sostegno pubblico al sistema produttivo nazionale; il riordino e il potenziamento
dei meccanismi e degli strumenti di monitoraggio e di valutazione dei costi,
dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni
pubbliche; e, ancora, il riordino e la razionalizzazione degli interventi
diretti a promuovere e sostenere il settore della ricerca scientifica e
tecnologica nonché degli organismi operanti nel settore stesso.
E’, dunque, non solo corretto ma doveroso, assumere come start dell’analisi quella «tumultuosa ma
appassionante stagione di riforme» degli anni ’90 nella quale lo sviluppo del
processo di innovazione del sistema amministrativo nel nostro ordinamento,
rivolto anche al sistema istituzionale, almeno «nei suoi rami bassi», appariva,
nonostante «incertezze e contraddizioni, avviato in modo irreversibile»[29].
Il modello da allora fatto proprio dal legislatore è quello di
una pubblica amministrazione che non sovrasta il cittadino, ma è «sempre più
orientata alla produzione di servizi e, sempre più in rapporto dinamico con il
suo ambiente, tende a sviluppare il principio di legalità secondo canoni di
effettività della norma, accompagnandolo cioè con un principio di economicità
di gestione (…)»[30].
Con specifico riferimento alla disciplina del pubblico impiego,
visto come strumento fondamentale per la realizzazione degli obiettivi
prefissati, il legislatore tende ad abbandonare il preesistente sistema
pan-pubblicistico per orientarsi verso un sistema di carattere negoziale, di
livello sia individuale che collettivo, nel quale il rapporto tra le parti,
datore di lavoro pubblico e pubblici dipendenti, è sì di confronto tra le
diverse esigenze, ma necessariamente condizionato dall’obiettivo finale: la
garanzia dell’interesse generale[31].
In questa lunga stagione alla “privatizzazione”, declinata come
affrancamento dei poteri datoriali dai vincoli di apparato, appunto, si
affianca la “contrattualizzazione”, intesa come riconduzione della disciplina
dei rapporti di lavoro alla fonte contrattuale individuale e collettiva.
“Contrattualizzazione” che si delinea con sempre maggior
nitidezza nella stagione della “seconda privatizzazione” e che si inscrive nel
più ampio disegno teso a estendere la regolazione dell’organizzazione del
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ai diversi livelli
territoriali, innestando «nel corpo di un poderoso decentramento amministrativo
anche il completamento della riforma del lavoro pubblico avviato forse con
troppa gradualità nel 1992-1993»[32].
Del lento e travagliato divenire del processo di
privatizzazione/contrattualizzazione, l’esito fondamentale è stato quello di
erodere alla base i presupposti del pubblico impiego come ordinamento pubblicistico
speciale e di far emergere il maggior rilievo del principio di responsabilità,
basato su obiettivi e risultati, rispetto al principio di legalità, ingessato
dall’osservanza di regole e procedure precostituite[33].
Principio di legalità che veniva prima interpretato, secondo una
lettura “tralatizia” dell’art. 97 Cost., come «riserva di regime pubblicistico
– in riferimento alla – attività organizzativa globalmente considerata»,
all’interno della quale non si dava spazio alla distinzione tra il «potere
organizzativo (incidente sui dipendenti) – e – la potestà pubblica (incidente
sui privati)»[34].
Nella nuova visione non viene certo negato quel peculiare tratto
di specialità che caratterizza il rapporto di impiego pubblico, ma esso non è
più considerato «corollario necessario – della – specialità del datore di
lavoro»[35].
Specialità che si giustifica, invece, «nella nuova capacità (in
ragione della elasticità acquisita a seguito dell’assimilazione al diritto
comune) di adattamento e contemperamento con il momento pubblicistico
dell’organizzazione, per conferire all’intero apparato, reso più duttile e
snello nelle sue strutture, un nuovo assetto complessivo in grado di realizzare
gli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza [36].
E, proprio l’esigenza di raggiungere tali obiettivi ha
sollecitato la rilettura dell’art. 97 Cost. che ha consentito di «abbandonare
il tradizionale statuto integralmente pubblicistico del pubblico impiego»[37] e, pur lasciando
impregiudicato il canone dell’imparzialità, ha esaltato il significato
valoriale dei criteri dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità, come
declinazione del principio del buon andamento.
Resta fermo che i principi del buon andamento e
dell’imparzialità benché non comportino, come vincolo costituzionale, che tutti
gli atti di organizzazione degli apparati pubblici debbano essere atti
amministrativi, tuttavia «vincolano gli assetti organizzativi di tutti gli
apparati pubblici, indipendentemente dalla loro forma giuridica»[38].
Il regime pubblico e il regime privato non costituiscono,
infatti, «valori in sé, da garantire in quanto tali»; essi sono solo uno
strumento di garanzia dei principi di imparzialità e buon andamento e, dunque,
«legittimi nella misura in cui si rivelino coerenti e funzionali al
raggiungimento degli obiettivi costituzionali»[39].
All’esito della privatizzazione degli anni ’90, i diversi
interventi legislativi confluiscono nel c.d. testo unico, il d. lgs. n. 165/2001,
nel quale i reciproci spazi tra il regime pubblicistico e quello privatistico
all’interno della complessiva organizzazione delle pubbliche amministrazioni
sono poi quelli esplicitamente delimitati dalle norme degli articoli 2, I c., e
5, II c., del d. lgs. n. 165/2001 che riconducono al primo la c.d. macro-organizzazione, intesa come la definizione «secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi,
mediante atti organizzativi secondo
i rispettivi ordinamenti, – delle – linee
fondamentali di organizzazione
degli uffici (…)»[40]), e al secondo la
c.d. micro-organizzazione, intesa
come «le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro assunte
– queste – in via esclusiva dagli organi
preposti alla gestione
con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro
(…)»[41].
Sotto il profilo della titolarità del potere di
autorganizzazione, è stata opportunamente sottolineata l’importanza dell’«ambito
nel quale esso viene esercitato»: la si deve attribuire agli organi di governo,
in una con l’adozione degli atti di indirizzo politico, nelle materie indicate
dal primo comma dell’art. 2 del d. lgs. n. 165/2001; si deve invece attribuire
ai dirigenti quando riguardi «le determinazioni per l’organizzazione degli
uffici», ai sensi dell’art. 5 – secondo comma[42].
E’ certo, comunque, che diventa condizione imprescindibile che
«il sistema organizzativo e i meccanismi giuridici (…) – consentano – di
escludere sul piano giuridico le (…) differenze strutturali fra imprese e
amministrazione, assicurando al contempo il soddisfacimento delle ineludibili
esigenze proprie di un apparato organizzativo pubblico»[43].
Al legislatore spetta la scelta degli strumenti e delle misure
che le amministrazioni pubbliche devono utilizzare per perseguire l’interesse
della collettività e, soprattutto, stabilirne il giusto dosaggio; ne
costituisce un esempio, il riconoscimento della «generale possibilità di
utilizzare, da parte delle amministrazioni e dei soggetti a queste equiparati,
strumenti di diritto privato, salvo che nelle materie o nelle fattispecie nelle
quali l’interesse pubblico non può essere perseguito senza l’esercizio di
poteri autoritativi» (art. 20, comma 4, lett. f-bis), l. n. 59/1997, introdotto dalla l. n. 246 del 2005)[44].
L’essenziale questione da affrontare e da risolvere è stata,
dunque, quella «del contemperamento del principio di legalità
dell’organizzazione e dell’azione amministrativa con quello, di pari dignità,
del buon andamento e di imparzialità, decodificato dalla legislazione degli
anni ’90 (in particolare dalla legge n. 241 del ’90) in quelli di efficienza,
efficacia, economicità e trasparenza»[45].
E una visione diacronica consente di affermare che, se il principio
di legalità ha comunque mantenuto costantemente la sua funzione di presidio
alla tenuta del sistema, godendo di una considerazione più attenta da parte
degli interpreti[46],
il significato del “buon andamento” ha conosciuto, nel corso dei decenni post-costituzionali,
una profonda e significativa evoluzione che ha affaticato notevolmente la
dottrina e la stessa giurisprudenza costituzionale per emergere, infine, come
principio informatore negli interventi degli anni ’90.
Nella percezione più immediata il principio del buon andamento
potrebbe coincidere con quello di buona amministrazione, trasformandosi così
nell’obiettivo finale al quale deve tendere l’organizzazione e l’attività
dell’amministrazione nel suo complesso.
Sorvolando sulla densità dei problemi che pone l’elaborazione
del concetto di buona amministrazione[47], non soltanto nella
dimensione nazionale ma anche nel suo rapporto con i principi di matrice
comunitaria, secondo un’autorevole dottrina, l’essenza del principio di buon
andamento nel suo significato attuale si traduce «nella “attenzione al
risultato”: la funzione amministrativa non si esaurisce nell’adozione di
provvedimenti ma deve raggiungere risultati concreti; e deve pertanto
organizzarsi ed operare in modo tale da poter raggiungere risultati sul piano
effettuale nel modo più celere e meno dispendioso possibile»[48].
Sollecitazione raccolta, giusto per fare un esempio, dal
legislatore della l. n. 124/2015 che, con l’art. 3 del Capo I, “Semplificazioni
amministrative”, introduce nella l. n. 241/1990 l’art. 17bis, rubricato «Silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e
tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici», riducendo
i termini entro i quali le amministrazioni devono dare l’assenso.
Per quanto attiene, poi, il rapporto tra il principio del buon
andamento e quello dell’imparzialità, spesso considerati come endiadi, è stato
il primo «a soffrire maggiormente della sua apparente lontananza da una soglia
generalmente percepita di spessore giuridico e comunque povera di contenuto
precettivo acclarato»[49].
La diversità tra i due principi è stata individuata, nei suoi
termini generali all’interno della formula contenuta nell’art. 97 Cost., nel
fatto che mentre il buon andamento, inizialmente, è stato considerato applicabile
all’amministrazione, a prescindere dalla considerazione di “conseguenze
vantaggiose” nei confronti della collettività, il principio di imparzialità,
invece, è stato considerato sia dal punto di vista dell’attività
amministrativa, e solo in via mediata in riferimento all’organizzazione, sia
dal punto di vista della sua “utilità” nei confronti dei cittadini[50].
La sua amplissima portata applicativa investe, infatti,
l’attività amministrativa nel suo complesso sia quella gestoria, anche non
autoritativa, che quella organizzativa; la sola quest’ultima alla quale fa
esplicito riferimento l’art. 97 della Costituzione.
Entrambi i principi, comunque, nella loro decodificazione come
criteri legali di efficienza, efficacia, economicità, trasparenza e
responsabilità sono stati assunti quali «principi legali di guida e di
indirizzo di ogni scelta amministrativa (…)»[51].
Non è un caso che il legislatore nella legge n. 241 assegni alla
norma di apertura il «ruolo di esposizione (di alcuni) dei corollari – di tali
principi – , rendendo manifesto il loro contenuto sostanziale»[52]. Nella norma si delinea
un rapporto tra i principi di buon andamento e di imparzialità come “entità”
non “separate”, ma da vagliare contestualmente in ogni ambito, non in termini
di reciproca indifferenza ma in termini “differenziabili” soprattutto per il
loro “grado di influenza”[53]. Prospettiva
evidentemente fatta propria dal legislatore del 2015, che incide alcune
disposizioni della legge per approntare strumenti più efficaci.
Ed è ancora da ascrivere alla l. n. 241 il merito di aver
attuato complessivamente il principio costituzionale relativo alle
attribuzioni, alle competenze e alle responsabilità dei funzionari che prestano
la loro attività lavorativa negli uffici, contenuto nel secondo comma dell’art.
97 della Costituzione[54].
Si è detto che la legge delega n. 124 respinge l’approccio e il
linguaggio spiccatamente aziendalistici, propri della riforma Brunetta; si può
altresì dire che sembra, invece, condividere la declinazione del principio
costituzionale del buon andamento secondo i criteri di efficienza, efficacia ed
economicità, perno degli interventi del legislatore e oggetto di una attenta
riflessione della dottrina a partire dagli anni ’90.
Efficienza, efficacia, economicità sono, dunque, una delle
«manifestazioni dal punto di vista contenutistico del principio di buon
andamento, (…) legittimato ad operare su di un piano giuridico di parità e di coordinazione con il principio di imparzialità». Si pone, pertanto,
il problema di saggiare non solo la loro utilità nel concreto svolgimento
dell’azione delle pubbliche amministrazioni ma anche la loro rilevanza in
relazione al sindacato giudiziale sull’agire delle stesse e sull’ampiezza di
tale sindacato[55].
E la legge Madia sembra avere tra i suoi obiettivi quello di
rispondere a questo problema ancora aperto, e che qui si può solo accennare[56], laddove prevede tra i
punti qualificanti della riforma la riduzione del regime di specialità
riservato ai c. d. interessi sensibili, il rafforzamento dei poteri
dell’amministrazione procedente e l’individuazione specifica di una disciplina
per ogni istituto di semplificazione.
I tre criteri, infatti, ora come allora, permettono, per
l’insita ampiezza dei contenuti, di comprendere tutti gli aspetti dell’agire
della pubblica amministrazione, delineando «una tavola di valori, suscettibile di
ulteriore sviluppo, idonea ad orientare l’attività dei poteri pubblici verso un
atteggiamento di comprensione e rispetto delle ragioni dei privati (…), nonché
verso comportamenti ispirati a lealtà ed a spirito di collaborazione con i
cittadini (…)»[57].
Lo si evince chiaramente dalla norma dell’articolo 1 del d.lgs.
n.165/2001, rubricato “Finalità e ambito di applicazione” che, al comma 1,
lettera a), indica la finalità di «accrescere l’efficienza delle
amministrazioni» e alla lettera c) quella, di «realizzare la migliore
utilizzazione delle risorse umane (…)», attraverso gli strumenti della
formazione e dello sviluppo professionale, «applicando condizioni uniformi
rispetto a quelle del lavoro privato»[58].
E’ il criterio di efficienza che, così come quelli di efficacia
e di economicità, informa l’agire dell’attività amministrativa in quanto
declinazione del principio costituzionale di buon andamento e rimanda ai
concetti e alle regole che, sul diverso piano dell’organizzazione aziendale, ne
costituiscono le fondamenta[59].
Ne è
conferma anche una puntuale e sistematica interpretazione delle disposizioni
contenute nei primi due commi dell’art. 2 del d. lgs. n. 165 del 2001;
disposizioni sulle quali riposa la doverosità
del rispetto del criterio dell’economicità anche nell’organizzazione di lavoro
pubblica; su un piano strettamente giuridico, dunque, e non in virtù di un
richiamo enfaticamente reiterato alle esigenze aziendalistiche.
Ai
sensi del primo comma della norma citata, infatti, le amministrazioni pubbliche
«ispirano la loro organizzazione» ad una serie di criteri, primo tra i quali la
«funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi di attività, nel perseguimento
degli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità (lett. a).
Di
diverso tenore, ma senz’altro tesa a confermare la centralità del criterio, la
norma del secondo comma pone come fonti di disciplina del rapporto di lavoro
pubblico, le «disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile
e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa», richiamando
implicitamente l’economicità quale tratto caratterizzante l’attività
organizzata delle pubbliche amministrazioni così come quella dell’imprenditore ex art. 2082 c.c.
Dati
testuali quelli esaminati che, tuttavia, come è stato efficacemente rilevato,
pongono il problema preliminare di saggiare la eventuale coincidenza del
«significato giuridico» di tale criterio nell’organizzazione dell’attività
pubblica e di quella privata; «del suo significato giuridico, non del suo
significato “desiderabile”, né tantomeno di quello affermatosi sul piano della
pratica»[60].
Ma,
per rimanere sul piano dell’interpretazione sistematica è importante
sottolineare, che ancor prima degli interventi legislativi sulla
privatizzazione, il criterio, come si è detto, era stato posto come fulcro
dell’attività amministrativa dalla legge sul procedimento amministrativo, la n.
241 del 1990.
All’articolo
1, infatti, il legislatore dispone che l’attività amministrativa deve essere
supportata, tra gli altri, anche dal criterio dell’economicità che, secondo
certa dottrina in questa accezione, è il portato dei principi costituzionali di
imparzialità e di buon andamento, traducendosi nell’obbligo per
l’amministrazione di utilizzare le risorse affidategli in modo diligente e
accurato[61].
E’ a
partire da quegli anni che si delinea, in concomitanza col processo di
privatizzazione, il concetto e il principio di qualità dell’azione
amministrativa, sintesi dei criteri dell’economicità, dell’efficacia e
dell’efficienza[62].
Un
ulteriore svolgimento del criterio/principio di economicità al quale deve
essere informata l’organizzazione della pubblica amministrazione, in virtù del
richiamo contenuto nel comma 2 dell’art. 2 del d. lgs. n. 165, è quello di
«equilibrio economico», proprio dell’impresa, nella ratio del processo di riforma del pubblico impiego enfatizzato
dalla Riforma Brunetta.
E,
per quanto attiene il profilo giuslavoristico, la norma, come si è detto,
richiama le disposizioni del capo I, titolo II del libro V del codice civile e
le leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, non solo, dunque, le
norme sui rapporti di lavoro ma anche la disciplina dell’impresa in generale,
che si apre con l’articolo 2082 c.c. che, definendo la figura
dell’imprenditore, pone come fondamentale il requisito dell’economicità.
Si
può allora concordare con l’affermazione che il criterio dell’economicità
«nella sua accezione imprenditoriale» contraddistingue non soltanto le imprese
pubbliche, in riferimento alle quali esso non è mai stato posto in dubbio[63], ma anche gli apparati
che svolgono l’attività amministrativa in senso tecnico e funge, altresì, da
parametro di valutazione interna dell’intera organizzazione amministrativa,
secondo quanto stabilito dall’articolo 1 della legge n. 286 del 1999, per ciò
che esso caratterizza anche amministrazioni che tradizionalmente sono definite
“non economiche”, quali l’istruzione e la sanità[64].
In quest’ambito l’economicità e l’efficacia vengono valutate in
relazione «alla questione fondamentale dell’uso delle risorse disponibili,
presuntivamente scarse, nelle attività umane e in particolare nelle attività
d’impresa, al fine di verificarne le modalità massimamente convenienti di
impiego, e quindi confluiscono nella nozione di efficienza produttiva di un sistema
aziendale»[65].
I tre criteri si perfezionano vicendevolmente quando
circoscrivono le relazioni tra gli obiettivi che vengono fissati e quelli che
si vogliono raggiungere, i risultati che si auspicano e quelli raggiunti, le
risorse, sia umane che materiali e finanziarie, che erano a disposizione e sono
state utilizzate; ciascuno di essi informa in maniera particolare le “modalità
relazionali” prescelte e perciò devono essere valutati singolarmente, anche se
poi convergono nella valutazione finale dell’ «adeguatezza rispetto alla
finalità della massimizzazione della convenienza economico-aziendale», e, nel
caso dell’azione amministrativa nella «verifica dei suoi costi, rendimenti e
risultati»[66].
L’integrazione dei criteri, in altri termini, deve garantire «l’adeguatezza
e correttezza sostanziale dell’azione (nel nostro caso amministrativa) valutata
ex ante mediante una analisi
costi-benefici della decisione che alla azione stessa è sottesa e valutata ex post mediante la misurazione delle
risorse utilizzate e dei risultati conseguiti a confronto degli obiettivi
stabiliti»[67].
Ed è importante sottolineare che solo in relazione ai singoli
contesti dell’agire amministrativo si può valutare il quantum di adeguatezza e correttezza nell’operato dei soggetti
deputati ad applicare le disposizioni emanazione della volontà politica.
Disposizioni che possono riguardare l’organizzazione in quanto tale o la
gestione delle risorse umane; disposizioni che possono attribuire un diverso
margine di discrezionalità a seconda del loro carattere (imperativo,
dispositivo, etc.), sul quale si dovrà poi misurare il grado di responsabilità
per il mancato raggiungimento degli obiettivi ricorrendo, ove il caso, anche al
canone civilistico del comportamento secondo correttezza e buona fede.
Allora se, nel settore privato, è il buon funzionamento
dell’organizzazione produttiva a garantire il soddisfacimento delle sue
variabili esigenze, si può correttamente ritenere che, nel settore pubblico, il
buon andamento possa diventare l’architrave sul quale l’organizzazione delle
amministrazioni dovrebbe poggiare per rispondere alle esigenze dei cittadini in
termini di efficienza, efficacia ed economicità.
Criteri questi il cui significato non deve essere certo ridotto
a quella valenza meramente “quantitativa” impressa loro dalla «matrice
economico aziendalistica», ma dovrà essere arricchito, secondo una logica «di
(ri-)composizione più che di complementarietà», dal «criterio della “buona”
qualità dell’azione amministrativa, intesa nella complessità del suo
svolgimento in vista di un determinato obiettivo o con riferimento alle
prestazioni in cui si articola, che è evidentemente anch’esso svolgimento del
principio di buon andamento»[68].
Recepirà queste indicazioni il legislatore delegato del 2015?
Non si può, certo, negare la difficoltà del compito legata alla
complessità dell’espressione organizzazione amministrativa che compendia una
pluralità di significati: dalla struttura organizzativa, che ne esprime il
profilo statico, quello maggiormente considerato dagli interpreti, all’attività
organizzativa che ne esprime il profilo dinamico. L’attività organizzativa, a
sua volta, comprende sia l’organizzazione degli uffici che l’organizzazione
delle risorse[69],
delle quali le risorse umane rappresentano l’hard core.
Se dunque concettualmente è possibile individuare tutti gli
elementi che concorrono all’agire amministrativo, notevole è, nella pratica, la
difficoltà di stabilire un sicuro confine nelle aree indicate. Diventa
indispensabile, a questo punto, l’adozione della prospettiva giuslavoristica.
Di fronte a questa difficoltà, infatti, il legislatore degli anni ’90 ha
adottato una soluzione almeno concettualmente adeguata: quella di assoggettare
al regime privatistico la c.d. micro-organizzazione, riservando al regime
pubblicistico la c.d. macro-organizzazione[70]; relativa questa ai
principi generali che informano la distribuzione delle funzioni e l’operatività
degli uffici pubblici aventi rilevanza esterna, e perciò affidata alle
disposizioni di legge, di altri atti normativi e di provvedimenti
amministrativi[71].
Sul piano pratico, tuttavia, resta aperto il problema della
sovrapposizione dei due regimi in quella che è stata definita la «zona grigia
che penetra nell’organizzazione di lavoro», giacché nel modello prescelto resta
mobile il confine tra le due aree (cfr. art.2, I c., e art.5, II c., del d.
lgs. n. 165/2001) [72].
Alla difficoltà di delineare la distinzione tra le due aree, si
aggiunge quella di distinguere, all’interno delle c.d. micro-organizzazione, gli
atti di organizzazione degli uffici e dagli atti di gestione dei rapporti di
lavoro, «perché organizzazione e gestione sono tra loro, in gran parte,
indissolubilmente legate e spesso sovrapposte»[73].
Anzi, da questo punto di vista, emerge l’evidente analogia della
struttura del potere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni e nelle
imprese; «organizzazione dell’apparato (amministrativo o aziendale),
organizzazione del lavoro, disciplina collettiva del lavoro, gestione
individuale dei rapporti di lavoro» sono, infatti, le componenti comuni del
potere organizzativo. Componenti che «tra loro concettualmente distinguibili»
sono «strettamente connesse sul piano logico operativo» in quanto tese, tutte,
al raggiungimento dello «scopo unitario» dell’organizzazione[74].
A questo fine si rende indispensabile il coordinamento delle prestazioni
lavorative, singolarmente considerate e nel loro complesso, che si
sostanzia nelle «determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro (…)»
che, a mente del primo periodo del secondo comma dell’art. 5 del d. lgs. n.
165/2001, come si è detto, devono essere «assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore
di lavoro»[75].
Tali poteri si configurano quale
strumento nelle mani del dirigente-datore di lavoro per soddisfare un interesse
che non è «esterno e generale», ma «interno ed egoistico (l’interesse
organizzativo del soggetto datoriale)». Interesse che nessun altro può
«interpretare e specificare» se non il titolare, gravato, per ciò stesso, della
responsabilità per le eventuali conseguenze negative dell’esercizio di quei
poteri[76].
Proprio nella figura del dirigente pubblico affiora con estrema
chiarezza «lo stretto legame tra i temi dell’organizzazione amministrativa e
dell’organizzazione e gestione del lavoro»; il dirigente è al contempo datore
di lavoro nei confronti degli altri dipendenti e prestatore di lavoro,
autorizzato, perciò ad esercitare sia i poteri privatistici nella gestione
dell’organizzazione di lavoro che quelli pubblicistici nell’esercizio
dell’attività amministrativa[77].
Al dirigente, allora, è affidata la funzione di tradurre «in
autonomi obiettivi dell’organizzazione», alla quale è preposto, gli «obiettivi
finali» dell’amministrazione definiti dall’organo politico, in vista del soddisfacimento dell’interesse generale del quale
quest’ultimo è portatore[78].
In capo al dirigente vengono, dunque, riconosciuti «i poteri del
privato datore di lavoro»; e si può convenire con chi afferma che il disegno di
riforma degli anni ’90, con particolare riferimento alla struttura del datore
di lavoro pubblico era «in fondo piuttosto semplice» nella previsione di un
principio di portata generale: quello «della separazione tra compiti e
responsabilità di direzione politica e compiti e responsabilità di direzione
delle amministrazioni», come dispone l’art. 11, c. IV, l. n. 59/1997, tra
questi, in particolare, i compiti di regolazione e gestione del personale,
specifici del datore di lavoro[79].
Una differenza sostanziale tra le figure del datore di lavoro
pubblico e privato è, comunque, quella relativa alla discrezionalità delle
scelte datoriali[80]:
riconosciuta in toto in capo al
datore di lavoro privato, in ordine alla disciplina e alla gestione dei
rapporti di lavoro, entro i limiti delle norme imperative del diritto del
lavoro; ripartita tra il soggetto politico e il dirigente-datore di lavoro, con
la sottrazione agli organi politici della gestione dei rapporti di lavoro e dei
relativi poteri, nonché della negoziazione con i soggetti sindacali, rimanendo
all’organo politico, appunto, l’esclusivo potere di indirizzo nei confronti del
negoziatore pubblico, l’ARAN.
Non si può tuttavia trascurare, in questa brevissima sintesi, il
fatto che le prerogative dirigenziali, riconosciute come strumento per
estendere al lavoro pubblico le garanzie del diritto privato al fine di porre
su un piano paritario i rapporti tra i dirigenti e le amministrazioni, sono
state notevolmente depotenziate dall’intervento correttivo del 2002, che ha
inciso fortemente sul principio della stabilità e dell’affidabilità dei
contratti, rendendo ancor più difficile armonizzare, nel rispetto del dettato costituzionale,
il «concetto di imparzialità
amministrativa» con quello di rapporto
di fiducia tra il dirigente e l’organo politico, suo datore di lavoro[81].
E questa «intrinseca difficoltà» è stata accentuata dalle diversità
che caratterizzano le nostre pubbliche amministrazioni, sotto il profilo della
«relazione tra l’interlocutore istituzionale e il dirigente amministrativo».
Sono, infatti, prevalse sulla valorizzazione del «carattere multi
organizzativo», del «policentrismo», della «diversità funzionale del sistema
amministrativo», «logiche centralistiche che di fatto hanno caratterizzato il
modello di riorganizzazione»[82].
E, se anche la Corte Costituzionale, confermando la coerenza
dell’impianto della riforma degli anni novanta ai principi costituzionali, si è
pronunziata per l’incostituzionalità di quelle disposizioni della legge n. 145,
non si può certo dire che i dirigenti abbiano goduto di quella necessaria
autonomia che avrebbe consentito loro di adottare, secondo valutazioni
indipendenti dalla politica, pur nel doveroso rispetto degli indirizzi da
questa forniti, le scelte organizzative ritenute fondamentali per raggiungere
l’obiettivo di una buona amministrazione.
Alla mancanza della necessaria autonomia della classe
dirigenziale, fin qui succintamente descritta , non imputabile ad una precisa voluntas legis, non pone certo rimedio
la riforma del 2009, pur nel dichiarato intento «di rafforzare il principio di
distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo spettanti agli organi di
governo e le funzioni di gestione amministrativa spettanti alla dirigenza», con
la precisazione che ciò deve avvenire «nel rispetto della giurisprudenza
costituzionale in materia, regolando il rapporto tra organi di vertice e dirigenti
di incarichi apicali in modo da garantire la piena e coerente attuazione
dell’indirizzo politico degli organi di governo in ambito amministrativo» (art.
6, I c., l.n.15/2009).
Con un pizzico di malizia, è stato osservato che il legislatore
paga così «il suo debito tributo a due punti chiave della privatizzazione»:
l’efficienza e la separazione tra politica e amministrazione[83].
La delega del 2009 si apre con una norma “dirompente” che trasforma in radice il sistema delle
fonti, riscrivendo il secondo periodo del comma 2 dell’art. 2 del d. lgs. n.
165/2001 e inverte il rapporto tra contratto collettivo e legge, nel senso che
viene presunta l’inderogabilità della legge che esplicitamente dovrà disporre
la possibilità di deroga da parte del contratto collettivo.
La
modifica opera, pertanto, un energico ridimensionamento della contrattazione
collettiva che perde la sua portata generale; l’autonomia negoziale, infatti,
viene «circoscritta sistematicamente» dalla obbligatorietà di un «intervento
legislativo autorizzativo» e senza alcuna possibilità di deroga[84].
Per
comprendere la portata del cambiamento è fondamentale tenere presente che il
legislatore del ’93, all’opposto, aveva statuito che «eventuali disposizioni di
legge (…)», intervenute nelle materie riservate alla contrattazione collettiva
dopo la stipula dei contratti, potevano essere derogate dai successivi
contratti collettivi «salvo che la legge – disponesse – espressamente il
contrario» [85].
Completa il sistema l’inciso, aggiunto ancora all’art. 2, II c.,
con il quale il legislatore dota tutte le norme del decreto n. 165 del
«carattere imperativo»[86]. Disposizione, questa, di
portata generale alla quale fa seguito il richiamo reiterato (artt. 33, 54 e
29)[87] a tale carattere,
corredato dal principio della sostituzione automatica ex artt. 1339 e 1419 c.c.[88] delle clausole
contrattuali nulle «per violazione di norme imperative e dei limiti fissati
alla contrattazione collettiva»[89], in attuazione del
«principio e criterio direttivo» espresso nell’art. 3, II c., lett. d) della
legge di delega.
Il ridimensionamento della contrattazione collettiva avviene,
sotto altro profilo, attraverso la riduzione «per sottrazione» delle materie
prima ad essa riservate (art. 3, I c., l. n. 15/2009 e art. 32 d. lgs. n.
150/2009).
L’articolo 54 del decreto attuativo, infatti, riscrivendo i
commi dall’uno al tre dell’art. 40 del d. lgs. n. 165, ne riduce con formula
generica la competenza alla determinazione dei diritti e degli obblighi
«direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché alle materie relative
alle relazioni sindacali (I c., I per.)».
La competenza è esclusa, invece,“in particolare” per le materie
«attinenti all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione
sindacale ai sensi dell’articolo 9, quelle afferenti alle prerogative
dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17, la materia del
conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui
all’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421.» (I
c., II per.).
La contrattazione collettiva, infine, «è consentita negli
esclusivi limiti previsti dalle norme di legge» nelle materie «relative alle
sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della
corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità e delle progressioni
economiche» (I c., III per.).
Se, poi, si considerano in combinato disposto il secondo comma
dell’art. 5 e il primo comma dell’art. 40, così come novellati dal d. lgs. n.
150, appare evidente la novità di una scelta legislativa legata ad una
«concezione manageriale di tipo neo-autoritario»; tali norme indicano, infatti,
l’area della micro-organizzazione nella quale gli atti di gestione, assunti dal
dirigente con le capacità e i poteri del datore di lavoro privato, non possono
essere oggetto di negoziazione da parte dello stesso, che le deve assumere «in
via esclusiva» e fatta salva «la sola informazione ai sindacati»[90].
Nell’assetto delle fonti di regolazione del rapporto di lavoro
pubblico, così ridisegnato dal legislatore del 2009, assume un’importanza
determinante, ed è questo il più evidente tratto di discontinuità rispetto al
sistema precedente, la scelta di attribuire ex
professo alla figura del dirigente lo spazio sottratto alla contrattazione
collettiva, seppure negli angusti limiti segnati dalle disposizioni di legge.
Recita, infatti, la norma di apertura dell’articolo 3 della
legge 15: «(l)’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo
è finalizzata a modificare la disciplina della contrattazione collettiva nel
settore pubblico al fine di conseguire una migliore organizzazione del lavoro e
ad assicurare il rispetto della ripartizione tra le materie sottoposte alla
legge, nonché, sulla base di questa, ad atti organizzativi e all’autonoma determinazione
dei dirigenti, e quelle sottoposte alla contrattazione collettiva».
Da una prima lettura si potrebbe dedurre, quindi, che la
realizzazione dell’obiettivo della «migliore organizzazione del lavoro» passi
attraverso il consolidamento del potere organizzativo del dirigente. In realtà,
come si è detto, lo spazio sottratto alla contrattazione collettiva viene solo
in parte attribuito alla figura del dirigente, giacché esso viene fortemente
compresso dalla fonte legge.
Riprende la formulazione della disposizione contenuta nel primo
comma dell’art. 3 della legge di delega, «riproducendo(la) inutilmente»[91], l’art. 32 del d. lgs.
150, rubricato (o)ggetto, ambito e finalità, che apre il Capo I (Principi
generali) del Titolo IV, specificamente intitolato alle “(n)uove norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni”.
La norma, nella «ripartizione tra le materie sottoposte alla legge, nonché,
sulla base di questa, ad atti organizzativi e all’autonoma responsabilità del
dirigente (…) e quelle oggetto della contrattazione collettiva», sottolinea
l’importanza dell’aspetto relativo alla gestione delle risorse umane.
Modifica incisivamente la disciplina della dirigenza pubblica,
anche e soprattutto, l’articolo 6 della legge delega n. 15, nel suo denso e
articolato disposto, eccentrico per la sua “sovrabbondanza” e “minuziosità”
rispetto alle tradizionali forme delle leggi di delega; dettando al legislatore
delegato, i principi e i criteri direttivi ai quali attenersi; primo fra tutti
l’affermazione della «piena autonomia e responsabilità del dirigente, in
qualità di soggetto che esercita i poteri del datore di lavoro pubblico, nella
gestione delle risorse umane» (art. 6, II c., lett. a).
Alla “piena autonomia” riconosciuta al dirigente dalla norma,
pertanto, dovrà corrispondere la previsione nel decreto delegato di «una
specifica ipotesi di responsabilità (…), in relazione agli effettivi poteri
datoriali, nel caso di omessa vigilanza sulla effettiva produttività delle
risorse umane assegnate e sull’efficienza della relativa struttura (…)» (art.
6, II c., lett. b).
In realtà l’“immunizzazione” della dirigenza pubblica,
nell’esercizio dei suoi poteri, delle sue funzioni e delle sue responsabilità,
dalle pressioni della politica e dalle ingerenze della contrattazione
collettiva è stata pensata con il ricorso ad una struttura normativa “di ferro”
che, suggellata dalla inderogabilità unilaterale da parte della fonte
contrattuale, consente davvero di affermare paradossalmente che il dirigente
viene costretto dalla legge ad essere “libero” o almeno ad aspirare alla
libertà[92].
A ben vedere, infatti, dalla lettura di diverse norme del
decreto delegato, si evince che il dirigente fa ora parte di una
“costellazione” di soggetti resa visibile nell’art. 12 del decreto attuativo
che, secondo un ordine discendente, indica: un organismo centrale, «la
Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle
amministrazioni pubbliche, di cui all’articolo 13»; gli «Organismi indipendenti
di valutazione della performance, di
cui all’articolo 14»; l’organo di indirizzo politico amministrativo di ciascuna
amministrazione; «i dirigenti di ciascuna amministrazione». E, in un sistema
così blindato e affollato, il dirigente perde con tutta evidenza il ruolo di
“protagonista” del processo valutativo, sia individuale che collettivo.
Sul punto il legislatore delegante del 2015 apparentemente tace.
Ma quali saranno gli effetti su tale sistema a seguito delle modifiche
apportate ai diversi istituti delle relazioni sindacali e della disciplina dei
rapporti di lavoro, dopo gli interventi del legislatore delegato?
Uno sguardo all’articolo 17, rubricato “Riordino della
disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, ci può
dare un’idea dei cambiamenti che ci aspettano. La norma, infatti, dispone
pregiudizialmente, nel primo periodo del primo comma, l’adozione dei decreti
legislativi, «sentite le organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative».
Di ben altra incisività le disposizioni contenute nella lettera
h) del medesimo articolo, in relazione alla attribuzione di nuove funzioni
all’ARAN che ne potenziano evidentemente il ruolo, la prima delle quali è
quella «di supporto tecnico ai fini dell’attuazione delle lettere g) e i)»[93].
Sotto il profilo delle relazioni sindacali, che qui maggiormente
interessa, all’interno della medesima lettera h) vengono indicate tra le
“nuove” attribuzioni: il «controllo sull’utilizzo delle prerogative sindacali
(…) – il – supporto tecnico alle amministrazioni rappresentate nelle funzioni
di misurazione e valutazione della performance
e nelle materie inerenti alla gestione del personale (…),– il – rafforzamento
della funzione di assistenza ai fini della contrattazione integrativa».
Ancora, sotto il profilo considerato, la norma prosegue, con una
formula non perspicua, dando al legislatore delegato l’indicazione di
perseguire gli obiettivi della «concentrazione delle sedi di contrattazione
integrativa, – della – revisione del relativo sistema dei controlli e – del –
potenziamento degli strumenti di monitoraggio sulla stessa; – della –
definizione dei termini e delle modalità di svolgimento della funzione di
consulenza in materia di contrattazione integrativa, – della – definizione
delle materie escluse dalla contrattazione integrativa anche al fine di
assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito e la
parità di trattamento tra categorie omogenee, nonché di accelerare le procedure
negoziali».
Silenzio solo apparente, dunque: giacché l’estensione e il
rafforzamento delle funzioni dell’ARAN, negoziatore di parte pubblica, ad opera
di una legislazione delegata che si annuncia difficile e faticosa, non sembra
azzardato ipotizzare, comprimerà in una, direttamente, il ruolo delle rappresentanze
sindacali dei dipendenti pubblici e, indirettamente, quello del dirigente
datore di lavoro, accentuando il divario tra questi e il datore di lavoro
privato.
Se, come si è detto, un silenzio solo apparente copre, nella
riforma Madia, lo spinoso problema del rapporto tra la fonte legge e la fonte
contratto collettivo, solo apparente è, anche, il silenzio sul rapporto tra
amministrazione e organo politico; questione fondamentale per la definizione
dell’ideal-tipo del dirigente.
Un riferimento esplicito è contenuto nella lettera t) del primo
comma dell’art. 17, che indica, tra i principi e i criteri direttivi che
informano il processo di riordino della disciplina del lavoro pubblico, il
«rafforzamento del principio di separazione tra indirizzo
politico-amministrativo e gestione e del conseguente regime di responsabilità
dei dirigenti, attraverso l’esclusiva imputabilità agli stessi della
responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale».
Una conferma a contrariis
si ritrova, poi, nella lettera a), primo comma, del medesimo articolo che,
ancora tra i principi e criteri direttivi, indica la «previsione nelle
procedure concorsuali pubbliche di meccanismi di valutazione finalizzati a
valorizzare l’esperienza professionale acquisita da coloro che hanno avuto
rapporti di lavoro flessibile con le amministrazioni pubbliche, con esclusione,
in ogni caso, dei servizi prestati presso uffici di diretta collaborazione
degli organi politici (…)».
In una prospettiva diametralmente opposta, giustificata
dall’obiettivo della «realizzazione di una amministrazione digitale e aperta»,
si colloca, poi, la disposizione contenuta nell’art. 1, c. I, lett. n) che,
assegnando al legislatore delegato il compito di «ridefinire le competenze
dell’ufficio dirigenziale di cui all’articolo 17, comma 1, del CAD», prevede la
«possibilità di collocazione alle dirette dipendenze dell’organo politico di
vertice di un responsabile individuato nell’ambito dell’attuale dotazione
organica di fatto del medesimo ufficio, dotato di adeguate competenze
tecnologiche e manageriali, per la transizione alla modalità operativa digitale
e dei conseguenti processi di riorganizzazione».
In questo caso il legislatore ragionevolmente supera il “dogma”
della necessaria separatezza tra politica e amministrazione, ovviamente nei
limiti di quella indispensabile collaborazione che, sotto il profilo tecnico,
deve accompagnare il processo di digitalizzazione, per raggiungere il risultato
finale «di garantire ai cittadini e alle imprese il diritto di accedere a tutti
i dati, i documenti e i servizi di loro interesse», come recita l’incipit dell’articolo 1; collaborazione
questa vista, invece, da taluno come un “crinale rischioso”[94].
Non è, altresì, irrilevante, per l’aspetto che ci occupa,
l’istituzione delle Commissioni, per la dirigenza statale, regionale e locale,
soggetti esterni al rapporto tra dirigenza e organo politico deputati a
presidiare diversi segmenti del processo di formazione del sistema della
dirigenza pubblica, di cui fra poco si dirà.
Tali Commissioni, ai sensi dell’art. 11, I c., lett. b), nn.
1,2,3, devono operare in «piena autonomia di valutazione» e i loro «componenti
sono selezionati con modalità tali da assicurarne l’indipendenza, la terzietà,
l’onorabilità e l’assenza di conflitti di interessi, con procedure trasparenti
e con scadenze differenziate, sulla base di requisiti di merito e
incompatibilità con cariche politiche e sindacali»; al legislatore delegato la
norma assegna il compito di prevederne le funzioni, anche se alcune di esse
sono già direttamente indicate nella legge di delega[95].
A questi scarni, anche se significativi, riferimenti nella legge
del 2015 corrisponde una minuziosa e dettagliata previsione normativa
specificamente indirizzata alla disciplina della dirigenza pubblica. L’aspetto
più interessante è l’istituzione di un «sistema della dirigenza pubblica» che
assume come punto cardine l’articolazione «in ruoli unificati e coordinati,
accomunati da requisiti omogenei di accesso e da procedure analoghe di
reclutamento, basati sul principio del merito, dell’aggiornamento e della
formazione continua» (art. 11, I c., lett. a).
Principi e istituti, questi, intesi come strumenti che, sapientemente
pensati, dosati e ormai svincolati dalla rigida contrapposizione tra strumenti
di natura pubblicistica o privatistica, e considerati, invece, esclusivamente
in ragione della loro efficienza per raggiungere l’obiettivo dell’innovazione,
sembrano costituire nella mente del legislatore l’unica vera garanzia per
l’indipendenza del dirigente, argine alla sua politicizzazione[96].
Indipendenza, canone assolutamente irrinunciabile, perché il
dirigente sia imparziale e possa, dunque, esercitare le fondamentali
prerogative gestionali e organizzative con «la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro», in quanto soggetto investito del compito di assicurare
l’inverarsi del principio costituzionale del “buon andamento”
dell’amministrazione pubblica alla quale è preposto.
Non può che essere duplice, pertanto, la prospettiva di “rilievo
anzitutto istituzionale” nella quale considerare la figura del dirigente;
prospettiva che pone, da un lato, l’esigenza di salvaguardare la sua
indipendenza e imparzialità da eventuali pressioni dell’organo politico in
relazione sia all’esercizio dei suoi poteri che alle condizioni di lavoro, e
dall’altro, l’esigenza di valorizzare l’intuitus
personae, indubbiamente
imprescindibile, nel rapporto tra il dirigente e l’organo politico, «titolare
dell’interesse ultimo dell’organizzazione»[97].
A tale scopo, il restyling
degli istituti dell’inquadramento, dell’accesso, della formazione, della
mobilità, del conferimento, della durata e della revoca degli incarichi, della
responsabilità, della retribuzione, affidato alle mani sapienti del legislatore
delegato, dovrebbe presidiare la tenuta del sistema della dirigenza pubblica.
E allora, giova ripetere, se si assume come punto cardine
l’articolazione del sistema «in ruoli unificati e coordinati, accomunati da
requisiti omogenei di accesso e da procedure analoghe di reclutamento», diventa
prodromica l’analisi delle strette connessioni e delle interdipendenze tra gli
indicati elementi costitutivi del sistema, incardinati tutti sui principi del «merito,
dell’aggiornamento e della formazione continua», così come indicato nella lett.
a) del primo comma dell’art. 11.
Il richiamo reiterato alla formazione, nella norma in oggetto,
sottolinea il ruolo privilegiato che ad essa assegna il legislatore quale
strumento per raggiungere l’obiettivo (indipendenza imparzialità, buon
andamento). Innanzitutto, in riferimento all’istituto dell’accesso per
corso-concorso, la norma dispone l’«immissione in servizio dei vincitori del
corso-concorso come funzionari, con obblighi di formazione, per i primi tre
anni», disponendo l’eventuale riduzione di questo periodo in relazione
«all’esperienza lavorativa nel settore pubblico o a esperienze all’estero (…)»
(art. 11, I c., lett. c), n. 1); in relazione all’assunzione per concorso, il
legislatore prescrive per tutti i soggetti partecipanti, prima della stesura
della graduatoria finale, un ciclo di formazione (art. 11, I c., lett. c, n.
2).
Spostando l’attenzione, se così si può dire, dai formandi ai
formatori, questi ultimi a dire il vero di ben difficile identificazione nella
lettera della norma, il legislatore fa un riferimento generale al «sistema di
formazione dei pubblici dipendenti», prescrivendo la «revisione
dell’ordinamento, della missione e dell’assetto organizzativo della Scuola
nazionale dell’amministrazione (…)» e il «coinvolgimento di istituti nazionali
ed internazionali di riconosciuto prestigio (…)». Mentre, ancora dalla lettera
della norma si potrebbe arguire che l’obiettivo di «assicurare l’omogeneità della
qualità e dei contenuti (…)» sia previsto specificamente per la formazione dei
dirigenti dei diversi ruoli[98].
La lettera e) della medesima norma, infine, in riferimento alla
formazione permanente dei dirigenti, dispone la «definizione di obblighi
formativi annuali e delle modalità del relativo adempimento», prevedendo,
altresì, il «coinvolgimento – gratuito – dei dirigenti di ruolo nella
formazione dei futuri dirigenti (…)».
Nella tensione verso la ricerca di un ideal-tipo di dirigente,
sul versante dello strumento formazione, dunque, al legislatore delegato è
assegnato un compito determinante, ancora una volta gravoso e irto di
difficoltà; difficoltà connesse innanzitutto all’innumerabile gamma di
significati che possono essere attribuiti al termine polisenso di formazione, a
seconda della prospettiva che si vuole assumere, in relazione ad esigenze non
solo contingenti.
E, per ripartire dal rapporto tra formandi e formatori, così
come delineato nel testo della legge, si può osservare che esso sottende l’apparente
dicotomia tra la formazione come diritto sociale e la formazione come sistema
pubblico. Dicotomia che tende ormai da tempo a ricomporsi nell’evoluzione
normativa di matrice comunitaria e nella elaborazione dottrinale, sino a
concepire la formazione «come vero e proprio diritto di cittadinanza sociale
europea»[99].
In questa visione, la crescita professionale, frutto della
formazione, pur costituendo un valore aggiunto per la produttività dell’impresa,
manifesta il suo valore propulsivo condiviso tra impresa e dipendente che, se
si vogliono consolidare i caratteri essenziali del processo di privatizzazione
– contrattualizzazione dell’impiego pubblico, dovrebbe essere, altresì,
condiviso tra “azienda pubblica” e dipendente. Valore propulsivo della
formazione come diritto costituzionalmente garantito nel nostro ordinamento
(artt. 35, 2, 4), corroborato dalla concezione europea della formazione e
declinato dai diversi attori istituzionali e sociali ai diversi livelli
territoriali, che pone al centro il lavoratore come persona.
In questo senso è inequivocabile il disposto del secondo comma
dell’art. 35 della Costituzione che impegna lo Stato e, dunque le sue
istituzioni, alla cura della «formazione e – della – elevazione professionale
dei lavoratori».
In
relazione alla connaturata complessità della posizione soggettiva del
dipendente pubblico in generale e del dirigente in particolare, si deve
osservare che, superato quello status
subiectionis alla supremazia speciale della pubblica amministrazione che si
traduceva nell’immedesimazione organica che finiva per negare ogni
considerazione alla persona, il pubblico dipendente, e alla sua posizione
attiva nell’organizzazione di lavoro, si dà, ormai da tempo, per acquisita la
centralità della persona del lavoratore, considerandone, anche e soprattutto la
posizione attiva nell’organizzazione di lavoro, come del resto si ricava con
tutta evidenza da diverse disposizioni (cfr. ad es. art. 41, II c., Cost. e
2087 Cod. Civ.).
Trovano,
così, riconoscimento, in capo al lavoratore, diritti “altri” rispetto alla
retribuzione, tra i quali si può senz’altro annoverare il diritto alla
formazione, come strumento di dignità e crescita professionale, come
declinazione del più ampio valore della “dignità umana”, fulcro dell’intero
impianto della nostra Costituzione[100].
Con
la complessità della posizione soggettiva del dirigente dovrà confrontarsi il
legislatore delegato nell’interpretazione
dello strumento formazione come viatico per la diffusione di una “nuova”
cultura della responsabilità, nella consapevolezza che, nonostante il processo
di privatizzazione, tale posizione «permane irriducibile al sinallagma tipico
del rapporto di lavoro disciplinato dal diritto privato (…) il contratto e la
sua causa contrattuale – infatti – debbono tenere conto che egli è titolare di
una qualità, che ha acquisito normalmente a seguito di una selezione per
pubblico concorso, status che
richiama sul dipendente obblighi di comportamento (…) nei confronti
dell’amministrazione di appartenenza ed ancor prima verso gli amministrati,
cioè di coloro che sono destinatari diretti e indiretti dell’azione
amministrativa»[101].
L’assunzione
o l’esercizio delle attività finalizzate al perseguimento dell’interesse della
collettività comporta la specificazione, per i lavoratori del settore pubblico,
di numerosi, ulteriori e caratteristici doveri finalizzati al raggiungimento
degli «obiettivi dell’agire amministrativo»; per questi cittadini-lavoratori ai
quali «sono affidate funzioni pubbliche», il secondo comma dell’art. 54 della
Costituzione prescrive il «dovere di adempierle con disciplina ed onore»,
poiché gli «obiettivi dell’agire amministrativo» sono legati all’apporto dei pubblici impiegati[102].
Ad
altri principi costituzionali deve, poi, conformarsi l’attività lavorativa del
pubblico dipendente, in ragione del fondamentale riferimento all’obbligo di
fedeltà desumibile, appunto, nell’art. 54 della nostra Costituzione che,
secondo uno schema in più luoghi ripetuto, lo attribuisce, sia ai cittadini in
quanto tali e, con una colorazione più intensa, ai cittadini-lavoratori.
L’articolo
54 assume, poi, un ruolo fondamentale, fa sistema, si può dire, con le altre disposizioni
costituzionali in materia; i dettami in esso contenuti, infatti, possono essere
considerati «al contempo matrice ed espressione dei precetti di imparzialità e
buon andamento di cui all’articolo 97, comma 1, Cost., nonché del rapporto
esclusivo di servizio che lega i pubblici impiegati all’interesse pubblico
(articolo 98, comma 1, Cost.)»[103], senza tralasciare il
disposto contenuto nell’art. 28
che attribuisce, ai funzionari e ai dipendenti dello Stato e degli enti
pubblici, la responsabilità penale, civile e amministrativa «degli atti
compiuti in violazione di diritti».
Pertanto,
inscindibilmente connessa alla rilevanza patrimoniale della causa di scambio
del contratto di lavoro, prestazione lavorativa contro retribuzione, è la
titolarità degli obblighi del dipendente pubblico verso i cittadini utenti,
terzi rispetto alle parti del contratto di lavoro [104].
Al
fine ultimo, il perseguimento dell’interesse generale, si può comunque giungere
solo attraverso la soddisfazione dell’interesse intermedio: l’ottimizzazione
dei risultati dell’amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente. Il
dirigente, perciò, dovrà essere consapevole nel suo agire quotidiano e avere la
capacità di orientare le sue scelte a quel fine, senza cedere alla tentazione
di soddisfare interessi particolaristici.
Da
questo punto di vista, il precetto del concorso, posto dal terzo comma
dell’articolo 97, non deve essere letto come «acritica imposizione dell’imparzialità» ma quale «strumento per
garantire l’idoneità professionale dei pubblici dipendenti a svolgere i compiti
loro affidati»[105], ora oggetto di una
particolare attenzione da parte del legislatore del 2015, che sembra orientato
a valorizzarne anche e soprattutto questo profilo[106].
Ma,
se è vero che il perseguimento dell’interesse generale è il fine ultimo al
quale tende l’attività della pubblica amministrazione, non si può per questo
sostenere che il pubblico dipendente svolga «una funzione nei confronti di due
distinti “principali”: l’amministrazione e la collettività dei cittadini»[107]; questi ultimi sì, come
si è detto, destinatari diretti e indiretti.
Il
rapporto di lavoro, “stricto sensu
considerato”, non è costretto dal vincolo di scopo, la garanzia del pubblico
interesse; l’attività di gestione del dirigente si svolge in piena autonomia,
non essendo più richiesta la funzionalizzazione per ogni singola determinazione
dirigenziale; essa, invece, è richiesta se si valuta la gestione amministrativa
nel suo complesso [108],
secondo una definizione di vincolo di scopo, per così dire, “mobile”[109].
In
riferimento al debito contrattuale del pubblico dipendente, all’esito del
processo di privatizzazione, i principi costituzionali indicati si
giustappongono a quelli contenuti negli articoli 2104, 2105, 2106 c.c., e
concorrono a definirne l’ampiezza; determinando così anche una diversa
intensità della responsabilità disciplinare rispetto a quella del prestatore di
lavoro privato. Debito contrattuale che deve essere letto, comunque, attraverso
la lente dell’interesse al buon funzionamento dell’organizzazione
amministrativa e, solo mediatamente, all’interesse della collettività.
In
una visione dell’etica pubblica che, benché distinta da quella individuale, non
sia da essa disgiunta, in quanto entrambe sono necessarie[110], deve essere
interpretato il comportamento dovuto dal pubblico dipendente e in particolare
dal dirigente, anche nel rispetto del canone dell’art. 2104 c.c., secondo il
quale l’esattezza dell’adempimento è determinata dalla «diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta».
Si
deve, tuttavia, precisare che alla diligenza deve essere assegnata anche la
funzione di limite ai «rischi di ampliamento smisurato dei contenuti della
prestazione» e, con specifico riferimento al dirigente, «come limite alla
stessa pervasività degli indicatori di performance
eventualmente stabiliti in via unilaterale, dall’amministrazione di
riferimento»[111].
Allora,
recuperando il senso della relazione tra l’esperienza del passato e le
prospettive per il futuro, nella progressiva apertura del nostro ordinamento
alla considerazione del cittadino in quanto persona e del conseguente impegno
delle amministrazioni pubbliche a soddisfarne le esigenze, ci si può
interrogare sulla adeguatezza degli strumenti che il legislatore delegante
indica al legislatore delegato per disegnare il nuovo ideal-tipo di dirigente,
primo garante dell’attuazione dei principi del buon andamento e
dell’imparzialità della macchina amministrativa; principi reiteratamente
invocati.
E tra
le tante e onerose deleghe delle quali è “investito” il legislatore delegato
diventa centrale quella sulla determinazione del rapporto tra adempimento/performance e responsabilità. Un compito
davvero arduo, in quanto i principi e i criteri direttivi ai quali dovrà
attenersi sono indicati in termini a dir la verità non perspicui. Così, ad
esempio, nella lettera l), I c., dell’art. 11, un rilievo fondamentale è
attribuito alla valutazione dei risultati, i cui esiti dovranno assumere
rilievo decisivo sia per il conferimento dei successivi incarichi che per la costruzione
della carriera dei dirigenti.
Con riferimento alla responsabilità dei dirigenti, poi, il
legislatore delegato, con una norma che merita di essere trascritta, viene
investito del compito di provvedere al «riordino delle disposizioni legislative
relative alle ipotesi di responsabilità dirigenziale, amministrativo-contabile
e disciplinare dei dirigenti e ridefinizione del rapporto tra responsabilità
dirigenziale e responsabilità amministrativo-contabile, con particolare
riferimento alla esclusiva imputabilità ai dirigenti della responsabilità per
l’attività gestionale, con limitazione della responsabilità dirigenziale alle
ipotesi di cui all’articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165;
limitazione della responsabilità disciplinare ai comportamenti effettivamente
imputabili ai dirigenti stessi» (lett. m).
E, la volontà del legislatore di mettere finalmente ordine sulla
spinosa questione della “somma” delle responsabilità in capo al
dirigente-datore di lavoro è rafforzata dalla previsione dell’art 17, rubricato
“Riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazione
pubbliche”, che, come si è detto, nell’ultimo periodo della lettera t) dispone:
«l’esclusiva imputabilità – ai dirigenti – della responsabilità amministrativo-contabile
per l’attività gestionale».
Ora,
per trarre le fila del discorso sugli aspetti fin qui succintamente descritti,
il disegno di riforma, allineata sotto il profilo della tecnica di produzione
normativa con gli interventi legislativi in materia degli ultimi anni, appare
in alcuni tratti poco perspicuo, su alcuni punti prolisso e su altri troppo
laconico. Nei contenuti appare ambizioso, ma si può, altresì, dire che
racchiude indiscutibili fermenti di innovazione, indispensabili per innescare
un vero processo di cambiamento. L’auspicio è che il legislatore delegato, nel
breve lasso di tempo concessogli, sappia imprimere nelle norme delegate quel
principio di etica della responsabilità che informava gli interventi di riforma
degli anni ’90, senza per questo sminuire la centralità dei “tradizionali”
criteri di efficienza, efficaci ed economicità.
Il
saggio affronta alcuni aspetti della legge Madia (l. n. 124/2015), legge delega
sulla riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni. La riforma investe gli
aspetti relativi all’organizzazione degli apparati, all’attività
amministrativa, alla disciplina del personale e della dirigenza. La prospettiva
del saggio è mirata a coglierne i tratti di continuità/discontinuità con le
precedenti riforme dell’amministrazione pubblica italiana.
La
legge Madia fa infatti propri, esplicitamente, alcuni dei principi cardine e
dei criteri direttivi della l. n. 59/1997 (legge delega per la riforma e la
semplificazione amministrativa). In entrambe le leggi la semplificazione viene
assunta come strumento fondamentale per garantire l’efficienza della pubblica
amministrazione.
La
prospettiva si è, pertanto, allargata ai principi costituzionali di legalità,
imparzialità e buon andamento; quest’ultimo declinato secondo i criteri di
efficienza, efficacia ed economicità. E, l’attuazione di questi principi e
criteri direttivi viene dalla legge, ancora una volta, affidata al
dirigente-datore di lavoro, cerniera tra politica e amministrazione.
Sarà
il legislatore delegato ad indicare i “nuovi strumenti” di attuazione per il
raggiungimento degli obiettivi indicati dal legislatore delegante.
This paper addresses certain issues on
“Madia Law” (Law no. 124/2015) on the reform of Italian public administration, dealing
in particular with the functioning of the offices, performance of
administrative services and regulation of directors and officers’ activities.
The scope of this study is to identify
elements of continuity and/or originality vis
a vis earlier reforms of Italian public administration. Madia Law
explicitly follows some of the leading principles and guidelines provided in
Law no. 59/1997 (on the reform and simplification of public administration),
confirming how normative simplification has become a leitmotif in providing effective functioning of public
administration. The remit of the law is now wide and covers the constitutional
principles of justice, impartiality and sound administration consistently with
criteria of efficiency, effectiveness and economic convenience. Needles to say
that, once again, the implementation of such principles and guidelines is
entrusted to the manager-employer who acts as hinge between politics and
administrative practice. It will be the task of the delegated legislator to
find the appropriate ways to achieve the objectives identified by Madia Law.
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] F. BORGOGELLI, La riforma del lavoro pubblico: quale
lezione dopo quindici anni, in Scritti
in onore di Edoardo Ghera, t. I, Bari, Cacucci Editore, 2008, 137-138, la
quale riferisce l’osservazione alla relazione tra le riforme degli anni ’90 e
la riforma Brunetta. Sul punto v. altresì L. ZOPPOLI, La contrattazione collettiva dopo la delega, in WP
C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 87/2009.
[2] Ancora F. BORGOGELLI, op. cit., 138. Definisce questa fase
della riforma «sicuramente particolare» e «forse, irripetibile» L. ZOPPOLI, Una riforma che riprende faticosamente il
suo cammino, in RGL, 2007, 291,
il quale ricorda come, dopo l’affidamento del compito di portare a compimento
la riforma da parte del Ministro Franco Bassanini, Massimo D’Antona fosse «in
splendida forma, lucido e determinato in ogni momento, mai precipitoso e
superficiale nei necessari passaggi politico-sindacali».
[3] F. BASSANINI, Vent’anni di riforme del sistema
amministrativo italiano (1990-2010), in Astrid
Rassegna, n. 4/2010, in www.astrid.eu ,
10-11.
[4] Tra i primi
commentatori della legge Madia sui diversi profili di intervento della riforma
cfr.: B. G. MATTARELLA, Il contesto e gli
obiettivi della riforma, in GDA,
2015, 621 ss.; B. CAROTTI, L’amministrazione
digitale e la trasparenza amministrativa, idem, 625 ss.; G. VESPERINI, Le
norme generali sulla semplificazione, idem,
629 ss.; M. MACCHIA, Sui poteri di autotutela:
una riforma in senso giustiziale, idem,
634 ss.; L. FIORENTINO, L’organizzazione
amministrativa, idem, 639 ss.; S.
BATTINI, Le norme sul personale, idem, 645 ss.; H. BONURA G. FONDERICO, Le partecipazioni societarie delle
amministrazioni pubbliche e i servizi pubblici locali di interesse economico
generale, idem, 651 ss.; S.
AURIEMMA, La codificazione della
disciplina dei processi innanzi la Corte dei conti, idem, 655 ss.
[5] Sul punto, ma in una
prospettiva più marcatamente teorica, V. PASSINO DETTORI, Ancora sul lavoro pubblico: variazioni e modulazioni sul tema, in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di
Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 12, 2014 < http://www.dirittoestoria.it/12/contributi/Passino/Lavoro-pubblico-variazioni-modulazioni.htm >,
[15 estratto a stampa].
[6] A
questo proposito è importante rilevare che il legislatore, sempre nell’art. 1,
lett. a) del d. lgs. n. 165/2001, pone come parametro di riferimento, per
valutare il grado di efficienza degli uffici e dei servizi, i Paesi dell’Unione
europea; ed è stato opportunamente sottolineato che «il contenimento della
spesa pubblica e dunque l’efficienza delle pubbliche amministrazioni
rappresentano le finalità prioritarie del disegno europeo ancora più urgenti e
vincolanti della convergenza degli ordinamenti del lavoro privato», e
d’altronde il legislatore, alla lett. b), indica l’obiettivo della
razionalizzazione del costo del lavoro pubblico attraverso il contenimento
della spesa complessiva del personale, sia diretta che indiretta, entro i
vincoli della finanza pubblica. Sul punto ex
multis v. L. FOGLIA, Commento sub
art. 1 d. lgs. n. 165/2001, in G.
AMOROSO- V. DI CERBO- L. FIORILLO- A. MARESCA, Diritto del lavoro, Il lavoro
pubblico, vol. III, Milano, Giuffrè Editore, 2011, 12.
[7] A dire il vero, già
l’entrata in vigore della Costituzione ha comportato «il tramonto della concezione antropomorfica dello Stato (anche
nella sua variante dualistica), con il correlativo affermarsi dello
stato-comunità, rispetto al quale l’apparato statale e, più in generale, quello
pubblico, – assume – un ruolo servente e strumentale per il ribaltamento dei
valori da essa operato, che – colloca – al centro dell’ordinamento la persona
nella sua individualità e nel suo porsi nel contesto sociale», così R. GALLI, Corso di diritto amministrativo, V ed.,
vol. I, CEDAM, 2011, 155; sul punto v. D. IMMORDINO, I principi di “buona amministrazione nell’ordinamento giuridico”,
in Riv. Amm., 2011, I, 493-494; ID., Brevi
spunti sullo “statuto costituzionale” del pubblico impiego, in Riv. Amm., 2011, I, 279.
[9] Tuttavia, per quanto
corretta e coerente con la prospettiva giuslavoristica la riflessione non può
non allargarsi a quella più ampia e più complessa che abbraccia la «finalità dell’intera
amministrazione», abbandonando l’illusione che «per raggiungere risultati
virtuosi nell’azione pubblica, sarebbe sufficiente considerare la posizione dei
dipendenti», così tra i tanti: E.
GRAGNOLI, Contrattazione collettiva, relazioni sindacali e riforma
dell’Aran, in LPA, 2008, 994-996. Sul punto v. A.
BOSCATI, La politica del Governo Renzi
per il settore pubblico tra conservazione e innovazione: il cielo illuminato
diverrà luce perpetua?, in WP
C.S.D.L.E.”Massimo D’Antona”.IT – 228/2014, 3, il quale rileva una
“sintonica uniformità” negli interventi legislativi di riforma della P.A. che
si sono succeduti in ordine alla priorità data alla riforma della disciplina
del rapporto di lavoro rispetto a quella riservata «alla realizzazione di un
nuovo assetto organizzativo».
[10] B. G. MATTARELLA, op. cit., 623, separatezza che,
specifica l’A., genera «non solo la massimizzazione del relativo interesse, ma
anche l’indifferenza per gli interessi curati dalle altre amministrazioni, se
non la contrapposizione o competizione, nonché un senso di appartenenza
esclusiva del dipendente alla propria amministrazione (ministero, ente
pubblico, amministrazione locale), con conseguente sacrificio dell’interesse
generale e dello stesso principio costituzionale per cui ciascun dipendente è
al servizio esclusivo della Nazione».
[11] Il primo Capo sulla
Semplificazione amministrativa, all’insegna del principio Digital first (art. 1, c. 1, lett. b), individua come strumento
imprescindibile la Carta della cittadinanza digitale, allo scopo di garantire
il diritto di accedere a tutti i dati, i documenti e i servizi in modalità
digitale e di semplificare l’accesso ai servizi alla persona, riducendo la
necessità dell’accesso fisico agli uffici pubblici.
Occupa,
pertanto, una posizione di preminenza la definizione del livello minimo di
sicurezza, qualità, fruibilità, accessibilità e tempestività dei servizi on line delle amministrazioni, corredato
da speciali regimi sanzionatori/premiali per le amministrazioni stesse (art. 1,
c. 1, lett. a).
Attraverso
l’individuazione delle modalità tecniche di realizzazione (cfr. lett. c) e d) e
in linea con gli obiettivi dell’Agenda digitale europea, il legislatore indica
tra le priorità da perseguire la garanzia per gli utenti, anche non residenti in
Italia, dell’accesso e del riuso gratuiti di tutte le informazioni prodotte e
detenute in formato aperto dalle amministrazioni pubbliche; l’alfabetizzazione
digitale; la partecipazione con modalità telematiche ai processi decisionali
delle istituzioni pubbliche; la piena disponibilità dei sistemi di pagamento
nonché la riduzione del divario digitale, sviluppando le competenze digitali di
base (cfr. lett. c).
E
ancora, in una visione per così dire speculare, la riorganizzazione delle
amministrazioni è affidata tra l’altro alla digitalizzazione del processo di
misurazione e valutazione della performance
per permettere un coordinamento a livello nazionale (lett. e), e alla
razionalizzazione dei meccanismi e delle strutture deputati alla governance in materia al fine di
semplificare i processi decisionali (lett. l), mentre per ciò che attiene
l’esercizio dei diritti e l’accesso ai servizi dei cittadini, la
digitalizzazione offre la garanzia della conoscibilità della normativa e degli
strumenti di sostegno della maternità e della genitorialità (lett. h).
[12] Sul punto v. S.
BATTINI, op. cit., 645 ss. E, la
flessibilità nell’organizzazione dovrebbe essere il risultato della
semplificazione, soprattutto in ragione del fatto che «l’attuale disciplina
consente di apportare modifiche all’organizzazione di primo livello soltanto al
termine di un lungo iter»; dovranno,
pertanto, essere modificate sia la competenza ad adottare provvedimenti che il
procedimento di adozione e i controlli, cfr. L. FIORENTINO, op. cit., 641-642.
[13] Già nel 2000, lo
stesso titolo della legge delega n. 53, ampliando la portata prescrittiva
dell’art. 37 della Costituzione, privilegia la dimensione di quelli che vengono
chiamati i tempi delle città, allo scopo di promuovere e trovare un equilibrio
tra i tempi di lavoro, i tempi di cura e quelli di formazione e di relazione.
Ed anche, nell’ambito dell’attuale legislatura, la legge delega n. 183/2014, Jobs Act, all’art. 1, cc. 8 e 9, assume
come punto qualificante la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
[14] Del resto, un’attenta
dottrina da tempo sollecita la «ricerca di un corretto equilibrio fra vita e
lavoro» , sul punto ex multis, O. MAZZOTA, Ragionare per modelli: conciliare lavoro e
non lavoro nella crisi economica. Spunti
per una riflessione, in Persone, lavori , famiglie. Identità e ruoli di fronte alla crisi economica, M.V. BALLESTRERO E
G. DE SIMONE (a cura di), Torino, G; Giappichelli Editore, 2009, 12.
[15] L’articolo 14 prosegue
con la previsione dell’impegno per le amministrazioni pubbliche di adeguare «i
propri sistemi di monitoraggio e controllo interno, individuando specifici
indicatori per la verifica dell’impatto sull’efficacia e sull’efficienza
dell’azione amministrativa, nonché sulla qualità dei servizi erogati, delle
misure organizzative adottate in tema di conciliazione dei tempi di vita e di
lavoro dei dipendenti (…)».
[17] La notazione è di G.
VESPERINI, op. cit., 629-630, che
appunta l’attenzione alla disciplina generale dei procedimenti decisionali,
artt. 2, 3, 4, 5 e 21, contenuta in queste norme, indicando, altresì, i
soggetti chiamati a rendere effettivo il programma di semplificazione.
[18] Il riferimento è
all’art. 3 della legge n. 124 che introduce nella 241 del 1990 il nuovo art.
17-bis, il quale, con il comma 3,
estende la regola del silenzio assenso tra le diverse amministrazioni, prevista
dai commi 1 e 2, anche a quelle preposte alla cura degli interessi sensibili,
con il prolungamento del termine per l’assenso, concerto o nulla osta da 30 a
90 giorni. Sul punto ancora G. VESPERINI, op.
cit., 630-631.
[20] Per una lettura
comparata dei diversi interventi in tema di riforma della pubblica
amministrazione, precedenti la riforma Madia allora ancora in itinere cfr. A. BOSCATI, op.
cit.
[21] F. CARINCI, La privatizzazione del pubblico impiego alla
prova del terzo governo Berlusconi: dalla legge 133/2008 alla legge n. 15/ 2009,
in LPA, 2008, 950-951.
[22] Sul punto F. CARINCI, Filosofia e tecnica di una riforma, in RGL, 2010, 456 ss. Si tratta specifica
l’Autore di una “gestione economica” volta al pareggio fra i costi e i ricavi,
attraverso un “blocco” della contrattazione collettiva e la restituzione alla
dirigenza di una capacità operativa effettiva «blindata rispetto
all’interferenza dei politici ma soprattutto all’espropriazione dei sindacati,
ma, al tempo stesso, vincolata e responsabilizzata per via di una dettagliata
disciplina dell’attività di direzione, di sorveglianza, di valutazione, di
sanzione». Sulla continuità-discontinuità tra la riforma Brunetta e la riforma
Madia ancora in itinere, passando per
Monti e Letta, v. A. BOSCATI, op. cit.,
14-20.
[23] E’ altresì da
segnalare che l’art. 20 della legge Madia, in relazione al «riordino della
procedura dei giudizi innanzi la Corte dei conti», fa riferimento ai principi e
ai criteri direttivi contenuti nel comma 3 della medesima legge n. 59, materia
che si è scelto di non includere in queste brevi note.
[24] Principi questi che
informano altri importanti provvedimenti degli anni ’90, tra i quali non si
possono tralasciare la legge n. 109 del 1994 sui lavori pubblici le leggi n. 19
e n. 20 dello stesso anno sui controlli della Corte dei Conti.
[25] Per
quanto riguarda il lavoro pubblico, le norme di questo decennio, dopo
l’accelerazione impressa dalle leggi Bassanini, sono, confluite nel c.d. testo
unico sul pubblico impiego, il d.lgs. n. 165 del 2001, oggetto di successive e
incisive modifiche nel corso degli anni, fino ad arrivare alla riforma del 2009
e oltre. Sterminata la letteratura in materia, ex multis: L. ZOPPOLI, Introduzione,
La riforma del lavoro pubblico dalla “deregulation”
alla “meritocrazia”: quale continuità?,
in Ideologia e tecnica nella riforma del
lavoro pubblico, L. ZOPPOLI, (a cura di), Napoli, Editoriale Scientifica,
2009, il quale sottolinea l’importanza delle ideologie sottese alle diverse
fasi della privatizzazione; ID., Bentornata realtà: il pubblico impiego dopo
la fase onirica, in WP CSDLE “Massimo
D’Antona”. IT – 168/2013; L. MONTUSCHI, A
proposito di mitologie nel riformismo del lavoro pubblico, in Il contributo di Mario Rusciano
all’evoluzione teorica del diritto del lavoro, Studi in onore, Lavoro pubblico, rappresentanza sindacale, contratto
collettivo, diritto di sciopero,
Torino, G. Giappichelli Editore, 2013, 50 ss.
[26] Cfr. ddl S. 1429,
disegno di legge costituzionale: “Disposizioni per il superamento del
bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il
contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del
CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” (approvato,
in prima deliberazione, dal Senato) (2613).
[27] F. BASSANINI, Lo stato delle riforme amministrative, il
“perimetro” della Pubblica Amministrazione, e i problemi del public
procurement, in www.bassanini.eu ,
2-3.
[28] Sul punto B. G.
MATTARELLA, op. cit., 621, il quale,
in linea di continuità con quanto affermato da Franco Bassanini, nelle prime
note alla legge di riforma del 2015, sostiene che «al di là dei parziali
progressi e delle meritorie isole di eccellenza, negli ultimi decenni il
sistema amministrativo è stato un freno più che un fattore di sviluppo», sia
dal punto di vista dell’organizzazione di lavoro che della gestione delle
risorse che dell’erogazione delle prestazioni.
[29] F. BASSANINI, op. ult. cit., 1, dove l’A. afferma che
«(a)ll’inizio l’urgenza di una riforma radicale nasceva essenzialmente dalla
necessità di ridurre i costi per concorrere al risanamento della finanza
pubblica e per rientrare nei parametri di Maastricht. Nell’ultimo quinquennio
del Novecento, la spinta alla riforma trasse tuttavia alimento anche dalla
convinzione che il Paese non avrebbe potuto affrontare le sfide della
competizione globale, del mercato europeo, della rivoluzione digitale, dei
grandi fenomeni migratori del nuovo secolo senza un sistema istituzionale e
amministrativo più moderno, efficiente e performante: non solo meno costoso per
i bilanci pubblici, dunque, ma anche capace di imporre minori costi regolatori
e burocratici alle imprese e alle famiglie, e capace di fornire prestazioni e
servizi di migliore qualità alle une e alle altre. Ma contava soprattutto il
fatto che tale convinzione non era ormai più soltanto il patrimonio di una
ristretta élite di illuminati innovatori (come era stato fino a qualche anno
prima, all’epoca dello sconsolato Rapporto Giannini). Essa venne adottata dai
Governi della seconda metà degli anni Novanta, venne assunta a fondamento e
motivazione di una politica di riforme amministrative finalmente radicali, fu
(con maggiore o minore consapevolezza) condivisa dalla grande maggioranza delle
forze sociali e della pubblica opinione e fu sostenuta, in Parlamento, da un
largo schieramento bipartisan».
[30] R. GIOVANNETTI R.
RUFFINI, La direzione del personale nelle
pubbliche amministrazioni, Principi
Logiche Metodologie, IPSOA, 2007, 6.
[31] Sul punto C. D’ORTA, Il potere organizzativo delle pubbliche
amministrazioni tra diritto pubblico e diritto privato, in Il lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche, Commentario,
dir. da F. CARINCI e M. D’ANTONA, t. I, Giuffrè Editore, Milano, 2000, 90 ss.,
dove l’A. sostiene che spesso all’ideologia pan-pubblicista si è contrapposta un’ideologia
pan-lavorista, suggerendo «l’abbandono di ogni condizionamento ideologico» e la
riconduzione del problema «del regime giuridico del potere organizzativo ad un
fatto meramente normativo e interpretativo».
[32] L. ZOPPOLI, Introduzione, cit., 8. Sul punto A. BOSCATI, op.
cit., 4-5, il quale, descritto «il substrato fattuale e culturale» della
contrattualizzazione, rileva l’affermarsi del principio giusta il quale «la
natura giuridica dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni è
frutto di una scelta di diritto positivo, non condizionata né dalla riserva di
legge in materia di organizzazione degli uffici pubblici, né dal regime
pubblicistico che presiede l’azione amministrativa, né dall’origine
pubblicistica delle norme applicabili ai rapporti di lavoro».
[33] M. D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la
seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”, in Opere, vol. IV, B. CARUSO S. SCIARRA (
cura di), Milano, Giuffrè Editore, 2000, 234.
[34] M. D’ANTONA, Autonomia negoziale e discrezionalità e
vincolo di scopo nella contrattazione collettiva nelle pubbliche
amministrazioni, in Opere, vol.
IV, cit., 132-133. Sulla questione ex multis v. A. VISCOMI, La contrattazione collettiva nazionale,
in Ideologia e tecnica nella riforma del
lavoro pubblico, cit., 45, il
quale osserva che « – semplificando non poco – il diritto privato consente di
mettere in atto ciò che non è espressamente vietato, laddove invece la
disciplina pubblicistica, giustificata proprio in relazione alla riserva di
legge prevista dall’art. 97 Cost., consente solo ciò che è esplicitamente
previsto, tanto da essere, essa stessa, all’origine della pedante e minuziosa
proliferazione regolativa che ha tradizionalmente segnato il lavoro pubblico».
E, fatta la scelta nel senso della privatizzazione, così come oggi la si evince
dall’art. 5 del d. lgs. n. 165/2001, un problema assai rilevante che è stato
affrontato dalla dottrina è stato quello della distinzione tra l’atto di natura
amministrativa e quello di natura privatistica, sul punto L. FIORILLO, Commento sub art. 5 d. lgs. n. 165/2001, in G. AMOROSO- V. DI CERBO- L.
FIORILLO- A. MARESCA, Diritto del lavoro,
Il lavoro pubblico, cit., 120 ss, il quale osserva che certa
dottrina, attraverso il recupero della distinzione tra rapporto di ufficio e
rapporto di servizio, ha individuato «i criteri distintivi degli atti di natura
pubblicistica o privatistica “facendo leva sulla posizione giuridica esercitata
dall’amministrazione (potere o diritto soggettivo) sulla base dell’attribuzione
compiuta dalla norma”. Con la conseguenza che “appartengono alla categoria
degli atti amministrativi gli atti con cui l’amministrazione determina in via
generale ed astratta, per il perseguimento immediato e diretto dell’interesse
pubblico, la propria organizzazione”, mentre devono qualificarsi “come atti di
natura privatistica gli atti di disposizione particolare e concreta con cui
l’amministrazione attua la gestione del rapporto di lavoro del dipendente”».
[35] T.
TREU V. FERRANTE, Finalità della riforma,
in Il lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche, Commentario,
dir. da F. CARINCI e M. D’ANTONA, cit.,
24. Sul punto M. PERSIANI, Prime
osservazioni sulla disciplina del pubblico impiego, in DL, 1993, I, 248 ss., il quale pone come prioritario il problema di
«individuare quali possano essere gli elementi di specialità che limitano
l’applicazione del diritto del lavoro privato ai pubblici dipendenti e, al
tempo stesso, quali siano gli interessi generali dei quali, comunque, deve
essere realizzata la soddisfazione».
[36] R.
GALLI, Corso di diritto amministrativo,
cit., 390; sul punto ex multis: A. ORSI BATTAGLINI, Fonti normative e regime giuridico del
rapporto di impiego con enti pubblici, in DLRI, 1993, 473 T. TREU V.
FERRANTE, Finalità della riforma, in Il lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche, cit.,
23 ss.; A. GARILLI, La privatizzazione
del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l’art. 97 Cost.:di alcuni problemi
e dei possibili rimedi, in RGL,
2007, I, 305-306, dove l’A. specifica che «un eventuale regime di separatezza
del corpo burocratico, vuoi sotto il profilo della fonte di disciplina, vuoi
sotto quello della specialità della normativa, rispetto al lavoro privato, deve
risultare giustificata dall’esigenza di garantire il raggiungimento
dell’interesse pubblico cui l’amministrazione è protesa e di “proteggerne la
scelta e le prestazioni da improprie interferenze politiche di parte”».
[37] Così C. Cost. 16
ottobre 1997, n. 309, in LPA, 1998,
II, 131; ma già prima, richiamata in motivazione, v. C. Cost., 25 luglio 1996,
n. 313, in RIDL, 1996, con nota di E.
GRAGNOLI, Imparzialità del dipendente
pubblico e privatizzazione del rapporto di lavoro; Gcost., 1996, 2584, nota PINELLI, Imparzialità, buon andamento e disciplina differenziata del lavoro
dirigenziale.
[38] M. D’ANTONA, Autonomia negoziale e discrezionalità e
vincolo di scopo nella contrattazione collettiva nelle pubbliche
amministrazioni, in Opere, vol.
IV, cit., 136.
[39] Così D. IMMORDINO, I principi di “buona amministrazione
nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico”, cit., 524, il quale sottolinea la posizione di neutralità del
Giudice delle leggi (s. n. 59/1997) rispetto alla fonte di disciplina del
pubblico impiego.
[42] Sul punto E. ALES, Le prerogative datoriali delle pubbliche
amministrazioni e il loro doveroso esercizio, in Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, cit., 115-116, il quale istituisce una
distinzione tra la sfera imprenditoriale, alla quale pertiene la titolarità del
potere di autorganizzazione degli organi di governo o di vertice, e la sfera
datoriale alla quale pertiene il potere di autorganizzazione del dirigente in
qualità di datore di lavoro. Distinzione indubbiamente stimolante sulla quale
si avrà modo di tornare in seguito.
[43] P. CERBO, Potere organizzativo e modello
imprenditoriale nella pubblica amministrazione, CEDAM, Padova, 2007, 24-25.
[44] Sul punto A. MALTONI, Considerazioni in tema di attività
procedimentali a regime privatistico delle amministrazioni pubbliche, in Dir. Amm., 2011, 153, dove l’A.
specifica che «se spetta, in prima battuta, al legislatore la determinazione
del modulo di azione della p.a. – ancorché in alcuni casi sia difficile
immaginare l’utilizzo di un modulo diverso da quello pubblicistico – potrebbe
essere ritenuto preferibile, in determinate ipotesi, non tanto l’utilizzo di
uno strumento privatistico, quanto, più specificamente, la
procedimentalizzazione dell’attività privatistica. Uno schema procedimentale,
associato all’applicazione di altri istituti (quali, ad esempio, la
responsabilità disciplinare, la responsabilità amministrativa per danno
all’erario), in alcuni casi può forse garantire in modo altrettanto, se non più
soddisfacente la cura dell’interesse pubblico, nonché assicurare ai soggetti
interessati determinate garanzie».
[45] R. GALLI, op. cit., 385. Sul punto, D. IMMORDINO, I principi di “buona amministrazione
nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico”, cit., 521, dove l’a. sottolinea la difficoltà di distinguere
nettamente, quanto all’estensione della riserva di legge ex art. 97 Cost., il profilo organizzativo, che sarebbe alla legge
riservato, dal profilo dell’attività amministrativa che ne sarebbe escluso,
concludendo che tale distinzione comprometterebbe «la coerenza della disciplina
costituzionale alterandone il proprium
assiologico».
[46] Sul punto A. MASSERA, I criteri di economicità, efficacia ed
efficienza, in Codice dell’azione
amministrativa, M. A. SANDULLI (a cura di), Le fonti del diritto italiano,
Codice dell’azione amministrativa, Giuffrè
Editore, Milano, 2011, 34 ss.
[47] Sul punto ex multis: D. IMMORDINO, I principi di “buona amministrazione
nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico”, cit., 493 ss.; C. SPINELLI, Buona
amministrazione, efficienza organizzativa e produttività del lavoro: poteri e
responsabilità del dirigente pubblico, in LPA, 2009, 985 ss.; G. NICOSIA, Il
polimorfismo delle dirigenze pubbliche e la <<buona>>
amministrazione, in WP C.S.D.L.E.
“Massimo D’Antona”.IT – 81/2008; D. SORACE, La buona amministrazione e la qualità della vita, nel 60 anniversario
della Costituzione, Relazione al Convegno: La Costituzione ha 60 anni: la qualità della vita sessant’anni dopo,
Ascoli Piceno 14 marzo 2008, in www.astrid.it.
[48] F. G. SCOCA, Amministrazione pubblica e diritto
amministrativo nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Dir. Amm., 2012, 42-43 ss. Sul punto ex multis: L. FIORILLO, Commento sub art. 5 d. lgs. n. 165/2001, cit.,
129; M. D’ANTONA, Autonomia negoziale e
discrezionalità e vincolo di scopo nella contrattazione collettiva nelle
pubbliche amministrazioni, in Opere,
vol. IV, cit., 48.
[49] A. MASSERA, op. cit., 35-36, dove l’A. riferisce
delle diverse interpretazioni, soprattutto giurisprudenziali, dei due principi
singolarmente e congiuntamente considerati e attribuisce la diversa
considerazione del principio di buon andamento da parte degli interpreti «alla
sua minore consonanza con la tradizione culturale propria dell’interprete e
dell’operatore del diritto, piuttosto che al diverso grado di novità che esso
presentava agli occhi di quell’interprete e di quell’operatore rispetto al
principio di imparzialità».
[51] R.
GALLI, op. cit., 387, scelta
amministrativa che, come specifica l’A., attiene «al governo e alla gestione
degli uffici pubblici, delle strutture, dei mezzi, delle risorse economiche e
del personale che ciascun apparato pubblico è tenuto ad osservare negli atti
organizzativi di carattere programmatico generale (statuti, regolamenti, piani,
programmi) ed attuativo (provvedimenti amministrativi generali e particolari)».
[53]
Ancora A. MASSERA, op. cit., 36-37,
al quale si rimanda per la bibliografia essenziale degli autori che concordano
o dissentono su tale interpretazione.
[54]
Strumento evidente di tale attuazione è stata, ad esempio, la norma contenuta
nell’articolo 4, comma I, dove la legge stabilisce che: «le pubbliche
amministrazioni sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento
relativo ad atti di loro competenza l’unità organizzativa responsabile della
istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione
del provvedimento finale», o quella contenuta nell’art. 5 che prevede
l’individuazione della persona fisica responsabile di ogni «singolo
procedimento».
[55]
Sempre A. MASSERA, op. cit., 32-33.
Come osserva un’attenta dottrina, D. IMMORDINO, I principi di “buona amministrazione nell’ordinamento giuridico”, cit.,
496: «(l)a formulazione dell’art. 97 si rivela in tal senso funzionale a
consentire alla giurisprudenza di vigilare che i principi in essa contenuti
trovino effettiva ed adeguata declinazione, giacché da un lato ne favorisce una
applicazione estesa a tutti gli ambiti di attività amministrativa, dall’altro
ne consente il modellamento sulla base del c.d. diritto vivente, in modo che
dei postulati relativi vengano date nel tempo interpretazione ed applicazione
adeguate alle mutevoli esigenze dell’ordinamento giuridico, in ragione del
concreto atteggiarsi delle istanze sociali che devono trovare soddisfacimento
nell’attività dell’amministrazione».
[58] A questo proposito è importante
rilevare che il legislatore, sempre nell’art. 1, lett. a) del d. lgs. n.
165/2001, pone come parametro di riferimento, per valutare il grado di
efficienza degli uffici e dei servizi, i Paesi dell’Unione europea; ed è stato
opportunamente sottolineato che «il contenimento della spesa pubblica e dunque
l’efficienza delle pubbliche amministrazioni rappresentano le finalità
prioritarie del disegno europeo ancora più urgenti e vincolanti della
convergenza degli ordinamenti del lavoro privato», e d’altronde il legislatore,
alla lett. b), indica l’obiettivo della razionalizzazione del costo del lavoro
pubblico attraverso il contenimento della spesa complessiva del personale, sia
diretta che indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica. Sul punto v. L.
FOGLIA, Commento sub art. 1 d. lgs. n. 165/2001, in G.
AMOROSO- V. DI CERBO- L. FIORILLO- A. MARESCA, Diritto del lavoro, Il lavoro
pubblico, cit., 12.
[59] A.
MASSERA, op. cit., 30, il quale
definisce i principi come le “3 E” nella «“vulgata” di stampo economico
aziendalistico”. Sul punto A. GARILLI, La
privatizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l’art. 97 Cost.:
di alcuni problemi e dei possibili rimedi, cit., 304, che sottolinea le «radici non giuridiche del principio
del buon andamento». Per una ricostruzione del significato del principio di
buon andamento in relazione al criterio di economicità, nell’accezione di
equilibrio economico, v. P. CERBO, Potere
organizzativo e modello imprenditoriale
nella pubblica amministrazione, cit.,
82 ss., dove l’Autore ricostruisce l’interpretazione della Corte costituzionale
che legge il principio come volto ad assicurare “un’ottima funzionalità” che
l’amministrazione deve raggiungere predisponendo strutture e moduli ad essa
finalizzati. Osserva, altresì, l’Autore che le conclusioni della dottrina non
sono poi diverse.
[60] P. CERBO, op. cit., 28-29, dove l’Autore precisa
che questi ultimi significati pertengono la scienza dell’amministrazione.
[63] P. CERBO, op. cit., 61, dove l’Autore specifica
che l’aziendalizzazione delle imprese pubbliche comporta di per sé il rischio
d’impresa legato ai risultati dell’attività.
[65] A. MASSERA, op. cit., 29, dove l’A. osserva che
«questa prospettiva, peraltro, interagisce con quella più specificamente
propria dell’economia del benessere, nella quale è la condizione di efficienza
complessiva di un sistema globalmente considerato di attività produttive e di
scambio che prende soprattutto corpo, come quella corrispondente alla
allocazione ottimale delle risorse in quanto in grado di consentire la
realizzazione della massimizzazione del benessere collettivo».
[66] A. MASSERA, op. cit., 30, dove prosegue l’A.: «così,
l’economicità (o efficacia gestionale) misura la relazione tra mezzi e
obiettivi, imponendo la sostenibilità dei costi per l’intera durata dell’azione
programmata mediante l’appropriato impiego delle risorse; l’efficacia
(efficacia sociale) misura la relazione tra obiettivi e risultati, imponendo la
congruità tra i prodotti dell’azione e i fini stabiliti, in termini di
interessi e bisogni soddisfatti; l’efficienza (interna o tecnologica) misura la
relazione tra mezzi e risultati, imponendo la combinazione dei fattori
produttivi tale da realizzare il minor costo rispetto ai prodotti ottenuti (o
l’incremento dei prodotti ottenuti dato il vincolo delle risorse disponibili) e
quindi la massimizzazione di tale rapporto».
[67] A. MASSERA, op. cit., 30-31, dove l’A. sottolinea
che l’integrazione si può assestare secondo combinazioni diverse. Potranno,
pertanto, verificarsi contesti nei quali l’efficienza, l’efficacia e
l’economicità, quali parametri di misurazione, si presenteranno tutti secondo
termini di raffronto positivi; ma «l’azione o la decisione» potrà anche «essere
dimostrata come efficace ma non efficiente, ovvero efficace ma non economica,
ovvero ancora efficiente ma non efficace, efficiente ma non economica e così via».
Ed è importante sottolineare che nei singoli contesti non si potrà, comunque,
prescindere dalla valutazione di
altri fondamentali elementi quali ad esempio la gestione, gli errori nella
formulazione degli obiettivi o quelli nell’assegnazione delle risorse.
[68] A. MASSERA, op. cit., 66. Sul punto A. GARILLI, La privatizzazione del lavoro nelle
pubbliche amministrazioni e l’art. 97 Cost.: di alcuni problemi e dei possibili
rimedi, cit., 304, il quale
sottolinea l’ «equivocità semantica» del principio del buon andamento,
definendolo non soltanto «una regola formale rivolta alle modalità
dell’organizzazione, ma sostanziale dell’azione amministrativa».
[69] Sul punto C. D’ORTA, Il potere organizzativo delle pubbliche
amministrazioni tra diritto pubblico e diritto privato, cit., 89 ss., il quale sottolinea
l’ambivalenza, sotto diversi profili, del termine organizzazione.
[70] Sul punto E. ALES, Le prerogative datoriali delle pubbliche
amministrazioni e il loro doveroso esercizio, in Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, cit., 109 ss., il quale suggerisce la
possibilità di equiparare alle scelte imprenditoriali ex art. 41 Cost. le scelte di indirizzo politico-amministrativo
delle PP.AA.; in senso contrario V. FERRANTE, Direzione e gerarchia nell’impresa (e nel lavoro pubblico privatizzato),
Art. 2086, in Il Codice Civile, Commentario,
fondato da P. SCHLESINGER e diretto da P. BUSNELLI, Milano, Giuffrè Editore,
2012, 31, e in particolare 183, il quale, a mente del combinato disposto
degl’artt. 41 e 97 Cost., nega la possibilità di riconoscere la validità del
principio di libertà d’iniziativa economica alle pubbliche amministrazioni, «in
quanto la attività amministrativa rimane comunque vincolata nel suo complesso
al rispetto dei principi di imparzialità e del buon andamento». Con riferimento
ai numerosi problemi applicativi generati dalla disciplina prescelta: L.
FIORILLO, Commento sub art. 5 d. lgs. n. 165/2001, cit., 121.
[72] A. GARILLI, op. cit.,
302-304. Sulla difficile distinzione tra le materie oggetto rispettivamente
dell’alta e bassa organizzazione già: C. D’ORTA, Il potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni tra diritto
pubblico e diritto privato, cit.,
98 ss.
[73] C. CESTER – M. G.
MATTAROLO, Diligenza e obbedienza del
prestatore di lavoro, sub art.
2104, in Il codice civile, Commentario, fondato e già diretto da P.
Schlesinger continuato da F. D. Busnelli, Giuffrè editore, 2007, 339; sul punto
già F. LISO, La privatizzazione dei
rapporti di lavoro, cit., 203;
più di recente, A. RICCARDI, L’organizzazione
del lavoro nell’amministrazione pubblica, Interessi, tecniche regolative, tutele, vol. I, Profili
sostanziali, Bari, Cacucci editore, 2011, 29.
[74] Ancora C. D’ORTA, Il potere organizzativo delle pubbliche
amministrazioni tra diritto pubblico e diritto privato, cit., 91-92.
[75] Sul punto S. LIEBMAN, La disciplina delle mansioni nel lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in ADL, 1999, 629, il quale definisce inedito il riferimento
legislativo agli strumenti privatistici «tramite il ricorso alla categoria del
“potere”, assente, (…) nella legislazione in materia di lavoro alle dipendenze
del privato imprenditore»; L. CASTELVETRI, Libertà contrattuale e
subordinazione, Milano, 2001, 167, che definisce la formula un «lapsus legislativo».
[76] F. LISO, La privatizzazione dei rapporti di lavoro,
cit., 245; sul punto in senso adesivo
C. SPINELLI, Buona amministrazione, efficienza
organizzativa e produttiva del lavoro: poteri e responsabilità del dirigente
pubblico, cit., 990.
[77] Sui “limiti” dettati
dalla legge al dirigente nell’esercizio dei poteri del privato datore di
lavoro, soprattutto dopo la riforma del 2009: A. GARILLI, Dove va il pubblico impiego, in NLCC
, 2011, 1078 ss.; F. BORGOGELLI, Sui
poteri della dirigenza pubblica nella disciplina dei rapporti di lavoro: il
nuovo modello regolativo, in Studi in
onore di Tiziano Treu, Lavoro,
istituzioni, cambiamento sociale, vol. III, Jovene Editore, Napoli, 2011,
1541 ss.; A. BOSCATI, Dirigenza pubblica:
poteri e responsabilità tra organizzazione del lavoro e svolgimento
dell’attività amministrativa, in LPA,
2009, 13 ss.
[78] Cfr.
C. SPINELLI, Organizzazione e poteri
“datoriali” del dirigente pubblico, in U. CARABELLI M. T. CARINCI (a cura
di), Il lavoro pubblico in Italia,
Cacucci Editore, Bari, 2010, 113 ss., ID., Buona
amministrazione, efficienza organizzativa e produttiva del lavoro: poteri e
responsabilità del dirigente pubblico, cit.,
990. Si deve sottolineare che, a seguito della riforma Brunetta, ai dirigenti è
stato riconosciuto il ruolo di supportare gli organi di indirizzo politico nel
«processo di decisione politica sugli indirizzi dell’azione amministrativa e di
valutazione sull’attuazione degli stessi»: così G. D’ALESSIO, Osservazioni sul decreto legislativo
attuativo della legge delega n. 15/2009, con specifico riferimento alle
disposizioni della dirigenza, Camera dei deputati, Commissione affari costituzionali – Commissione lavoro,
Audizione del 17 giugno 2009, in www.astrid-online.it/, 4. Sul principio di separazione tra
politica e amministrazione: S. BATTINI, Il principio di separazione fra politica e
amministrazione in Italia: un bilancio, in RTDP, 2012, passim. Sulle perduranti inadempienze del
legislatore in merito al ruolo e alle responsabilità del potere politico: A.
GARILLI, Dove
va il pubblico impiego, cit., 1088.
[79] S.
BATTINI, Un vero datore di lavoro
per il settore pubblico: politico o amministrativo?, in
GDA, 2009, 475-476; Più di recente, per un’ampia ricostruzione dell’evoluzione
del principio di separazione tra politica e amministrazione nel nostro
ordinamento: ancora BATTINI, Il principio di separazione tra politica e amministrazione in Italia:
un bilancio, cit.,
39ss. Sulla questione tra i tanti: P. TANDA, Controlli amministrativi e modelli di
governance della pubblica
amministrazione, Torino, Giappichelli, 2012, 279-304, fondamentale sulla
questione del rapporto tra politica e amministrazione l’art. 4 del d. lgs. n.
165/2001: la norma indica con estrema chiarezza la funzione di cerniera tra
politica e amministrazione assegnata al dirigente. Nel primo comma, infatti,
vengono elencate le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e gli atti
che rientrano nello svolgimento di tali funzioni, spettanti agli organi di
governo, senza per’altro imputare a questi eventuali responsabilità.
Diversamente il secondo comma nell’individuare le attribuzioni dei dirigenti ne
prescrive la responsabilità «in via esclusiva» in relazione alla «attività
amministrativa – alla – gestione e – ai – risultati». Il cammino del
progressivo affrancamento del dirigente dalle influenze dell’organo politico
prende avvio, in attuazione del dettato costituzionale (art. 97 Cost.), dal
lontano 1972 quando, per la prima volta la disciplina della dirigenza statale
viene differenziata rispetto a quella degli altri dipendenti. Si segna così il
passaggio da una «effettiva supremazia gerarchica» dei poteri del Ministro ad
una «supremazia generale», passaggio che conosce i suoi snodi più significativi
nel lungo processo di privatizzazione; S. CAPONETTI, Potere politico, dirigenza
pubblica e spoyl system all’italiana: identità e difformità con l’ “originario” modello
statunitense, in ADL 2011,
283 ss., che ricostruisce il quadro legislativo sul tema fino all’abrogazione
del comma 1-ter
dell’art. 19 del d. lgs. n. 165/2001 e alla sentenza della Corte costituzionale
del 2010.
[80] Sul punto ex multis, C. CESTER – M. G. MATTAROLO, Diligenza e obbedienza del prestatore di
lavoro, sub art. 2104, cit., 334 ss.; C. D’ORTA, Il potere organizzativo delle pubbliche
amministrazioni tra diritto pubblico e diritto privato, cit., 141 ss.
[81] Sul punto F.
BORGOGELLI, La riforma del lavoro
pubblico: quale lezione dopo quindici anni, cit., 141-148; sulle questioni relative alla l. n. 145/2002, in
particolare per una accurata ricostruzione dell’evoluzione dell’utilizzazione
nel nostro ordinamento dello strumento dello spoyl system: F. BACCHINI, Lo
spoyl system e l’elemento della
fiduciarietà: profili problematici e spunti di riflessione fra Corte
Costituzionale ed evoluzione normativa, in LPA, 2012, 793 ss. Sul punto ex
multis: A. ZOPPOLI, L’indipendenza
dei dirigenti pubblici, in Ideologia
e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, cit., 138 ss.; F. CARINCI, La
privatizzazione del pubblico impiego alla prova del terzo governo Berlusconi:
dalla legge 133/2008 alla legge n. 15/2009, cit., 949, che considera il provvedimento «già in contro-tendenza,
per la sua voglia di recuperare area di manovra al vertice politico, la sua
nostalgia pubblicistica, la sua opzione anti-contrattualista». L. ZOPPOLI, Una riforma che riprende faticosamente il
suo cammino, cit., 293 ss.; M.G.
GAROFALO, Autonomia dell’amministrazione
e autonomia professionale dei dirigenti pubblici: osservazioni sulla legge 15
luglio 2002, n. 145, in Diritto del
lavoro i nuovi problemi, L’omaggio dell’Accademia a Mattia Persiani, t. II,
CEDAM, Padova, 2005, 1489 ss.; U. CARABELLI, La riforma del lavoro pubblico: alcune sequenze fotografiche, in Scritti in onore di Edoardo Ghera, cit., 203-204, il quale pone in evidenza
tra le innovazioni legislative della legge n. 145, che viene considerata una
vera e propria “controriforma”, la negatività della previsione della
«riconduzione degli incarichi dirigenziali ad un provvedimento unilaterale», rimanendo nell’area della
regolamentazione contrattuale il solo trattamento economico, dell’eliminazione
del termine minimo di due anni per la durata dell’incarico dirigenziale.
[83] F. CARINCI, La privatizzazione del pubblico impiego alla
prova del terzo governo Berlusconi: dalla legge 133/2008 alla legge n. 15/2009,
cit., 977, dove l’A. precisa che i
termini del riferimento al rispetto della giurisprudenza costituzionale «fa
presumere la volontà di sfruttare al massimo lo spazio lasciato aperto dal
giudice delle leggi per rafforzare il legame “fiduciario” tra top management e vertice politico».
[84] Ancora C. ROMEO, La controriforma del pubblico impiego, cit., 762; per importanti
approfondimenti v. altresì: G. D’ALESSIO, La
disciplina del lavoro nelle pubbliche amministrazioni tra pubblico e privato,
in LPA, 2012, 3-4; A. ALAIMO, La contrattazione collettiva nel settore
pubblico tra vincoli, controlli e “blocchi”: dalla “riforma Brunetta” alla
“manovra finanziaria” 2010, in LPA,
2010, 287 ss.; sulle “colpe” della contrattazione collettiva: A. GRAGNOLI, Contrattazione collettiva, relazioni
sindacali e riforma dell’ARAN, cit.,
1004-1005, il quale osserva, prima dell’emanazione del decreto delegato, che
«(p)er un verso è meritato il biasimo riservato alla contrattazione, poiché,
pieni di clausole ambigue e causa di accesi dibattiti giurisprudenziali, i
numerosi accordi succedutisi dal 1993 non hanno dato buona prova. Per altro
verso, vi è da dubitare del fatto che l’invocato spiazzamento del negoziato ed
il parziale ritorno alla legge possano portare ai risultati pianificati». E,
ora, dopo l’emanazione del decreto delegato, a dire il vero, l’affermazione su
un ritorno solo “parziale” alla legge appare ovviamente troppo ottimistica;
vero è che, come afferma nel prosieguo l’A., «(p)urtroppo, sono falliti tutti i
tentativi di riforma, non solo quelli basati sugli strumenti consensuali, ma
anche quelli imperniati sulle fonti eteronome»; v. ancora L. ZOPPOLI, La contrattazione collettiva dopo la delega,
in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT
– 87/2009, 9 ss.; A.
VISCOMI, La contrattazione collettiva
nazionale, in Ideologia e tecnica
nella riforma del lavoro pubblico, cit.,
49 che, dall’analisi degli enunciati contenuti nell’art. 53 del d. lgs. n. 150,
dell’Accordo interconfederale del 22 gennaio 2009 e della relativa Intesa del
30 aprile del medesimo anno, afferma che «è (…) ragionevole individuare una
delle ragioni ispiratrici della riforma nella lamentata assenza di una netta linea di confine tra spazio negoziale
condiviso e area di autonomo potere unilaterale, tale da legittimare o comunque
non impedire reiterate invasioni di campo da parte di un’azione contrattuale
ritenuta tendenzialmente onnivora e pervasiva». In particolare sulla tormentata
vicenda della contrattazione decentrata: V. TALAMO, Gli assetti della contrattazione dopo il d. lgs. n. 150 del 2009 e la
finanziari d’estate: ratio di una
riforma, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT
– 110/2010; G.
NATULLO e P. SARACINI, Vincoli e ruoli
della contrattazione integrativa, in Ideologia
e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, cit., 61 ss., dove Natullo osserva che soprattutto a partire dal d.
lgs. n. 396/97 il ruolo della contrattazione decentrata viene riconosciuto,
essenziale e irrinunciabile, e formalizzato; essa viene «specializzata sulla
materia della retribuzione accessoria incentivante ma, contemporaneamente
circondata “di vincoli e paletti, nella speranza di riuscire in tal modo a
contenerla entro gli argini di una sua fisiologica, e virtuosa, attuazione».
[85] R. GALLI, op. cit., 419 ss., il quale osserva che,
con estrema accortezza si era così ottenuto il risultato di «neutralizzare il
rischio di un’integrale rilegificazione», ad opera di successivi interventi del
legislatore, nelle materie demandate alla contrattazione collettiva, senza
tuttavia incorrere nella violazione di due principi fondamentali relativi l’uno
alla successione della legge nel tempo, l’altro al rapporto tra legge e
contratto collettivo.
[86] Precisazione «del
tutto inutile» giacché tale carattere si deduceva implicitamente già dalla
precedente formulazione; infatti è tradizione consolidata nella codificazione
che l’imperatività delle norme non necessiti di un espresso richiamo per ogni
provvedimento legislativo, così V. FERRANTE, I poteri datoriali rivisitati, Commento
sub artt. 32-36, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni
tra innovazioni e nostalgie del passato, Commentario sistematico (a cura di) M. NAPOLI e A. GARILLI, in NLCC, 2011, 1106.
[87] Con riferimento
specifico alle Regioni, agli enti locali e al servizio sanitario nazionale v.
art 29 d. lgs. n. 150/ 2009.
[88] Sul punto B. CARUSO, op. cit., 271-273; A. ALAIMO, La contrattazione collettiva nel settore
pubblico tra vincoli, controlli e “blocchi”: dalla “riforma Brunetta” alla
“manovra finanziaria” 2010, cit.,
313-315, la quale specifica che l’art. 33 concerne «il generale rapporto
legge-contrattazione collettiva e determina una integrazione dell’art. 2 del d.
lgs. n. 165/01», ad esso, infatti, aggiunge il comma 3bis che, appunto, prevede esplicitamente l’applicabilità del
meccanismo di sostituzione automatica ex
artt. 1339 e 1419 c.c.; nell’art. 54 (nuovo art. 40, comma 3quinquies) il meccanismo è previsto in
riferimento alla contrattazione integrativa, «per garantire il rispetto dei
vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o
dalle norme di legge e dei vincoli finanziari derivanti dagli strumenti di
programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione».
[89] Non è, altresì, da
sottovalutare il problema di carattere applicativo che concerne la sostituzione
automatica delle eventuali clausole nulle con clausole che perciò devono
presentare il requisito dell’ “autosufficienza”; e certamente le norme del d.
lgs. n. 165/2001 non possiedono tale caratteristica. La loro formulazione,
infatti, posto che esse “attribuiscono poteri ovvero definiscono modalità,
strumenti o percorsi procedimentali, anche con rinvio alla contrattazione
collettiva”, presentandosi come clausole “in bianco” che devono essere
completate da decisioni rinviate all’amministrazione o alla stessa
contrattazione, non consente l’immediata trasposizione nel contratto. Ed è per
questo che, correttamente, Ferrante sostiene che, quando si tratta di
competenze contrattuali, nel caso di nullità derivante da un contrasto con le
norme imperative contenute nel d. lgs. 165, il meccanismo di sostituzione non
può operare, inverandosi una mera caducazione delle clausole nulle. La medesima
dottrina osserva, altresì, che un modello consono ai casi di nullità delle
disposizioni della contrattazione collettiva “avrebbe dovuto essere” quello
proprio degli atti legislativi dichiarati incostituzionali; modello contenuto
peraltro nell’art. 40, comma 3quinquies,
che, infatti si limita a disporre l’inapplicabilità delle clausole nulle. Sulla
questione ex multis G. D’ALESSIO, La disciplina del lavoro nelle pubbliche
amministrazioni tra pubblico e privato, cit.,
14; sulla questione V. FERRANTE, I poteri
datoriali rivisitati, cit.,
1107-1108.
[90] Sulla questione G.
NICOSIA, I dirigenti pubblici nella
riforma Brunetta: più controllori o più controllati?, in LPA, 2010, 331-332. Per un’ampia
disamina sul tema della negoziabilità dell’organizzazione e dei poteri
dirigenziali prima della riforma del 2009 v. A. BELLAVISTA, Lavoro pubblico e contrattazione collettiva,
in RGL, 2007, 334 ss. E’ da segnalare
comunque che nel 2012 la formula introdotta nel 2009: «(…) fatta salva la sola
informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti di cui all’articolo 9»,
che chiudeva il primo periodo
del 2° dell’art. 5, diventa «(…) fatti salvi la sola informazione ai sindacati per le determinazioni relative all'organizzazione degli uffici ovvero, limitatamente alle misure
riguardanti i rapporti di lavoro, l‘esame congiunto, ove previsti nei contratti di cui all‘articolo
9», ad. opera del d. l. n.
95/2012 conv. con mod. dalla l. n. 135/2012.
[92] B. CARUSO, Le dirigenze pubbliche tra nuovi poteri e
responsabilità (Il ridisegno della governance nelle p. a. italiane), WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 104/2010, 13-14.
[93] Ai sensi della lettera
g): l’«introduzione di un sistema informativo nazionale, finalizzato alla
formulazione di indirizzi generali e di parametri di riferimento in grado di
orientare la programmazione delle assunzioni anche in relazione agli interventi
di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche; rafforzamento della
funzione di coordinamento e di controllo del Dipartimento della funzione
pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri in relazione alle
assunzioni del personale appartenente alle categorie protette» e ai sensi della
lett. i): «rilevazione delle competenze dei lavoratori pubblici».
[95] Tali Commissioni dovranno,
innanzitutto, assorbire le funzioni del Comitato dei garanti, relative ai
dirigenti statali; la delega dovrà essere esercitata, poi, su altre funzioni
«ivi compresa la verifica del rispetto dei criteri di conferimento degli
incarichi e del concreto utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del
conferimento e della revoca degli incarichi», (art. 11, I c. I, lett. b), n.
1); in relazione all’accesso per corso-concorso, le Commissioni dovranno
curare, ai sensi della lett. c), n. 1, l’«immissione nel ruolo unico della
dirigenza», dei funzionari vincitori del corso-concorso, «sulla base della
valutazione da parte dell’amministrazione presso la quale è stato attribuito
l’incarico iniziale». Ancora, alla lettera g), per quanto riguarda il
conferimento degli incarichi dirigenziali ai dirigenti appartenenti a ciascuno
dei tre ruoli (statali, regionali, locali), viene attribuita alle Commissioni,
che devono tener conto dei criteri definiti dall’amministrazione, la funzione
di definire i “criteri generali”e di operare la «preselezione di un numero
predeterminato di candidati in possesso dei requisiti richiesti (…) per gli
incarichi relativi ad uffici di vertice e per gli incarichi corrispondenti ad
uffici di livello dirigenziale generale»; mentre, per quanto riguarda gli altri
incarichi dirigenziali, le Commissioni sono chiamate alla verifica successiva
del rispetto dei requisiti e dei criteri.
[96] Come si è già
rilevato, per il superamento della rigida contrapposizione v. C. Cost. 16
ottobre 1997, n. 309, cit., ma già
prima, richiamata in motivazione, v. C. Cost., 25 luglio 1996, n. 313, cit. In dottrina M. RUSCIANO, Rapporto di lavoro pubblico e
privato: verso regole comuni?, in
LD, 1989, 371 ss.; ID., La
dirigenza nell’amministrazione centrale dello Stato, in LPA, 2001, 512; più di recente,
richiamando il pensiero di Mario Rusciano: L. MONTUSCHI, A proposito di mitologie nel riformismo del lavoro pubblico, cit., 50 ss.
[98] Un ulteriore
riferimento riguarda, poi, la «possibilità di avvalersi, per le attività di
reclutamento e di formazione delle migliori istituzioni di formazione,
selezionate con procedure trasparenti, nel rispetto di regole e di indirizzi
generali e uniformi (…)» (art. 11, I c., lett. d).
[99] Sul punto B. CARUSO -
D. COMANDE’, La formazione e il “lavoro
di qualità”: la prospettiva europea, in Scritti
in onore di Edoardo Ghera, cit.,
216, ai quali si rimanda per gli ampi riferimenti bibliografici e per la
ricostruzione del divenire dell’attuale concetto di formazione nel suo periodo
fondamentale.
[100] R.
CASILLO, La dignità nel rapporto di
lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo
D’Antona”.IT – 71/2008, 21 ss., la quale considera la dignità umana quale
«insieme delle qualità attitudinali e delle caratteristiche deontologiche
insite nelle competenze che definiscono l’attività esercitata, essa identifica
il lavoratore come appartenente ad un determinato gruppo nell’ambito
dell’organizzazione lavorativa. La dignità professionale è cioè una dignità di status, quello socialmente definito in
base alla professionalità esplicata, non rileva se in forma subordinata o meno.
E’ una forma di dignità sociale, ed in ciò si distingue dalla dignità umana che
è, invece, qualità che identifica il lavoratore come uomo. Ciò conferma la
stessa giurisprudenza costituzionale, che distingue tra dignità professionale
(relativa) e dignità tout court
(assoluta) del lavoratore. E tuttavia, essa si trova espressa e specificata,
nei termini del suo svolgimento, in via indiretta, all’art. 41, comma 2, e in
via diretta, all’art. 36 Cost. Le due disposizioni, non evidenziano una
concezione della dignità del lavoratore altra rispetto alla dignità della
persona in sé, sottendono invece la sensibilità verso una maggiore esigenza di
tutela dovuta alle maggiori insidie che, alla dignità, possono derivare nel
contesto della subordinazione e che giustificano la specificazione, ivi
contenuta, del rapporto tra dignità del lavoratore e interesse economico che
muove l’agire datoriale».
[101] R.
CAVALLO PERIN B. GAGLIARDI, Status dell’impiegato
pubblico, responsabilità disciplinare e interesse degli amministrati, in Dir. Amm., 2009
[103] D.
IMMORDINO, Spunti sul principio di fedeltà
alla Repubblica, op. loc. ult. cit.;
ID., Brevi spunti sullo “statuto costituzionale” del pubblico impiego, cit., 277 ss., dove l’A. specifica che
«stante il ruolo dell’amministrazione in relazione alla realizzazione dei
fondamentali diritti e valori del sistema giuridico, il vincolo di esclusività
partecipa alla costruzione della cittadinanza nazionale, alla declinazione del
rapporto tra Stato e cittadini, tra autorità e libertà, e alla compiuta
realizzazione dei principi democratico solidaristico e partecipativo».
[104]
Ancora R. CAVALLO PERIN B. GAGLIARDI, op.
cit., 61-62, dove gli Autori specificano che tradizionalmente la natura
patrimoniale nel rapporto di lavoro pubblico è stata ritenuta “non prevalente”,
considerandosi «lo stesso “trattamento” economico un elemento dello status, slegato da un nesso di
corrispettività in senso stretto rispetto alla prestazione resa, il cui scopo
era quello di consentire al funzionario di assolvere le sue funzioni
serenamente, mantenendo un tenore di vita adeguato alla posizione ricoperta».
[105] P.
CERBO, Potere organizzativo e modello
imprenditoriale nella pubblica amministrazione, cit., 139.
[106] Cfr.
art. 11, I c., lett. c), nn. 1 e 2, l. n. 124/2015, «con riferimento
all’accesso alla dirigenza».
[107] B.G.
MATTARELLA, Le regole dell’onesta, Etica, politica, amministrazione,
Bologna, il Mulino, 2007, 132.
[108] G.
NICOSIA, Il polimorfismo delle dirigenze
pubbliche e la “buona” amministrazione, cit.
Sul punto M. D’ANTONA, Autonomia negoziale
e discrezionalità e vincolo di scopo nella contrattazione collettiva nelle
pubbliche amministrazioni, cit.,
136.
[109]
Ancora G. NICOSIA, Efficienza, etica e
buona gestione: nuovi paradigmi nel settore del lavoro pubblico, in RGL, 2010, 540; nello stesso senso C.
CESTER - M. G. MATTAROLO, Diligenza e
obbedienza del prestatore di lavoro, sub
art. 2104, cit., 334-335.
[110] F.
PATRONI GRIFFI, La riforma del settore
pubblico, testo delle prolusioni all’inaugurazione del Master in Scienza
dell’amministrazione organizzato dalle università La Sapienza e Luiss – Roma,
23 novembre 2012 – e all’inaugurazione dell’anno accademico della SPISA –
Bologna, 24 novembre 2012), in www.funzionepubblica.gov.it