Università di Padova
Il diritto e il
sacro in Elémire Zolla
ABSTRACT: The paper is
divided into two parts. The first one
summarizes Elémire Zolla's thought concerning the relation between law and
sacred and deals with the contents of an essay included in a book which, under
the title Uscite dal mondo, was first
published in 1992 and then reprinted in 2012.
The second one represents a critical
review of the ideas that the author put forward with regard to homo sacer,
nowadays a feature relevant also in the international philosophical debate.
1. – La ripubblicazione di Uscite dal mondo, un libro fascinoso di Elémire Zolla[1], mi induce a parlare di uno dei capitoli in cui si
articola, dedicato al diritto in rapporto al sacro[2], che ha le caratteristiche del saggio autonomo.
Alle sue pagine dense e allusive, per vero,
avevo riservato una menzione in uno dei miei scritti sulla figura dell’homo sacer[3]: ma fuggevole, poiché avevo preso conoscenza di esse
quando il lavoro era già in bozze. Mi ero infatti limitato a ricordare, confinandolo
in una nota[4], quanto l’autore osserva in merito all’uccisore dell’homo sacer, senza dilungarmi sul
contesto.
Prima di rimediare all’omissione, tengo a
precisare che Zolla non era certo privo delle competenze necessarie per
affrontare adeguatamente un tema che intreccia, con proiezione diacronica, il
fenomeno giuridico e il mondo divino. Sebbene insegnasse Letteratura
angloamericana e Filologia germanica, aveva conseguito la laurea in
Giurisprudenza a Torino nel 1952. Ma soprattutto, come sottolinea Grazia
Marchianò, fin da ragazzo gli era risultato chiaro che, avendo alle spalle una
famiglia modesta e senza mezzi, disponeva di un’unica arma per affermarsi,
incessantemente utilizzata: «apprendere, accumulare conoscenze a una velocità
fulminea, fare della mente un’officina attiva ventiquattro ore al giorno,
leggere di tutto, dalla letteratura alla storia, dalle teorie economiche al
diritto, alla linguistica, alla filosofia, all’antropologia, padroneggiando
questi saperi il meglio possibile»[5]. Per cui non sorprende che la sua produzione copra materie
disparate, sempre investigate con «padronanza enciclopedica» e «lenti
specialistiche»[6]; e che si estenda alle religioni e al diritto.
Nel campo giuridico, merita altresì
rammentare, le prime incursioni di Zolla rimontano addirittura al 1948. Nella
primavera di quell’anno, e precisamente l’8 maggio, racconta la stessa
Marchianò[7], il Times Literary
Supplement riportava un articolo molto esteso del teorico del diritto H.C.
Dowdall sul concetto di persona. Poco dopo il nostro giovane studente di Legge
mandava al giornale, che non mancava di renderla nota, una lettera, nella
quale, attraverso una ricognizione storica dello sviluppo dell’idea di persona,
sosteneva che questo termine non identifica una realtà ontologica, ma designa
«a contingent practical construction: an institution». Colpito dal tenore della
missiva, Dowdall ne riprendeva il contenuto in una replica in cui esplorava i
nessi tra la nozione di persona nel diritto arcaico e il dramma greco-romano,
dove gli attori indossavano maschere. Pubblicata anch’essa sul solito giornale,
in questo appariva altresì un intervento sull’argomento dello storico del
diritto P.W. Duff. E di lì a poco tutti i quattro contributi erano raccolti in un
autonomo libriccino, intitolato Special
Article and Correspondence on the Word ‘Person’ also Correspondence on the
Words ‘Community’ and ‘Society’.
2. – Venendo al saggio che qui interessa,
occorre subito evidenziare che in esso Zolla si propone di scavare nel passato,
specie con riguardo agli ordinamenti del mondo indoeuropeo, alla ricerca dei
«tratti primordiali che rinviano a un diritto sacro fondato su un rapporto con
il divino», convinto che quest’opera di riesumazione, aiutando «a configurare
l’archetipo», possa condurre verso le origini del diritto[8].
Fedele al suo obiettivo, l’autore si sofferma
anzitutto sulla «certezza massima» che in epoche remote dominava incontrastata,
secondo la quale esiste lo stato ottimo dell’uomo, cioè lo stato in cui questi
«si sente sostenuto da una sottile energia che lo contiene e che nel contempo
gli si diffonde tutt’attorno». L’uomo che versa in tale stato «coglie i segni
dell’avvenire sentendoli come cenni delle forze, delle divinità stesse che lo
misero al mondo, lo circondarono di certe cose, persone, occasioni, dandogli il
suo destino, e che ora lo conducono con apparizioni, sogni, parole
significative, ispirandolo».
Proprio alla condizione di integrità e
pienezza in cui può trovarsi l’uomo, che diventa allora «simile a una pianta
colma di linfe, in crescita, felice», probabilmente si legano, secondo Zolla,
due radici indoeuropee: leudh-,
«donde l’avestico ruoda-, ‘crescita’,
‘statura’, il greco eleuthería e il
latino libertas»; e aug-, «donde augmentum, auctoritas, augustus (e il greco augé, ‘splendore’)»[9].
Lo stato ottimo porta inoltre con sé ciò che è
giusto, ovvero il bene. Non è quindi un caso, rileva l’autore, se le parole che
designano il diritto spesso evocano quello stato, «che è la pietra di volta
d’ogni ordine di giustizia». Ius, per
esempio, proviene dall’indoeuropeo yewos-,
che ha la stessa radice (yew-) di iuventus e del sanscrito yawa, che rimanda al frumento, alla
fonte di forza. E da yewos- deriva,
in avestico, yaoz, ossia «la vita
magicamente crescente, fluente, fertile-felice, quella che vivifica il seme, il
latte, il fuoco, l’anima». In vedico, ancora, il diritto è rtà, un termine che indica «il corso naturale e pieno del destino,
generato dalla sorgente della vitalità magica, la linfa inebriante del soma». In seguito il diritto sarà dharma, ossia la diritta via, la
direzione incrollabile e quello che rende «ogni essere ciò che è per essenza».
Legge, infine, arriva da una radice (legh-)
che nelle lingue germaniche risalenti genera la parola ‘destino’ (gi-lagu in antico sassone)[10].
Ovviamente l’uomo può anche perdere lo stato
ottimo (e, con esso, la via della giustizia come conformità al destino). Se ne
esce, vuol dire che «sguardi o gesti o parole o suoni sinistri, opera di uomini
o di esseri invisibili, hanno rapinato e legato, stregato, maledetto l’uomo che
prima si muoveva libero nella sua gloria, baldo beniamino degli dei». E i primi
esperti del diritto affermeranno che è stato vittima di un veneficio, che è
l’avvelenamento, ma anche l’ammaliamento. Venenum
è infatti sia il fascino maligno sia la corruzione degli umori corporei.
Il veneficio va allora represso. E così
nascono insieme la medicina e il diritto: dalla radice med- proviene il nome del giudice in osco, che è medíss. Medico e giudice potevano
risiedere nello stesso soggetto, come nel caso dello sciamano. Conoscitore di
riti e di cure, capace di visioni che gli schiudevano ricette e responsi, era
in grado di guarire e restaurare la giustizia.
Abdicare al proprio destino, per ammirare,
amare e seguire accecati la volontà di altri, implica la caduta nella
schiavitù. E colui che vi è precipitato non ha destino, né diritto. Gli
ordinamenti giuridici qualificano come proprietà sull’individuo questa
sventura, «che, nuclearmente, corrisponde allo stato interiore di chi è
posseduto da altri per malia»[11].
3. –
Detto dello stato ottimo dell’uomo, Zolla aggiunge che esso è assicurato dal
«giusto contatto» che si mantenga con il sacro, fattore di attrazione e di
sgomento in pari tempo, fonte della pienezza e simultaneamente dell’assenza di
vita. Capace di quel contatto è anzitutto chi vive in una condizione di santità
ed è perciò in grado di mettere in comunicazione il comune e il sacro: come il
faraone egizio, il quale media fra l’uno e l’altro dal suo trono, il cui
zoccolo è rappresentato dalla giustizia o maat[12].
Di rilievo, al proposito, è che una radice generante vocaboli che
rimandano al sacro sia keil, che in
gallico dà coel, in norreno heil, in antico alto tedesco hael, termini che significano ‘presagio’
ovvero la manifestazione del sacro nel quotidiano. In norreno, d’altro canto, heilsa vuol dire ‘salutare’: che è la
proiezione della vitalità magica (quale si vede anche nel tedesco Heil!). Da quella radice, inoltre, provengono
le parole inglesi della salute, dell’integrità e della santità: hale, whole, holy; e le parole
tedesche della guarigione e della santità: Heilung
e Heiligkeit.
Poiché il sacro produce la vita e la morte, chiunque voglia la
prima deve attingervi, senza però dimenticare di prevenirne l’influsso letale:
in particolare, consacrandogli o sacrificandogli un qualcosa di sé o di suo,
che diventa così sacro e avvicina al sacro. E stare accanto al sacro comporta
la santificazione. Ma quando al sacro si dona un qualcosa, questo deve essere
escluso dalla realtà visibile e spedito nell’altro mondo, al di là della soglia
della vita: deve cioè diventare un’ostia, rispetto alla quale si possa dire missa est.
Sacrificando, a ben vedere, si riconosce di non avere niente che
non sia, in ultimo, del sacro: come a dire che di quanto abbiamo siamo solo i
possessori, gravati da un «obbligo di restituzione al vero Signore». Non ne
siamo dunque proprietari veri, ma quasi concessionari precari: tanto che la
tradizione ebraica registra il principio secondo cui l’uomo che mangia senza
ringraziare Dio è un ladro.
La catarsi che si prova quando si partecipa a un sacrificio
rappresenta la risposta del sacro e attesta la presenza degli dei. Chi lo
officia è il sacerdote, che si espone al contatto con il sacro, «compiendo
l’azione per eccellenza: ac-tio da ag-, ‘spingere’, donde agon, ‘sacerdote’, agonium, ‘sacrificio’ e ‘agonia’». Egli spinge (mittit) nell’aldilà. Il suo è un atto
orrendo: ma invece di contaminare, come dovrebbe, grazie alla forza
dell’intenzione si ribalta nel contrario e procura santità e giustizia a coloro
che vi assistono. «Macte! si gridava
al sacrificatore romano. E significò: ‘Magnificato! Accresciuto! Ammazzato!’».
‘Magnificare’, del resto, proviene dalla stessa radice di ‘magia’ e in norreno magan vuol dire infondere forza magica,
ossia megin. E magha in avestico indica la condizione di vigoria magica, lo stato
ottimo dell’uomo.
Per assimilare la sostanza santificante della vittima sacra, si
beveva il suo sangue, dopo essersi aspersi del medesimo, e si mangiava la sua
carne. Si prendeva così un rischio, perché, se impuri, si restava dannati.
Emergeva perciò «il primitivo processo alle più intime intenzioni: giuramento,
scommessa, prova d’innocenza». Coloro che spartivano il rischio erano
coimplicati in una vicenda della massima importanza, accomunati in un
accadimento di grande momento: per cui non stupisce che in finnico per indicare
la comunità si usi il termine kansa,
dalla radice indoeuropea che in norreno e in gotico dà la parola che designa il
sacrificio: hunsl (donde l’inglese to housel, ‘prendere l’eucarestia’,
‘comunicarsi’)[13].
Proprio nell’azione sacrificale Zolla vede l’origine di ogni atto
giuridicamente rilevante: «ogni pena, processo, patto», egli sostiene, «ne
derivano e se ne vennero via via staccando a mano a mano che il ciclo storico
perdette contatto con la sua origine e il suo senso. Ecco perché, nelle parole
di Valerio Massimo (2.5.2), ius civile
per multa saecula inter sacra cerimoniasque deorum immortalium abditum»[14].
4. –
L’uomo che diventa sacro, sostiene Zolla, va incontro al sacrificio. Lo
dimostrano i re africani adorati e quindi periodicamente immolati ovvero, per
rimanere all’arcaica società romana, l’individuo che, in quanto compie certi
atti vietati o è identificato da segni degli dei, passa nelle mani di questi e
non sfugge alla morte voluta da loro.
Criminale, d’altro canto, è proprio colui che attraverso un
delitto «convoca gli dei, ad essi consegnandosi». E tale può certo considerarsi
l’homo sacer.
Essendo costui «appropriato da un dio», è istintivo per chiunque
offrirlo al dio stesso, spingerne la testa sull’ara. Come ricorda Macrobio, quidquid destinatum est diis sacrum vocatur.
Et hominem sacrum ius fuit occidi. Colui che si accinge a spegnere la vita
di un homo sacer sente una spinta
arcana. Agisce su istigazione o incarico del dio, che vuole estinto l’essere
che gli è consacrato. Con parole diverse, «per immolare l’homo sacer si aveva senz’altro un mandato divino». Vi è, per giunta,
che l’homo sacer inquietava,
contaminava quanto un cadavere, essendo per gli dei già morto; ammorbava quanto
il sangue mestruale. Soltanto spedendo l’uomo sacro agli dei che lo esigevano,
il parricida a Zeus, il distruttore di messi a Cerere, si torna in pace, ci si
purifica. Sono dunque gli dei a infondere la furia nel petto degli uomini,
guidando la mano che impugna la spada o annoda il capestro[15].
5. –
Secondo Zolla, le modalità del sacrificio in cui incorreva chi entrava nel
sacro erano molteplici e variavano in relazione al «tipo di sacralità, di forza
magica da magnificare e placare». Quando fossero «offesi-convocati» gli dei del
cielo supremo e del sacerdozio, si optava per la precipitazione da una rupe,
per l’impiccagione o per l’abbruciamento; quando fossero vulnerati gli dei
dell’atmosfera e della milizia, si uccideva con la spada; quando fossero
colpiti gli dei terrestri, si procedeva con la sepoltura del vivo o con
l’affogamento in una palude o dentro un tino.
Il sacrificio restaura per lo più un equilibrio violato: per cui
richiama l’idea di una proporzione tra offesa e riparazione, che il diritto
acquisirà per sempre.
Ma non sempre la sacralità comportava la morte. A volte, per
uscirne, bastava un esorcismo, che poteva consistere nella recita di
maledizioni o scongiuri, nell’astensione dal cibo, nell’assoggettarsi a
percosse e nell’isolamento entro uno spazio sacro. E al proposito è
significativo che il ‘carcere’ sia all’inizio una cerchia templare e provenga
da una radice che in norreno dà horgr,
ovvero ‘recinto sacro’.
La consacrazione arcaica e il conseguente sacrificio, nota
inoltre lo studioso, vengono malamente reinterpretati, in epoche poco propense
alla chiarezza, come prevenzione sociale, esemplarità politica, soddisfazione
dei danneggiati. «Delitti e pene cessano di mirare a uno scopo razionalmente
confessabile a millenni dal pleroma religioso in cui nacquero. Ma nelle parole
ancora echeggia il pleroma. Destino, parte assegnata da Zeus, pena e onore in
greco si dicono con un’unica parola: timé.
‘Pena’ e ‘onorare’ (poiné e tíein) provengono dalla stessa radice
indoeuropea». E pure il danno, l’offerta agli dei, la vivanda mangiata con
giubilo al pasto sacrificale derivano da un’unica radice (dam-num<dap-num<dap-es)[16].
Il veneficio, continua lo studioso, «è ancora la categoria che
spiega oggi i reati contro l’onore, la verecondia, la fama, che sono specie di
maledizioni non liquidabili con un mero calcolo economico di danneggiamenti (e
tuttora implicano oltre al risarcimento una pena). Ogni Stato protegge i suoi
simboli dalle fatture: da vilipendi. E certi spettacoli sono sempre ritenuti
troppo sacri, provocano la repressione. Anche se si torna oggi alla licenza
della Roma pagana quanto all’erotismo, la sacralità politica permane come
allora, e talvolta più forte, nella tutela del diritto scritto o non scritto».
Del resto, le religioni si avvantaggiano delle persecuzioni, che rappresentano
un evidente e oggettivo riconoscimento della loro sacralità.
6. –
Tracce della rilevanza del sacro si ritrovano, a seguire Zolla, in vari
rapporti praticati nell’antichità, non privi di implicazioni sul piano
giuridico.
Un esempio è dato dall’ospitalità. Hospes viene da hosti-pet-s,
in cui pet vale ‘padrone’ (donde posse, compos) e hostis ha a che
fare con hostia (la cui radice è ghos-, ‘divorare’) e con hostire: ossia, con la vittima sacra e
con il pareggiamento. Ebbene, nel Mediterraneo l’ospitante accoglie il
possibile nemico, hostis, dandogli la
mano, che è il simbolo della fede e della protezione; quindi, dopo averlo fatto
incedere nel cerchio della magia ospitale con la pompé, elargisce a costui doni. L’ospite partecipa anche al pasto
come rappresentante degli invitati solitamente invisibili, cioè degli dei, ai
quali è da ascrivere il fatto che l’ospite sia capitato sulla soglia sacra
della casa. Il sacrificio agli dei si basa sul presupposto che l’ospite, la cui
apparizione vi ha dato occasione, sia un loro messo.
Altro caso è rappresentato dal regime di fede, fedeltà e fiducia
che poteva instaurarsi fra diseguali. Ne derivava, per entrambe le parti, un
impulso al dono. Le corti dei guerrieri nordici sono i luoghi in cui i fedeli
seguaci offrono al re il loro tributo, segno di fede, ricevendo, quale segno di
favore, anelli. Si ha così una circolazione di forza magica, prima ancora che
di ricchezza.
Anche il dono vale a creare una relazione che evoca il sacro.
Esso è infatti «magicamente pericoloso», perché il donatario riceve qualcosa
che lo vincola, lo astringe al donante mediante un nodo, la riconoscenza, che
suscita l’istinto del contraccambio. Conferendo al donatario beni propri, il
donante corre il rischio che su di essi si compiano sortilegi: e in certa
misura replica il rischio di chi si consacra a una divinità alla condizione che
quanto da lui affermato non sia vero. Con l’andar del tempo, si formeranno
comunque i tecnici dello scambio di doni, gli stimatori e i mercanti, con un
loro diritto commerciale.
Il dono, inoltre, può essere oggetto di una gara: chi è più generoso
nell’elargirlo è più simile al Signore e dunque più prossimo al sacro. «Tale è
la posta nelle feste dei donativi, in cui il trionfatore acquista prestigio
nella misura in cui ha sdegnato ogni avarizia, per lo stesso postulato magico
per cui il sacrificio magnifica, l’ingiusta sofferenza santifica».
Più sfumato è quanto lascia intravedere il rapporto di clientela:
la radice kli- dà l’idea sia del
piegarsi o dell’inclinare – e quindi del giaciglio o triclinium – sia della clientela, che comporta la subalternità di
un individuo rispetto a un altro, variamente gradata e indefettibilmente
connotata dal dovere del tributo.
Proprio nell’incontro con l’altro si registravano gesti che
rimandano al sacro: come il piegare se stessi inginocchiandosi o inchinandosi. Dalla
radice plek-, ‘piegare’, vengono
infatti ‘supplica’ e ‘supplizio’. E dalla radice bheidh- vengono in tedesco Bett
e Bitte, il ‘letto’, originariamente
il ‘cuscino’ o l’‘inginocchiatoio’, e la ‘preghiera’ o l’‘istanza’, ma anche Gebot, il ‘comando’; in inglese bed e bid; in greco peíthomai,
‘obbedire’, e pístis, ‘fede’.
Dall’avvicinamento all’altro, come da quello all’uno o all’altro
dio, può derivare un beneficio, un accrescimento di forza magica in virtù della
propria partecipazione: se gli si dona il cuore, si avranno in cambio beni
preziosi, come pax, maiestas, clementia, hilaritas,
divenuti gli attributi dei Cesari[17].
7. –
Naturalmente anche la famiglia risente, e molto, della presenza del sacro.
Spiega Zolla che essa, vero e proprio microcosmo, rappresenta il primo cerchio
magico idoneo a scongiurare le forze sconosciute che vagano tentando di
ghermire e legare. Il padre e la madre corrispondono al sole e alla luna, pur
potendo talora valere l’inverso, incarnano il principio di consanguineità e quello
di affinità, tra loro simmetrici, mentre il primogenito e la primogenita
«possono essere i due aspetti della stella mattutina».
La famiglia sacra, regale o fuori casta, non può riflettere la
diade ed è condannata all’endogamia, in ragione dell’unicità del sacro. In
molti ordinamenti i capi sposano le sorelle.
All’interno della famiglia si distingue sempre fra autorità e
potere. La prima spetta sovente all’avunculus
o zio materno (zio è theîos,
‘divino’: nel senso che insegna le cose divine) o all’avo o all’ava (il libro
sacro norreno s’intitola Edda, cioè
‘Nonna’); il potere è del padre e marito, a somiglianza del potere cosmico di
cui gode Jupiter Diespiter genitor.
Tenuto conto che la produzione compete essenzialmente ai figli, si rende
percepibile la triade cosmica di cielo (autorità), atmosfera (potere) e terra
(produzione, fertilità).
La casa della famiglia rispecchia il cosmo: ogni mobile, dalla
mensa-altare al talamo, ha una funzione e tutto ruota intorno al focolare, che
identifica il punto fra l’essere e il non essere, fra il visibile e il non
visibile. Per giunta, domus sacratae sunt
diis. Nella casa, poi, vi è l’ara degli antenati, invocabili durante il
pasto versando qualche goccia di una bevanda sul suolo.
In quell’ara si celebra il primo dei quattro sacrifici
quotidiani. Il secondo, che si compie attraverso l’accensione e l’alimentazione
del focolare, è a Vesta, mentre il quarto si attua nel talamo e condurrà a una
nascita. Il terzo si realizza invece consumando insieme il cibo alla mensa sacra,
dove ciascuno occupa il posto giusto, come le stelle in cielo, e riceve la
propria porzione, come le stelle la ricevono di luce. Chi distribuisce è
assimilabile al dio che dà a ciascuno il suo destino (da bhaj-, ‘distribuire’, deriva il sanscrito bhacti, ‘devozione’ e ‘amore di dio’, nonché lo slavo Bog, Dio). Per il popolo romano, se
nasce una lamentela fra parenti, apud
sacra mensae et hilaritatem animorum, fautoribus concordiae adhibitis,
tolleretur: «fatti avanti i fautori della concordia fra le sacralità della
mensa, nell’ilarità generale, si estingua». Non è infatti ammissibile la
disarmonia dove ciascuno interpreti, al suo posto e ricevendo ciò che deve da
chi deve, il ruolo che il suo omologo stellare sta giocando nel cielo
impeccabile.
L’ingresso nella famiglia, per esempio della sposa, è un rito
d’iniziazione e comporta una morte o sacrificio di sé, con successiva
resurrezione entro il cerchio santo nel nome di una nuova sacralità. Il
matrimonio e l’adozione sono dunque investiture. Il termine ‘nozze’, d’altro
canto, ha la stessa radice di nebbia e nube; e la sposa ha il capo velato in
segno di raccoglimento, spoliazione e morte. Diventerà uxor, che ha come radice wek,
‘imparare’. La cerimonia romana esige l’incontro dell’acqua femminea e del fuoco
maschile, ovvero l’aspersione della sposa e l’accensione delle fiaccole; poi,
l’introduzione della donna nella casa, senza che ella ne varchi la soglia
poggiando i piedi al suolo, e la sua collocazione accanto all’ara. Da questo
momento su di lei graverà l’obbligo di rispettare la maestà del marito e sul
marito il dovere di renderle il giusto onore. Il più solenne dei riti nuziali
romani, la consacrazione a Giove col pane o confarreatio,
è nullo se un fulmine lo turba, in quanto simboleggia un’ordalia oltre che
un’iniziazione[18].
8. –
Può accadere, continua Zolla, che i membri di una famiglia non sappiano
fronteggiare un pericolo che incombe su di essa o che aspirino a conoscenze
inattingibili al suo interno. È allora che già in epoca primordiale interviene
un diverso consorzio: «la confraternita sacra di chi ha superato quel medesimo
pericolo o ha acquisito quella speciale conoscenza».
In essa si praticano riti analoghi a quelli della famiglia, si
celebra il culto di eroi morti dinanzi a un altare e si consuma, nel rispetto
di una gerarchia di posti e porzioni, il pasto comune o charísta, al quale si presumeva che intervenissero gli dei (theôn parousía).
Sappiamo di confraternite di giovani guerrieri protoiranici che
si accostavano al pasto rituale dopo aver immolato un toro, bevevano haoma e si congiungevano con le donne
consacrate.
A contraddistinguere non poche delle confraternite erano il culto
dell’angelo femminile, la nudità eroica, lo stendardo nero con la figura del
drago, la prova del fuoco e altri tratti ancora, in parte sopravvissuti nelle
comunità mitriache e nelle iuventutes
europee, fino ai circoli trovadorici e stilnovistici. Una loro memoria è
conservata nel diritto cavalleresco e militare[19].
9. –
Nell’antichità classica, scrive ancora Zolla, sopra la famiglia si trovano,
oltre alle confraternite, la gens o génos, la curia o fratría e la
tribù o phylé, terza parte dello
Stato (donde il ‘tribuno’ e il ‘tributo’), secondo una tripartizione che è
della machina mundi e anche dell’uomo
(come dice Servio in 4.654, tribus
constamus: anima … corpore … umbra).
Quanto allo Stato, esso può essere dispotico, con un dominatore
che rappresenta la divinità, ma anche a costituzione sacrale democratica e
sacerdotale, come nel caso dell’ordinamento germanico: in questo vi sono
infatti gli uomini liberi riuniti in un’assemblea e i capi sacerdotali,
chiamati in norreno godhi (dalla
radice indoeuropea gheu-, da cui sia cheîn, ‘versare’, perché essi versavano
la libagione nei sacrifici, sia, nelle lingue germaniche, il nome di Dio e del
bene). A loro spetta l’interpretazione degli oracoli e il ius coërcendi, secondo le informazioni che provengono da Tacito. E
sempre a soggetti di rango sacerdotale compete la rivelazione del diritto
all’interno di un cerchio magico, segnato dal recinto del luogo sacro per
eccellenza. Proprio i sacerdoti, del resto, erano chiamati in antico alto
tedesco ēwart o ‘custodi della
legge’ e in anglosassone ēsago o
‘enunciatori della legge’ e anche, in norreno, thulr o ‘mormoratori’, poiché pronunciavano norme e sentenze in
sussurri trasognati e oracolari.
Ma anche «il diritto sacro romano era essenzialmente ciò che gli
dei dicevano attraverso i loro portenti e oracoli: fas da fari, ‘parlare’,
onde fata erano ea quae dii loquuntur». E significativamente dalla stessa radice
proviene in slavo antico baliji,
‘stregone’ e dunque interprete del sacro[20].
10. –
Centro dello Stato, per Zolla, era il luogo in cui si superavano gli squilibri
mediante riti, in particolare con i sacrifici degli homines sacri e con l’esperimento delle legis actiones. Le decisioni in materia, relative dunque al
compimento o meno di quei sacrifici e all’esito di quelle azioni di legge,
scendevano dall’alto e si ottenevano grazie a divinazioni e ordalie, mentre il
corpo dei cittadini osservava.
L’agire in giudizio addirittura si basa sulla «propria
condizionata trasformazione in homo sacer».
La rivendicazione di un diritto si compie con atti simbolici, in virtù dei
quali prende inizio la causa o cosa trattata, vale a dire la res (in avestico rāyō sono i beni), l’affare che va deciso con la contesa
o prova (in gotico sakjo significa
‘lotta’, in tedesco Sache è la
‘cosa’). E sovente occorre decidere chi sia da consacrare tra gli accusati: al
qual proposito merita ricordare che in greco ‘accusare’ è kategoréo, che in attico assume una forma che vale per
‘consacrare’.
Il duello è uno dei modi per interrogare la sorte, ma può essere
anche un combattimento in cui si fronteggiano formule magiche e quindi
giuridiche. Altri modi per capire il destino vi erano: basti pensare alla prova
del fuoco da attraversare intatti o a quella dell’acqua su cui non galleggiare
o al responso delle verghe[21].
11. –
Anche il patto, nucleo di qualsiasi contratto, per Zolla attiene al sacro. Esso,
scrive lo studioso, inizialmente «è stretto con un dio, essendo un voto con cui
ci si devolve giurando a un dio sotto condizione; soltanto di riflesso restano
legati l’uno all’altro i contraenti, essendo entrambi vincolati, consacrati in
vista d’uno stesso evento, a un medesimo dio».
Anzi, continua lo studioso, «ogni fattispecie giuridica è sempre
in origine un patto con la sfera divina; non si distingue fra diritti reali e
obbligazioni, l’occupazione è un patto con gli dei della terra»[22].
Il patto comporta dunque un rischio: in un primo tempo, quello di
essere definitivamente nelle mani di una divinità; dopo, quello del «legamento»
ad altro soggetto, destinato a dissolversi con il compimento di ciò che si è
promesso. Del resto, ancor oggi, nota l’autore, la zingara, chiedendo
l’elemosina, annoda una cordicella con le dita e dice a chi le sta davanti e
ancora non le abbia elargito alcunché: «così ti lego e non ti potrai
sciogliere». E fa perciò correre all’interlocutore un brivido per la schiena,
generando in lui un malessere che è lo «stato nascente dell’obbligazione
giuridica».
Pure la vendita, secondo Zolla, è intimamente connessa con il
sacro: essa sarebbe invero sorta come un’offerta a un dio di una merce, cui
faceva seguito la compera, concepita quale liberazione o svincolo della merce
stessa dalla sfera di pertinenza di quel dio. Risultato che, a partire da una
certa epoca, si otterrà pagando con la moneta, la quale, nata presso i
sacerdoti, rappresenta un mezzo di scambio recante i simboli della divinità che
presiede al negozio. Quindi «il denaro è magicamente il segno del favore
divino, di cui reca impresso l’emblema, ed esige da chi lo ambisce certi
sacrifici, della cui entità è misura, nome e segno»[23].
12. – La
persistenza nei diritti moderni di tratti arcaici, osserva a questo punto
Zolla, è prova, e non l’unica, della loro «ineludibile sacralità». Fra quei
tratti, a suo avviso, vanno annoverati: «la necessità di cerimonie giuridiche
per varcare la soglia sacra d’un domicilio, la misura di gioco nella procedura,
per cui essa è pur sempre un’ordalia, un sorteggio».
Ma non è tutto, perché, secondo l’autore, «il diritto di non
essere del tutto leali nella lotta procedurale, lo scatto dei termini perentori
e le stesse prescrizioni danno all’insieme il carattere d’una partita». Mentre,
incalza lo studioso, «rimane una semplice stravaganza la proposta che le parti
debbano collaborare al processo in se stesso, essendo la pena una
purificazione, una meta e un diritto cui il reo dovrebbe tendere». Si tratterebbe
infatti di idee «che non possono tradursi in norme o in massime, anche se
sarebbero consone a una razionale, immaginaria moralità». Ed è proprio la
sacralità da millenni connaturata al processo, per Zolla, a «far sì che il
processo stesso sia sempre ordalia e duello, che si lasci il suo esito al
responso di ciò che oggi si chiama non fortuna o fato ma, per pudibonderia,
meccanica processuale o margine d’imprevedibilità». Al qual proposito, continua
ancora Zolla, è da evidenziare che il margine d’imprevedibilità appare mal
invocato. «Come se un caso, proprio perché si propone in giudizio, non fosse
essenzialmente e per forza del tutto imprevedibile: nessuno s’inoltra in
giudizio se il risultato è ovvio, le parti insistono esclusivamente nella
misura dell’azzardo; questo è uno degli argomenti che mostrano la futilità di
considerare il diritto come la sfera della certezza nei rapporti umani»[24].
La connessione del fenomeno giuridico con il sacro, aggiunge lo
studioso, non manca di ulteriori evidenze. In ogni sua singola manifestazione è
infatti percepibile «una funzione mitica e simbolica»: e così, «come il regime
matrimoniale costringe a una certa sacra rappresentazione e recitazione della
Diade, quello patrimoniale esige sempre un sacrificio più o meno ampio del
proprietario allo Stato o viceversa, segnando quindi il grado rispettivo di
sacralità dello Stato e del singolo, cioè la misura della reputata funzione
microcosmica o solare dell’uno e dell’altro»[25].
L’aggancio del diritto al sacro è così forte e resistente, spiega
ulteriormente lo studioso, che non verrebbe meno neppure nel caso in cui
prendessero corpo le «utopie d’una creazione perpetua popolare del diritto,
ubbia della Russia rivoluzionaria fino alla restaurazione di Vyšinskij, della
Germania nazista, dove si volle imporre la spontaneità legiferante popolare, e
in certa misura anche dello ‘scetticismo giuridico’ americano con il suo
appello alle ‘premesse tacite’ del giudice». E invero, rileva Zolla, «anche se
si sostituisse il quartiere o l’isolato o il posto di lavoro ai tribunali, si
tornerebbe a una sacralità delle ventate di opinione che muovono tali
assemblee, alla prova magica o ordalia delle loro procedure. La magia delle
induzioni psichiche vi si affermerebbe e la ‘tecnica di gruppo’ le dirigerebbe
come la scienza pontificale dei sacerdoti germanici descritti da Tacito
governava le assemblee arcaiche»[26].
13. –
Affinché la critica del diritto abbia un senso, scrive Zolla in apertura delle
pagine conclusive del saggio, essa non deve indirizzarsi al diritto stesso,
«che esprime semplicemente la continuità in sé d’una vita sociale, bensì al
bisogno di diritto nell’interiorità dell’uomo»: che è un bisogno legato al
desiderio di «restaurare o garantire l’equilibrio magico», compromesso – nel
senso che avvertiamo un «mancamento di forza magica» – quando ci si sente
afferrati «da una presenza più forte di noi», attraverso «restaurazioni in
integro, ripartizioni, vendette e rivendicazioni». Perché questa è la sorgente
interiore del diritto[27].
L’insegnamento di Gesù, osserva ancora l’autore, «fu di non
lasciarsi dominare e controllare da questo bisogno», di non ritenerlo intriso
di sacralità. Secondo molti degli interpreti dei Vangeli, invero, «il diritto
sarebbe il segno di una presenza magica e d’una possessione assai più
pericolosa di tutte quelle che con vendette e rivendicazioni e riparazioni si
vorrebbero eliminare». Cristo non critica dunque il diritto come forza sociale,
ma «come impulso psichico e quale regime magico inferiore ed errato dell’interiorità».
Per cui egli combatte il bisogno di sacrificare l’homo sacer e quindi anche l’adultera evangelica che sacra era diventata in ragione della sua
condotta, pur non mettendo in dubbio «la premessa mistica della monogomia più
intransigente». E suggerisce di perdonare le offese e di considerare il ruolo
di creditore per quello che è veramente, ossia il ruolo gretto di chi deve
riscuotere per mettere fine a un legamento magico che stringe a sé il debitore
e diventare così pienamente libero e godere della propria gloria, cui va
contrapposto il ruolo di chi sa donare e incrementare attraverso la generosità
la gloria personale.
Resta però nel fondo dell’uomo, anche a ottemperare ai dettami di
Cristo, il bisogno del sacrificio, quale modo per comunicare col sacro
assolutamente ineliminabile. Si chiede allora Zolla come si possa entrare in
contatto col divino «se si ricusa il sacrificio dell’homo sacer e i sacrifici del diritto (i risarcimenti, le pene)». E
la risposta che egli dà è attinta dal sacrificio «dello stesso Maestro come
sostituto e vicario d’ogni vittima e condannato». A suo avviso, è invero
decisivo che «la massima sacralità accetta la pena – l’onore (timé) della croce. Questa rivelazione
tragica della natura intollerabile del sacro, della profondità abissale celata
nella richiesta di giustizia, questa immolazione del più perfetto perché
oltremodo intollerabile, libera dalla bilancia delle pene e dei diritti. Il
sangue di una tale vittima, voluta dalla sentenza massimamente ingiusta e
massimamente necessaria, è il lavacro psichico e magico per eccellenza e
scioglie dalla sudditanza al diritto»[28].
Memori di un tale evento, quello della crocifissione di Gesù,
abbiamo il compito di estirpare in noi la radice del diritto, il vincolo della
sua necessità, continua l’autore. Il nostro sforzo deve perciò orientarsi in
questo senso: «la riscossione del dovuto, la punizione del torto cessino di
apparirci una medicina del nostro turbamento e, se l’ingiustizia chiama la
magica riparazione e ci porta a giudicare con magiche mormorazioni, si
contempli la croce, somma ingiustizia e magia. Si guardino in faccia i bisogni
e gli istinti giuridici: sono lacci che avvincono, uncini infilati nella nostra
carne».
E non è questa, dice Zolla quasi al termine del suo contributo, una
crociata contro i tribunali o un carme contro chi vanti un credito, certo
suscettibile di estinguersi attraverso l’adempimento del debitore anche se e
quando il titolare della pretesa riconosciuta dall’ordinamento si sentisse
liberato dall’urgenza psichica di ottenerne soddisfazione. Né si tratta di
un’istigazione a censurare «coloro che non possono non giudicare, rivendicare,
disputare del diritto e del torto»: tutti soggetti che vanno compassionati,
mentre «il loro misero spettacolo ci aiuta a preservarci dal ricadere noi
stessi in quella prigione e volgare corte di supplizi»[29].
La sublime indicazione che proviene dall’esperienza cristiana è
peraltro paragonabile a quella offerta dall’arte marziale giapponese nota come
«via del respiro armonioso». In ossequio ai suoi dettami, l’alunno picchia un
ceppo con un bastone, poi con questo colpisce un ceppo immaginario, quindi
procederà come se avesse in mano un bastone che invece non ha. Ciò rivela che
«buona parte delle mosse che si compiono per aiutarsi a eseguire certi atti
possono poggiare sulla fantasia, come quando per levarsi in piedi ci si afferri
a un sostegno. Imparando a sostituire il sostegno con la sua immagine mentale,
si può imparare, ulteriormente, quanta forza nascosta si abbia e da quanti bisogni
immaginari ci si lasci incantare». Ed ecco allora che, al pari del bastone, si
può fare a meno «delle categorie del diritto e del torto», rimpiazzandole con
la nuda fede nel significato del nostro destino ovvero nella provvidenza. Anche
se questo, riconosce nelle ultime righe del contributo lo studioso, non è da
tutti. Come da tutti non è far proprio l’ammaestramento che promana dalla «via
del respiro armonioso». Impermeabile al suggerimento delineato è comunque ogni
mente che, invece di meditare intorno al medesimo, «corra a domandarsi se possa
sussistere una società senza diritto», fraintendendo così completamente il tema
affidato al suo vaglio[30].
14. –
Condurrebbe troppo lontano ricercare ed esplicitare il molto che è nascosto
nella scrittura fortemente ellittica di Zolla e poi, portato così a compiutezza
il suo discorso – che, come si è constatato, va ben oltre l’ordinamento romano
–, analizzarlo criticamente. Sicché, tenuto conto che una delle figure
ricorrenti nel saggio è quella dell’homo
sacer, oggi importante anche nel dibattito filosofico internazionale – e
ben lo mostrano alcune pagine di Emanuele Stolfi[31]
e Isabell Lorey[32]
–, mi limiterò a vagliare il pensiero dell’autore in merito alla stessa, dando
per letto quanto ho già scritto al suo riguardo e la dottrina con la quale mi
sono progressivamente confrontato, richiamata qui in minuscola parte, solo là
dove il suo ausilio appaia essenziale[33].
Ebbene, concordo senz’altro con lo studioso quando asserisce che
chi s’incaricava della morte dell’homo
sacer sentiva di agire per impulso della divinità offesa dalla condotta di
costui, alla stregua di un mandatario che porta a esecuzione la volontà omicida
del mandante.
E invero, tenendo uno dei comportamenti che l’arcaico sistema
giuridico-religioso – attraverso norme che la tradizione riporta a leggi
approvate dal comizio curiato su iniziativa di vari re[34]
– sanzionava con l’automatica acquisizione dello status di sacer da parte
del loro autore in vista dell’immediato ripristino della pax deorum che ne era risultata infranta[35],
il soggetto, appunto perché sacer, si
trovava in questa condizione peculiare, senza bisogno di una preventiva
pronuncia di colpevolezza: di estromissione dalla comunità in cui era nato e
cresciuto, ovvero di privazione della qualifica di liber che denotava proprio l’inserimento nel gruppo sociale, e di
appartenenza al dio che aveva osato ingiuriare[36].
A tacere di altre fonti, rilevante è quanto, rispetto al sacro in generale,
aveva teorizzato Trebazio Testa, giurista amico di Cicerone, nel libro primo
del trattato De religionibus, opera
che doveva lasciarsi apprezzare per il suo spessore sistematico: sacrum est quidquid est quod deorum habetur[37];
e anche ciò che, seppure meno incisivamente[38],
avrebbe detto il ben più tardo Macrobio, ossia che quidquid destinatum est dis sacrum vocatur[39].
Ma se l’homo sacer era
nel dominio di un dio, è giocoforza che questo potesse disporne a piacimento. E
decidere pertanto di segnare in negativo il suo destino, visto che, per quanto
si apprende da Tac. ann. 1.73.4, … deorum iniurias diis curae[40]:
per esempio, ingenerando in lui, a livello corporale o mentale, una qualche
malattia più o meno grave oppure istigandolo con successo al suicidio, come
sostiene Ferdinando Zuccotti[41],
o anche troncandogli la vita. Peraltro, poiché nessun dio si sporcava del
sangue di un individuo – numquam deos
ipsos admovere nocentibus manus, si legge in Liv. 5.11.16 –, pure quello nella cui signoria
fluttuava il suo oltraggiatore si sarebbe servito di un uomo per l’attuazione
del proposito cruento maturato, potendo ricorrere a lui perché le regole del
tempo, che sappiamo estese ai rapporti con gli esseri soprannaturali, ciò
ammettevano. E il prescelto, anzi, quello che avvertiva, così come tutti i
consociati avvertivano, di essere stato individuato dal dio, che percepiva in
prima persona la «spinta arcana» all’atto letale di cui parla Zolla,
coerentemente non avrebbe risposto penalmente dell’omicidio perpetrato e
sarebbe così scampato alla sanzione capitale, dal momento che esulava dalla fattispecie
incriminatrice contemplata nella legislazione numana in materia – formulata con
esclusivo riferimento a colui che mettesse a morte dolo sciens un homo liber,
secondo Paul.-Fest. voce ‘Parrici<di>
quaestores’ (Lindsay 247)[42]
– l’uccisione intenzionale dell’homo
non liber, qual era l’homo sacer[43].
Né egli, altrettanto coerentemente, sarebbe diventato sacer o avrebbe comunque subito un
peggioramento del suo status a causa
del fatto commesso, integrante, in mancanza della giustificazione insita nella sua
veste di esecutore di una risoluzione divina, una grave intromissione in un
rapporto, quello intercorrente fra il dio e chi gli aveva arrecato vituperio,
al quale ogni terzo doveva rimanere estraneo. Lo si desume chiaramente da Dion.
Hal. 2.74.3, dove, con riguardo alla statuizione, pure numana, che qualificava
come sacer il violatore delle pietre
di confine tra fondi, si osserva che in base a essa chiunque aveva facoltà di
ucciderlo impunemente, conservando per giunta il proprio stato di purezza.
E a voler
immaginare che l’assassino dell’homo
sacer fosse accusato per l’omicidio deliberatamente consumato, è
presumibile che si sarebbe esonerato da responsabilità provando la situazione
in cui versava la sua vittima, forse oggetto di una qualche forma di pubblicità
in seno alla civitas, come preciserò
nel seguito.
15. –
Risulta già nitido, per quanto detto, il mio dissenso rispetto a un’idea che
pervade il saggio di Zolla: che l’homo
sacer fosse inesorabilmente destinato alla morte per mano d’altri e che in
questa si vedesse un sacrificio addirittura reclamato dalla divinità offesa,
idoneo a restaurare l’armonia tra la collettività e il sovrasensibile.
Pensare
all’eliminazione fisica dell’homo sacer
quale esito scontato conseguente al suo stato, e scontato sul piano normativo
prima ancora che fattuale, è ostacolato dalle fonti, che orientano ben
diversamente: ossia nel senso che ai singoli consociati era riconosciuta la
facoltà, e non certo l’obbligo, di sopprimere quell’homo[44].
Limitando lo sguardo, come ho fatto finora e ancora per un tratto farò, al
periodo monarchico, basterà qui richiamare Dionigi di Alicarnasso e Macrobio.
Il primo menziona l’uso risalente dei romani di rendere sacre a una qualunque
delle divinità, soprattutto sotterranee, le persone che essi avessero voluto
impunemente uccidere (2.10.3); ricorda inoltre, trattando della disciplina
romulea del rapporto tra patrono e cliente, che la trasgressione dei divieti
contemplati dalla stessa (accusarsi a vicenda o arrecare testimonianze e
votazioni avverse o essere annoverato tra i rispettivi nemici) comportava la
sacertà del reo[45],
la cui uccisione da parte di chicchessia era perciò lecita (ancora 2.10.3);
narra infine, come già abbiamo appurato, che il soggetto divenuto sacro per
aver tolto o spostato le pietre di confine tra fondi in spregio a una legge di
Numa[46]
poteva essere impunemente ucciso da tutti (2.74.3). Quanto a Macrobio, in Sat. 3.7.5 egli scrive che vi erano
alcuni ai quali appariva sorprendente che per l’addietro fosse esistito il ius di uccidere l’homo sacer, considerato che da sempre era contrario al fas violare cetera sacra, ossia le altre entità sacre.
Che
l’uccisione dell’homo sacer fosse
normativamente prevista come eventuale, d’altro canto, era imposto dal fatto che,
a livello ordinamentale, si percepiva come eventuale la decisione di
interrompere la sua esistenza dall’esterno (o anche dall’interno, attraverso il
suicidio) da parte del dio in balia del quale il nostro homo si trovava. Vincolare ogni membro della civitas o qualche suo organo alla messa a morte di costui sarebbe
invero equivalso a non riconoscere al dio che ne era divenuto il padrone il
potere di determinarsi discrezionalmente, come ogni dominus, rispetto a un proprio bene. Viceversa, lasciare alla libera
valutazione di ogni individuo la decisione circa la sorte effettiva dell’homo sacer significava, nell’immaginario
della Roma dei primordi, rispettare pienamente le prerogative acquisite da un
dio attraverso un meccanismo, qual era quello della sacertà, d’indole
giuridico-religiosa e dunque dagli effetti inderogabili. E implicava quindi
sfuggire al pericolo che il dio reagisse malamente nei confronti della comunità
nel caso in cui sentisse prevaricata la sua volontà, avendo qualcuno ucciso in
adempimento di un dovere un homo sacer
che egli voleva lasciar sopravvivere o tormentare diversamente, nell’uno o
nell’altro dei modi in precedenza indicati.
Ancora
in Dion. Hal. 2.10.3 troviamo una preziosa, per quanto parziale, conferma di
questo quadro ricostruttivo. Vi si afferma infatti che sarebbe stato lecito, a
chi lo avesse voluto, porre a morte il soggetto, patrono o cliente, caduto in
potere di Zeus infero – in quanto divenuto sacer
al medesimo –, quale vittima decisa da questa divinità.
Di
contro a Zolla, come anticipato, nemmeno credo che nella morte inflitta, e
ripeto per me non obbligatoriamente, all’homo
sacer da parte di un terzo qualsiasi si ravvisasse un sacrificio. Questo,
secondo John Scheid, constava di una sequenza procedurale complessa, nella
quale trovava posto l’immolazione, una fase a sua volta scomponibile in tre
gesti provenienti dall’officiante, il quale cospargeva la vittima con la farina
salata chiamata mola, versava del
vino sopra quella e tracciava con il coltello una linea immaginaria tra la sua
fronte e la sua coda. Orbene, stando sempre a Scheid, in dipendenza del loro
compimento e presumibilmente già per effetto del secondo, si aveva il
trasferimento della vittima «dalla proprietà degli umani a quella degli immortali»,
la sua introduzione nella proprietà divina[47]:
il che, più di recente, ha sostenuto pure Gianluca De Sanctis[48].
Ma se così è, non rimane spazio per ipotizzare con un qualche fondamento che l’homo sacer,
il quale già si trovava nella proprietà divina, potesse o peggio dovesse
esservi reimmesso con un atto, l’uccisione del medesimo a guisa di sacrificio,
che avrebbe implicitamente disconosciuto la precedente sua attribuzione alla
sfera divina ed esposto la comunità che risultava non averlo espulso e trasferito
in mani soprannaturali al pericolo conseguente a un’ulteriore rottura della pax deorum o comunque, ragionando
diversamente, avrebbe dato luogo a un’intollerabile interferenza in un già
costituito legame dominicale e causato perciò, come nella precedente ipotesi,
una nuova violazione della pax deorum.
Un
testo famoso, Fest. voce ‘Sacer mons’
(Lindsay 424), sul quale tornerò oltre, corrobora quanto appena sostenuto. Lì,
a proposito dell’homo sacer, si dice: neque fas est eum immolari, sed, qui
occidit, parricidi non damnatur. Dunque, l’immolazione dell’homo sacer
era vietata da una norma del fas,
l’arcaico diritto concernente i rapporti tra uomini e dei, in quanto provocava
– è da credere – una lesione della pax
deorum. Solo ne era ammessa, da una norma certo molto risalente,
l’uccisione irrituale, in nessun modo riconducibile a un sacrificio, che non
comportava responsabilità per l’omicidio volontario commesso.
Vero è, peraltro, che Macrobio, in continuità rispetto
all’osservazione formulata in Sat.
3.7.5 e dianzi valorizzata, intreccia una riflessione, che si snoda in 3.7.6-7,
da cui sembra trapelare che l’uccisione dell’homo sacer avesse, per i singoli consociati, un che di doverosità.
Occorre dunque soffermarsi sul brano e verificare se esso mini alla base la
ricostruzione che sono venuto prospettando.
Nell’intento di chiarire a coloro che non riuscivano ad afferrare
perché un tempo fosse lecito mettere a morte l’homo sacer quando era nefas violare i cetera sacra, l’autore, dopo aver ricordato che i veteres non tolleravano che un animale
sacro si aggirasse nelle loro terre, per cui lo costringevano ad andarsene in
quelle delle divinità alle quali era sacro, afferma che le anime degli uomini
sacri gli stessi veteres le
ritenevano dis debitae: espressione
che potrebbe indicare che queste anime gli antichi le consideravano vincolate
(conformemente a uno dei significati del verbo debere), ovvero già in mano, agli dei. A motivo di ciò, continua
Macrobio, ancora i veteres, come non
esitavano ad allontanare da sé ciò che era sacro e non potevano tuttavia
inviare direttamente agli dei, così, reputando che le anime sacre potessero
essere mandate in cielo (presso gli dei cui appartenevano e sul fondamento
della loro volontà, ci saremmo aspettati), volevano che esse, liberate dal
corpo, vi andassero al più presto[49].
Generalmente ritenuto contorto e in qualche punto oscuro, il
discorso di Macrobio rivela un’insospettata coerenza interna se lo si legge
alla luce della motivata e convincente ridefinizione dell’animal sacrum che vi compare proposta da Carlo Pelloso. Esso viene
infatti a conquistare piena autonomia rispetto alla victima fugiens presa in considerazione da Serv. Verg. Aen. 2.104 (... sacrorum est ut fugiens victima,
ubicumque inventa sit, occidatur, ne piaculum committatur), con la quale è
invece fatto coincidere da buona parte della dottrina, a cominciare da Bernardo
Santalucia[50],
ma a torto: il primo, semplice animale idoneo a un sacrificio nella prospettiva
di Pelloso, quando vagasse al di fuori dei fines
deorum, doveva invero esservi ricondotto vivo, per quanto scrive Macrobio;
la seconda, sfuggita a un sacrificio già iniziato, passata o meno che fosse
nella proprietà divina per effetto dell’immolatio
o comunque di uno dei gesti ricompresi in questa fase, doveva invece essere
uccisa da chi vi si imbattesse – e non volesse incorrere in un’omissione
contaminante (piaculum) –, in quanto
si era mostrata platealmente sgradita dal dio che ne stava per acquisire il
dominio o rifiutata da quello nella cui sfera di appartenenza era appena
entrata, come attesta Servio[51].
Nonostante la riacquisita linearità, il periodare di Macrobio
continua però a instillare il dubbio che l’homo
sacer fosse inevitabilmente votato alla morte. Tanto che Santalucia scrive,
a commento dello stesso: «la religione … non ravvisa l’esigenza di placare
l’ira divina mediante il sacrificio rituale del colpevole e, pur ammettendo che
la consacrazione aveva come conseguenza ultima e normale la morte del
consacrato, non consentiva la sua immolazione ad opera degli organi della
comunità»[52].
Proprio da queste parole si può tuttavia trarre ispirazione per sostenere che
l’autore, mentre in Sat. 3.7.5 guarda
alle leggi relative all’homo sacer –
già per lui, attivo fra il IV e il V secolo d.C., così lontane nel tempo –,
potendo perciò parlare del ius che
esse assicuravano a tutti di porlo a morte, in 3.7.6-7 allude al riflesso
pratico di tali leggi, prefigurandosi – non sappiamo quanto attendibilmente –
una remota realtà in cui quel diritto veniva costantemente esercitato. Il
quadro che risulta non è allora di per sé incompatibile con ciò che ho
ipotizzato, ancorandolo essenzialmente e necessariamente agli aspetti normativi
e non fattuali della sacertà, perché è ai primi che le fonti pervenuteci sono
tendenzialmente attente.
Resta però incerto, come accennato, se Macrobio disponesse di una
documentazione adeguata circa un’esperienza concreta tanto risalente. Né il suo
richiamo a Trebazio Testa in Sat.
3.7.8 (disputat de hoc more etiam
Trebatius ‘Religionum’ libro nono; cuius exemplum, ne sim prolixus, omisi)
è decisivo, considerato non solo che potrebbe non essersi giovato del suo
apporto o averlo frainteso, come reputa un orientamento dottrinale, ma pure che
il rinomato giurista potrebbe aver circoscritto la propria indagine ai profili
squisitamente normativi della sacertà, peraltro, come notato, correttamente,
ancorché ellitticamente, evocati in 3.7.5. Se così è, rimane dunque aperta
l’eventualità che il ius al centro di
questo passo non sempre trovasse un soggetto incline a valersene.
Un appunto resta comunque da muovere a Macrobio. Egli ha infatti
trascurato che, secondo la genuina tradizione romana, l’homo sacer era attribuito nella propria interezza alla divinità
offesa dal suo comportamento. E invero, come ha rilevato Roberto Fiori, nelle
parole dell’autore, nelle quali risuona un mondo di idee notevolmente diverso
da quello che aveva concepito l’homo
sacer, «l’anima … è opposta al corpus, e viene inviata in caelum perché quella è la sua sede; e
di fronte a quest’anima così ‘incorporea’ è impossibile non sospettare al
riguardo una interpretazione dello stesso Macrobio, influenzata da quelle
dottrine neoplatoniche dell’anima che altrove lo scrittore ha ampiamente
sviluppato»[53].
Escluso che l’uccisione dell’homo
sacer, solo eventuale almeno a livello dell’astratta regolamentazione
giuridica, presentasse un risvolto
sacrificale, giova adesso indugiare sul perché nella medesima, contrariamente a
quanto pensa Zolla, neppure possa vedersi il tramite necessario per la
ricostituzione della pax deorum. A
prescindere dal rilievo che se davvero il suo ripristino fosse stato
subordinato alla morte del nostro homo
il quadro normativo avrebbe avuto una diversa parvenza, prevedendo l’obbligo
generalizzato, e non l’omologo diritto, di sopprimerlo, è da sottolineare che
il congegno della sacertà era strutturato in modo tale che l’amicizia con gli
dei venisse a riaccendersi per conseguenza stessa della caduta in sacertà di
chi, con una condotta vietata, l’aveva compromessa: attraverso la sua
separazione dal gruppo sociale di appartenenza, collegata in via immediata e
diretta al compimento dell’illecito, l’ordinamento sottraeva quel gruppo alle
possibili manifestazioni d’ira della divinità alla quale il trasgressore aveva
recato un’onta, così come mediante la sua simultanea consegna a tale divinità
l’ordinamento convogliava in capo a costui le eventuali reazioni della
medesima.
Trova così smentita un’ulteriore illazione di Zolla: che l’homo sacer fosse considerato dagli dei
alla stregua di un morto. Se era sufficiente, ai fini del risorgere
dell’essenziale pax deorum, il
transito di colui che aveva perpetrato un torto ai danni di una divinità nella
sfera di appartenenza di questa, bisogna ammettere che egli fosse visto come un
bene dotato dell’alto pregio di un uomo vivente e non invece come un qualcosa
di valore addirittura negativo, qual era un uomo morto in mancanza dei riti
funerari prescritti dall’ordinamento, in quanto di per sé contaminante[54].
16. – Mi
fermo ora su un passaggio del discorso di Zolla che pur dovrebbe apparire privo
di peso a fronte delle considerazioni svolte: quello in cui egli addita, quale
centro della Roma arcaica, il luogo in cui si procedeva al sacrificio dell’homo sacer, una volta intervenuta la
decisione circa il suo stato, promanante dall’alto e resa palese, davanti
all’assemblea dei cittadini, attraverso una divinazione o un’ordalia.
Se la norma del fas
ricordata da Festo e sopra richiamata precludeva l’immolazione dell’homo sacer, di un sacrificio del
medesimo non si può parlare, come già osservato. E se l’homo sacer diventava tale per effetto automatico dell’illecito
perpetrato, per una pronuncia che costituisse il reo nella situazione di
sacertà non vi era il margine. Ma neppure di una sentenza meramente
dichiarativa dello stato di sacertà in cui taluno fosse precipitato si sentiva
la necessità, tanto da potersi supporre che non vi si ricorresse. Non è
improbabile, peraltro, che della caduta in sacertà di uno dei suoi membri la
comunità fosse anche ufficialmente informata. Forse il re, coadiuvato dai
pontefici, di tanto in tanto – magari nei due giorni indicati dalla sigla ‘Q.R.C.F.’ –, rendeva pubblicamente noto
quali fossero gli homines sacri.
Anzi, la celebre e in parte ancora misteriosa detestatio sacrorum menzionata nelle fonti[55]
poteva proprio indicare l’atto con cui si portava a conoscenza del popolo i
nominativi di tutti coloro che erano inacappati nella sacertà[56].
Ma il controllo giudiziale sull’effettiva situazione di sacertà del cittadino
messo a morte in ragione della stessa, contemplato o meno che egli fosse nelle
ipotetiche proclamazioni periodiche di cui ho appena detto, era comunque
assicurato, come già accennato, in via posticipata, potendo l’uccisore essere
assoggettato a un processo per omicidio volontario, all’esito del quale sarebbe
stato assolto dando prova della sacertà contratta dalla vittima, valorizzando
eventualmente le risultanze delle forme di pubblicità immaginate allora in uso.
Individuato nel rex e
nei suoi ausiliari, i quaestores, gli
organi legittimati a condurre questo processo (in cui erano forse coinvolti i
pontefici, per valutare se l’uomo messo a morte avesse realmente acquisito la qualifica di sacro a motivo
del contegno serbato[57]),
e ancora nel rex e forse in altri
collaboratori, tra i quali i duumviri
perduellionis, quelli chiamati a sovrintendere ai giudizi per crimini
diversi dall’omicidio, come appunto la perduellio,
sanzionati con la morte inflitta a titolo di sacrificio espiatorio[58]
(ovvero con quel deo necari in cui
Zolla erroneamente vede l’esito immancabile della sacertà), non è affatto
escluso che alla formazione della decisione finale concorresse il popolo
riunito nel comizio curiato, secondo modalità variamente ricostruite dalla
dottrina che segue questa ipotesi, capeggiata da Santalucia[59].
Non sembra però avallare tutto ciò la voce di Festo ‘Sacer mons’ (Lindsay 424), in cui si
afferma che homo sacer is est, quem
populus iudicavit ob maleficium, precisandosi subito dopo, con un enunciato
a noi ben noto, che neque fas est eum
immolari, sed, qui occidit, parricidi non damnatur. Prima di affrontare il
problema posto da questo testo, conviene riportare anche il seguito del lemma: nam lege tribunicia prima cavetur, ‘si quis
eum, qui eo plebei scito sacer sit, occiderit, parricida ne sit’. Ex quo
quivis homo malus atque improbus sacer appellari solet.
Persa la qualifica di liber
per effetto della colpa di cui si era macchiato, di per sé idonea a trasferirlo
nella sfera di dominio della divinità offesa e a recidere contestualmente il
suo legame con la comunità di appartenenza, l’homo sacer non conservava nemmeno lo stato di civis. Per cui, come era fuori discussione l’applicazione della
norma sull’omicidio doloso a carico del suo uccisore, essendo l’eliminazione
del sacer estranea alla fattispecie
incriminatrice prevista prima nella legge di Numa e poi nella legge decemvirale[60],
così non potevano operare nei confronti del sacer
le garanzie introdotte da questa seconda legge a favore del civis. Dunque, anche sotto il suo impero
l’homo sacer non godeva del diritto a una preventiva pronuncia circa la
propria condizione, nella quale seguitava a cadere per effetto diretto e
immediato dell’azione commessa, e chiunque aveva facoltà di infliggergli la
morte, che rimaneva orfana di contorni sacrificali. In altri termini, il
divieto ribadito nelle XII Tavole di porre a morte l’homo indemnatus evocato
da Salviano[61]
continuava a valere in relazione all’homo
liber, in quanto civis, non
estendendosi all’homo sacer, che civis non era. E del pari il precetto
delle XII Tavole, al quale in più luoghi accenna Cicerone[62],
che riservava al comizio centuriato la competenza a decidere de capite civis, sottraendola al comizio
curiato e negandola al concilio plebeo che per l’addietro l’aveva talvolta
arbitrariamente esercitata, non riguardava l’homo sacer, poiché non liber
e conseguentemente non civis[63].
Meglio si comprende l’accenno all’illegale attività giudiziale
del concilio plebeo di epoca predecemvirale e il prosieguo del mio discorso se
ora si rammenta che nel 494 a.C. proprio il ceto plebeo aveva adottato una
deliberazione, accompagnata da un giuramento, con cui proclamava sacrosancti i suoi capi, i tribuni, con
la conseguenza che l’offensore di questi sarebbe incorso all’istante, per il
fatto solo dell’oltraggio recato, nella condizione di homo sacer, risultando perciò impunemente uccidibile da tutti[64].
Una nuova fattispecie generatrice di sacertà veniva così a imporsi nella
realtà, ancorché veicolata dal peso effettivo di una parte della comunità
cittadina e non certo dalle norme giuridico-religiose ascrivibili a questa.
Talvolta, peraltro, i tribuni promuovevano davanti al concilio plebeo,
ovviamente in via rivoluzionaria, processi contro coloro che li avessero lesi,
destinati a concludersi con una pronuncia che dichiarava lo stato di sacertà
del perseguito: in questo modo essi riuscivano ad attribuire ampia risonanza
alla violazione subita e a mostrare al patriziato la forza della classe
antagonista, pronta a proteggere quello dei suoi membri che si fosse incaricato
dell’uccisione di chi era risultato sacer
e venisse accusato di omicidio volontario[65].
Ecco allora che il codice decemvirale, non bandendo
dall’ordinamento la sacertà di matrice plebea, veniva implicitamente a
riconoscerla a livello cittadino, pur non consentendo più l’instaurazione di
processi volti al suo accertamento davanti all’assemblea della plebe e
concentrando in testa al comizio centuriato la prerogativa di giudicare del
crimine di omicidio doloso eventualmente contestato all’uccisore dell’homo presunto sacer. A convalidare espressamente quella sacertà di fronte
all’intero popolo avrebbe poi provveduto la lex
Valeria Horatia de tribunicia potestate del 449 a.C., statuendo la sacertà a Giove
a carico di chi recasse offesa ai tribuni della plebe, agli edili e ai giudici
decemviri e stabilendo altresì che i suoi beni fossero venduti con devoluzione
del ricavato a beneficio del tempio di Cerere, Libero e Libera[66].
A fronte di quanto detto, può trovare giustificazione
l’affermazione di Festo relativa all’homo
sacer, secondo la quale is est, quem
populus iudicavit ob maleficium. La mia supposizione, che ritengo idonea a
conferirle un congruo significato, fa leva sul principio di legalità, per
utilizzare una moderna terminologia, che reggeva le fattispecie produttive di
sacertà. Per me, infatti, Festo voleva evidenziare che questa era rigorosamente
prefigurata in leggi approvate dal popolo, quali erano, secondo la tradizione,
anche quelle regie, che la collegavano a specifiche ipotesi adeguatamente
descrittevi. Perciò egli può dire che l’homo
sacer è quello, ed esclusivamente quello, secondo una sfumatura insita
nelle sue parole, che il popolo, appunto in norme alla cui formulazione aveva
concorso, ha stimato ovvero, sulla scorta di una delle accezioni che ben può
assumere il verbo iudicare, ha
proclamato tale – nel senso che ha proclamato che diventi tale – in ragione
(della commissione) di un particolare misfatto, ovviamente, seppure ciò sia
implicito, che accada in futuro.
E può poi asserire, lo stesso Festo, che per esempio (locuzione
che rappresenta una resa corretta del nam
che si legge nella voce, traducibile comunque anche con ‘e infatti’ o ‘e
appunto’) con la prima lex tribunicia
ovvero, se si preferisce – sulla scia di Zuccotti[67]
–, per la prima volta con la lex
tribunicia, in ogni caso identificabile nella lex Valeria Horatia de tribunicia potestate del 449 a.C., si
è disposto che non sia considerato reo di omicidio (parricida ne sit) chi abbia ucciso (quis … occiderit) il soggetto diventato sacer sulla base del plebiscito del 494 a.C. (eum, qui eo plebei scito sacer sit), il quale, come abbiamo
poc’anzi appreso da altre fonti, era stato rafforzato da un giuramento plebeo,
che aveva munito i tribuni dello scudo della sacrosanctitas, così che il loro attentatore sarebbe incorso
subito, e cioè all’atto stesso dell’offesa commessa, nella condizione di homo sacer.
Né confligge con il quadro informativo così ricostruito quanto
emerge da Cic. Tull. 20.47 e Fest.
voce ‘Sacrosanctum’ (Lindsay 422),
fonti che potrebbero indurre a pensare che alla sacertà posta a presidio
dell’inviolabilità dei tribuni corrispondesse un obbligo generalizzato di
sopprimere il colpevole e non la mera facoltà di tutti di provvedervi. Quanto
al primo testo, il verbo iubere che
vi compare (… legem antiquam de legibus
sacratis, quae iubeat impune occidi
eum, qui tribunum plebis pulsaverit) sembra adoperato nel significato di
autorizzare. E rispetto al secondo è da rimarcare, con un’autorevole dottrina[68],
che l’espressione morte poenas pendere
utilizzata lì (sacrosanctum dicitur, quod
iure iurando interposito est institutum, si quis id violasset, ut morte poenas penderet.
Cuius generis sunt tribuni plebis aedilesque eiusdem ordinis; quod adfirmat M.
Cato in ea, quam scripsit, aedilis plebis sacrosanctos esse) non rimanda a
un’inesorabile applicazione della pena capitale, ma piuttosto, considerato
anche il contesto, all’eventualità di pagare con la morte la propria colpa.
17. –
Delle fattispecie al cui realizzarsi l’arcaico ordinamento ricollegava la
sacertà Zolla si limita a evocare quella del giuramento rivelatosi falso o, se
relativo a una condotta futura e non alla verità di un fatto già accaduto,
rimasto inadempiuto[69].
Se il primo caso viene in rilievo nell’ambito del primitivo processo civile, al
quale lo studioso fa specifico riferimento, il secondo assume importanza nel
campo del patto, per come egli lo tratteggia.
L’uno e l’altro, peraltro, sono assai discussi in letteratura,
anche in relazione alla loro idoneità a generare la sacertà[70].
Pur essendo vero che per un autore insigne, Bernardo Albanese, «il caso più
generale e importante di sacertà» che può supporsi per un’epoca molto risalente
è proprio quello della «sacratio che,
accompagnando un ius iurandum,
realizzava l’atto complesso denominato tecnicamente sacramentum», atto che svolgeva un ruolo essenziale nel processo
condotto secondo la legis actio sacramenti.
Sua opinione è infatti che «la soccombenza in quel processo implicasse, in età
remota, il venire in essere, a carico di colui il cui sacramentum risultava iniustum,
dell’efficacia della sacratio
congiunta al ius iurandum», ovvero il
venire in essere «della condizione di homo
sacer»[71].
Altre e più sicure ipotesi normativamente sanzionate con la
sacertà già in epoca regia vi sono e meritano di essere qui ricordate, pur
avendole in parte incontrate in precedenza[72]:
la violazione degli obblighi di reciproca fedeltà incombenti sul patrono e il
cliente[73];
la rimozione e lo spostamento con l’aratro delle pietre di confine tra fondi[74];
le percosse inferte dal figlio al padre e dalla nuora al suocero, purché non
mancasse il plorare della vittima[75];
l’azione, di difficile decifrazione, contemplata nella legge incisa sulla stele
scoperta nel foro romano, sotto il lapis
niger[76].
Quanto poi all’età repubblicana, agli inizi della stessa vengono
introdotte nuove fattispecie punite con la sacertà. E tutte con leggi, in ossequio
a quel principio di legalità costantemente osservato in materia del quale ho
dianzi parlato, fatto naturalmente salvo il caso della sacertà a carico di chi
infrangesse l’intangibilità dei tribuni, creato in via unilaterale dalla plebe
mediante il plebiscito, rafforzato da giuramento, del 494 a.C., di cui già
sappiamo[77].
Al proposito si possono menzionare, in aggiunta alla già citata lex Valeria
Horatia de tribunicia potestate
del 449 a.C., che recuperava, a livello dell’intera civitas, quanto statuito da quel plebiscito, due leggi: una lex Valeria del 509 a.C., che comminava
la sacertà a colui che si fosse macchiato del crimine di adfectatio regni[78],
per cui, come si ricava da Plutarco, il suo eventuale uccisore non si sarebbe
considerato responsabile di omicidio, pur a condizione che fornisse le prove
della colpevolezza della vittima[79];
la lex Valeria Horatia de provocatione del 449 a.C., che
ripristinava la provocatio ad populum,
inoperante mentre erano al potere i decemviri, e vietava per il futuro la creazione
di magistrati esenti da essa, decretando che il trasgressore, evidentemente
perché considerato sacer[80],
potesse venire lecitamente ucciso da chiunque[81].
Anche le XII Tavole, peraltro, contemplavano norme che irrogavano
la sacertà: una, su cui ci siamo già imbattuti, la prevedeva per il patrono che
clienti fraudem fecerit; due
ulteriori, forse[82],
per il falso testimone, tenuto a dire la verità sotto giuramento, passibile
della deiectio e saxo Tarpeio (che costituiva
uno dei mezzi utilizzati per l’eliminazione fisica dell’homo sacer, attestato in particolare con riguardo al soggetto
divenuto sacro per aver offeso i tribuni della plebe[83]),
e per il iudex e l’arbiter che «si lasciassero corrompere
nella decisione di una causa», in spregio al giuramento che avevano prestato[84].
18. –
Viene fatto ora di chiedersi, sollecitati dal saggio di Zolla, se la figura
dell’homo sacer abbia lasciato
qualche impronta nitidamente visibile sulla storia successiva alla sua scomparsa.
La risposta dovrebbe essere senz’altro positiva, a leggere le
tante pagine che Giorgio Agamben ha dedicato alle repliche di quella figura
registratesi nel tempo che sfuma nel presente. Autore di una serie rimarchevole
di volumi che evocano immancabilmente nel titolo o nel sottotitolo l’homo sacer[85],
egli scorge una delle sue più impressionanti incarnazioni nell’ebreo sotto il
nazismo, la cui eliminazione fisica, lungi dal ricollegarsi a una condanna
capitale o dall’assurgere a sacrificio, lungi cioè dall’essere prevista dal
diritto o dalla religione come conseguenza di un comportamento tenuto,
rappresentava nulla più che «l’attuazione di una mera uccidibilità» inerente
alla pura condizione di ebreo ovvero al solo essere tale, dipendente dal fatto
che di questi il diritto si occupava solo per decretare che il diritto stesso
non gli era applicabile[86].
Proprio come avveniva per l’homo sacer,
a detta del filosofo, posto che le norme giuridico-religiose della civitas arcaica che lo contemplavano si
limitavano a rendere inoperanti nei suoi confronti le regole d’identica natura
valevoli per gli altri consociati in tema di morte procurata da un terzo
dolosamente e di responsabilità personale per colpe sanzionate con il deo necari, per cui risultava
impunemente uccidibile da tutti e insuscettibile di un’esecuzione a titolo di
sacrificio[87].
Priva di un qualsivoglia valore o significato, la sua vita era dunque quella
vita sacra che si vorrebbe oggi contrapporre al potere sovrano come oggetto di
un diritto umano in ogni senso fondamentale: dimenticando così che essa, la
vita sacra, esprimendo in origine proprio la soggezione della vita a un potere
di morte[88],
è al centro di un dogma ipocrita consolidatosi all’interno della nostra
cultura, che di continuo assiste al riemergere della figura dell’homo sacer, incorporata in tipologie di
individui che solo l’occhio capace di scrutare in profondità è in grado di
ricondurre al paradigma offerto dall’ordinamento romano[89].
Ma anche a leggere un brano di Roberto Calasso relativo all’attacco
alle torri gemelle, contenuto in un libro incentrato sul sapere degli uomini
vedici calati nell’India del nord più di tremila anni fa[90], la risposta all’interrogativo di
esordio trova risposta affermativa. Vi si sostiene, infatti, che di fronte al tragico
evento, anziché affaticarsi nella ricerca di qualche parola con cui qualificare
i colpevoli, «meglio sarebbe stato aprire Livio e constatare che gli
assassini-suicidi islamici molto avevano a che fare con una oscura istituzione
sacrificale dell’antica Roma: la devotio».
Essi, precisano le righe successive, ne «riprendono, con variazioni, il rito»,
testimoniato da Livio attraverso la vicenda di Decio Mure, «il console che nel
340, combattendo contro i Latini sotto il Vesuvio, dopo essersi votato agli dei
inferi si gettò a cavallo fra le schiere nemiche e, trafitto più volte, cadde inter maximam hostium stragem», secondo
il resoconto conservato in 8.10.10. Ora, poiché mediante la devotio il comandante militare impegnato
in una battaglia rendeva se stesso o un altro suo soldato, unitamente
all’esercito avversario, sacer, è
chiaro che lo status che da essa
derivava in capo ai destinatari dei suoi effetti era quello dell’homo sacer, fatta salva la peculiare
disciplina valevole per il devotus
romano che sopravvivesse allo scontro, concepita per consentirgli di tornare
fra gli appartenenti alla civitas,
reintegrato nella condizione giuridica a lui propria prima del compimento del
rito, sottraendosi così alla sfera di dominio degli dei nella quale era venuto
transitoriamente a trovarsi[91].
Trainato dai nuovi devoti comparsi in
un’importante città americana sul nascere del terzo millennio, quindi, l’homo sacer, inteso come portatore di un
particolare statuto giuridico-religioso, si sarebbe da poco riaffacciato sulla
terra.
Sulle tesi dei due autori – così come sulle idee di Robert Jacob
in ordine alla zona di anomia in cui l’ordinamento avrebbe dislocato l’homo sacer, assoggettandolo a un regime
assimilabile a quello stabilito per la victima
fugiens[92]
–, ho peraltro già avuto modo di esprimermi criticamente[93]:
sicché non mi attarderò a illustrare ancora le molteplici ragioni per le quali
mi appaiono inaccettabili[94].
Non per questo escludo però che l’homo sacer della risalente legislazione romana, pur sepolto dalle
macerie del tempo, abbia mandato ai posteri e continui a inviare a noi segnali
di una sotterranea vitalità. Sebbene su questo punto abbia già manifestato le
mie convinzioni, ritengo nondimeno utile riproporle qui.
Va allora preliminarmente ricordato che sacro, in antico, non era
un uomo normativamente inviolabile, ma un uomo che l’ordinamento considerava
violabile esclusivamente dal dio cui apparteneva – e proprio perché gli
apparteneva –, il quale poteva peraltro giovarsi dell’ausilio materiale di un
uomo libero, che viceversa apparteneva al gruppo sociale, se avesse assunto la
decisione di troncarne la vita.
Non è quindi un caso se nei secoli e anzi nei millenni che ci
separano dal tramonto della figura dell’homo
sacer questo aggettivo, sacer, nel
conio originale e nelle sue filiazioni nelle lingue neolatine, quando riferito
dal diritto a un uomo o anche a qualcosa di diverso, non riesca a trasmettere
immediatamente e con sicurezza l’immagine di chi o di ciò che è giuridicamente
inviolabile, mentre continua ininterrottamente a denotarne l’intenso legame che
lo astringe al mondo divino o comunque a un ordine laico superiore ai viventi:
quasi che a livello di un’inconscia memoria collettiva rimanga l’eco della
violabilità, per volontà divina coadiuvata dalla mano di un qualche individuo,
dell’homo sacer.
Ed è appunto per superare questa atavica insufficienza semantica
dell’aggettivo in questione che nelle disposizioni legislative in cui un uomo
appare qualificato come sacro si aggiunge che egli è anche inviolabile.
Eloquente, al riguardo, è l’enunciato dell’art. 4 dello Statuto Albertino del
1848, a tenore del quale «la persona del re è sacra e inviolabile»; o, per
proporre un secondo esempio, il disposto dell’art. 8 dei Patti Lateranensi del
1929, in cui si afferma, con parole che ricalcano il testo dell’art. 1 della
Legge delle Guarentigie del 1871, che è «sacra e inviolabile la persona del
Sommo Pontefice». Ed è all’identico fine di neutralizzare un risalente e pur
nebuloso limite di significato del nostro aggettivo che in alcune previsioni
normative concernenti la proprietà questa è definita quale diritto non solo
sacro, ma anche inviolabile: come appunto nella più celebre tra esse, contenuta
nell’art. 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del
1789.
Che al fondo dell’eredità culturale che si trasmette di
generazione in generazione giaccia un almeno vago e inconsapevole ricordo del
modello dell’homo sacer risalente
all’arcaico sistema giuridico-religioso romano trova una conferma nella
reazione che ciascuno di noi prova di fronte a una figura ancora presente nella
realtà e inoltre nella letteratura e nella cinematografia: quella del
giustiziere.
Al suo riguardo, Giovanni Cosi ha osservato: «il giustiziere è
coraggioso, rapido, efficiente; è insieme giudice ed esecutore; interviene là
dove la giustizia ordinaria (formalista) si è dimostrata pavida, lenta,
incapace di punire – come l’ethos
richiederebbe – l’‘evidente’ colpevole. Di fronte alle sue gesta ci sentiamo
intimamente divisi. La ‘neocorteccia’ razionale-procedurale non può non
condannarlo; come del resto spesso (ma non sempre, e tuttavia penosamente)
avviene nella realtà o nella finzione narrativa: con la sua azione, questa è la
‘massima’, egli si è reso ‘uguale’ alla sua vittima. L’archetipo sostanzialista
invece approva, suscitando nell’immediato un più o meno inconfessabile brivido
di piacere»[95].
Per parte mia, escluderei invece che il giustiziere sia l’alfiere
di una concezione sostanzialista della giustizia, che si contrappone a una
visione formalista della stessa, che dà spazio – per riprendere le parole dello
stesso Cosi – soltanto a «complesse metodiche procedurali-formali» volte al
conseguimento della «cosiddetta ‘verità processuale’, pallido riflesso – ma
l’unico umanamente accessibile – dell’idea di giustizia»[96].
Sono infatti convinto che il giustiziere appaia ai nostri occhi non come un
uomo che si fa «giudice ed esecutore», ma, conformemente a una seconda
accezione del vocabolo, come un aggressore che agisce nel nome di un principio
di giustizia, pur se in spregio alle norme del diritto.
Se così è, non è allora azzardato pensare che egli susciti in noi
un sentimento di solidarietà in quanto, quasi replicando il gesto dell’uccisore
dell’homo sacer, mette a morte chi,
col proprio comportamento, ha infranto regole considerate basilari per la vita
della comunità, così estraniandosi dalla stessa e consegnandosi a una sfera
alta, quella della giustizia, che ne reclama l’eliminazione fisica da parte di
uno qualsiasi dei consociati. Poiché sappiamo però che a questa pur nobile
chiamata il giustiziere, secondo le prescrizioni dell’ordinamento, avrebbe
dovuto resistere, al suo cospetto sviluppiamo altresì un parallelo sentimento
di biasimo, dal quale erano immuni coloro che, già nella civitas degli albori, avevano di fronte il giustiziere dell’homo sacer, in ragione della piena
rispondenza al diritto del suo operare.
Portatore di un duplice valore, positivo e negativo, il
giustiziere del nostro tempo mostra così un’ambivalenza che evoca quella che
caratterizzava l’homo sacer. Anche
costui esprimeva infatti un duplice valore di segno contrario: che era
negativo, se l’homo sacer veniva
guardato come autore di un fatto oltraggioso per una divinità[97],
grave al punto da intaccare la pax deorum
e tale quindi da giustificare la convinzione che si era di fronte a un uomo malus atque improbus, cioè a un uomo che
nel linguaggio atecnico si finirà proprio per indicare con il termine sacer, per quanto è desumibile da Fest.
voce ‘Sacer mons’ (Lindsay 424), là
dove, conclusivamente, si dice che quivis
homo malus atque improbus sacer appellari solet; ed era invece positivo se
l’homo sacer veniva considerato come
soggetto che, isolandosi dalla comunità e cadendo nel dominio della divinità
offesa in esito alla colpa di cui si era macchiato, assicurava il rinsaldarsi
della pax deorum, ossia il
conseguimento di un risultato di fondamentale importanza per il gruppo sociale,
secondo quanto attesta anche Cicerone, là dove afferma che Roma non sarebbe mai
potuta diventare quella che era stata ed era al suo tempo sine summa placatione deorum inmortalium[98].
Nuove indagini potrebbero peraltro svelare o rendere più visibili
i fili che annodano modi di pensare o di comportarsi ancora attuali ad alcune
particolarità procedurali della devotio,
che, come visto, dava luogo a una forma di sacertà dell’uomo. Ho in mente, al
proposito, quanto scrive Grazia Maria Masselli riguardo alla diversa postura
che assumevano le mani dell’officiante[99],
segno di una contrapposizione tra la destra e la sinistra che giunge a lambirci
in termini di dialettica tra una parte del corpo buona e una cattiva, e
rispetto al capo velato del devovens
intento a recitare la preghiera prevista dal rito[100],
cui è collegabile, in base a tramiti che andrebbero investigati anche sotto
l’aspetto giuridico-antropologico, la testa coperta costantemente imposta da
norme della religione cristiana in certe occasioni o quella della sposa, voluta
da una tradizione di portata generale che non accenna a perdersi.
Ulteriori ricerche potrebbero inoltre mettere meglio a fuoco il
concetto di appartenenza alla comunità cittadina e al dio offeso che regge la
distinzione tra homo liber e homo sacer, per poi protendersi a
chiarire perché ancor oggi talora identifichiamo la libertà, come attesta
perfino una canzone famosa di Giorgio Gaber, con la partecipazione, intesa nel
senso di partecipazione alla vita politica della collettività di cui si è
membri, comportante l’esercizio dei diritti strumentali alla sua compiuta
realizzazione. Questa coincidenza di significato a noi familiare non può
infatti non destare curiosità, tenuto altresì conto che già all’interno
dell’ordinamento romano si era assistito a un riorientamento semantico della
locuzione homo liber e a uno
svuotamento di significato del sintagma homo
sacer. E invero, con il riconoscimento giuridico della pratica della
schiavitù l’homo liber sarebbe
diventato l’homo che non è servus e non appartiene dunque a un
altro homo; e con il posteriore
eclissarsi della figura dell’homo sacer
questa locuzione avrebbe finito per designare un fossile di difficile
decifrazione, come testimonia Macrobio, mentre l’aggettivo sacer avrebbe preso a indicare univocamente ciò che è affidato e
dunque appartiene agli dei e non può essere vulnerato dall’uomo, nemmeno in
esecuzione di una presunta volontà ultraterrestre, di contro a ciò che è
profano[101].
Anche se quel fossile, e lo si è potuto constatare, continuerà a sprigionare
una forza sotterranea, che impedirà per sempre di associare immediatamente e
necessariamente a quanto giuridicamente definito come sacro il carattere
dell’inviolabilità e suggerirà ai legislatori di esplicitarlo attraverso il
corrispondente aggettivo.
Proprio queste considerazioni, d’altro canto, mostrano che un
altro punto rimane da approfondire nell’ambito di uno studio circoscritto al
passato: quello relativo al tempo in cui si è dissolta la figura dell’homo sacer e ai fattori che hanno
determinato il suo disintegrarsi. Se alla letteratura di cui disponiamo possiamo
proficuamente rivolgerci per conoscere i vari provvedimenti normativi che nel
corso dei secoli avevano sanzionato con la caduta in sacertà il compimento
delle diverse azioni che vi erano individuate, ciò che in essa stentiamo a
trovare sono le informazioni utili per ricostruire quando e perché quei
provvedimenti hanno perso efficacia, consegnando all’archivio della storia l’homo sacer. È allora importante
sviscerare il problema, aprendosi anche alla prospettiva dischiusa da Zolla in
ordine al peso del magistero di Gesù relativo al substrato o, se si preferisce,
al nucleo fondante del diritto, visto in una debolezza interiore della persona
compensata dalla sudditanza a forze spirituali imperiose, e alla necessità di
emanciparsi dalla rete di prerogative assicurate dal tessuto giuridico della
società, senza tuttavia rinnegarlo. Interrogarsi sui rapporti tra il sacro
romano e il sacro cristiano potrebbe in effetti rivelarsi fruttuoso, così come
domandarsi se il Messia, esortando a soffocare l’impulso omicida verso l’homo sacer e a perdonare chi era
diventato tale, abbia concorso all’obsolescenza delle sue matrici legislative e
alla conseguente irriconoscibilità, nel concreto dell’esperienza, di una
persona uccidibile impunemente.
19. –
Torno, conclusivamente, sull’insegnamento di Gesù evocato da Zolla e da lui
rilanciato con convinzione, specie là dove afferma che si può imparare a vivere
affrancati dalle categorie del diritto e del torto, senza per questo
disconoscere l’ordito giuridico della società. Anziché avanzare qualche mia
idea al riguardo, preferisco ricordare un racconto brevissimo di Franz Kafka
del 1917, intitolato Il nuovo avvocato[102],
nell’interpretazione che ne offre Walter Benjamin nel suo saggio sul celebre
scrittore[103].
Protagonista è Bucefalo, un tempo cavallo di Alessandro il
Macedone e ora avvocato accettato con una certa benevolenza dal foro, il quale
è sempre immerso nei codici: «libero, senza più sentire sui fianchi i lombi del
cavaliere, sotto una quieta lampada, lontano dal clamore della battaglia di
Alessandro, egli legge e volta le pagine dei nostri antichi libri».
Ebbene, osserva Benjamin, «come giurista Bucefalo rimane fedele
alle sue origini» e dunque, potremmo aggiungere, è continuamente alle prese con
codici e vecchi testi di diritto. Sembra però, annota ancora Benjamin, «che
egli non eserciti la professione», avendo compreso, come Kafka lo aveva, che
«il diritto che non è più esercitato ed è solo studiato è la porta della
giustizia».
Anche da Bucefalo, che da avvocato obbediente alla tradizione si
dedicava alla conoscenza del diritto fino alle sue pieghe più nascoste, ma da
avvocato capace di una nuova esperienza si asteneva dal reclamarne la concreta
operatività, saremmo dunque invitati a deporre l’arma dell’applicazione della
norma giuridica, per accedere alla giustizia o comunque a una giustizia più
giusta di quella che essa ci assicura.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione
Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Apparso a Milano nel
1992, è stato nuovamente edito a Venezia nel 2012, arricchito dell’Introduzione di G. Marchianò.
[2] Nella ristampa del
volume, alla quale farò rinvio anche nel seguito, è alle pp. 95 ss., sotto il
titolo Il diritto e il sacro.
[3] Mi riferisco a ‘Homo liber’ e ‘homo sacer’: due archetipi
dell’appartenenza, leggibile negli Studi
in onore di A. Metro, a cura di C. Russo Ruggeri, III, Milano, 2010, 17 ss.
(nato da una conferenza che ho tenuto il 27 marzo 2009 a Parigi, all’Institut
de droit romain dell’Université Panthéon-Assas, il contributo, nella versione
francese, si trova nella Revue historique
de droit français et étranger, LXXXVII, 2009, 317 ss.).
[6] Cfr. G. Marchianò, Elémire Zolla. Il conoscitore di segreti. Una biografia intellettuale,
Venezia, 2012, 29.
[33] Ecco il ragguaglio dei
lavori più significativi che ho dedicato al tema, ulteriori rispetto a quello
già menzionato nel testo e alla nt. 3: Il
processo edilizio. Contributo allo studio dei ‘iudicia populi’, Padova,
1989, 24 ss. e 45 ss.; Studi sulla
sacertà, Padova, 2005; Sul dogma
della sacertà della vita, in Tradizione
romanistica e Costituzione, diretto da L. Labruna e a cura di M. P. Baccari
e C. Cascione, I, Napoli, 2006, 555 ss.; Piccoli
scritti di diritto penale romano, Padova, 2008, 5 ss.; Biopolitica e diritto romano, Napoli, 2009, 1 ss. e 143 ss.; Rubens e la ‘devotio’ di Decio Mure,
Napoli, 2011, 5 ss.; Opinioni recenti in
tema di sacertà, in Sacertà e
repressione criminale in Roma arcaica, a cura di L. Garofalo, Napoli, 2013,
1 ss.
[34] Cfr. R. Laurendi, ‘Leges regiae’ e ‘ius papirianum’. Tradizione e storicità di un
‘corpus’ normativo, Roma, 2013, 9 ss.
[35] Ancora proficua, sulla pax deorum, è la consultazione di P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Id., Studi di diritto
romano, I, Padova, 1985 (ma la prima pubblicazione del saggio rimonta al
1953), 224 ss.
[36] Cfr. L. ter
Beek, Divine Law and the Penalty
of ‘Sacer Esto’ in Early Rome, in Law
and Religion in the Roman Republic, a cura di O. Tellegen-Couperus, Leiden
- Boston, 2012, 28.
[37] La definizione è
riportata da Macr. Sat. 3.3.2 (e si
correla a quella, proveniente dallo stesso Trebazio, di profanum, riferita in Macr. Sat.
3.3.4: eo accedit quod Trebatius profanum
id proprie dici ait ‘quod ex religioso vel sacro in hominum usum
proprietatemque conversum est’). Essa va certamente letta nel senso che è
sacro «tutto ciò che, a qualunque titolo, possa essere ritenuto appartenente
agli dei»: cfr. C. Santi, Alle radici del sacro. Lessico e formule di
Roma antica, Roma, 2004, 87 s.
[38] Cfr. C. Pelloso, Sacertà e garanzie processuali in età regia e proto-repubblicana,
in Sacertà e repressione criminale in
Roma arcaica, a cura di L. Garofalo, Napoli, 2013, 66 ss.
[39] Cfr. Macr. Sat. 3.7.3. V. anche Serv. Verg. Aen. 10.419: quidquid destinatum fuerit diis, id sacrum appellari.
[40] Cfr. anche Cic. leg. 2.10.25: quod autem non iudex, sed
deus ipse vindex constituitur, praesentis
poenae metu religio confirmari videtur.
[41] Cfr. F. Zuccotti, Dall’arcaica sacertà consuetudinaria alla sacertà politica
protorepubblicana, in Scritti in
onore di G. Melillo, a cura di A. Palma, III, Napoli, 2010, 1562.
[42] La portata della
clausola paricidas esto, che nella lex Numae in questione seguiva l’ipotesi
delittuosa richiamata nel testo, è ancor oggi molto controversa. Secondo M. Falcon, ‘Paricidas esto’. Alle origini della persecuzione dell’omicidio, in
Sacertà e repressione criminale in Roma
arcaica, a cura di L. Garofalo, cit., 224 ss., che riferisce le principali
tesi elaborate sul punto, essa, a tenore magico-performativo, avrebbe indicato
«lo status nel quale sarebbe ricaduto – come conseguenza dell’illecito –
l’omicida dolo sciens, che si sarebbe trovato in balia dei soggetti
offesi dall’illecito: con ogni probabilità … i parenti della vittima» (233 s.),
sui quali gravava comunque «un vero e proprio obbligo» di porre a morte il reo
(255). Quale che sia il suo significato sul piano tecnico, sembra comunque
assodato che la previsione comportasse per il reo la perdita della vita.
[43] Cfr. C. Barrio de
la Fuente, ‘Sacer esto’ y la pena
de muerte en la Ley de las XII Tablas, in Estudios humanísticos. Filología, XV,
1993, 55; M. Falcon, ‘Paricidas esto’, cit., 212 ss.; R. Laurendi, ‘Leges regiae’, cit., 141 ss.
[45] Ancora nel codice
decemvirale, secondo Serv. in Verg. Aen.
6.609, si sarebbe letto un versetto del seguente tenore: patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto (a favore
dell’attendibilità della notizia depone Gell. noctes 20.1.40).
[46] Cfr. Paul.-Fest. voce ‘Termino’ (Lindsay 505): Termino sacra faciebant, quod in eius tutela
fines agrorum esse putabant. Denique Numa Pompilius statuit, eum, qui terminum
exarasset, et ipsum et boves sacros esse.
[47] Cfr. J. Scheid, Quando fare è credere. I riti sacrificali dei Romani, trad. it.,
Roma - Bari, 2011, 38 ss. (la citazione letterale è tratta da p. 41).
[49] Cfr. Macr. Sat. 3.7.5-7: hoc loco non alienum videtur de condicione eorum hominum referre quos
leges sacros esse certis dis iubent, quia non ignoro quibusdam mirum videri
quod, cum cetera sacra violari nefas sit, hominem sacrum ius fuerit occidi.
Cuius rei causa haec est. Veteres nullum
animal sacrum in finibus suis esse patiebantur, sed abigebant ad fines deorum quibus sacrum esset; animas vero
sacratorum hominum, quos ‘zanas’ Graeci vocant, dis debitas aestimabant. Quem
ad modum igitur, quod sacrum ad deos ipsos mitti non poterat, a se tamen
dimittere non dubitabant, sic animas, quas sacras in caelum mitti posse
arbitrati sunt, viduatas corpore quam primum illo ire voluerunt.
[50] Cfr. B. Santalucia, La giustizia penale in Roma antica, Bologna, 2013, 17, il quale
introduce la versione italiana di Sat.
3.7.5-7 con queste parole: «la sorte dell’homo
sacer era in sostanza simile a quella delle vittime animali sfuggite al
sacrificio», oggetto specifico di Serv. Verg.
Aen. 2.104, «le quali potevano essere uccise da chiunque, ovunque si
trovavano, per evitare che fossero causa di contaminazione».
[53] Cfr. R. Fiori, ‘Homo sacer’. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione
giuridico-religiosa, Napoli, 1996, 41.
[54] Cfr. J. Scheid, Quando fare è credere, cit., 140 ss.; F. Prescendi, Dai vivi
ai morti, in L’antichità. Roma, a
cura di U. Eco, Milano, 2012, 529 ss.
[55] Per le quali rimando ad
A. Maiuri, ‘Sacra privata’. Rituali domestici e istituti giuridici in Roma antica,
Roma, 2013, 123 ss.
[56] Indicazioni a favore di
questa congettura offrono gli autori richiamati nel mio Opinioni recenti, cit., 11 s.
[57] «Fondandosi sugli
elementi raccolti dai quaestores»,
scrive R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 493, «probabilmente
i pontifices esprimevano il loro
parere attraverso responsa, che poi
venivano fatti propri dalla sentenza del rex,
supremo sacerdote» (ovvero, aggiungo anticipando quanto sto per dire nel testo,
del popolo). Quanto ai quaestores, è
istruttivo Paul.-Fest. voce ‘Parrici<di>
quaestores’ (Lindsay 247): parrici<di>
quaestores appellabantur, qui solebant creari causa rerum capitalium
quaerendarum. Nam parricida non utique is, qui parentem occidisset, dicebatur,
sed qualemcumque hominem indemnatum. Ita fuisse indicat lex Numae Pompili regis
his composita verbis: ‘si qui hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas
esto’. Dal testo si trae altresì che all’homo sacer, che liber non
era più, nel corso del tempo era stato parificato, sul piano ermeneutico, l’homo liber damnatus.
[58] Come sottolinea B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma2, Milano, 1998, 13 s. e
nt. 27, la perduellio, ovvero «l’alto
tradimento, la violazione del dovere di fedeltà verso lo Stato e le sue
istituzioni», è un crimine diretto al tempo stesso contro gli dei protettori
della civitas e contro la compagine
sociale, che le fonti ci mostrano colpito, a partire da Tullo Ostilio, con la suspensio del colpevole a un albero
sterile e la fustigazione del medesimo fino alla morte.
[60] Il mutamento che tale
legge potrebbe aver segnato rispetto alla precedente, se si prescinde dal
versante processuale, concerneva soltanto la sanzione ai danni dell’omicida che
avesse agito con dolo: ancora capitale, ma portata a esecuzione dagli organi della
civitas e non invece, come per
l’innanzi, dal gruppo familiare dell’ucciso, sia pure sotto il controllo
dell’autorità pubblica. Sul punto cfr. B.
Santalucia, La giustizia penale,
cit., 40.
[61] In gub. 8.5: interfici … indemnatum
quemcunque hominem etiam duodecim tabularum decreta vetuerunt.
[62] In leg. 3.19.44: tum leges
praeclarissimae de duodecim tabulis tralatae duae, quarum altera … altera de
capite civis rogari nisi maximo comitiatu vetat (cfr. anche 3.4.11: de capite civis nisi per maximum comitiatum
… ne ferunto); Sest. 30.65: cum … XII tabulis sanctum esset ut ne …
liceret, neve de capite nisi comitiis centuriatis rogari (cfr. inoltre
34.73); un accenno alla norma quae de
capite civis Romani nisi comitiis centuriatis statui vetaret, e alla sua
osservanza da parte del decemviro G. Giulio, è pure in rep. 2.36.61.
[64] Cfr. almeno Fest. voce ‘Sacrosanctum’ (Lindsay 422); Dion. Hal. 6.89.3; 10.35.2; Cic. Tull. 20.47.
[65] Cfr. Dion. Hal.
10.39.4; 10.42.3-4, da leggersi insieme a 10.31.3-32.1, dove trova conferma la
regola per cui l’eventuale messa a morte del soggetto caduto in sacertà, per
effetto automatico dell’atto compiuto in spregio a un tribuno, non era comunque
subordinata a procedimento alcuno.
[66] Cfr. Liv. 3.55.6-7.
Proprio la legge in parola avrebbe dato adito a un articolato dibattito
giurisprudenziale intorno alla sua portata, che ho cercato di mettere a fuoco
in ‘Iuris interpretes’ e inviolabilità
magistratuale, in Studi sulla sacertà,
cit., 55 ss., analizzando le non molte testimonianze – essenzialmente Liv.
3.55.8-12 e Fest. voce ‘Sacrosanctum’
(Lindsay 422) – che di esso recano traccia.
[68] Alludo a Bernardo
Albanese e Pietro Cerami, menzionati nel mio ‘Iuris interpretes’, cit., 70, nt. 77.
[69] Cfr. F. Zuccotti, Il giuramento nel mondo giuridico e religioso antico. Elementi per uno
studio comparatistico, Milano, 2000, 1 ss.
[70] Cfr. A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’. Alle origini del giuramento. Sulla presenza del
‘sacro’ nell’esperienza giuridica romana, Milano, 2000, 158 s., nt. 37.
[72] Sorvolerò, peraltro,
sulla previsione, ascritta a Numa, di cui a Paul.-Fest. voce ‘Aliuta’ (Lindsay 5), secondo la quale ‘si quisquam aliuta faxit, ipsos Iovi sacer
esto’, in quanto seguo l’interpretazione che ne ha proposto R. Laurendi, ‘Leges regiae’. «Ioui sacer esto» nelle ‘leges Numae’: nuova esegesi di
Festo s.v. ‘Aliuta’, in Revisione ed
integrazione dei ‘Fontes Iuris Romani
Anteiustiniani’ (FIRA). Studi preparatori, I, ‘Leges’, a cura di G. Purpura, Torino, 2012, in specie 33 s. A
detta dell’autrice, la locuzione riportata può essere intesa «quale clausola
sanzionatoria in senso tecnico, posta a chiusura di una serie di precetti o di
una sequenza di prescrizioni»: in particolare, «la prima parte – ‘si quisquam aliuta faxit’ – è una
proposizione condizionale che ha senso se riferita a ‘tutte’ le fattispecie che
nella sequenza dovevano essere previste; la seconda parte – ‘ipsos Iovi sacer esto’ – è la
proposizione principale espressa con l’imperativo futuro comminante la poena per l’ipotesi che il comportamento
sia stato diverso da una qualsiasi delle prescrizioni che precedevano».
[77] Un’altra ipotesi di sacertà
di conio plebeo daterebbe al 492 a.C.: per quanto si trae da Dion. Hal. 7.17.5,
invero, un plebiscito di quell’anno, come scrive R. Fiori, ‘Homo sacer’,
cit., 321, «prevedeva la sacertà di chi avesse esposto parere contrario – a
quello che il tribuno andava esprimendo al popolo – o interrotto il discorso di
un tribuno durante un’assemblea e non avesse dato garanti per il pagamento
della multa conseguente alla violazione». Come ho sostenuto in Biopolitica, cit., 49 s., nt. 126, sulla
scorta di alcuni brani ciceroniani lì indicati non è da escludere che la plebe,
con deliberazioni soltanto proprie assunte in età predecemvirale, vietasse i privilegia e i giudizi de capite civis al cospetto di organi
cittadini diversi dall’assemblea centuriata – e dunque, in pratica, al cospetto
del comizio curiato –, stabilendo la sacertà nei confronti degli
inottemperanti.
[85] Cfr. ‘Homo sacer’. Il potere sovrano e la nuda
vita, Torino, 1995; Quel che resta di
Auschwitz. L’archivio e il testimone. ‘Homo sacer’, III, Torino, 1998; Stato di
eccezione. ‘Homo sacer’, II.1, Torino, 2003; Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del
governo. ‘Homo sacer’, II.2, Vicenza, 2007 (poi Torino, 2009); Il sacramento del linguaggio. Archeologia
del giuramento. ‘Homo sacer’, II.3, Roma - Bari, 2008; Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. ‘Homo sacer’,
IV.1, Vicenza, 2011; ‘Opus Dei’.
Archeologia dell’ufficio. ‘Homo sacer’, II.5, Torino, 2012; L’uso dei corpi. ‘Homo sacer’, IV.2,
Vicenza, 2014.
[90] Alludo a L’ardore, pubblicato a Milano nel 2010.
La triplice citazione letterale che segue proviene da p. 438.
[92] Cfr. R. Jacob,
La question romaine du ‘sacer’.
Ambivalence du sacré ou construction symbolique de la sortie du droit, in Rev. historique, CCCVIII/3, 2006, 523
ss., e in particolare 561 ss.
[93] Quanto ad Agamben, cfr.
soprattutto Biopolitica, cit., 46 ss.
e 143 ss.; quanto a Calasso, cfr. Rubens
e la ‘devotio’, cit., 52 s.; quanto a Jacob, cfr. ‘Homo liber’ e ‘homo sacer’, cit., 40 s.
[94] Segnalo, peraltro, che
ora anche C. Cascione, Recensione a E. Stolfi, Il diritto,
cit., in Iura, LXII, 2014, 474,
evidenzia i limiti dell’indagine di Agamben e di altri fautori della
biopolitica. «Il problema», rileva ottimamente lo studioso napoletano, «è che
Agamben lavora sui concetti (e sulle parole, echi lontanissimi di una matrice
heideggeriana), ma non sulla complessità dei testi antichi, che rilegge senza
attenzione per la filologia e i contesti»: al punto che la sua ricerca, pur
suggestiva e talvolta anche appassionante, rimane «lontana dal fare storia».
Basti pensare, prosegue Cascione, alla «visione del ‘Lager’ del genocidio
nazista, che sarebbe ‘il paradigma costitutivo, o quantomeno l’esito
inevitabile, dell’intera parabola della modernità’ (parole di Roberto
Esposito)». Dunque, «il campo di concentramento, come luogo dell’inveramento
delle estreme conseguenze del rapporto tra potere sovrano e ‘nuda vita’,
corrisponderebbe al meccanismo del diritto penale romano arcaico. Ma la sacertas è risposta ordinamentale che fa
seguito al comportamento di un singolo, non perché è, ma perché ha commesso
qualcosa. È conseguenza specifica dell’atto considerato illecito, non strumento
politico».
[97] Cfr. C. Barrio de la Fuente, El concepto de ‘sagrado’ en latin. El
adjetivo ‘sacer’ en los diez primeros libros de Tito Livio, in Estudios humanísticos. Filología, XIV,
1992, 64.
[99] Cfr. G.M. Masselli, La leggenda dei Decii: un percorso fra storia, religione e magia,
in Id., Riflessi di magia. Virtù e virtuosismi della parola in Roma antica,
Napoli, 2012, 26 ss.
[101] È
peraltro da rilevare, con C. Santi,
Alle radici del sacro, cit., 96 s.,
che, «a Roma, ciò che è profanum
certamente non è sacrum, ma ciò che
non è sacrum non necessariamente deve
essere profanum: può essere anche religiosum, sanctum» (sul punto cfr. pure G.
Piccaluga, Aspetti e problemi
della religione romana, Firenze, 1974, 37 ss.). Ma ciò non toglie che la
dicotomia che viene a imporsi a livello logico e linguistico sia quella tra sacrum e profanum. Una dicotomia che attraverserà i secoli per arrivare a
noi, se ancora M. Eliade, Il sacro e il profano, trad. it.,
Torino, 2006, 14, osserva: «la prima definizione che si può dare del sacro è
che esso si oppone al profano».