GLI AVVOCATI E LE NUOVE FORME DI ADR: IL
DIRITTO COLLABORATIVO
Università di Sassari
SOMMARIO: 1. Introduzione.
– 2. Il diritto collaborativo. – 3. Il ruolo degli avvocati nello sviluppo del diritto
collaborativo: Stati Uniti. – 4. Il diritto
familiare collaborativo in Canada. – 5. Forme
‘ibride’ di diritto collaborativo: la convenzione di procedura
partecipativa francese. – 6. Dal diritto
collaborativo alla negoziazione assistita: Italia. – 7. Riflessioni conclusive. – Abstract.
Nel corredo degli strumenti extragiurisdizionali di risoluzione
delle controversie, basati su un approccio consensuale e partecipativo, ha fatto
la sua recente comparsa il diritto collaborativo. Si tratta di un metodo di
gestione dei conflitti che si basa sul dialogo e la negoziazione condotta dalle
parti e dai loro avvocati nella ricerca di una soluzione della controversia[1].
La grande diffusione di queste procedure, nate negli Stati Uniti e in Canada
meno di venti anni or sono e ormai praticate e disciplinate in vari Stati europei,
sollecita alcune riflessioni sul nuovo ruolo assunto dagli avvocati nel
radicale mutamento di prospettiva che investe i sistemi di giustizia
dell’Occidente[2].
Oltre a rappresentare un nuovo strumento ascrivibile alle Alternative Dispute Resolution, il diritto collaborativo infatti
annuncia la comparsa di un nuovo protagonista sulla scena della giustizia
alternativa: l’avvocato. Messa in secondo piano dall’avvento della
mediazione e degli strumenti di giustizia informale che favoriscono lo sviluppo
di nuove figure professionali e le riservano una funzione ancillare e
consultiva, la classe forense in questi ultimi decenni ha subito una grande
trasformazione, sviluppando nuove competenze professionali che ridefiniscono la
pratica giuridica e assegnano un ruolo di primo piano all’avvocato nella
soddisfazione degli interessi delle parti[3].
Se la negoziazione costituisce da sempre uno strumento
largamente impiegato nell’esercizio della professione legale, è
l’etica collaborativa che caratterizza questa nuova pratica, basata sui
principi del dialogo, della trasparenza, della riservatezza, a distanziarla dal
modello competitivo che ha finora rappresentato il ruolo dell’avvocato e
a segnalare un rilevante cambiamento nell’esercizio della professione
legale. Nata negli Stati Uniti come una pratica risolutiva delle controversie
in ambito familiare, a partire dagli anni 2000 si è affermata come uno
strumento efficace in numerosi ambiti del diritto civile e commerciale. La
rapida diffusione delle pratiche collaborative sollecita alcune riflessioni
sulle origini e lo sviluppo di questo nuovo fenomeno giuridico.
Il contributo si articola in due parti. Nella prima parte
vengono illustrate le pratiche di diritto collaborativo e si descrivono le
origini e lo sviluppo del fenomeno negli Stati Uniti e in Canada. Nella seconda
parte, si considera la sua diffusione in ambito europeo con particolare
riferimento all’esperienza francese e italiana della negoziazione
assistita. Nella conclusione si prendono in esame le differenze tra diritto
collaborativo e negoziazione assistita per rilevare che la nuova procedura
negoziale, introdotta recentemente in Francia e Italia, non rispetta i principi
collaborativi, ma incoraggia il tradizionale modello competitivo, che ormai gli
stessi avvocati cominciano a considerare inadeguato alla nuova domanda di
giustizia.
Con l’espressione “diritto collaborativo” si
intende una modalità consensuale di risoluzione delle controversie che
prevede la presenza attiva delle parti, assistite dai loro avvocati, nella
ricerca di una soluzione alla loro disputa. Questa pratica, che si inserisce
nel corredo degli strumenti di giustizia informale, esclude la figura di un
terzo soggetto imparziale e facilitatore dell’accordo che caratterizza
quegli strumenti informali, come la mediazione e la conciliazione, intorno alle
quali si è costruita l’immagine di una giustizia alternativa alla
giurisdizione. Per questo rappresenta una novità nel panorama degli
strumenti extragiurisdizionali, perché infrange la logica triadica e
partecipativa affermata dalla mediazione per riproporre una struttura binaria
che sembra superare lo schema oppositivo tradizionale del negoziato.
Sebbene sia affine alla negoziazione, che si basa su un
confronto condotto dagli avvocati delle parti, questa pratica se ne distanzia,
perché associa allo schema classico della procedura negoziale un impegno
etico formale delle parti che esclude la strategia processuale e avvia un
dialogo leale, finalizzato alla risoluzione consensuale della disputa.
Particolare caratteristica di questa forma di intervento
giuridico è infatti la stipula di un accordo preliminare, definito
“accordo di partecipazione”, in cui le parti e i loro avvocati si
impegnano a risolvere la disputa in modo collaborativo, condividendo
informazioni rilevanti, rispettando il dovere di riservatezza e adottando un
comportamento leale nella negoziazione[4].
L’accordo di partecipazione prevede una clausola di esclusione che, in
caso di insuccesso della procedura consensuale e di ricorso in giudizio,
dispone che gli avvocati non possano rappresentare il proprio cliente in
giudizio e debbano lasciare l’incarico[5].
È questo l’elemento che differenzia il diritto collaborativo da
ogni altra pratica di risoluzione consensuale delle controversie, ormai nota e
impiegata dai professionisti del diritto. Con la nozione di diritto
collaborativo, scrive Macfarlane, si passa dall’idea di affidare ad un
solo avvocato il compito di lavorare a soluzioni extragiudiziarie a quella di
vincolare tutti gli avvocati che lavorano ad uno stesso caso all’adozione
esclusiva di metodi consensuali di risoluzione della controversia[6].
Firmatari dell’accordo sono infatti sia le parti della controversia, sia
i loro avvocati che sottoscrivono l’impegno a non ricorrere a una
procedura giudiziale per risolvere la disputa. In un caso di diritto
collaborativo – continua Macfarlane – l’avvocato ha il
«solo compito di consigliare e illustrare al suo cliente le soluzioni
extragiudiziali e negoziali basate sul consenso»[7].
Tra gli elementi che gli studiosi ritengono debbano essere parte
integrante di un accordo di diritto collaborativo questi risultano i più
rilevanti:
a)
Il divieto di rappresentare in giudizio il proprio cliente, in
seguito al fallimento della procedura negoziale. Questo permette di escludere
dall’approccio negoziale la minaccia del processo per forzare il
raggiungimento dell’accordo. Saranno nuovi avvocati a poter rappresentare
in giudizio le parti per la medesima controversia[8].
b)
La volontaria, rapida e completa condivisione di tutte le
informazioni ritenute rilevanti per la risoluzione della controversia[9].
c)
L’attiva e
diretta partecipazione dei soggetti della controversia. Sebbene gli avvocati
abbiano un ruolo determinante nell’andamento delle fasi negoziali, la
decisione ultima spetta alle parti che negli incontri si devono impegnare
attivamente per la rapida risoluzione della disputa[10].
d)
Un impegno etico ad
agire in buona fede e lealtà. Questo non impedisce che il dialogo abbia
ad oggetto un vivace e intenso confronto in cui vengono vagliate tutte le
opzioni, sulla base degli interessi delle parti e delle loro pretese
giuridiche. Ma implica che tutto ciò accada in un clima di reciproca fiducia
e trasparenza, in cui si abbandonano le tipiche strategie processuali a favore
di un approccio cooperativo.
La storia del diritto collaborativo è molto recente e risale
all’inizio degli anni Novanta quando Stuart Webb, avvocato familiarista
di Minneapolis, riflettendo sul ruolo dell’avvocato nel processo,
cominciò a elaborare un nuovo approccio basato sulla collaborazione tra
le parti rappresentate nel processo, piuttosto che sulla competizione tra esse.
Questo approccio, che successivamente venne costruito come un modello di
intervento giuridico, basato su accordi e regole, prevedeva una serie di
incontri tra le parti e i loro avvocati, volti al raggiungimento di un accordo
e all’esclusione del ricorso al giudice ordinario[11]. Il problema iniziale
considerato da Webb, che permise la definizione di un protocollo di intervento
collaborativo, fu la ricerca di una soluzione strategica in caso di fallimento
della procedura negoziale. La soluzione individuata fu che in tal caso gli
avvocati non avrebbero potuto trasformarsi da ‘collaborativi’ in
‘competitivi’, ma avrebbero dovuto lasciare l’incarico e
affidarlo ad altri avvocati che rappresentassero le pretese delle parti in
giudizio.
Nella rigorosa distinzione tra specialisti del modello negoziale
e specialisti del modello processuale che distingue il diritto collaborativo
dagli altri tipi di risoluzione delle controversie, Webb individuò una
serie di vantaggi, relativi alle finalità e ai metodi impiegati dai
professionisti[12].
Non avendo più l’alternativa del processo, gli avvocati si
concentrano esclusivamente sulla fase negoziale e su un unico obiettivo: quello
di raggiungere un accordo soddisfacente piuttosto che una vittoria processuale.
Ne consegue un impiego di differenti abilità e metodi, che non tutti gli
avvocati necessariamente possiedono, come la capacità di analizzare il
caso sotto molteplici profili e di ricorrere a tecniche di problem solving, in un clima disteso che viene favorito dagli
incontri programmati tra le parti e gli avvocati[13].
Da questa presa di posizione derivarono una serie di questioni
etiche e giuridiche, relative al ruolo degli avvocati e all’adeguata
tutela degli interessi delle parti che favorirono una serie di confronti
critici e un dibattito che definì e rafforzò ulteriormente la
specificità di questa forma di approccio[14].
Nel 2004, con il supporto del Collaborative Law Institute of Texas[15], una delle organizzazioni
più attive nella diffusione del diritto collaborativo, venne costituito
Il Texas Collaborative Law Council,
con la finalità di impiegare il processo collaborativo anche nelle
controversie civili e commerciali, formare gli avvocati a questa pratica,
informare i cittadini sui suoi benefici e preservare l’integrità
della procedura[16].
A tal fine è stato elaborato un protocollo per gli avvocati che si
impegnano nel processo collaborativo e un modello di accordo preliminare di
partecipazione[17].
Gli elementi essenziali di questa procedura sono l’individuazione
dei fini e interessi delle parti, una piena e completa divulgazione delle
informazioni rilevanti; una comunicazione efficace; rafforzare la
capacità delle parti di assumere decisioni in condizioni di
parità; dovere di riservatezza e buona fede nella negoziazione.
La diffusione e il favore che queste iniziative hanno incontrato
in seno alle categorie professionali ha generato una spinta verso la
definizione e regolamentazione giuridica del Collaborative Law. L’affermarsi di organizzazioni di avvocati
specializzati nel diritto collaborativo ha prodotto infatti una serie di
modifiche legislative che hanno introdotto modelli di pratiche collaborative in
Texas, North Carolina e California[18].
Un’esperienza analoga a quella statunitense viene maturata
dal Canada, dove le pratiche di diritto collaborativo si diffondono sul finire
degli anni Novanta, fino ad imporsi come un fenomeno giuridico emergente. A
riprova della grande attenzione suscitata nel mondo giuridico canadese dal Collaborative Law, nel 2005 il Ministero
della giustizia del Canada pubblica una ricerca, condotta sullo studio di casi
di diritto collaborativo negli Stati Uniti e in Canada nel triennio 2001-2004.
Il rapporto, intitolato “Le nouveau
phènoméne du droit de la famille collaboratif (DFC) étude
de cas qualitative”, prende in esame le principali questioni etiche,
pratiche e concettuali suscitate dall’impiego del DC e analizza il
rilevante cambiamento che questo produce nella pratica professionale e nella
relazione tra l’avvocato e il suo cliente[19]. L’autrice
della ricerca parte dall’assunto condiviso della crisi del processo come
strumento di risoluzione dei conflitti familiari e del limitato accesso ai
servizi di consulenza giuridica cui ricorrono le famiglie in crisi. Basandosi
su una serie di interviste condotte in Canada e negli Stati Uniti, Macfarlane
sottolinea, sullo sfondo di un processo sempre più evanescente, lo
sviluppo impetuoso del diritto familiare collaborativo come uno dei fenomeni
più rilevanti degli ultimi venticinque anni nell’ambito dei
servizi giuridici. Sebbene il suo carattere distintivo consista in un limite
posto al mandato dell’avvocato, relativo alla esclusiva ricerca di una
soluzione negoziale ed extraprocessuale della controversia, questa pratica ha
suscitato un grande entusiasmo presso i professionisti del diritto, che ne sono
infatti i principali promotori, per la sua efficacia, rapidità e per il
grado di soddisfazione che suscita presso i clienti.
Dal rapporto emergono le differenti aspettative e motivazioni
che muovono i professionisti legali e i loro clienti verso le pratiche di
diritto collaborativo.
I primi ritengono che il diritto collaborativo permetta una
pratica del diritto più coerente con i loro valori e convinzioni
rispetto al modello tradizionale della professione, orientata alla pratica
processuale e alla negoziazione strategica. Accanto al rifiuto di un approccio
competitivo, ritenuto ormai inadeguato alla gestione dei conflitti familiari, gli
avvocati collaborativi esprimono tuttavia anche il rifiuto della mediazione
familiare, ritenuta meno efficace della pratica collaborativa dalla maggioranza
degli intervistati[20]. A questo proposito,
appare rilevante l’affermazione di Stuart Webb, l’inventore del Collaborative Law: «Un punto
debole della mediazione credo che sia il fatto che il lavoro degli avvocati
venga lasciato fuori da tale processo ai suoi esordi (…). In
realtà si lascia fuori non solo l’atteggiamento fazioso e
conflittuale ma anche la capacità analitica e l’abilità di
trovare soluzioni ragionevoli ai problemi creando alternative costruttive ed un
ambiente favorevole al reperimento di un nuovo assetto»[21].
Gli avvocati ritengono che la mediazione non garantisca ai clienti la sicurezza
e le tutele che un’adeguata consulenza giuridica potrebbe fornire fin
dall’avvio della mediazione. Nella maggior parte dei modelli, gli
avvocati entrano in scena a mediazione conclusa, quando i punti salienti
dell’accordo sono stati definiti con il mediatore[22].
In questo giudizio, che sembra accomunare la maggior parte degli
avvocati sia nordamericani che europei[23] si nasconde, secondo
alcuni studiosi, una lotta di potere per il controllo del nuovo mercato degli
strumenti extragiudiziali di risoluzione delle dispute che stanno ricomponendo
il panorama dell’offerta di giustizia e ridefinendo
l’identità professionale dell’avvocato[24].
Sembra quindi che il Collaborative
Law rappresenti una terza via per la gestione della disputa, alternativa
sia alla litigation e alle
deformazioni che genera nella professione, sia alla mediation, che privilegia il ruolo del mediatore e relega
l’avvocato al ruolo di comparsa sulla scena della risoluzione del
conflitto.
Differenti appaiono le motivazioni che spingono i clienti verso
le pratiche di diritto collaborativo: questi si affidano principalmente ai
consigli dei loro avvocati nella scelta dello strumento ritenuto più
idoneo a risolvere il conflitto familiare; escludono il processo[25], ed esprimono alcune
riserve verso la mediazione, derivanti dal fatto che in quest’ultima
l’avvocato ricopre un ruolo esterno, in qualità di consulente,
mentre nella pratica collaborativa l’avvocato assume un ruolo decisivo
nella difesa del loro interesse. Le loro maggiori aspettative verso il diritto
collaborativo riguardano la riduzione dei costi e dei tempi e un modo
costruttivo di risolvere la loro crisi familiare, a vantaggio dei figli e di
una crescita personale[26].
Se da un lato il diritto collaborativo sembra offrire la
possibilità di concordare soluzioni durevoli, soddisfacenti ed eque,
dall’altro mostra una serie di problemi, relativi alla formazione degli
avvocati, ai costi e ai tempi che non sempre sono così limitati, ma
talvolta vengono raddoppiati in caso di fallimento della procedura negoziale e
di un successivo giudizio.
Il fenomeno del diritto collaborativo è giunto anche in
Europa, come attestato dalla nascita di associazioni di professionisti in
diritto collaborativo nei vari paesi europei e dall’istituzione, nel
2015, della “Associazione europea di diritto collaborativo” (European Network for Collaborative Practice)[27].
In Francia l’attenzione per le forme collaborative è testimoniata,
oltre che dall’attività delle associazioni forensi,
dall’iniziativa degli organi istituzionali che, ispirandosi al modello
nordamericano, hanno introdotto la “Convention
de procédure partecipative”.
La Loi Beteille n. 2010-1609 del 22 dicembre
2010, entrata in vigore il 23 gennaio 2012, all’art.37 modifica il libro
terzo del codice civile, prevedendo un nuovo titolo XVII, espressamente
dedicato alla “Convention de
procèdure partecipative”, regolata negli articoli 2062-2068.
L’art. 2062 definisce la convenzione di procedura partecipativa come
«una convenzione attraverso la quale le parti di una controversia per la
quale non è stata ancora presentata domanda davanti a un giudice o a un
arbitro si impegnano a operare congiuntamente e in buona fede per la
risoluzione amichevole del loro conflitto»[28].
Il nuovo istituto, che si rivela particolarmente adeguato nelle
dispute familiari, è applicabile a tutte le controversie aventi ad
oggetto diritti disponibili, fatta eccezione per le controversie di lavoro. Tra
i suoi caratteri principali rileviamo l’assistenza obbligatoria degli
avvocati, la possibilità di omologazione giudiziale dell’accordo
risultante dalla procedura collaborativa, o di parti di esso (art. 2066),
l’impossibilità di intraprendere un’azione giudiziale
relativa alla medesima disputa fino a quando la procedura partecipativa sia in
corso di svolgimento[29].
La procedura è del tutto volontaria; le parti infatti
potranno liberamente decidere se intraprendere la via collaborativa o giudiziale,
dopo aver vagliato con il loro avvocato le opzioni risolutive.
Di particolare interesse è il fatto che la
‘procedura partecipativa’, ascritta dai giuristi francesi ai metodi
giuridici collaborativi, si distanzi dal corrispondente modello statunitense e
canadese, in quanto consente che il medesimo avvocato che assiste la parte nel
percorso collaborativo la rappresenti anche nel processo. Viene a mancare una
delle condizioni essenziali che, secondo Stuart Webb, definiscono il Collaborative Law, la netta differenziazione
tra approccio partecipativo-negoziale e approccio competitivo-giudiziale che
consente di considerare una pratica svolta da professionisti del diritto come
collaborativa.
La ragione di questa scelta del legislatore francese trova una
giustificazione politica nel Rapporto
della Commissione Guinchard[30]
del 2008 che, rispondendo all’obiettivo di una razionalizzazione della
giurisdizione, raccomanda lo sviluppo di modi alternativi di risoluzione delle
dispute e propone l’introduzione della «procedura partecipativa di
negoziazione assistita dall’avvocato»[31]. Enunciando i
caratteri essenziali del diritto collaborativo, il rapporto si sofferma in
particolare sulla clausola di esclusione, prevista nell’accordo
preliminarmente stipulato tra le parti e gli avvocati. Questo rappresenta il
punto di forza che spinge i partecipanti ad agire utilmente ed efficacemente
per concludere la disputa, ma ne costituisce allo stesso tempo il punto debole,
perché il fallimento della procedura negoziale precluderebbe la possibilità
di proseguire davanti al giudice il procedimento avviato in ambito
collaborativo, imponendo alle parti eccessivi oneri processuali e spese.[32]
A parere della Commissione, una simile condizione posta al mandato
dell’avvocato limiterebbe l’accesso alla giustizia. Per queste
ragioni, nel Rapporto vi è un esplicito riferimento al diritto
collaborativo, a cui il nuovo istituto «si ispira, per incitare le parti
alla risoluzione negoziata della loro controversia, ma viene salvaguardato il loro
effettivo accesso alla giustizia»[33].
Oltre a questo argomento di politica del diritto, ve ne sono
altri meno nobili che vengono avanzati dal ceto dei giuristi, secondo i quali
le nuove misure extragiurisdizionali introducono un privilegio a vantaggio
della classe forense. Prescrivendo l’assistenza obbligatoria ed esclusiva
degli avvocati alla procedura partecipativa, la Loi Beteille di fatto opera un’esclusione a carico di altre
categorie professionali che, come i notai, avrebbero avuto titolo per entrare
nella rosa degli esperti negoziatori[34].
Forse è dovuto a questa ambiguità di fondo lo
scarsissimo successo che la procedura partecipativa ha finora riscosso. Nel
Rapporto redatto dai senatori Tasca e Mercier, sull’accesso alla
giustizia in materia di controversie familiari, vengono riportati i dati del
Ministero secondo i quali nel 2013 sarebbero stati omologati solo sette accordi
risultanti dalla conclusione di una procedura partecipativa[35].
In questi ultimi anni, le pratiche del diritto collaborativo
hanno fatto la loro comparsa anche in Italia, soprattutto nell’ambito
familiare. La rinnovata attenzione per l’approccio consensuale è
segnalata dalla nascita nel 2010 dell’Istituto
italiano di diritto collaborativo, ad opera di avvocati formati al modello
statunitense del Collaborative Law, e
nel 2014 dell’Associazione Italiana
dei professionisti collaborativi[36]. Nello sviluppo del
diritto collaborativo che in questi anni ha mosso i primi passi nella pratica
giudica italiana, si inserisce l’iniziativa del legislatore che, sia per
snellire il contenzioso, sia per rispondere alle pressanti richieste della
classe forense, ha introdotto l’istituto della negoziazione assistita,
chiaramente ispirato al modello francese. Il nuovo istituto è
disciplinato dal decreto legge n. 132 del 12 settembre 2014 che prevede «Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione»
volte a indirizzare verso strumenti alternativi di risoluzione una quota
consistente delle controversie civili[37]. La negoziazione
quindi si inserisce a pieno titolo nel corredo italiano degli ADR ai quali il
nostro legislatore continua a guardare con fiducia, ma con scarsa attenzione.
La procedura si basa sull’accordo di negoziazione
«mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con
lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite
l’assistenza dei propri avvocati» (art. 2). Anche in Italia, come
in Francia, il legislatore ha disatteso il principio fondante del diritto
collaborativo, preferendo adottare una forma di negoziazione ispirata ai valori
collaborativi che tuttavia garantisce alle parti l’assistenza degli
avvocati per tutto il corso del procedimento, negoziale e giudiziale, e agli
avvocati la gestione integrale della disputa. Il richiamo ai valori presenti in
un approccio collaborativo è quello contenuto nell’art. 2 che fa
esplicito riferimento alla lealtà e alla buona fede che debbono
orientare la cooperazione tra le parti, e nell’art.9 che sancisce il
principio di riservatezza, replicando in materia la medesima disciplina della
mediazione civile e commerciale[38].
Invero il richiamo appare molto scarso rispetto alla linea eticamente orientata
del modello nordamericano che, a differenza di quello nazionale, pone il
rispetto di tali principi come vincolo per la prosecuzione della procedura
collaborativa[39].
Rispetto all’esperienza francese, l’istituto
italiano della negoziazione istituisce una condizione di procedibilità
per tutte le controversie aventi ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti
dalla circolazione di veicoli e natanti e domande di pagamento a qualsiasi
titolo per un valore inferiore a 50.000 euro (art.3)[40]. Accanto a questa
forma obbligatoria, la disciplina ne prevede una volontaria (art.2), che
può avere ad oggetto diritti disponibili, ed all’art. 6 una
«per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione
degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle
condizioni di separazione o di divorzio». Quest’ultima previsione, relativa
alla materia delle controversie familiari, rappresenta una novità molto
importante per i cittadini, perché introduce un vero e proprio strumento
alternativo al - finora esclusivo - procedimento giudiziale e sottrae la
competenza ai giudici per affidarla agli avvocati. [41] Questi infatti sono
chiamati ad espletare una funzione analoga a quella finora svolta dai giudici
attraverso l’omologa degli atti, esercitando non solo il dovere di
assistenza nei confronti delle parti, ma anche quello di garanzia verso la
legittimità degli atti conclusivi del procedimento, che hanno il
medesimo valore dei provvedimenti giudiziari corrispondenti[42]. Come stabilito
dall’art. 5 del decreto, l’accordo conclusivo della procedura di negoziazione
costituisce titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione di ipoteca
giudiziale. Nel caso della negoziazione in materia familiare, l’accordo
concluso deve essere sottoposto al vaglio del procuratore della Repubblica,
perché ne verifichi la regolarità o, nel caso in cui vi siano
figli minori, o incapaci, o economicamente dipendenti dalla famiglia,
perché accerti che il loro interesse sia stato tutelato.
L’esercizio di questa autonomia, se da un lato è
stato salutato come uno strumento che restituisce ai cittadini la
libertà di esercitare il potere di sciogliere il vincolo matrimoniale in
tempi più brevi e con meno formalismi, dall’altro è stato
guardato con sospetto, per ciò che riguarda l’estensione di questa
autonomia alle questioni riguardanti i figli, il cui garante è stato
finora il giudice[43].
Per Dalfino, il legislatore avrebbe dovuto escludere la previsione relativa ai
figli, oppure prevedere l’omologazione da parte del giudice,
poiché l’attuale disciplina che affida al pubblico ministero un controllo
finale sull’accordo, appare del tutto inadeguata a garantire
l’effettiva tutela dei minori coinvolti[44].
A differenza della disciplina della mediazione che prevede
un’attività di gestione e controllo da parte del Ministero della
Giustizia, sui centri abilitati a erogare servizi di mediazione, quella della
negoziazione ha affidato interamente la responsabilità della procedura,
il suo monitoraggio e la raccolta dei dati ai professionisti legali. Gli
avvocati, infatti, sono i veri e gli unici protagonisti nel nuovo scenario
tratteggiato dal legislatore: non solo devono sottoscrivere l’accordo,
certificare l’autografia delle firme delle parti e la conformità
dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico, ma devono
trasmetterne la copia al Consiglio dell’ordine forense del luogo in cui
l’accordo stesso è stato stipulato. È infatti competenza
del Consiglio Nazionale forense il controllo e la trasmissione degli atti al
Ministero. Non vi è quindi alcun passaggio (se non per alcuni casi
espressi) negli uffici giudiziari: l’intera procedura si apre e si
conclude in uno spazio alternativo al Palazzo di giustizia e di fronte a
soggetti che non hanno alcun ruolo aggiudicativo.
A conclusione di questa breve analisi della disciplina della
negoziazione assistita, viene da chiedersi cosa rimanga dell’approccio
collaborativo; come possa svilupparsi, in questo sistema formalista e
burocratizzato[45]
di ‘giustizia alternativa’, l’etica del dialogo, della
trasparenza, dell’azione leale e non strategica che dovrebbe consentire
un raggiungimento consensuale della soluzione. I nuovi avvocati, oltre ad avere
una solida competenza giuridica, dovrebbero avere una specifica formazione negoziale
e collaborativa, una conoscenza di metodi e principi che ancora i percorsi
universitari non forniscono[46].
La norma infatti non prevede alcuno specifico sistema di accreditamento per
l’esercizio di questa delicata procedura. Ciò appare
particolarmente urgente ed evidente nella materia familiare «in cui
l’avvocato non è semplicemente l’avvocato della parte,
bensì deve favorire la conciliazione tra i coniugi, deve mettere in
campo tutte le competenze necessarie per far sì che l’accordo
definito in sede di negoziazione sia già regolare, conforme alle norme
imperative e risponda all’interesse di eventuali figli minori, incapaci o
non autosufficienti economicamente»[47].
Esattamente come è accaduto per la mediazione civile e
commerciale nel 2010, anche la negoziazione assistita nasce con una funzione
deflativa, con il dichiarato scopo, da parte del legislatore, di alleggerire il
carico della giustizia ordinaria. Tuttavia, anche per questo strumento possono
riproporsi le osservazioni che a suo tempo sono state avanzate in relazione
alla funzione deflativa assegnata alla mediazione[48]. Siamo in presenza
dell’ennesima riforma della giustizia che intende superarne le
inadeguatezze aggiungendo un nuovo utensile al corredo dei suoi strumenti,
senza avviare una riflessione politica sulla crisi irreversibile del modello
giurisdizionale[49]
e sui nuovi principi che devono animare una nuova teoria generale della
giustizia civile.[50]
La debolezza della riforma e la conferma della riproposizione di un modello
ormai inadeguato alle esigenze dei cittadini e al fenomeno di
internazionalizzazione del diritto, è confermata dall’abbandono
dei principi del diritto collaborativo e dalla riproposizione di un modello
negoziale competitivo e strategico, caratteristico di un approccio tradizionale
che gli stessi avvocati cominciano a considerare con un nuovo spirito critico.
The
Collaborative Law is a new form of alternative Dispute Resolution, in which the
parties and their lawyers commit to resolve the legal dispute without going to
Court. The central concept of the collaborative practice, conceived in 1990 by
Stuart Webb, a Minnesota family lawyer, is that the legal services provided by
counsel are limited to advice regarding the negotiated resolution of the
conflict focusing exclusively on developing a consensual outcome. The
cornerstone of the collaborative approach is the “collaborative
commitment” that requires that lawyers withdraw if the case is not
settled. In twenty years, the collaborative law approach has known a great
development in U.S.A., Canada and in many European countries. This rapid
success of Collaborative law is due to the new role of the lawyers that govern
the whole process. Although mediation remains a good dispute resolution method
for many cases, it presents some characteristic that make it unacceptable
choice for a growing numbers of lawyers. As Stuart Webb wrote: «One of
the aspect of mediation that I feel is a weakness is that it basically leaves
out input by the lawyer at the early stages». The new collaborative practice
reshape the landscape of ADR methods and indicates a change in the legal
practice. This article focuses on the concept of collaborative law and the
development of the collaborative practices in the United States and in the
Canadian Federation. After describing the basic elements of collaborative
approach, this essay describes the “Commitment of Participative
Procedure”, introduced by the French legislator in 2010 and the
“Assisted Negotiation”, introduced by Italian lawmakers in 2014.
Parole
chiave: Diritto
collaborativo; negoziazione assistita; avvocati.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1]
Cfr. D. Hoffman and P. Tesler, Collaborative Law and the Use of Settlement Counsel, in B. Roth, The Alternative Dispute Resolution Practice Guide, edited by West
Publishing, New York, 2002.
[2] Cfr. M. Cappelletti,
Dimensioni della giustizia nelle
società contemporanee, Il Mulino, Bologna 1994, 100.;J. Macfarlane, Evolution
of the New Lawyer: How Lawyers are Reshaping the Practice of Law, in
«Journal of Dispute Resolution», 2008, 1, 62-81.
[3] Cfr. J.
Macfarlane, The New Lawyer: How
Settlement is transforming the Practice of Law, Vancouver Toronto, UBC
Press, 2008.
[4] S. M. Gutterman, J.D, M. A., and a Panel of Collaborative Law Experts, Collaborative Law. A New Model for Dispute Resolution, Denver (Colorado)
Bradford Publishing Company, 2004, Cfr. D.C.
Reynolds and D. F. Tennant,
Collaborative Law. An Emerging Practice,
in «Boston Bar Journal», vol. 45, n.5, November/December 2001, 1-5.
[5] Il modello di “Participation Agreement” è
disponibile nel sito del Global
Collaborative Law Council, http://www.collaborativelaw.us/articles/GCLC_Participation_Agreement_With_Addendum.pdf
[6] J. Macfarlane, Le nouveau
phénomène du droit de la famille collaborative (DFC):
étude de cas qualitative, Rapport de recherche, Ministère de la Justice du Canada,
2005, http://www.justice.gc.ca/fra/pr-rp/lf-fl/famil/2005_1/
, 5.
[9] S.M. Gutterman, J.D,
M.A., and a Panel of Collaborative Law Experts, Collaborative Law. A New Model for Dispute Resolution, «In collaborative law (…) focus is on
full, voluntary disclosure and interest-based narrative, not positional problem
solving», cit., 32.
[11]
Cfr. S. Webb and R. Ousky, The Collaborative Way to Divorce: The Revolutionary Method that Results
in Less Stress, Lower Costs, and Happier Kids Without Going to the Court,
New York, USA, Pengouin Books, 2007, 6.
[12] Cfr. la lettera di S. Webb all’On.le A.M.
“Sandy” Keith, Justice Minnesota Supreme Court, in cui Webb enuncia
sinteticamente le caratteristiche e i vantaggi del diritto collaborativo
rispetto alle altre pratiche giuridiche di risoluzione delle dispute, disponibile
in http://www.collaborativelaw.us/articles/Webb_ltr_re_Collaborative_Law_1990.pdf
[13]
Cfr. R. W. Rack, Jr., Settle or Withdraw: Collaborative Lawyering
Provides Incentive to Avoid Costly Litigation, in «ABA Dispute
Resolution Magazine», 1998, n. 8 (Summer), 1-12.
[14] Cfr. C.
M. Fairman, A Proposed Model Rules for Collaborative Law, in «Ohio
State Journal on Dispute Resolution»,
2005, 21, 73; in replica alla proposta di Fairman cfr. J. Lande, Principles
for Policymaking About Collaborative Law and Other ADR Processes, in
«Ohio State Journal on Dispute Resolution», 2007, vol. 22, 619-675.
[16] L. Maxwell, The
Development of Collaborative Law, in Alternative
Resolutions, Summer/Fall 2007, vol. 16, no.3-4, 22-26 (23).
[19] J. Macfarlane, Le nouveau
phénomène du droit de la famille collaborative (DFC):
étude de cas qualitative, cit.
[23]
Cfr. D. Dalfino, La
procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, tra
"collaborative law" e "procédure participative" - Negotiation
Procedure Assisted by Lawyers between Collaborative Law and
"Procédure Participative" in «Il Foro
italiano», 2015, fasc. 1, 28-34; T.
Calfapietro, La mitezza nella
professionalità dell’avvocato familiare e minorile, in
«Minorigiustizia», n.1- 2015, 146-155, (147). Cfr. per l’ambito nordamericano W. Schwab, Collaborative Lawyering: a Close Look at an Emerging Practice, in
«Pepperdine Dispute Resolution Law Journal», 2004, vol.4, n.3, 351-399.
[24] J. Macfarlane, Le
nouveau phénomène du droit de la famille collaborative (DFC):
étude de cas qualitative, cit., 79. Si veda inoltre Id., Evolution of the New Lawyer: How Lawyers
are Reshaping the Practice of Law,
in «Journal of Dispute Resolution», 2008, n. 1, art. 6,
[25] Cfr. D. Chartrand,
Y. Proulx, P. Roberge, L. Woodfine, Le droit
collaboratif, in Justice
partecipative. Collection des habilités 2013-2014, École du
Barreau du Québec, 2013, 133.
[26] J. Macfarlane, Le nouveau
phénomène du droit de la famille collaborative (DFC):
étude de cas qualitative, cit., 26-27.
[27] D. Lopez Eychenié, Etre ou devenir un
professionnel collaboratif européen du XXIème siècle,
in http://www.village-justice.com, (10 mars 2015), 1.
[28]
A seguito dell’emanazione del decreto attuativo n.66 del 20 gennaio 2012.
Art. 2062 code civil français:
«la convention de procédure participative est une convention par
laquelle les parties à un différend qui n'a pas encore
donné lieu à la saisine d'un juge ou d'un arbitre s'engagent
à oeuvrer conjointement et de bonne foi à la résolution
amiable de leur différend».
[29]
Cfr. J. Bonnard, Les nouveaux privilèges des avocats:
fiducie, convention de procédure participative, acte privé
contresigné, 2011, <halshs-00654252>, 11 ss.
[30] La Commissione,
presieduta dal Professor Serge Guinchard,
incaricata dal Ministero della giustizia francese di svolgere uno studio sulla
degiurisdizionalizzazione di parte del contenzioso e su una migliore ripartizione
delle competenze giurisdizionali, ha pubblicato il suo Rapporto dal titolo
“L’ambition raisonnée
d’une justice apaisée”, La Documentation
Française, 2008, http://www.ladocumentationfrancaise.fr/rapports-publics/084000392/
[31] Commission sur la répartition
des contentieux prÉsidÉe par S. Guinchard, L’ambition raisonnée
d’une justice apaisée, cit., 169.
[32] Ibidem: «Lorsque l’accès à
la justice est en jeu, il paraît difficilement acceptable de raisonner en
termes de « tout ou rien » et de placer en situation
d’échec insurmontable tous ceux qui ne seront pas parvenus
à un accord total».
[33] Ibidem. Cfr. sul punto le osservazioni di M. Georgetti, Negoziazione
assistita, Milano, Giuffré, 2015, 6.
[34]
Cfr. J. Bonnard, Les nouveaux privilèges des avocats:
fiducie, convention de procédure participative, acte privé
contresigné, cit., 11.
[35] Rapport d’information n 404 (2013-2014) de Mme
Catherine Tasca et M. Michel Mercier, fait au nom de la commission des lois,
déposé le 26 février 2014, Justice aux affaires
familiales: pour un règlement pacifié des litiges, http://www.senat.fr/rap/r13-404/r13-4041.html.
[36] Cfr. T. Calfapietro, La mitezza nella professionalità dell’avvocato familiare e
minorile, cit., 147.
[37] Decreto legge 12
settembre 2014 n. 132, recante “Misure
urgenti di degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione
dell’arretrato in materia di processo civile”, convertito con
modifiche dalla legge 10 novembre 2014 n.162, e pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 261 del 10 novembre 2014. Cfr. sul punto l’intervento
critico di G. Scarselli, Luci ed ombre sull’ennesimo progetto
di riforma del processo civile, in «www.questionegiustizia.it»;
cfr. inoltre per un’analisi del nuovo istituto, M. Georgetti, Negoziazione
assistita, cit.
[38] Cfr. D.
Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno
o più avvocati, tra "collaborative law" e
"procédure participative", cit., 15-16,
[41] Cfr. E. Quadri, Procedure concorsuali di separazione personale e divorzio: un
decreto-legge da rimeditare, in «Giustizia civile.com», 2014,
n.5
[42]
Art. 6 3° comma sancisce che l’accordo «produce gli effetti e
tiene luogo dei procedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti
di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di
scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di
divorzio».
[43] Cfr. D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da
uno o più avvocati, tra "collaborative law" e
"procédure participative", cit., 25.
[44] Cfr. F. Fradeani, E. Picozzi, D.
Martorano, R. Fava, Il processo
civile dopo il decreto legge 12 settembre 2014 n. 132: ciò che resta tra
degiurisdizionalizzazione, sommarietà e depositi telematici, Roma,
Nel diritto editore, 54 ss.
[45] Cfr. D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati,
tra "collaborative law" e "procédure participative",
cit.
[46]
È il problema affrontato da J.
Macfarlane, Culture Change –
A Tale of Two Cities and Mandatory Court-Connected Mediation, in
«Journal of Dispute Resolution», 2002, n.2, 251-321.
[48] Cfr. M. A. Foddai, Accesso alla giustizia e modelli partecipativi in Canada. Spunti di
riflessione per l’Italia, in AA. VV., Il Canada come laboratorio giuridico, a cura di M. A. Foddai, Napoli, Jovene, 2013,
81-116 (115).
[49] M. Galanter, The
Vanishing Trial: An Examination of Trial and Related Matters in Federal and
State Courts, in «Journal of Empirical Legal Studies», 2004,
vol. 1, n. 3, 459-570.