Università
di Sassari
Giustizia
e pace nella prassi della Chiesa fra Basso Impero e Alto Medioevo
Divagazioni
a proposito di uno studio di Antonio Era*
SOMMARIO: 1. Le pagine
di Era sulla giustizia ecclesiastica in Sardegna. – 2. L’episcopalis audientia. – 3. La Sirmondina I. – 4. Pax servetur pacta custodiantur. – 5. L’età barbarica. – 6. La
penetrazione dei principi ecclesiastici in Sardegna. – 7. I negoziatori di pace. – 8. L’età
longobardo-franca. – 9. Le
lettere di Gregorio Magno. – Abstract.
Una biblioteca è un
po’ lo specchio di chi ne ha radunato i volumi, e quella della sala intitolata
ad Antonio Era, tra i cui libri negletti[1] ho passato tante ore
solitarie di studio durante gli anni del mio insegnamento nell’ateneo
turritano, rifletteva gli interessi molteplici di uno studioso che era andato
anzitutto alla ricerca delle fonti e dei testi che interessavano le materie da
lui insegnate, ma purtuttavia non aveva rinunciato a quelli che, rispetto a
quel campo definito, erano – diciamo così – tangenziali, o addirittura ne
esulavano, se il libro era intrigante. Insomma, la sua biblioteca parlava e
parla di una mente tutt’altro che monocorde[2].
Dai suoi scritti si
avverte, quasi palpabile, la lunga dimestichezza con le fonti originali, fonti
pubblicate e fonti manoscritte (talvolta possedute personalmente); dimestichezza
che traspare dal modo in cui Era ne trasmette la notizia negli studi e nei
testi istituzionali che propone agli studenti. Si tratta sempre non di mera
enunciazione di dati, ma di bibliografie ragionate, che – insieme all’evidente
rispetto di un metodo che gli doveva apparire inderogabile – lasciano
inequivocabilmente percepire lo spessore culturale del ricercatore. Era
appartiene alla generazione di studiosi che ricostruivano la storia del diritto
italiano come composizione di elementi diversi, tant’è che fa rientrare il
diritto sardo del Medio Evo nell’alveo di quel diritto volgare che di quegli
elementi veniva ritenuto il quarto, che si aggiungeva ai tre tradizionali:
romanico, canonico, barbarico. L’interesse per questo aspetto della storia del
diritto gli deriva dichiaratamente dall’insegnamento del Besta, che aveva
dedicato la prolusione, letta nell’ateneo sassarese il 3 marzo 1898, proprio al
diritto sardo nel Medio Evo. Tuttavia egli ritiene di doversi dare un intento
non regionalistico, bensì nazionalistico; di ispirarsi, cioè, all’unità della
storia del diritto italiano, in quanto ogni storia regionale a suo vedere
illumina quella nazionale proprio perché la storiografia non può considerare il
diritto come un’astrazione, bensì come il risultato di specifiche condizioni
d’ambiente: condizioni che, ricorda Era, in Italia furono sempre multiformi e
varie, prevalendovi sempre il particolarismo. Per cui, le istituzioni
giuridiche assunsero una fisionomia caratteristica in ciascuna delle divisioni
territoriali in cui ebbero vita e si atteggiarono in maniera difforme[3].
Questo orientamento
si manifesta anche nello studio da cui partiranno le mie riflessioni:
“Tribunali ecclesiastici in Sardegna”, studio che rappresenta la prima
monografia di Era, apparsa nel ‘29, dopo che già una serie di brillanti lavori
lo aveva segnalato all’attenzione dell’accademia[4].
L'intento del lavoro
è di seguire le vicende della giurisdizione ecclesiastica – volontaria e no –
prima nei secoli dell’Alto Medioevo, e poi dopo lo stabilirsi in Sardegna della
dominazione aragonese, illustrando i tribunali ecclesiastici che funzionarono
nell’Isola fino al 1850, ed esponendo le regole di procedura tese alla
delimitazione di competenza rispetto ai tribunali laici, le cause di conflitto
e le modalità per la loro soluzione. L’a. lascia subito rilevare – così qui
come poi nelle lezioni di Storia delle istituzioni della Sardegna – un’apertura
agli orizzonti dell’epoca aragonese e spagnola, che da un lato rappresentava,
al momento, una novità seducente, destinata a lasciare traccia nella
generazione a lui contemporanea e successiva, dall’altro si collegava alla
vocazione originaria della storia del diritto, che nei suoi primi orientamenti,
nelle facoltà giuridiche, dava la mano agli insegnamenti del diritto attuale[5]. Successivamente, la materia se ne sarebbe
sempre più allontanata. Il suggerimento – inascoltato – di scindere il corso –
allora biennale – di Storia del diritto italiano, dando al primo anno un
contenuto storico-dogmatico analogo a quello delle Istituzioni di Diritto
Romano, doveva inutilmente essere avanzato da Astuti una ventina d’anni dopo,
al Convegno della società di Storia del diritto[6].
La recezione in
Sardegna di norme già vantate dalle chiese africane viene dall’Era legata alla
presenza ed entità di nuclei cristiani nell’ isola[7], che, cacciati i Vandali,
viene da Giustiniano – non senza resistenze[8] – assoggettata al prefetto
del pretorio per l’Africa, secondo uno schema già adottato per le prefetture di
Oriente e Illirico[9].
Nuovamente unita all’Impero, la Sardegna vede riprender forza un sistema
giuridico nel quale erano rimasti in vigore i principi, già sanciti dai
precedenti imperatori, secondo i quali la competenza giurisdizionale dei
vescovi era riconosciuta sotto la forma dell’arbitrato[10].
Qui Era accenna all’episcopalis audientia, un istituto che
tanto aveva e avrebbe fatto discutere la storiografia giuridica[11]. Egli tiene a fornire
un’accurata indicazione delle costituzioni imperiali emanate in proposito,
costituzioni che raggruppa con criterio sistematico, avendo riguardo ai
soggetti e alle materie interessate. Anzitutto espone la legislazione relativa
alla giurisdizione ecclesiastica concernente i chierici, la quale poteva
riguardare sia le materie meramente spirituali, sia quelle civili. Quanto al
primo aspetto (le materie spirituali) Era cita: una costituzione di Valente,
Graziano e Valentiniano del 376 che ammetteva – per le questioni ad religionis
observantiam pertinentia
– un privilegium fori[12] che si spingeva sino ai levia
delicta; quindi la cosiddetta III sirmondina, cioè una costituzione di
Valentiniano, Teodosio e Arcadio del 384 [13], che sottraeva i chierici
ai giudici ordinari quantum
ad causas ecclesiasticas, stabilendo che queste dovessero episcopale
auctoritate decidi;
una costituzione di Arcadio e Onorio del 399 che ribadiva la
necessità del giudizio del vescovo quando
de religione agitur, rinviando le altre cause ad ordinarios cognitores[14], e infine quella di Teodosio e
Valentiniano del 425, che ancora una volta prevedeva, sui chierici, una riserva
di giurisdizione dei vescovi pro causis
ecclesiasticis[15]. Quanto al secondo
aspetto – vale a dire la giurisdizione riguardante le controversie aventi ad
oggetto materie civili – oltre alla novella XXXV di Valentiniano del 452 (che
ancora una volta stabiliva anche in questo ambito la licentia iudicandi del vescovo inter
clericos)[16],
una costituzione di Marciano del 456, la quale richiedeva che tale
giurisdizione si esercitasse inter
volentes[17],
e infine una di Zenone del 484 [18] che lascia emergere
l’assenza di un vero e proprio foro privilegiato per i chierici[19].
L’episcopalis audientia riguardava però anche la giurisdizione civile riguardante i laici.
Era rinvia in proposito alla costituzione di Costantino del 318 [20], la quale stabiliva che
se alcuno ad legem christianam
negotium transferre voluerit et illud iudicium observare, ciò dovesse essere consentito etiamsi negotium apud iudicem sit inchoatum; alla costituzione di Arcadio e Onorio
del 398 [21]
che ribadiva tale possibilità, nonché alla già citata – e
limitatoria – novella di Valentiniano del 452, la quale «ne ulterius querella procedat», stabiliva «habeat episcopus licentiam iudicandi, praeeunte tamen vinculo
compromissi»[22]; e infine cita anche, sia pure
mantenendosi su posizioni molto prudenti, la costituzione di Costantino
indirizzata nel 333 ad Ablabium
(prefetto del Pretorio)[23], la quale stabiliva che
l’arbitrato del Vescovo potesse valere anche inter nolentes, vale a dire etiamsi
alia pars refragatur, ribadendo
l’inappellabilità della sua sentenza,
con esclusione di qualunque provvedimento restitutorio motivato dalla minorità
di uno o ambedue i contendenti, e stabilendo l’esecutività delle sentenze del
vescovo ad opera dei giudici statali.
E’, quest’ultima
costituzione, la famosa Sirmondina I: al Nostro era ben noto che su di essa, a
partire da Gotofredo[24], si rinnovava un
dibattito inesausto: non erano stati e non sarebbero stati in pochi[25] ad asserire vuoi che la
costituzione era apocrifa, vuoi che era interpolata[26]; anche se lo studio dei
manoscritti aveva portato lo Haenel a propendere piuttosto per la sua
autenticità[27].
Si può rilevare come
la scelta di raggruppare le fonti secondo un criterio sistematico mostri qui
tutti i suoi limiti: perché così ordinate le costituzioni imperiali in materia
di giurisdizione vescovile, ne risulta confuso e contradditorio il dettato. In
realtà, a ben guardare, la c.d. Sirmondina I – ove autentica – precederebbe
storicamente le altre disposizioni imperiali, in materia di giurisdizione
vescovile, che vengono proprio dall’Era citate[28]. Più di un secolo
intercorre fra la Sirmondina I e la Novella di Valentiniano, ed è un secolo in
cui l’assetto istituzionale e culturale dell’Impero si modifica profondamente,
mentre Romani e Barbari, Cristiani e Pagani si confrontano in un mondo romano
morente, tanto imbelle quanto soffocato dalle tasse e dalla corruzione[29].
Il filo della
polemica è stato ripreso qualche tempo fa dalla Cimma, che ha riordinato con
sensibilità storica gli elementi del rompicapo, giungendo alla conclusione che, benchè gli imperatori seguenti si siano poi convinti della opportunità di
riportare l’attività svolta dall’episcopalis
audientia nell’alveo dell’arbitrato, si deve riconoscere che in un primo
tempo l’imperatore Costantino ammise la possibilità di ricorrere al giudizio
del vescovo inaudita altera parte[30].
Per spiegare l’orientamento della legislazione costantiniana in
materia si è pensato che essa abbia teso ad equiparare la condizione dei
Cristiani a quella degli Ebrei. Anche agli Ebrei – della cui religione
inizialmente quella cristiana veniva ritenuta una setta – e ai loro capi
spirituali, non si negava la possibilità di non
sottoporsi al giudizio dei tribunali romani, rivolgendosi piuttosto a corti
giudicanti ebraiche[31],
nel rispetto delle forme dell’arbitrato romano, come viene espressamente
consentito loro da una costituzione di Arcadio ed
Onorio[32].
In effetti, la tolleranza religiosa che fu un aspetto tipico – e
non il meno importante – del propagarsi dell’Impero universale di Roma[33], contrastava fortemente
con l’impostazione monoteista tanto dell’Ebraismo quanto del Cristianesimo, non
a caso valutati, dai Romani, alla stregua di superstitiones. Così come gli Ebrei erano tenuti a non sottoporsi
ai tribunali romani[34], pur
nell’eventualità che il diritto da questi applicato non contrastasse con quello
ebraico[35],
anche i Cristiani, dal canto loro, erano invitati a sfuggire i giudici non
cristiani, vuoi perchè ritenuti, in quanto pagani, anche iniqui[36], vuoi perché una
controversia che avesse oltrepassato la cerchia della comunità dei fedeli
sarebbe stata in contrasto con la verecundia,
cioè con l’amore fraterno di cui essa doveva essere esempio[37]. L'attitudine della
Chiesa nei confronti della morale non era più quella dello Stato pagano, che
del relativo problema aveva conosciuto molte concezioni differenti, tanto da
non assumere la protezione di una setta a preferenza delle altre. Il popolo
cristiano, invece, conosceva una sola verità, e di questa verità era
depositaria la Chiesa.
Di fatto, se Gesù Cristo aveva rifiutato il ruolo di arbitro
nelle contese di interesse[38], S. Paolo, tendendo, proprio nell’ottica
anzidetta, a rafforzare la coesione interna delle ecclesiae, esortava i Cristiani a comporre pacificamente le liti
costituendo ad judicandum qualcuno
dei loro fratelli[39].
D’altro canto, ad osservare la logica interna
della dottrina cristiana, si rileva come sia imperativo, per ogni fedele, il
mantenere i propri impegni, anche se contratti senza alcuna delle richieste
solennità civili. Tale dovere non costituisce solo un’obbligazione morale, ma
anche un’obbligazione squisitamente giuridica[40].
In proposito, se non si può configurare un obbligo generale della Chiesa di
procedere in tutti i casi alla puntuale repressione in foro esterno di ogni
comportamento contra legem, certo è
che ad essa non è però data facoltà di soprassedere alla correzione del
peccato. Anzi, se al peccatum si
aggiunge la conoscenza dello stesso da parte dei consociati, alla valutazione
etica ratione peccati, si affianca –
in ragione dello scandalum indotto da
tale conoscenza – quella ratione delicti, e i relativi interventi
non dovranno soddisfare solo un’esigenza di foro interno, ma appagare anche
quella, di foro esterno, della restaurazione, attraverso la repressione del
fatto antisociale, delle condizioni estrinseche favorevoli alla operatività del
precetto morale[41]. E più sulla repressione del fatto
antisociale, che sulla punizione del peccato in quanto tale, mostra di far leva
il testo normativo più antico, il can. 12 Antigonus
del primo Concilio di Cartagine del 348, compreso nella Compilazione di
Gregorio IX: «Unde, aut pacta suam
obtineant firmitatem, aut conventus, si se non cohibuerit, ecclesiasticam
sentiat disciplinam. Dixerunt universi: pax servetur, pacta custodiantur»[42].
E’ su questo ordine di principi che si
fonda il peculiare istituto della denuntiatio
evangelica. «Si
autem peccaverit in te frater tuus, – si legge nel Vangelo di Matteo
– vade, et corripe eum inter te, et ipsum solum: si te audierit, lucratus
eris fratrem tuum. Si autem te non audierit, adhibe tecum adhuc unum, vel duos,
ut in ore duorum, vel trium testium stet omne verbum. Quod si non audierit eos:
dic ecclesiae. Si autem ecclesiam non audierit, sit tibi sicut ethnicus et
publicanus»[43].
Se dunque qui non audierit veniva
escluso dalla ecclesia, ciò fa
supporre che il Vescovo fosse comunque legittimato a pronunciarsi su di una
lite anche su istanza di una sola parte, e il fedele tenuto al suo giudizio.
Quanto ai non fedeli, si può ritenere che non tanto i vescovi fossero chiamati
a svolgere funzioni civili in sostituzione dello Stato, quanto piuttosto lo
Stato attribuisse rilevanza, all’interno del suo ordinamento, allo svolgimento
di attività strettamente legate alla loro funzione pastorale[44].
Non è improbabile che proprio tenendo conto delle loro funzioni di natura
religiosa, gli imperatori cristiani abbiano riconosciuto ai vescovi una
giurisdizione elettiva concorrente con quella laica, poteri di sorveglianza sui
magistrati laici, nonchè la difesa degli interessi delle classi più povere
contro i possibili abusi[45]. E’ probabile, cioè, che
ci si sia serviti degli obblighi pastorali dei vescovi per attribuire loro
funzioni utili ad una amministrazione via via più complessa, anche tenuto conto dell’avvento sempre più massiccio di
nuove etnie con tradizioni giuridiche proprie, con un diverso apprezzamento
dell’autotutela[46],
in un crogiolo di materiali giuridici confliggenti fra loro, per amalgamare i
quali solo la forza della nuova fede poteva fornire il catalizzatore.
L’episcopalis audientia
aveva acquistato insomma caratteristiche particolari che, proprio in
considerazione del particolare prestigio dell'arbitro la differenziavano
dall'arbitrato normale del diritto postclassico[47].
Esula dai limiti di questo lavoro un’indagine sui problemi relativi
ai caratteri propri dell’arbitrato romano e della sua evoluzione in diritto
postclassico[48].
Dall’originaria accezione, comprendente il concetto di testis, interveniens[49], il significato di arbiter si evolve sino a indicare la
persona che un compromissum,
convenuto fra le parti di una lite, e da quella stessa persona receptum, ha incaricato di decidere
circa la lite stessa in via stragiudiziale, all’interno di quanto le parti
stesse, nel negozio che instaura il giudizio arbitrale, hanno previsto. Ma il
fatto che dalla sententia dell’arbiter non nasca un’actio, a meno che poena fuisset adiecta[50], sicchè tale sentenza, di
per sé, non costituisce res judicata[51], e che lo stesso arbiter non sia tenuto pronunciarla, a meno che egli non ne
abbia esplicitamente assunto l’obbligo mediante il receptum arbitrii, fanno comprendere come il più sicuro fondamento
dell’osservanza, da parte dei contendenti, della pronuncia dell’arbitro fosse
la coincidenza di quest’ultima con un avvicinamento delle loro posizioni, e
come in definitiva l’arbitrato, pur distinguendosene concettualmente, dovesse
necessariamente comprendere anche un tentativo di mediazione.
Certo è che il Vescovo, anche in ottemperanza a norme canoniche,
si preoccupava anzitutto di rappacificare le parti, cioè si comportava in primo
luogo da mediatore, da amichevole compositore e solo in un secondo momento da
arbitro:
«Studendum episcopo est ut dissidentes
fratres sive clericos sive laicos ad pacem magis quam ad iudicium cohortentur»[52].
E proprio come mediatore, come amichevole compositore, pur sotto
il regime della normativa costantiniana si comporta S. Ambrogio quando,
chiamato ad intervenire con il suo carisma e la sua autorità in un caso di cui
era già investito il prefetto del pretorio, dichiara di aver accettato ita tamen ut compositionis essem arbiter[53]. Dunque, l’istituto
manteneva una forma a mezzo fra il tribunale minuziosamente organizzato quale
verrà conosciuto più tardi dalla Chiesa e la conciliazione, forma principe di
intervento del vescovo nelle comunità ecclesiali primitive, più rispondente di
un giudizio al suo ruolo pastorale[54].
La dominazione gota segna un’interesante evoluzione in materia.
Fra i rescritti di Cassiodoro si trova un editto di Atalarico con cui si conferisce
al vescovo di Roma il diritto di arbitrare contese fra laici e religiosi. In
base ad esso, chi aveva una causa contro un membro del clero romano poteva
appellarsi alla sentenza del pontefice, e solo nel caso in cui questi avesse
respinto la querela, il processo passava nelle mani dell'autorità laica. Chi
non obbediva al verdetto del Papa era punito con un’ ammenda di 10 libbre d'oro[55].
Dal canto suo, una disposizione di Clotario stabiliva,
addirittura:
«Si judex aliquem contra legem iniuste damnaverit,
in nostri absentia ab episcopis castigetur ut quod perpere judicavit, versatim
melius discussione habita, emendare procuret»[56].
E' difficile dire sino a qual punto, sotto i Longobardi, il
vescovo abbia mantenuto gli stessi poteri, ovvero sino a qual punto abbia
prevalso la funzione di amichevole compositore. Secondo il Salvioli è per
l'appunto in questa veste che sarebbe stato invocato dai Romani, perchè
conosceva il loro diritto e perchè essi non volevano sottostare a procedure che
non erano loro congeniali[57].
L'invasione dei Longobardi portò innegabilmente, in un primo tempo, forte
disordine nella organizzazione ecclesiastica, e non solo nei territori da loro
stabilmente conquistati. Sembra, però, sia da escludere che vi sia stata
oppressione religiosa da parte dei Longobardi ariani. Anzi, in un secondo
momento, i Vescovi tornano a introdursi lentamente nel nuovo stato politico e
sociale[58],
tanto che Astolfo stabilisce la nota regola dell'intervento di un messo
vescovile insieme a un missus regis,
a un missus judicis e a tre uomini di
indubbia fede nelle permute con persone ecclesiastiche[59]. E' d'altra parte
significativo che nella raccolta di
Benedetto Levita, insieme ad altre norme volte ad attribuire particolare valore
all'admonitio del vescovo in caso di
lite[60],
farà la sua ricomparsa esplicita la Sirmondina I in un falso capitolare
attribuito a Carlo Magno[61],
e ad essa si richiameranno anche altre collezioni canoniche[62] sino al Decretum grazianeo[63]. Nella stessa
raccolta di Benedetto Levita, peraltro, viene ad essere compresa anche la norma
che impone al Vescovo di indurre i fedeli magis
ad pacem quam ad judicium[64].
Ora, si chiede il Nostro,
quale fu l’applicazione in Sardegna di queste norme? Se nel resto d’Italia esse
decaddero con l'invasione longobarda, cosa accadde nell’Isola? A questa
domanda, Era risponde in modo laconico nello studio di cui trattiamo. Per la
mancanza di documenti coevi, egli dice, sarebbe difficile trovare tracce
dell’applicazione, in Sardegna, di disposizioni imperiali prima e dopo
Giustiniano. I vescovi africani, che nel VI secolo vi vennero relegati dai
Vandali, vi avrebbero mantenuto la facoltà di predicare, discutere, indire
concili, fondare monasteri. Durante l’era giudicale, poi, sarebbero confluite
in Sardegna propaggini dei più grandi ordini religiosi, che vi stabilirono una
rete di monasteri dotati di larghe proprietà. Mentre il diritto bizantino non avrebbe
avuto qui efficace applicazione, notevole sarebbe stata invece la rapidità con
la quale vi si diffusero successivamente i testi del diritto canonico[65].
Anche anteriormente
alla penetrazione delle grandi raccolte canoniche (della qual cosa il merito viene
generalmente attribuito alla civiltà comunale pisana[66]), in Sardegna si
osserverebbe l'efficacia dei dettami delle autorità ecclesiastiche. Di certo
ebbero applicazione quelli relativi alla disciplina del clero, ma non solo. I
Pontefici richiamarono i giudici al divieto di matrimonio fra congiunti e si
ravvisano, in omaggio ai princìpi ecclesiastici, provvedimenti di autorità
laiche che dispongono in materia ecclesiastica, punendo la bestemmia e il furto
di cose sacre, e riconoscendo il diritto alla riscossione delle decime
sacramentali. Si vanno inoltre facendo strada privilegi propri degli
ecclesiastici, quali l’ esenzione dai tributi e dal foro comune. Il clero era
generalmente più colto della popolazione e per questo gli ecclesiastici
venivano assunti come scrittori aulici, redattori di atti, notai etc.[67].
Sin dall’inizio le
determinazioni dei concili venivano comunicate all'intero orbe cristiano. Era
ricorda come dopo il Concilio di Sardica(347) i Padri conciliari scrissero al
Pontefice perché comunicasse i decreti emanati a coloro che «in Sicilia et in Sardinia sint episcopi»[68]. A tale riguardo, il
Nostro rinvia ad una fonte di assoluta autorevolezza, vale a dire le epistole
di S. Gregorio Magno[69] dedicate specificamente
alla Sardegna, ora radunate in un unico volume dal Girgensohn, insieme a quelle
destinate alla Calabria, alla Sicilia e
alla Corsica[70].
Queste lettere, pur nel loro numero contenuto, costituiscono, per questo
periodo, la documentazione più interessante per la conoscenza dell’altrimenti difficilmente
esplorabile storia giuridica dell’isola, perché rappresentano l’80% della
documentazione pontificia per tutto il corso del primo millennio[71]. Da esse sembrerebbe
potersi dedurre che in materia spirituale, o anche solo ecclesiastica, la
giurisdizione della Chiesa si era ben affermata. Vi era preposto un
Metropolita, in una gerarchia di giudizi che arrivava sino a Roma, ove le cause
erano portate o avocate[72]. Il loro esame veniva
affidato a un defensor, talora a notai
inviati da Roma, ove il pontefice tendeva ad attribuirsi in via esclusiva
quelle relative a cause pie, poveri, vedove e orfani.
Tuttavia, non sempre
le autorità laiche evitavano di intromettersi, e talvolta lo facevano anche in
cause di squisita pertinenza della Chiesa. In ciò Era vede la ragione per cui
il Pontefice si sforza di ricondurre le cause ad una soluzione pacifica, sia
che si tratti di controversie relative a privati, sia che si tratti di
controversie fra autorità ecclesiastiche. Ma pare, questa, una spiegazione alquanto restrittiva di un
fenomeno quanto mai vasto e persistente.
Anzitutto, come vedremo, il tendere ad usa soluzione conciliativa
apparteneva intrinsecamente all’intromissione del vescovo. In quanto pastore
della comunità dei credenti, il Vescovo era infatti tenuto a correggere i peccatores, operando per la pacificatio e la conciliatio dei dissentientes.
Non era infrequente che i religiosi, cui veniva riconosciuta
particolare autorevolezza, venissero esplicitamente richiesti di adoperarsi in
tal senso. La Chiesa, nonostante le ricorrenti eresie che ne laceravano le
comunità di fedeli, rappresentava peraltro, nella comunità di popoli
costituitasi al declinare della potenza romana, un’autorità la cui influenza,
contrassegnata da una decisa esaltazione della prudente tolleranza e del
ripudio della violenza[73], non si limitava al
campo, per così dire, privatistico, ma toccava con frequenza sorprendente
quello dei rapporti pubblici, vuoi fra istituzioni, vuoi fra potentati diversi.
Significativo, quanto ai rapporti pubblici, un episodio che si
colloca sul finire del secolo, nel 599. I Giudei avevano in Cagliari una
sinagoga nella quale, insieme ad alcuni scapestrati, Pietro, un giudeo
convertito, il giorno successivo al suo battesimo, vale a dire il giorno di
Pasqua, senza il consenso del Vescovo, pianta la Croce, l’immagine della
Madonna, e la veste bianca da lui indossata per il Battesimo. Gli Ebrei, se ne
lamentano a Roma con il Pontefice, cui scrivono anche i notabili della città, il
preside Spesindeo e il capo delle milizie Eupaterio. I quali tutti attestano
che Gennadio, il vescovo di Cagliari, si è adoperato perché la violenza non
avesse luogo. Di rimando, il Papa si affretta a scrivere esortando Gennadio
affinchè «con prudenza e venerazione» procuri di far togliere le sacre
immagini, e le cose tornino nello stato quo
ante. «Poiché se le leggi non permettono ai Giudei di erigere nuove
sinagoghe, permettono però di conservare quelle che hanno tranquillamente. Né
Pietro, né i compagni della cattiva, indisciplinata azione possono addurre per
scusa il sentimento di religioso fervore che li spinse a convertire i Giudei:
insegna loro – scive il Papa – che non la violenza, ma la persuasione potrà
convertirli liberamente, poiché sta scritto: io sacrificherò a te
volontariamente, e altrove: per mia volontà ti confesserò. La tua bontà si
studi con esortazioni sacerdotali, di rimettere la pace tra gli abitanti della
tua città. Insinua, con i figli che con te si dispiacquero dei fatti avvenuti,
che in questo tempo specialmente, in cui si teme per i nemici, non è
conveniente mettere divisioni nel popolo»[74].
Quanto ai rapporti fra potentati diversi, va rilevato che assai
spesso, membri del clero sono richiesti di assumere (o si assumono
spontaneamente) l'ufficio di negoziatori di
pace. La diffusione del Cristianesimo forniva loro uno strumentario
argomentativo tutto nuovo, suscettibile di essere utilizzato nelle trattative
più delicate.
Esemplari sono, a questo proposito, le ambascerie del vescovo
Epifanio tramandateci da Ennodio[75].
Sappiamo così di un conflitto fra Antemio e Ricimero, ormai in preparativi di
guerra, appianato dai buoni uffici di Epifanio, la cui intromissione è
provocata da Ricimero sulla base di una evidente convenienza politica, oltrechè
su richiesta di una delegazione di nobili liguri. Mentre Ricimero e Antemio
stanno per venire alle armi, una delegazione di nobili liguri si reca da
Ricimero a chiedere la pace giacchè:
...«nutabat
status periclitantis Italiae et adfligebatur ipsis discriminibus gravius dum
expectabat futura discrimina».
Ricimero,
per momentanea convenienza, mostra di essere favorevole a riconciliarsi con il
suo avversario, ma obietta di non vederne il modo:
«Quis est
qui Galatam concitatum revocare possit et principem?»
La delegazione risponde che occorre solo l'assenso di Ricimero,
che la persona c'è; e decantano le capacità di Epifanio. Ricimero manifesta la propria
accettazione ed Epifanio, a sua volta, cede alla richiesta di assumersi
l'incarico di pacificatore sicchè:
«...ad
Ricimerum porrexit a quo simul visus et electus est».
Così Epifanio «accompagnato da fama di santità» si reca a Roma,
ove convince Antemio a desistere dai preparativi di guerra[76].
Sappiamo pure di un'altra intromissione del vescovo ticinese fra
l'imperatore Nepote e il re dei Visigoti Eurico la quale valse a condurre
entrambi ad un accordo che, se
riconosceva le conquiste sino allora fatte da Eurico e l'indipendenza del suo
regno, poneva tuttavia un freno alla sua espansione e concedeva respiro
all'imperatore, le cui forze erano ormai esauste. Anche qui vale la pena di
rileggere quanto dice l'estensore della cronaca dell'episodio. Eurico,
nell'aderire alle proposte di Epifanio, avrebbe dichiarato:
«Facio ergo...quae poscis, quia grandior
est apud me legati persona quam potentia destinantis»;
aggiungendo:
«...fallunt qui dicunt Romanos in linguis
scutum vel spicula non habere: inveni hominem qui me armatum possit espugnare
sermonibus»[77].
Lo stesso Ennodio, vescovo di Pavia, retore e corrispondente di
Boezio, sarebbe stato sovente incaricato delle più delicate missioni in
Oriente, sia da Teodorico, sia dal Papa.
Pace e riconciliazione sono concetti legati intimamente alla
predicazione evangelica in un modo così intimo che lo stesso
"scandalo" della Croce è visto come pace, come portatore di pace e
salvezza[78].
S. Paolo ripetutamente individua nel ruolo di mediatore il cuore stesso della
funzione salvifica di Cristo[79]. All’importanza
determinante di questo ruolo nel riconciliare Dio con la specie umana, Agostino
dedica un sermone degli anni 409-411 [80]:
«Quia
unus est Deus creator omnium scilicet Sancta Trinitas; et unus est mediator Dei
et hominum, id est ad componendam pacem quasi medius arbiter, scilicet Christus
Jesus, pro omnibus factus homo, ut sic esse mediator»[81].
Altrove Sant’Agostino si chiede: chi è l’arbitro? Arbitro,
risponde, è il medius ad componendas causas; e forse che gli uomini non
erano nemici di Dio e non avevano nei suoi confronti una cattiva causa? E chi
era stato in grado di portare a termine questa causa se non quel medius
arbiter del quale l’apostolo aveva detto unus enim Deus et mediator Dei
et hominum, homo Christus Jesus? Si era trattato, ricorda Sant’Agostino,
della risposta all’invocazione di Giobbe «... né c’è tra noi un arbitro che
ponga la sua mano su noi due!»[82].
Non può non colpire qui l’uso di termini squisitamente giuridici,
evidentemente ripresi da una prassi che doveva essere ben conosciuta al vescovo
di Ippona. D’altro canto, a questo ordine di concetti si richiama ripetutamente
il pensiero cristiano[83], fino a Pietro Lombardo e
oltre[84]: come Cristo era stato
mediatore fra Dio e gli uomini il Suo Vicario, il Capo della Cristianità,
riteneva fosse sua funzione specifica l’operare come mediatore nelle
controversie temporali[85]. L’immagine, come
vedremo, era destinata ad essere ripetutamente ripresa nel pensiero canonistico[86].
Ne doveva conseguire naturalmente che i
suoi rappresentanti si proponessero come garanti della pace e della giustizia e
che il capo della Cristianità si proclamasse grande pacificatore.
L'assunzione di questo compito comincia
a profilarsi prestissimo. Dal ruolo assunto già in epoca romana nelle pubbliche
istituzioni, i Vescovi allargarono la propria influenza sino a comprendere
anche le relazioni che, nell'ambito di quella che si avvia ad essere la
comunità cristiano-occidentale, si configurano già come relazioni fra potentati
autonomi; e anche qui, se al momento gli organi della Chiesa non erano in grado
di imporre alcunchè con la forza, in compenso, come ministri del culto,
godevano di un potere morale effettivo, che non rimaneva senza rispondenza
nelle cose politiche. Come conoscitori delle colpe segrete di ciascuno e
dispensatori di perdono, essi avevano accesso alle coscienze, e quando
nell'uomo era più forte la coscienza del cristiano, perchè ormai il dissidio
era posto, essi soli avevano il potere di determinarlo a prendere un partito
piuttosto che un altro[87].
Nello sfaldamento dell’ organizzazione imperiale romana peraltro,
la Chiesa mostra di guardare con favore lo stabilirsi di una pluralità di Stati
in posizione di parità fra di loro, propugnando al contempo, come principio
superiore delle relazioni internazionali, il rispetto di quanto vi poteva
essere di diverso nelle diverse nazioni, nonchè la solidarietà fra tutti i
popoli cristiani senza limiti territoriali. Ripetutamente S. Agostino - il
quale scrive avendo di fronte lo spettacolo del crollo della potenza romana -
riprende il tema dell’ eccessiva grandezza dell'Impero, la cui esistenza,
necessariamente autoritaria, non ha evitato le guerre perchè non ha potuto
evitare che continuassero a sussistere nazioni ad esso esterne e con esso
confliggenti[88],
e mostra di considerare più auspicabile l'esistenza di molti piccoli regni
contenti di una vicinanza amorevole[89] e di una ordinata
concordia in rapporti di buon vicinato, come famiglie di una stessa civitas. All'uomo, destinato a morire,
non doveva importare eccessivamente il vivere sotto un sovrano anzicchè sotto
un altro, se comunque quello che lo comandava non lo costringeva ad azioni
empie ed ingiuste[90].
Ancor più incisivamente Paolo Orosio nota come le fortune di Roma siano
cresciute sulla disgrazia altrui e sulla miserabilis
vastatio multarum ac bene institutarum gentium[91].
E' da dire, tuttavia, che anche in questa visione che ne svaluta
la funzione politica, Roma viene difesa come veicolo del Cristianesimo, struttura
ideale nella quale i diversi popoli possono riconoscersi in un comune sentire[92].
Nello stesso S. Agostino, d'altra parte, è presente anche l'idea della
necessità della soggezione ad un superiore ordinamento di giustizia, perchè
«Remota itaque justitia quid sunt regna
alia nisi magna latrocinia et latrocinia nisi parva regna?»[93].
Agostino, dunque, ha lasciato al Medioevo europeo l'idea di una
società religiosa d'essenza sovrannaturale, composta di tutti coloro che un
giorno gioiranno della vista di Dio[94]. A fronte di questa
comunione perde spessore lo Stato come tale, nonchè, paradossalmente, la
sussistenza di un’etica politica laica distinta e sovraordinata alla semplice
effettività[95].
L'universalismo della Chiesa doveva, cioè, favorire il particolarismo politico.
Si comprende agevolmente come, fra le diverse e contrastanti
pretese e per effetto del costante incremento della sua importanza politica,
alla Chiesa venga riconosciuto quel ruolo di guardiana della pace che essa
reputa competerle per elezione e che costituisce la premessa per l'esercizio di
un'autorevole ed efficace opera di intromissione nel campo delle relazioni
internazionali[96].
Dappertutto, nelle situazioni di crisi si ricorreva ai Vescovi,
considerati come gli unici possibili intermediari fra il nuovo potere e
l'antico. E nei momenti di straordinario pericolo è sempre un rappresentante
della Chiesa, spesso lo stesso Papa, di propria iniziativa o per esplicita
richiesta, a interporre i propri uffici contro il pericolo della guerra. Così,
quando su Roma pende la minaccia della spada di Alarico, è il pontefice
Innocenzo I a recarsi da Onorio, a Ravenna, per discutere le condizioni del
condottiero barbaro[97].
Visto l'insuccesso delle trattative, questi marcia nuovamente contro Roma,
inviando però ad Onorio una delegazione di vescovi italiani per fargli sapere
che, se si fosse ostinato a continuare la guerra, sarebbero stati preda della
fiamma e della furia saccheggiatrice dei barbari i monumenti più insigni della
illustre città. In questa occasione, i vescovi prestarono i propri buoni
uffici. E con discreti risultati, parrebbe, dal momento che sappiamo come
Alarico si sia mostrato disposto ad abbassare le sue pretese, la cui enormità
aveva travolto il prestigio e la vita di Stilicone, accontentandosi della
cessione del Norico, di un carico di grano e di un trattato di allenza con
l'Impero. E' ancora un pontefice, Leone
I, che accompagnando gli uomini più in vista della città - come il console
Gennadio Avieno, e il capo del Senato Trigezio, ex prefetto del pretorio in
Italia - nel 452 svolge opera di mediatore fra l'Imperatore e Attila. Questi,
che minaccia di distruggere l'intera città di Roma, viene raggiunto a Governolo
e si convince a ritirarsi al di là del Danubio, promettendo di addivenire ad
accordi di pace, purchè l'Imperatore gli assicuri un tributo. Nella notizia che
ne danno le fonti, è fatto cenno espresso di una accettazione della mediazione [98].
Pochi anni dopo è Genserico a marciare contro Roma, ed è ancora una volta Leone
che si muove per incontrarlo e dissuaderlo [99].
Alcune volte l'intromissione papale viene espressamente richiesta
dall'autorità temporale. Nel 563, quando l'imperatore Giustino pubblicò
l'editto di persecuzione contro gli Ariani, Teodorico convocò il Papa a Ravenna
e lo incaricò di recarsi a Costantinopoli:
«Hic
vocitus est a rege Theodorico Ravenna; quem ipse rex rogans misit in legationem
Constantinopolim ad Iustinum imperatorem orthodoxum, quia eodem tempore
Iustinus imperator, vir religiosus... religionis Christianae voluit hereticos
extricare...Eodem tempore Iohannes papa, egrotus infirmitate, cum fletu
ambulavit et senatores exconsules cum eo, id est Theodorus, Importunus,
Agapitus excons. et alius Agapitus patricius. Qui hoc accipientes in mandatis
legationum ut redderentur ecclesias hereticis in partes Orientis: quod si non
omnem Italiam ad gladio perderet...»[100].
Come si vede, è questo un caso in cui l'esito positivo della
mediazione contrasta con gli interessi del mediatore. Difatti, secondo quanto
sappiamo dal Liber pontificalis:
«...beatus Iohannes papa cum senatores
suprascriptos cum grandem fletum rogaverunt Iustinum Augustum ut legatio
acceptabilis esset in conspectu eius»[101].
E’ quindi comprensibile come, sebbene Giustino abbia riservato al
Pontefice tutti gli onori che spettavano alla sua persona, al mediatore abbia
fatto solo delle concessioni apparenti, sicchè il Papa non raggiunse – o non
volle raggiungere – gli obiettivi più importanti della sua missione, tant'è che
al suo ritorno Teodorico lo imprigionò assieme a tutta la legazione[102].
La discesa dei Longobardi in Italia trova un papato ormai saldo
nella propria posizione politica e nella propria prassi cancellieresca. Con i
Longobardi, se la funzione formalmente giurisdizionale dei Vescovi sembra
arretrare, in compenso cresce a dismisura la loro importanza politica. Presto
re e duchi longobardi si servono dei Vescovi (alcuni dei quali, dal nome,
rivelano la loro nazionalità longobarda) per affidare loro la definizione di
importanti controversie. Così Teodoro e Tachipert, vescovi di Città di
Castello, sono successivamente giudici di una controversia fra Siena e Arezzo[103].
Certo è che la pace del 599 fra i Longobardi e Bisanzio è il frutto dell'azione
politica e del prestigio personale di papa Gregorio il Grande. Del 595 è una
lettera di Gregorio I a Severo, scolastico e consigliere dell'Esarca, volta a
fargli sapere che Agilulfo non ricusava di venire ad un trattato di pace, insistendo
ut exarchus ad hoc sine mora consentiat
o altrimenti preveda la possibilità che venga fatta una pace speciale[104].
Dell'ottobre del 598, è una lettera nella quale il Papa, riconoscendosi petitor et medius della pace fra
l'esarca e Agilulfo, tratta i termini della sua sottoscrizione. Particolarmente
interessante è che in tale occasione i messi di Agilulfo, che giurano la pace
riservandone tuttavia al re la ratifica si
sibi in quoquam excessum non fuerit, avrebbero chiesto al Papa di
sottoscrivere anch'egli la pace quale garante; ma questi:
«recordantes eorum quae Agilulfus Basilio,
viro clarissimo, per nos in Beati Petri dixisse fertur injuriam, quamvis hoc
penitus idem Agilulfus negaverit, a subscriptione tamen abstinere praevidimus, ne
nos, qui inter eum et exarchum petitores sumus et medii, si quid forte clam
sublatum fuerit, falli in aliquid videamur et nostra ei promissio in dubium
veniat»[105].
Nelle trattative di pace con Agilulfo, il Papa si servì di un
abate di nome Probo. In quell’occasione, come nota il Gregorovius, non si parlò
di senatori, nè si accennò a una qualunque funzione politica del senato di Roma[106].
Anche nei territori bizantini si era profilata la tendenza ad una
autonomia molto spinta, che si nutriva di interessi locali e che si esprimeva
in organismi cittadini e regionali molto più attenti alla difesa di questi che
non di quelli di Bisanzio. Sta di fatto che nel Liber pontificalis, all'inizio della vita di Giovanni VIII,
leggiamo dell'arrivo a Roma dell'esarca d'Italia Teofilatto, dell'accorrere in
furia della militia totius Italiae in
rivolta contro di lui, della pronta mediazione del Papa che valse a sedare,
senza ingiurie all'esarca, tumultuosam
eorum seditionem. Approfittando di questi frangenti, Gisulfo invade la
Campania, e poichè nella città nullus
extitisset qui ei potuisset resistere, il Papa, usando solamente sacerdoti
e apostolica donaria, lo allontana da
Roma, liberandone altresì i prigionieri[107]. Viene dal Bertolini
ascritta al riconoscimento del regno longobardo da parte di Bisanzio la
particolare clausola del giuramento pronunciato a Roma, all'atto della
consacrazione, per mano del Papa, dei vescovi di diocesi che, ricomprese nella
provincia romana, si trovavano soggette al dominio longobardo. Tale formula
impegnava quei vescovi ad adoperarsi con tutte le loro forze «ut semper pax quam Deus diligit inter rem
publicam et nos, hoc est gentem Langobardorum conservetur»[108].
Da tempo ormai, aveva preso l'avvio un pullulare di posizioni separatiste che
rendeva la politica internazionale estremamente instabile, intricata e incerta[109].
In questa situazione, la politica di un’ istituzione dagli interessi costanti
come la Chiesa, doveva divenire decisiva, anche perchè in questo campo il suo
ruolo veniva ormai generalmente riconosciuto.
Nel 742, quando Liutprando attaccando l'Emilia e la Pentapoli si
accingeva ad assediare Ravenna, l'esarca Eutichio, alle cui lettere si erano
unite quelle dell'arcivescovo di Ravenna Giovanni e delle altre città
minacciate, aveva chiesto al Pontefice di intervenire come mediatore. La
cronaca che il Liber pontificalis ci
dà della missione, è anche uno spaccato del cerimoniale riservato ad una
ambasceria cui si voleva manifestare un particolare gradimento[110].
Infatti, dapprima Zaccaria cercò di ingraziarsi il re longobardo con ambascerie
e doni:
«Missa igitur legatione apud iamdictum
regem Langobardorum salutaria illi praedicavit. Cuius sancti viri
ammonitionibus inclinatus, praenominatas IIII quas a ducatu Romano abstulerat
civitates reddere promisit»[111].
Poi,
però, non avendo ottenuto alcun frutto, si mise in viaggio per raggiungerlo di
persona:
«Dumque isdem rex protraheret dilationem
ad reddendam iuxta suam promissionem iamfatas IIII civitates, praenominatus
pontifex... ex hac Romana civitate cum sacerdotibus et clero, perrexit
fiducialiter et audaciter ad ambulandum in loco Teramnensium urbis ubi in
finibus Spolitinis ipse resedebat rex».
Il re,
saputo del suo arrivo fin da quando il Papa aveva raggiunto Orte, gli manda
incontro Grimoaldo, il quale conduce il Papa a Narni, ove nel frattempo il re
invia i suoi duchi con scorta d'onore. Questi accompagnano la legazione a
Terni, ove, dinanzi alla porta della basilica di S. Valentino:
«Isdem rex
cum reliquos optimates et exercitu suo sanctum virum suscepit, factaque
oratione, mutua salutatione sibi et persolventes, dum divinis cum fuisset
commonitus conloquiis inpensaque caritate, ab eadem ecclesie egressus in eius
obsequium dimidium fere miliarium perrexit».
Il
giorno successivo :
«...iterum convenientes, divina perfusus
gratia, Deo placitis ammonitionibus eum est adlocutus, praedicans ei ab hostili
motione et sanguinis effusione quiescere et ea quae pacis sunt semper sectare.
Cuius piis eloquiis flexus, in constantia sancti viri et ammonitione admiratus,
omnia quaequmque ab eo petiit per gratia Spiritus sancti obtinuit, et
praedictas IIII civitates quas ipse ante biennium per obsessione facta pro
praedicto Trasimundo duce Spolitino abstulerat, eidem sancto cum eorum
habitatoribus redonavit viro»[112].
Quali
argomenti, in sostanza, siano stati effettivamente usati nei colloqui fra il
Papa e il re longobardo non sappiamo, se si esclude l'accenno, riferito dal Liber pontificalis, alla necessità di
astenersi dall'effusio sanguinis.
Certo, Liutprando aveva avuto modo di vedere, proprio nell'anno in cui era
rimasto solo sul trono di Pavia, alla morte del padre Ansprando, come solo la
mediazione del papa Costantino I avesse posto fine al sanguinoso combattimento
sulla via Sacra fra i sostenitori del duca Cristoforo contro gli uomini che
volevano imporre il duca Pietro inviato a prenderne il posto da un Imperatore,
Filippico, di cui i Romani contestavano la legittimità perchè hereticus[113]. Sta di fatto che,
dopo lungo tergiversare, il re si arrese all'eloquenza del Papa, restituì
all'Impero greco le terre conquistate, e per quanto riguardava Cesena e il
territorio circostante, che erano appunto oggetto delle trattative, ne tenne in
pegno una parte, promettendo di restituirle appena fossero tornati da Costantinopoli
i messi incaricati di trattare la pace con l'Imperatore[114]. Più tardi, il trono
longobardo passò nelle mani di Rachi, duca del Friuli, e lo stesso Zaccaria
ottenne dal nuovo Re la firma di una tregua ventennale valida per tutta
l'Italia[115].
Quando nel 749 Rachi violò il trattato di pace assediando Perugia, Zaccaria
tornò da lui come un tempo era andato da Liutprando, e pochi giorni dopo Rachi,
non solo rinunciava alle sue mire su Perugia, ma dichiarava di voler deporre la
corona e insieme con Tassia, la sua sposa romana, e sua figlia Rotrude,
lasciava gli abiti principeschi sulla tomba di Pietro per ricevere dalle mani
del Papa la veste dei penitenti.
Anche Stefano II venne
invitato a trattare con Astolfo da Costantino V[116]. La sua abilità è
subito evidente nel modo in cui riesce a convincere Astolfo ad un accordo che
evidentemente non corrispondeva ai suoi piani:
«Inter haec vero dum magna persecutio a
Langobardorum rege Aistulfo in hac Romana urbe vel subiacentibus ei civitatibus
extitisset et vehemens eiusdem regis sevitia inmisceret, ilico isdem
beatissimus papa, tertio apostolatus ordinationis suae mense, disponens suum
germanum, sanctissimum scilicet Paulum diaconum, atque Ambrosium primicerium,
plurimis cum muneribus ad eundem Langobardorum Aistulfum regem ob pacis
ordinandum atque confirmandum foedera misit.
Quia praelati viri ad eum coniungentes,
imperitis muneribus, quasi facilius eadem pro re apud eum inpetrantes, in
quadraginta annorum spatia pacti foedus cum eo ordinantes confirmaverunt»[117].
Astolfo dovette essere ben presto scontento dell'impegno assunto:
«At vero isdem protervus Langobardorum
rex, antiqui hostis invasus versutia, ipsa foedera pacis post poene IIII
menses, in periurii incidens reatu, disrupit; multas iamfato sanctissimo viro
vel cuncto populo Romano ingerens contumelias, varias illi minas dirigens»[118].
Ma nel 772 sappiamo che il papa Adriano I riceve Teodicio, duca
di Spoleto, e Tunnone, duca di Ivrea, inviati da Desiderio amicitiae conciliandae causa. Questi, al Papa che dubitava della
sincerità del re:
«confirmant sub vinculo sacramenti quod
eorum rex omnes justitias, quas Stephano papae non fecerat,
pontifici...perficiat et in vinculo Charitati insolubili connexione cum eo fore
permansurum»[119].
Non erano, però, solo le controversie fra l'imperatore bizantino
e il re longobardo quelle che venivano all'attenzione del pontefice. Un
episodio molto interessante è l'arbitrato per il castrum di Gallese, che subiva continui attacchi provenienti dal
ducato spoletino. Gregorio III, secondo quanto ci attesta il Liber Pontificalis:
«potuit causam finire et in compage
sanctae reipublicae atque corpore Christo dilecti exercitus Romani annecti
praecepit»[120].
Sull'episodio ha attirato l'attenzione il Bertolini, notando la
finezza tecnica dei termini adoperati, che danno notizia di un atto stilato,
nelle debite forme, dalla cancelleria pontificia. Oggetto dell'atto era la
controversia relativa al castrum di
Gallese; parti della controversia, da un lato, il duca Trasamondo II, che ne
rivendicava l'appartenenza al suo ducato; dall'altro, l'exercitus romanus, che
ne proclamava la spettanza al ducato romano. Le due parti, dopo essersi
disputato Gallese, anche ricorrendo alle armi, avevano convenuto di rimettersi
al giudizio di un arbitro, scelto di comune accordo nella persona del Papa.
Gregorio III aveva posto termine alla controversia compensando il Duca con una
somma di denaro per la rinuncia alle sue pretese e pronunciando una sentenza
che, a conclusione della controversia, aggiudicava il Castrum alla compages
dell’ exercitus romanus.
L'episodio è particolarmente significativo, perchè mette a fuoco
i tratti salienti della realtà politica del momento: un ducato del Regnum Langobardorum e un ducato
dell'Impero che, venuti a conflitto per una controversia di confine, per tutta
la sua durata, dalla fase in cui si erano combattuti a quella dei negoziati
conclusivi, tengono fuori della contesa così il re longobardo di Pavia come
l'esarca bizantino di Ravenna. Un Papa che, accolta la richiesta delle parti,
esercita funzione di arbitro fra quelli che appaiono come due potentati capaci
di agire in nome e per conto proprio, e pronuncia una sentenza da entrambe le
parti accettata come valida[121].
E ancora, nel 756, essendo morto Astolfo, per una caduta da
cavallo durante una battuta di caccia, Desiderio, allora duca di Toscana, mise
insieme le forze per impadronirsi del regno. Allora Rachi, fratello di Astolfo,
che si era fatto monaco a Montecassino, uscì dal convento a capo di un altro
esercito per contrastarlo. Desiderio ricorse allora a Stefano II, promettendo
che, qualora avesse vinto, avrebbe restituito a Roma e alla Chiesa le città che
essa reclamava. Il Papa, consultatosi con l'abate Fulrado, spedì con accurate
istruzioni i diaconi Paolo e Cristoforo a Desiderio, e il prete Stefano a
Rachi. Il risultato della sua intromissione fu che Rachi tornò in convento, e i
Longobardi riconobbero re Desiderio.
Dunque, in capo alla Chiesa in generale e al pontefice in
particolare sembra essersi consolidata ormai una prassi secondo la quale la sua
intromissione veniva normalmente accettata, quando non serviva a giustificare
ripiegamenti politici rispondenti a più complesse esigenze strategiche. Ma il
decentramento e la polverizzazione della politica internazionale avevano
favorito anche la crescita della Chiesa quale centro di un potere politico per
il quale, ora, esse rappresentavano, nello stesso tempo, un pericolo. La stessa
translatio imperii, preparata dal
viaggio di Stefano per il regno dei Franchi, nel 757, forse con la
falsificazione costantiniana appena uscita dalla cancelleria ecclesiastica, può
essere riguardata nell'ottica dell'esigenza della Chiesa di contrastare quel
pericolo e costituire un’affermazione definitiva così della posizione
superlativa del Pontefice rispetto agli altri Vescovi come dell’unità della
Chiesa.
Quanto ai Carolingi, se non potevano vantare la sacralità che
contrassegnava la stirpe merovingia, ne conquistavano grazie alla Chiesa una
nuova, destinata ad oscurare la prima, in quanto basata sulle fondamenta della
nuova fede, mentre il loro potere si ammantava di legittimità in quanto
riceveva riconoscimento esplicito, da parte del papa, il principio di
effettività su cui era basato[122]:
«Zacharias Papa ex auctoritate sancti
Petri apostoli mandat populo Francorum ut Pippinus, qui potestate regia
utebatur, nominis quoque dignitati frueretur. Ita Hildericus rex, qui ultimus Meroingorum Franci
imperavit, depositus et in monasterium missus est. Pippinus
vero in civitate Suessionum a Sancto Bonifacio archiepiscopo in regem unctus,
regni honore sublimatus est»[123].
D'altra parte, l'intromissione della Chiesa veniva adoperata
anche fra i grandi poteri che ormai si fronteggiano a eguale titolo:
«Imperator, Amalharicum, Trevirensem
Episcopum et Petrum abbatem monasterii Nonantulas propter pacem cum Michaele
Imperatore confirmandam Constantinopolim misit. Hludovicum filium coronavit»[124].
Un contributo essenziale, alla definizione del quadro
tratteggiato, viene dalle tumultuose vicende che accompagnarono la successione
di Ludovico il Pio. Ludovico aveva, nell'817, convocato nel palazzo imperiale
un sacrum conventum, un’assemblea
generale che, devote ac fideliter,
discutesse il progetto della ordinatio Imperii da lui presentato in
vista delle utilitates da raggiungere
per tutti. Il principio doveva essere quello della unitas, che non negava l'esistenza di singoli reges purchè Imperio subiecti.
La figura dell'Imperatore era indispensabile ad perpetuam pacem del
popolo cristiano. Fulcro e strumento di tale unità e pace era la continuità
dinastica, che infatti venne in tale contesto regolata. Cionondimeno, essendosi
ormai affermata una concezione patrimoniale dello Stato[125], l'Impero viene
diviso alla stregua di un patrimonio. Era ovvio che il secondo matrimonio di
Ludovico con Giuditta di Baviera, dando luogo alla necessità di trovare un
inserimento per il figlio di lei – Carlo il Calvo – nella già definita
spartizione, dovesse portare ad una crisi politica.
Del peso determinante avuto nella soluzione di questa crisi dal
Pontefice ci dà uno spaccato dettagliato la Vita Walae. L'opera fa cenno
anzitutto delle rapinae e obpressiones
cui dava luogo la controversia fra i pretendenti. Quindi afferma che la pace
non si sarebbe raggiunta senza l'intromissione del Pontefice, di cui descrive
le fasi salienti. Sappiamo quindi dell'arrivo dei missi apostolici i quali detulerunt
epistolas ex omni auctoritate gravidas...pro pace, pro reconciliatione patris
et filiorum, principis et seniorum, pro statu ecclesiarum, pro adunantia populi
et salvatione totius Imperii[126]. Poichè oltre a
Lotario, che si trovava in Italia a contatto con il Pontefice, erant
autem et alii ex parte filiorum pro eis rogantes eum ut illis suis succurreret consiliis, qui jam
pro eis multa pertulisset, il Papa si risolse a recarsi in Francia per
cercare di riportare la pace fra interessi tanto profondamente divergenti.
Tuttavia, a questo punto le cose si erano notevolmente complicate, e vi era
stato un pericoloso voltafaccia anche sull'opportunità della intromissione
papale rispetto ad una soluzione lasciata all'esito di uno scontro armato; qui
viene testimoniata chiaramente la coscienza della connessione fra mediazione e
intervento politico:
«terrebatur autem...ab Augusto et ab omnibus suis etiam ab
episcopis, qui sibi pridie quam venissemus dextra dederant, quod manibus esset
ad resistendum his qui ex adverso erant, regibus filiis, principibus et
populo».
Addirittura,
per evitarne l'influenza, vi era chi parlava di deporre il Papa, che si
intrometteva in base ad una iniziativa che non era stata di tutti gli
interessati:
«...insuper consiliabantur
firmantes...quod eundem apostolicum, quia non vocatus venerat, deponere
deberent».
Ed è proprio a questo punto che troviamo un affermazione
esplicita e apodittica della potestà funzionale del Pontefice:
«Unde et ei dedimus nonnulla sanctorum
patrum auctoritate firmata, praedecessorumque suorum conscripta, quibus nullus
contradicere possit, quod eius esset potestas, immo Dei et beati Petri
apostoli, suaque auctoritas, ire, mittere ad omnes gentes pro fide Christi et
pace ecclesiarum, pro praedicatione evangelii et assertione veritatis et in eo
esset omnis auctoritas beati Petri excellens et potestas viva, a quo oporteret
universos iudicari, ita ut ipse a nemine iudicandus esset»[127].
Anche la messa in stato d'accusa e la successiva deposizione
dell'imperatore Lodovico il Pio, si svolgono su di un piano religioso. Esse
seguono alla admonitio e alla correptio
attuata dai vescovi sive verbis sive
scriptis, e prendono la forma della chartula
reatuum, redatta da Agobardo[128]. Il seguito della
cronaca ci dà conto delle
trattative fra il Pontefice e
l'Imperatore, ove questi, evidentemente sobillato dai consiglieri di cui si è
fatto cenno, resiste alle proposte del Pontefice facendogli notare di non
averlo invitato a svolgere opera di pacificatore. La risposta del Papa è
indicativa del tenore mantenuto dalla sua intromissione, pur in frangenti così
difficili:
«Nos bene
venisse scias, quia pro pace venimus et concordia, quem auctor salutis nostrae
nobis reliquit; et mihi paedicanda universis commissa est, et proferenda
omnibus. Idcirco, imperator, si nos et pacem Christi digne susceperis,
requiescet in vobis ipsa, necnon in regno vestro; sin autem pax Christi ad nos
revertetur, uti legistis in evangelio, et nobiscum erit»[129].
Di fatto, nonostante la presenza di un forte partito che
propendeva per una soluzione bellica della crisi, sappiamo che gli eserciti di
Lodovico e Lotario, schierati tra Rothfeld e Ingolsheim si astennero, per il
momento, dall'entrare in conflitto. Ma più che l'esito positivo della
intromissione del Pontefice, quello che balza in evidenza è la funzione
eminente di guida dell'Europa cristiana che egli ormai rivendicava e che gli
veniva riconosciuta. Perciò, anche quando la controversia si riaccese, alla
morte di Lodovico il Pio, il Pontefice non ne abbandonò mai le redini. Così se
dagli Annales fuldenses sappiamo che:
«Arsenius episcopus, Nicolai romani
pontificis legatus, ob pacem et concordiam inter Hludowicum regem et nepotes
eius, Hludowicum videlicet Italiae imperatorem et Hlotarium frater eius,
renovandam missus est in Franciam»[130].
Nell'anno 860, quando a Coblenza i figli di Ludovico il Pio,
Luigi II di Francia, Carlo II di Germania e Slavonia, concludono un trattato di
amicizia con i figli di Lotario I, Lodovico imperatore dei Romani e re di
Lombardia, Lotario re di Lorena e Carlo re di Borgogna e Provenza, è una assemblea
di vescovi che si fa promotrice del trattato. E' presente nel documento, oltre
a un accenno alla fraterna concordia sine
qua nullus christianus salvus esse non potest, anche un chiaro riferimento
al fatto che le proposte di pace sarebbero state elaborate con la
collaborazione dei vescovi, i quali quindi, oltre a stimolare le trattative
sembra abbiano fatto anche da filtro delle diverse proposte, svolgendo una
attenta e paziente opera diplomatica. Nella adnuntiatio
domini Karoli si legge infatti:
«Post hoc laboravit, adiuvante Domino,
iste carissimus nepos noster, ut inter nos pax fieret, sicut per rectum esse
debet, et ut monentibus Episcopis ad illam charitatem et fraternam concordiam
rediret sine qua nullus Christianus salvus esse non potest»[131].
La funzione di interpositore si cela chiaramente dietro
l'allusione all'admonitio dell'organo
della Chiesa. E questa si connette con la sua funzione di vicario di Cristo.
Nella relatio ad Ludovicum Imperatorem,
nell’820, i Vescovi franchi si richiamano direttamente alla propria funzione di
sacerdotes Domini, qui sunt mediatores
inter Deum et homines, per quos homines Deo reconciliantur[132].
La stessa emerge chiarissima nella pace fatta nell' 864, quando, secondo il
racconto dell'anonimo:
«Hludovicus et Karolus reges et fratres
apud Dusiacam villam mense Septembri convenientes, foedus ineunt et quicquid
inter eos levitate humana vel suggestione militum perperam gestum fuerat, sibi
mutuo dimittunt, cuncta retro oblivioni tradenda censentes. Huius autem
foederis pactum inviolabiliter omni tempore conservandum testes et admonitores
idonei ex utraque parte statuuntur. Nam Hludovicus ex parte Karoli Hincmarum,
Remensem episcopum, et Engilramnum comitem, Karolus vero ex parte Hludovici
Liutbertum archiepiscopum et Altfridum antistitem elegit, ut si forte ab aliquo
eiusdem pacti iura laederentur, his admonentibus et gesta priora ad memoria
revocantibus, facilius in pristinum statum reformari possent»[133].
L’affermazione dei vescovi francesi aveva certo il sapore di una
presa di distanza da Roma. Ma nello stesso tempo poggiava sulle fondamenta di
una teoria ricca di risvolti dottrinali e politici.. Nel testo citato, che
appare come una vera e propria clausola di previsione di una commissione di
conciliazione, la testimonianza si immedesima con la mediazione, con l'ufficio
di chi contribuisce a che la forza non sia usata, proprio perché, conoscendo i
termini dei fatti e degli accordi pregressi fra le parti, spende la propria
autorità per farne, fra loro, opportuna testimonianza[134].
In questo senso, la presenza di religiosi era anche garanzia
dell'assolvimento degli obblighi assunti nell'accordo di pace. Non era un caso
che già nelle trattative di cui abbiamo visto essere parte, da un lato Agilulfo
e i suoi duchi, dall'altra l'esarca Callinico, quegli avesse chiesto al papa di
sottoscrivere il trattato di pace. Questa funzione di garanzia sarà
frequentemente connessa all’intromissione del terzo intervenuto per ottenere la
cessazione delle ostilità per tutto il corso del Medioevo, quando l'essere supra partes poteva non significare
soltanto essere estraneo alla controversia stessa, ma anche l'essere
caratterizzato da una autorità superiore, avere un effettivo potere di
intervento[135].
Nella lettera spedita ad Agilulfo che si era fatto auctor pacis, il Papa chiede:
«...nam, si quod absit (pax) facta non
fuisset quid aliud agi habuit nisi ut cum peccato et periculo partium miserorum
rusticorum sanguis quorum labor utriusque preficit, funderetur?»[136].
Nella lettera scritta a Teodolinda, d'altra parte, è fatto cenno
ad una Christianae reipublicae societas
cui Agilulfo non doveva renuere. La
pace terrena, tuttavia, non è un bene assoluto. «Admonendi sunt pacati – avverte Gregorio Magno in un passo ripreso
nella raccolta del cardinale Deusdedit[137] – nedum plusquam necesse est pacem quam
possident amant, ad perpetuam pervenire non appetant»: l’amore per la
tranquillità non deve impedire la ricerca della giustizia, nè indurre a
rischiare, per una pax transitoria,
di allontanarsi dalla pax aeterna.
Insomma se, fra i
diversi potentati che nell'alto medio si fronteggiavano sul piano della
politica "internazionale", la Chiesa – come si è visto – rivendicò, e
si vide riconosciuto un ruolo di arbitro-pacificatore super partes teso ad evitare, per quanto possibile, scontri armati,
sul piano invece dei rapporti fra privati, forse anche a causa della tradizione
di fonti romane non del tutto univoche, sulla base delle testimonianze relative
alla Sardegna questo stesso ruolo – se si escludono le liti fra chierici e/o
istituzioni religiose – trova un accoglimento più faticoso
Anche nel panorama politico della Sardegna si possono rilevare
gli stessi indirizzi di intervento. Contro i riottosi Barbaricini, che dalle
montagne sarde minacciavano il Campidano di Cagliari e d’Arborea, Salomone,
prefetto africano, dovè mandare nuovi e poderosi contingenti di truppa. La
pacificazione venne raggiunta grazie a papa Gregorio, che nel 594 inviò come
suoi rappresentanti Felice e Ciriaco. Questi riuscirono evidentemente a
influire sull’animo di Ospitone, capo dei Barbaricini, e su quello di Zabarda,
duca bizantino. Il quale si lasciò indurre a inserire nel trattato di pace la
clausola della conversione al Cristianesimo di Ospitone e del suo popolo.
Conversione che tarda a completarsi, del che il pontefice ripetutamente si
duole, in quanto causa dei lamentati residui di paganesimo era il tiepido zelo
dei vescovi[138].
E’ dunque una Chiesa consapevole delle proprie funzioni quella
che – pur nella debolezza umana dei suoi esponenti – vediamo muoversi
nell’articolato panorama politico dell’Isola. Scorrendo l’epistolario
gregoriano, si trae l’impressione che anche qui l’episcopalis audientia fosse ben attestata, benchè ne manchi la
menzione espressa. Così, a proposito delle liti che coinvolgono la vedova caralitana Catella – che aveva un figlio
iscritto nell’organico della Chiesa di Roma, papa Gregorio all’arcivescovo di
Cagliari Gianuario scrive: «vestro
volumus iudicio terminari»[139], cioè quelle liti dovevano concludersi con una sentenza emessa dal
vescovo. Anche nell’ultima delle
ventuno lettere superstiti indirizzate a questo presule, Gregorio gli ordinava
di «porre giudizialmente fine» alla lite fra la badessa Desideria e l’abate
Giovanni. Per l’occasione, il presule avrebbe dovuto formare un collegio
giudicante, di cui avrebbero fatto parte i suoi suffraganei Innocenzo e
Libertino. Se poi il caso fosse stato particolarmente difficile, il consiglio
papale suggeriva di servirsi dell’aiuto di un sapiens vir timorato di Dio, ma ben al corrente della legislazione
in materia[140].
Del resto, prima di emettere una sentenza, lo stesso pontefice afferma di non
essersi contentato di consultarsi consiliariis
nostris, ma di averne discusso anche
cum aliis huius civitatis doctis viris quid esset de lege[141]. Interessante questa raccomandazione, perché uno dei punti tuttora
oggetto di discussione nella ricerca storica, in materia di giurisdizione
vescovile, è proprio la normativa cui il vescovo avrebbe dovuto riferirsi: c’è
da dubitare che Gregorio Magno potesse intendere qui il diritto canonico.
Non sempre, tuttavia, siamo di fronte ad una episcopalis audientia. Se, come Era fa rilevare, appare frequente, nelle epistole
gregoriane, il ricorso ad un arbitrato o a mezzi pacifici di soluzione[142], si tratta spesso di
tribunali arbitrali formati da persone designate in modo paritetico dalle parti
in causa, anche quando una di esse avrebbe potuto appellarsi al solo giudizio
del vescovo. Così, ad esempio, il Papa si rivolge a Gennadio – l’allora esarca
d’Africa – perché intervenga in un caso che riguardava la badessa del monastero
di S. Vito: Teodoro, dux Sardiniae,
aveva occupato alcuni territori del monastero e rifiutava financo di
sottomettersi a un tribunale di arbitri. Gregorio, lodando la fama di energia
ed equità di Gennadio, suggerisce che Teodoro non debba approfittare della sua
posizione di forza, ma accettare semmai l’eventuale decisione di quel
tribunale. Qui Gregorio esalta la superiorità del diritto sulla forza – un leit-motiv che sarà fatto proprio dalla
Chiesa nei secoli successivi – l’arbitrale
judicium : «non … virtutis opere
fieri sed legis iustitiae debeat reputari». Con l’occasione, il Papa
denunciava le vessazioni usurarie di pauperes
e le molestie a danno di religiosi operate dai subalterni di Teodoro[143].
In questa e in altre epistole affiorano
contesti conflittuali fra istituzioni laiche ed ecclesiastiche. Non a caso, nel
594 Gregorio raccomanda a Gianuario che preposte all’amministrazione degli xenodochia debbano essere persone non
solo degnissime per costumi e capacità gestionali, ma anche religiosi homines, in modo che la
competenza giurisdizionale della Chiesa non possa essere messa in discussione e
i beni destinati al sollievo dei poveri non vadano perduti. Era un vecchio
problema: come abbiamo visto, la legislazione imperiale mostrava chiaramente la
tendenza a contenere il potere dei vescovi in ambito civile; tendenza cui la
Chiesa aveva reagito, da un lato, invitando i fedeli ad accettare i tribunali
ecclesiastici, dall’altro proibendo ai chierici di rivolgersi a quelli
secolari, pena la scomunica[144].
Nei primi giorni
d’ottobre del 600 Vittore, vescovo di Fausiana, chiede al Pontefice di
intervenire – problema sempiterno - in favore dei fedeli gravati da tasse
eccessive. E il papa, lamentando che gli africani
iudices esigevano addirittura duplicia
tributa, invitava Gennadio – previa subtili
indagatione - a imperante corrigere una tale deleteria prassi[145]. Non mancano, in una
missiva all'imperatrice Costantina, moglie dell'imperatore Maurizio,
indicazioni specifiche circa la necessità di una repressione degli abusi
amministrativi operati, non solo in Sardegna, ma anche in Sicilia e Corsica, da
Judices che facevano taglieggiare i
loro amministrati praticando esazioni eccessive, quando non vere e proprie
estorsioni. So, scrive il papa, che si giustificheranno dicendo che l'esazione
di tanti tributi è per la difesa dell'Italia, ma quale giovamento per l’Impero
se costano tante lacrime e di tante persone oppresse? Che cosa ci si poteva
aspettare di buono da tributi riscossi in modo tanto peccaminoso?[146]. Da un'altra missiva si comprende
che Gregorio non si opponeva al pagamento delle tasse, ma al fatto che Deo dicatae
feminae fossero costrette, per pagarle, a fare lavoro da uomini[147].
D’altro canto, una
vicenda che coinvolge lo stesso vescovo di Cagliari ci convince di quanto fosse
diffuso l’uso dell’autotutela: l’abate Ciriaco, tornato dalla Sardegna,
conferma a Gregorio quanto il Papa già sapeva circa la distruzione delle messi
e dei confini operata dal vescovo ai danni di un certo Donato[148]. Il papa scrive a Gianuario di aver inflitto
due mesi di scomunica a chi lo aveva consigliato in tal senso e a Vitale, defensor Caralis perché renda effettive
le sentenze di scomunica e restituisca il denaro dal papa stesso ricevuto in
dono, chiedendogli ricevuta dell’ avvenuta restituzione[149].
Sicchè giustamente
Era non si pronuncia circa l’affermarsi della giurisdizione ecclesiastica nelle
cause non spirituali: la giurisdizione del vescovo non dovette essere
riconosciuta nella pratica, e ritiene discutibile persino che essa si sia
affermata nelle stesse terre della Chiesa, per la definizione di controversie
private sia fra dipendenti di istituzioni ecclesiastiche, sia fra questi ed
estranei[150].
Certo, S. Gregorio
Magno si mosse verso una più sicura competenza dei tribunali ecclesiastici, e nei
secoli successivi questa, proclamata in diversi concili e sinodi, fu ribadita
da norme finalmente recepite nelle prime
raccolte canoniche.
Malgrado ciò, secondo
Era, la giurisdizione ecclesiastica non si impone in modo certo. Egli segue in
ciò il Siciliano, secondo il quale non solo andrebbe esclusa la giurisdizione
ecclesiastica per le cause dei laici, ma anche il clero seguitava a litigare
presso i tribunali secolari. Solo a partire dal secolo XI doveva prevalere
l'esclusività della giurisdizione ecclesiastica per le cause civili di chierici
e contro chierici.
In Sardegna le tappe
di questo processo sarebbero più che altrove ardue da seguire[151], in quanto la protezione
da S. Gregorio accordata all'Isola in materia spirituale divenne presto
preminenza politica della S. Sede, a seguito della politica ierocratica del suo
successore e omonimo Gregorio VII. Tuttavia, malgrado tale supremazia politica,
i regoli sardi cercarono sempre di affermare la loro autorità di fronte al
clero, nonchè di mostrarsi fermi nel sostenere le prerogative del foro laicale
sopra le chiese e i chierici nei diversi giudizi, anche in materia di decime.
Contro queste, che vengono definite «pessimae
consuetudines», i Pontefici seguitarono a esprimere la loro condanna.
On the occasion of a planned meeting on
Antonio Era (in former times professor of History of Italian Law in the
University of Sassari), the a. –
beginning with some pages of his “Tribunali ecclesiastici in Sardegna” - investigates
the role of the Church solving as a peacemaker political and private
controversies.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione
Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
*Il testo riproduce, con qualche modifica, il contributo dell’a.
ad un progettato convegno in memoria dell’illustre storico del diritto
dell’Ateneo Turritano.
[1] Su
questa rivista è stata a lungo visibile la foto degli stessi libri che, appena
disinfestati, furono, nel maldestro acquisto di nuovi scaffali, estratti dai
loro palchetti e ammucchiati per terra ove – nell’indifferenza generale –
rimasero a lungo nella polvere.
[2] Lo nota bene Cortese: «Si sente forte in
Era il gusto del bibliofilo…l’amore per il libro offre in realtà ad Era
un’ispirazione costante ed esibisce il filo unitario di una produzione
apparentemente episodica e tutt’altro che omogenea per i temi». Vedi E.
CORTESE, Nel ricordo di Antonio Era. Una
proposta per la datazione della «Carta de Logu» d'Arborea, in Quaderni sardi di storia, n. 3
(1981-1983), 28.
[3] Vedi
A. ERA, Lezioni di storia delle
istituzioni giuridiche ed economiche sarde, Roma 1934, 5, 171.
[4] Di lì a poco (10 novembre 1934) questa gli
avrebbe attribuito la cattedra, insieme alla Bizzarri e a Mor, una commissione
di tutto rispetto, formata da Pier Silverio Leicht, Silvio Pivano, Aldo
Checchini, Pietro Vaccari, Gian Piero Bognetti. Cinque anni più tardi, il
favore espresso dall’ Ateneo sassarese, ove era stato chiamato a insegnare (29
ottobre 1935), accompagna il giudizio di ordinariato manifestato (24-26
febbraio 1939) da Giannino Ferrari delle Spade, Pier Silverio Leicht, Romualdo
Trifone. Questo
il parere espresso dalla Facoltà di Giurisprudenza, nella seduta del
21-11-1938: «sotto la presidenza del prof. T.A. Castiglia si è riunita la
facoltà di Giurisprudenza: sono presenti i professori Segni Antonio, Era
Antonio, Costa Sergio, che funge da segretario. «...la Facoltà unanime delibera la seguente relazione per la promozione ad
ordinario per Era:…..(omissis) Nell’espletare i diversi insegnamenti, sia quale
titolare di storia del diritto italiano, che quale incaricato di storia delle
istituzioni giuridiche ed economiche della Sardegna, il prof. Era ha dimostrato
di unire all’alto valore scientifico, alla non comune conoscenza giuridica e
storica, sia del diritto della Sardegna che del diritto italiano, ottime
attitudini didattiche e passione per l’insegnamento. La facoltà ha avuto modo
di constatare sia attraverso i risultati degli esami speciali che dalla
discussione di importanti dissertazioni di laurea nelle materie insegnate dal
prof.Era i risultati eccellenti del di lui insegnamento. La facoltà è perciò
lieta di attestare unanime la piena e completa soddisfazione per l’insegnamento
impartito in questa università dal prof. Era dimostratosi insegnante valoroso
non meno che studioso acuto e severo, dotato di alta cultura e profondità di
pensiero, e di dare parere favorevole per la promozione del prof. Era a
professore ordinario di storia del diritto italiano»». Vedi A.C.S., Min. Pubbl. Istr., Direzione generale
istruzione universitaria, Fascicoli professori universitari, III serie
(1940-1970), b, 142. Devo alla dott.ssa Ursula Mariani, che ringrazio, questa
indicazione.
[5] Il testo inizia con l’enunciazione delle
fonti, distinte in fonti edite, varia, cioè
atti giudiziari e bibliografia fondamentale, manoscritti e documenti
d’archivio. Una prima sezione è dedicata alle epoche anteriori alla conquista
aragonese; la seconda, molto più ampia, tratta dell’età successiva,
l’aragonese-spagnola; la terza affronta il periodo sabaudo. Chiude il volume
(di 227 pagine), un’appendice di documenti di varia natura: atti relativi ad un
procedimento svoltosi innanzi alla curia arcivescovile di Sassari (1334-36),
estratti di sinodi sardi dei secoli XV e
XVI, una regia ordinanza del 1518 relativa a un conflitto di competenza. Una
seconda appendice fornisce alcuni utili elenchi: dei concili e sinodi sardi,
dei cancellieri regi, dei giudici delle appellazioni.
[6] Vedi
G. ASTUTI, Sull’insegnamento della Storia
del diritto italiano, in Annali di
Storia del diritto, X-XI (1966-67), 436.
[7] G.
MANNO, Storia di Sardegna, Torino
1826, II, 27 vantava la precocità dell’insediamento in Sardegna di nuclei
cristiani, con la conseguente presenza di vescovi.
[8] Sui
disordini provocati in Sardegna, ancor prima della riconquista bizantina, dai
Mauri-Barbaricini vedi N. TAMASSIA, I Barbaricini.
Note per la storia della Sardegna, in Scritti
di storia giuridica, I, Padova 1964, 395 ss.
[9] Cod.,
I, 30, ed. Venetiis MDXCI, 145, «…Et ab
ea auxiliante Deo septem provinciae cum suis iudicibus disponantur: quarum Tingi
et quae proconsularijs antea vocabantur, Carthago, et Bizantium, ac Tripolis
rectores habeant Consulares:reliquae vero id est Numidia, et Mauritania, et
Sardinia, a Presidibus cum Dei auxilio gubernentur». Non vi era un comando unificato: le singole provincie avevano
ciascuna un suo dux. La sede del praeses era a Cagliari,mentre la maggior parte delle forze era
acquartierata presso il limes che separava la zona romanizzata
da quella dei Barbaricini, e cioè forse a Forum
Traiani (l’attuale Fordongianus).
Vedi in materia R. TURTAS, La situazione
politica e militare in Sardegna e Corsica secondo il Registrum Epistolarum di Gregorio Magno, in Gregorio Magno e la Sardegna (a cura di
G.G. Ricci), Firenze 2007.
[11]Vedi per tutti G. VISMARA, Episcopalis audientia. L’attività
giurisdizionale del vescovo per la risoluzione delle controversie private tra
laici nel diritto romano e nella storia del diritto italiano fino al secolo
nono, Milano 1937; K.H. ZIEGLER, Das
private Schiedsgericht im antiken römischen Recht, Monaco 1971, 167 e ss.; M.R.
CIMMA, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a
Giustiniano, Torino 1989; C. RINOLFI, Episcopalis audientia e
arbitrato, in Diritto @ Storia.
Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 8 (2009)
< http://www.dirittoestoria.it/8/Tradizione-Romana/Rinolfi-Episcopalis-audientia-arbitrato.htm >.
[12] C.Th. 16.2.23
[=brev.16.1.3]: Imppp. Valens, Gratianus et Valentinianus aaa. Artemio,
Eurydico, Appio, Gerasimo et ceteris episcopis. Qui mos est causarum civilium, idem in negotiis ecclesiasticis
obtinendus est: ut, si qua sunt ex quibusdam dissensionibus levibusque delictis
ad religionis observantiam pertinentia, locis suis et a suae dioeceseos synodis
audiantur: exceptis, quae actio criminalis ab ordinariis extraordinariisque
iudicibus aut illustribus potestatibus audienda constituit.
Dat. XVI. kal.
iun. Treviris, Valente V. et Valentiniane aa. coss.
Interpretatio. Quoties ex qualibet re ad
religionem pertinente inter clericos fuerit nata contentio, id specialiter
observetur, ut convocatis ab episcopo dioecesanis presbyteris, quae in
contentionem venerint, iudicio terminentur. Sane si quid opponitur criminale, ad
notitiam iudicis in civitate, qua agitur, deducatur, ut ipsius sententia
vindicetur, quod probatur criminaliter fuisse commissum. Questo e i testi che seguono sono consultabili on
line, vedi www.droit romain@umpf-grenoble.fr .
[13] Const. Sirmondianae, 3 (ed Mommsen,
1905), ibidem: imppp. Valentinianus, Theodosius et
Arcadius aaa. Ad Optatum praef(ectum) augustalem. Graviter admodum mota est
nostra clementia quaedam ab his, qui episcoporum sibi nomina vindicant,
perpetrata et contra leges non minus divinas quam humanas improba temeritate
conmissa, vexatos etiam nonnullos orthodoxorum clericos, quorum aetas huic
iniuriae ac sacerdotium repugnabat, fatigatos itineribus, quaestionariis
deditos, adque haec omnia per eos commissa, qui ad tegumenta frontis sacerdotii
nominis titulos praeferebant. Denique lectis in consistorio precibus, quibus
episcopalis pietas aliquid postulans refragatur in eo . . . adque idcirco
continua lege sancimus, nomen episcoporum vel eorum, qui ecclesiae
necessitatibus serviunt, ne ad iudicia sive ordinariorum sive extraordinariorum
iudicum pertrahatur. Habent illi iudices suos nec quicquam his publicis commune
cum legibus: quantum ad causas tamen ecclesiasticas pertinet, quas decet
episcopali auctoritate decidi. Quibuscumque igitur mota fuerit quaestio, quae
ad christianam pertineat sanctitatem, eos decebit sub eo iudice litigare, ut
ille praesul sit in suis tamen partibus omnium sacerdotum, id est per Aegypti
dioecesim, Optate carissime ac iucundissime. Quare laudabilis auctoritas tua
arbitrio temperato quidquid negotiorum talium incidat, terminet habituro
pontificium sacrae disceptationis timotheo episcopo, quem sibi omnes etiam suo
iudicio praetulere. Est enim vir cum omnium sacerdotum suspectione venerandus,
tum etiam nostro iudicio iam probatus. Data pridie nonas februarias
Constantinopoli.
[14] C.Th. 16.11.1 (= brev. 16.5.1): Impp. Arcadio &Honorio A.A. Apollodoro
procon. Africae.
Quoties
de religione agitur, Episcopos convenit iudicare: Caeteras vero causas, quae ad
ordinatios cognitores, vel ad usum publici iuris pertinent, legibus oportet
audiri.
[15] C.Th. 16.2.47.1: Impp. Theodosius a. et Valentinianus caes. Basso comiti rerum privatarum.
pr.
Privilegia ecclesiarum omnium, quae seaculo nostro tyrannus inviderat, prona
devotione revocamus, scilicet ut quidquid a divis principibus constitutum est
vel quae singuli quique antistites pro causis ecclesiasticis impetrarant, sub
poena sacrilegii iugi solidata aeternitate serventur.
1.
Clericos etiam, quos indiscretim ad saeculares iudices debere deduci infaustus
praesumptor edixerat, episcopali audientiae reservamus. Fas enim non est, ut
divini muneris ministri temporalium potestatum subdantur arbitrio. Et cetera.
Dat.
VIII id. octob. Aquileiae d. n. Theodosio a. XI et Valentiniano c. conss. (425
oct. 8 [aug. 6]).
[16] Nov. Val. 35 (ed. Mommsen (Haenel XXXIV, brev. XII), Berlin 1905: pr. (Imp. Valent(inianus) A. Firmino p(raefecto) p(raetori)o et patricio): De episcopali iudicio diversorum saepe
causatio est: ne ulterius querella procedat, necesse est praesenti lege
sanciri. Itaque cum inter clericos iurgium vertitur, et ipsis litigatoribus
convenit, habeat episcopus licentiam iudicandi, praeeunte tamen vinculo
conpromissi. Quod et laicis, si consentiant, auctoritas nostra permittit:
aliter eos iudices esse non patimur, nisi voluntas iurgantium interposita,
sicut dictum est, condicione praecedat, quoniam constat episcopos [et
presbyteros] forum legibus non habere nec de aliis causis secundum Arcadii et
Honorii divalia constituta, quae Theodosianum corpus ostendit, praeter
religionem posse cognoscere. Si ambo eiusdem officii litigatores nolint vel
alteruter, agant publicis legibus et iure communi: sin vero petitor laicus, seu
in civili seu in criminali causa, cuiuslibet loci clericum adversarium suum, si
id magis eligat, per auctoritatem legitimam in publico iudicio respondere compellat.
1. Quam formam etiam circa episcoporum personam observari oportere censemus,
ut, si in huiusce ordinis homines actionem pervasionis et atrocium iniuriarum
dirigi necesse fuerit, per procuratorem sollemniter ordinatum apud iudicem
publicum inter leges et iura confligant, iudicati exitu ad mandatores sine
dubio reversuro. Quod his religionis et sacerdotii veneratione permittimus. Nam
notum est procurationem in criminalibus negotiis non posse concedi. Sed ut sit
ulla discretio meritorum, episcopis [et presbyteris] tantum id oportet inpendi;
in reliquis negotiis criminalibus iuxta legum ordinem per se iudicium subire
cogantur. Si ab executore conventi parere detrectent, servato iuris ordine
sententia teneat contumaces…
interpretatio. Lex ista de diversis rebus multa constituit:
sed inprimis de clericis quod dictum
est, ut nisi per compromissi vinculum iudicium episcopale non adeant,
posteriori lege Maioriani abrogatum est. De reliquis praecepit, ut si quis
laicus clericum sive in civili seu in criminali negotio per auctoritatem
iudicis ad publicum provocaverit, pulsatus sine dilatione respondeat. Episcopi
etiam sive pro pervasione rei alicuius, sive pro quibuscumque gravibus iniuriis
ad iudicium fuerint provocati, licet in criminalibus causis per alium nulli
liceat respondere. Episcopis tamen et presbyteris hac lege praestatur, ut in
talibus causis misso procuratore respondeant, sine dubio ut ad eos redeat
sententia iudicati. In reliquis vero criminalibus causis, ubi de scelere persona
convincenda est, suam in iudicio praesentiam exhibere procurent. Quod si tertio
conventi per exsecutorem ad iudicium venire noluerint, sententiam excipiant
contumacis. Clericus si aliquem lite pulsaverit, in foro illius, quem ad
iudicium provocat, audiatur: si tamen pulsatus non acquieverit ad episcopi vel
presbyteri venire iudicium. …
Come avverte l’interpretatio,
si tratta di un provvedimento complesso, destinato ad affrontare diversi
problemi, per certi versi simile a certi centoni dei nostri giorni. Secondo Vismara, la norma sarebbe stata probabilmente applicata solo in
Occidente. Vedi G. VISMARA, Episcopalis audientia, cit., 88 ss.
[17] C.
1.3.25 pr. Imperator Marcianus: Cum
clericis in iudicium vocatis pateat episcopalis audientia, volentibus
tamen actoribus, si actor disceptationem
sanctissimi archiepiscopi noluerit experiri, eminentissimae tuae sedis examen
contra catholicos sub viro reverentissimo archiepiscopo huius urbis clericos
constitutos vel contra reverentissimum oeconomum tam de ipsius quam de ecclesiasticis negotiis
sibimet noverit expetendum neque in ullo alio foro vel apud quemquam alterum
iudicem eosdem clericos litibus inretire et civilibus vel criminalibus negotiis
temptet innectere. marcian. a. constantino pp. <a 456? >.
[18] C.1.3.36.2 Imperator
Zeno: Omnes praeterea virorum
clarissimorum provincias moderantium sententiis absque ulla privilegii differentia ( qui tamen
praesidali iurisdictioni subiecti sunt,
sive episcopi vel quilibet clerici aut monachi aut cuiuslibet sint
condicionis) pariter respondere decernimus: nulla in posterum viris clarissimis
provinciarum rectoribus ad loca, in
quibus incusatae personae consistunt, perveniendi necessitate penitus
imponenda, cum non solum legibus, verum etiam naturali quoque iuri conveniat, quos res exegerit, iudicialibus ad
iudicium vocari sententiis, non ipsos
iudices, quod dici etiam iniustum est, ad subiectos deduci, sed per datos ab his iudices causae examinationem in locis
ubi incusati degunt procedere.<a 484 d. v k. april. constantinopoli
theodorico cons.>
[20] CTh. 1.27.1, Imp. Constantinus a.: Iudex
pro sua sollicitudine observare debebit, ut, si ad episcopale iudicium
provocetur, silentium accommodetur et, si quis ad legem christianam negotium
transferre voluerit et illud iudicium observare, audiatur, etiamsi negotium
apud iudicem sit inchoatum, et pro sanctis habeatur, quidquid ab his fuerit
iudicatum: ita tamen, ne usurpetur in eo, ut unus ex litigantibus pergat ad
supra dictum auditorium et arbitrium suum enuntiet. Iudex enim praesentis
causae integre habere debet arbitrium, ut omnibus accepto latis pronuntiet. Data
VIIII kal. iulias Constantinopoli ... a. et Crispo caes. conss. (.... iun. 23).
[21] C. 1.4.7, Imperatores
Arcadius, Honorius: Si qui ex consensu apud sacrae legis
antistitem litigare voluerint, non vetabuntur, sed experientur illius ( in
civili dumtaxat negotio) arbitri more residentis sponte iudicium. Quod his
obesse non poterit nec debebit, quos ad praedicti cognitoris examen conventos
potius afuisse quam sponte venisse constiterit. Arcad. et Honor. aa. Eutychiano pp. <a 398
d. vi k. aug. Mediolani Honorio a. iiii et Eutychiano conss.>
[22] In tal
senso si sarebbe attestato anche il Codice giustinianeo C.J. 4.7. Le sentenze
del vescovo venivano eseguite, dopo aver ottenuto l'exequatur del giudice secolare per opera di un funzionario
imperiale. Vedi G. VISMARA, Episcopalis audientia, cit., 17; H. JAEGER, Justinien et l'episcopalis audientia, in Rev. Historique de droit français et étranger, XXXIX, 1960, 235. D'altra
parte, il diritto giustinianeo codifica l'etica giuridica cristiana, e lo
stesso giudice è chiamato a tenere conto, nel suo giudizio, dei criteri della misericordia e della benignitas. Vedi, sul punto, C.
LEFEBVRE, Récents développements des
recherches sur l'équité canonique, in Proceedings
of the Sixth International Congress of Medieval Canon Law, Città del
Vaticano, 1985, vol. 7, 365.
[23] CTh. Extra XII, 16 (Sirm. 1 ): > (333 MAI. 5). C. Sirm. 1 (Imp. Constantinus A. ad Ablabium p(raefectum)
p(raetori)o): Sanximus namque, sicut edicti nostri forma declarat,
sententias episcoporum quolibet genere latas sine aliqua aetatis discretione
inviolatas semper incorruptasque servari; scilicet ut pro sanctis semper ac
venerabilibus habeantur, quidquid episcoporum fuerit sententia terminatum. Sive
itaque inter minores sive inter maiores ab episcopis fuerit iudicatum, apud
vos, qui iudiciorum summam tenetis, et apud ceteros omnes iudices ad
exsecutionem volumus pertinere. Quicumque itaque litem habens, sive possessor
sive petitor vel intercum negotium peroratur, sive cum iam coeperit promi
sententia, iudicium elegerit sacrosanctae legis antistitis, ilico sine aliqua
dubitatione, etiamsi alia pars refragatur, ad episcopum personae litigantium
dirigantur. multa enim, quae in > iudicio captiosa praescriptionis vincula
promi non patiuntur, investigat et
publicat sacrosanctae religionis auctoritas. omnes itaque causae, quae vel praetorio iure vel civili
tractantur, episcoporum sententiis terminatae perpetuo stabilitatis iure
firmentur, nec liceat ulterius retractari negotium, quod episcoporum sententia
deciderit. testimonium etiam ab uno licet episcopo perhibitum omnis iudex
indubitanter accipiat nec alius audiatur
testis, cum testimonium episcopi a qualibet parte fuerit repromissum.illud est enim
veritatis auctoritate firmatum, illud
incorruptum, quod a sacrosancto homine conscientia mentis illibatae protulerit. hoc nos edicto salubri
aliquando censuimus, hoc perpetua lege
firmamus, malitiosa litium semina comprimentes, ut miseri homines longis ac
paene perpetuis actionum laqueis
implicati ab improbis petitionibus vel a cupiditate praepostera maturo fine discedant. quidquid itaque de
sententiis episcoporum clementia nostra
censuerat et iam hac sumus lege complexi,
gravitatem tuam et ceteros pro utilitate omnium latum in perpetuum
observare convenit. data
iii nonas maias constantinopoli dalmatio et zenofilo conss.
[24] J.
GODEFROY, Codex Theodosianus cum
perpetuis commentariis, VI, Lipsia, 1748, (ed. Ritter), 339 ss.
[25] Molto
autorevole, in proposito, appariva l’autorità di P. DE FRANCISCI, Per la storia dell’episcopalis audientia.
Fino alla novella XXXV (XXXIV) di Valentiniano, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia,
XXX, 1915, III, vol. XIII, 16 (dell’estr.).
[27] G.
HAENEL, XVIII constitutiones quas Jacobus
Sirmondus ex codicibus Lugdunensi atque Anitiensi Parisii a. MDCXXXI divulgavit,
in Corpus iuris romani anteiustinianei,
IV, Bonn 1844, 409 ss.
[30] M.R.
CIMMA, op. cit., 37. Giustamente
rilevante in proposito pare all’a. una lettera di Simmaco indirizzata a
Sant’Ambrogio, nella quale il primo esorta il vescovo di Milano a non accettare
di decidere di una controversia, che potrebbe essergli sottoposta contro la
volontà dell’altra parte, «la qual cosa lascia supporre che effettivamente
sotto il regime della normativa costantiniana fosse possibile ricorrere al
giudizio del vescovo su iniziativa di una sola parte». Ibidem, 74.
[31] Sembra anzi che il
Patriarca ebraico, in campo civile, esercitasse una vera e propria
giurisdizione fra i membri della sua comunità. Vedi
M.R. CIMMA, op. cit., 77; G. Vismara, Episcopalis audientia, cit., 4 ss.; V. COLORNI, Legge ebraica
e leggi locali. Ricerche sull’ambito d’applicazione del diritto ebraico in
Italia dall’epoca romana al secolo XIX, Milano 1945, 103 ss.
[32] C. Th. 2.1.10 [=brev.2.1.10], Impp. Arcadius et
Honorius aa. ad Eutychianum pf. p. : Iudaei Romano et communi iure viventes in his causis, quae non tam ad
superstitionem eorum, quam ad forum et leges ac iura pertinent, adeant solenni
more iudicia omnesque Romanis legibus inferant et excipiant actiones: postremo
sub legibus nostris sint. Sane si
qui per compromissum, ad similitudinem arbitrorum, apud iudaeos vel patriarchas
ex consensu partium, in civili dumtaxat* negotio, putaverint litigandum,
sortiri eorum iudicium iure publico non vetentur: eorum etiam sententias
provinciarum iudices exsequantur, tanquam ex sententia cognitoris arbitri
fuerint attributi.
Dat. iii. non. febr. Constantinopoli, Honorio a. iv. et
Eutychiano v.c. coss.
Interpretatio. Iudaei omnes,
qui Romani esse noscuntur, hoc solum apud religionis suae maiores agant, quod
ad religionis eorum pertinet disciplinam, ita ut inter se, quae sunt hebraeis
legibus statuta, custodiant. Alia vero negotia, quae nostris legibus
continentur et ad forum respiciunt, apud iudicem provinciae eo, quo omnes, iure
confligant. Sane si apud maiores legis suae consentientes ambae partes, de solo
tamen civili negotio audiri voluerint, quod, interveniente compromisso,
arbitrali iudicio terminatur, tale sit, quasi ex praecepto iudicis fuerit
definitum.
La tesi, avanzata da Volterra, è citata da M.R. CIMMA, op. cit., 32; cfr. M.A. von
BETHMANN-HOLLWEG, Der Civilprozess des
gemeinen Rechts in Geschichtlicher Entwicklung, Bonn 1866, 113 ss.
[33] Su ciò
vedi per tutti F. SINI, Sua cuicue
civitati religio. Religione e diritto
pubblico in Roma antica, Torino 2001, 59 ss. e bibliografia ivi citata.
[34] M.R. CIMMA, op. cit., 31 ss., 78. L’a. rileva come,
almeno in Palestina, il Patriarca poteva giudicare non solo di liti insorte fra
ebrei, ma anche fra un ebreo e un gentile o fra gentili. Data la posizione
fatta da Costantino al Cristianesimo l’a. ritiene probabile che l’imperatore
abbia conferito al vescovo poteri non inferiori.
[36] M.R.
CIMMA, op. cit., 75, ricorda
una norma, tanto severa quanto
significativa, contenuta negli Statuta ecclesiae antiqua, c. 87 (ed.
H.T. Bruns, Canones apostolorum et
conciliorum veteres selecti, I, Berlino 1889, 149): «Catholicus, qui causam suam sive iustam sive iniustam ad
iudicium alterius fidei iudicis provocat, excommunicetur».
[37] GIOVANNI XIII.34-35: «Mandatum novum do vobis: ut diligatis
invicem: sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem. In hoc cognoscent omnes
quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem».
[38] LUCA XII.13: «Ait autem ei
quidam de turba: Magister, dic fratri meo ut dividat mecum haereditatem. At
ille dixit illi: Homo, quis me constituit judicem, aut divisorem super vos?». In tema vedi
K.H. ZIEGLER, op. cit., 167
[39]PAOLO, I ad Cor., VI.1-11: «Audet aliquis vestrum habens negotium adversus alterum,
judicari apud iniquos, et non apud sanctos? an nescitis quoniam sancti de hoc
mundo judicabunt? et si in vobis judicabitur mundus, indigni estis qui de
minimis judicetis? Nescitis quoniam angelos judicabimus? quanto magis saecularia?
Saecularia igitur judicia si habueritis: contemptibiles, qui sunt in ecclesia,
illos constituite ad judicandum. Ad verecundiam vestram dico. Sic non est inter vos sapiens
quisquam, qui possit judicare inter fratrem suum?»; cfr. Atti, 7.25-28.
[40] Vedi P.
BELLINI, L’obbligazione da promessa con
oggetto temporale nel sistema canonistico classico, Milano 1964, 65.
[46] Su
queste tematiche vedi L. BUSSI, La
comunità di nationes dell’Alto
Medioevo e la soluzione delle controversie intersoggettive, in Diritto @ Storia 6 (2007) < http://www.dirittoestoria.it/6/Contributi/Bussi-Comunita-nationes-medioevo-soluzione-controversie.htm >.
[47] In
tali differenze si è visto l'anticipo di alcune caratteristiche dell'arbitrato
moderno. Vedi G. MARANI, Aspetti
negoziali e aspetti processuali dell'arbitrato: contributo alla dottrina
dell’arbitrato, Torino 1966, 23.
[48] Con una costituzione del 530 (C. 2.55[56].5) Giustiniano
avrebbe disposto in tema di arbitrato che, se le parti dopo la sentenza
dell’arbitro ne esprimevano per iscritto l’accettazione, allora non solo il
convenuto assolto poteva opporre l’exceptio pacti ad una eventuale
azione dell’altro, ma il vincitore poteva agire «in factum, … quatenus
possit sententia eius [dell’arbitro] executioni mandari».
Successivamente, nei Basilici si verificherà un ulteriore avvicinamento fra
arbitri e giudici ordinari tanto che – osserva la Rinolfi – nel libro settimo
il titolo dedicato agli arbitri compromissori viene collocato fra il primo
riguardante i giudici ordinari, ed il terzo, dedicato all’ordo iudiciorum e
alla iurisdictio. Vedi C.
RINOLFI, op. cit., e
fonti ivi citate.
[51] Vedi a
proposito del compromissum sine poena,
M. TALAMANCA, Ricerche in tema di
“Compromissum”, Milano 1958, 103 ss.; cfr. G. CRIFO’, voce Arbitrato, a) Diritto romano, in Enciclopedia del diritto, Milano 1958,
893-895.
[52] Vedi Statuta ecclesiae antiqua, c. 52, ed. H.T. Bruns, cit., 144.
[53] S.
AMBROGIO, Ep. II.82.2, (PL 16, 1276).
Per l’episodio, molto noto, vedi M.R. CIMMA, op. cit., 69-74 e
bibliografia ivi citata.
[54] J. GAUDEMET, L'Eglise
dans l'Empire romaine (IVe-Ve siècles), Paris 1958, 237. Tale
preferenza per la conciliazione è sottolineata anche da S. MOCHI ONORY, Vescovi e città, cit., 303 ss.
[55] «...definimus ut, si quispiam ad Romanum clerum
aliquem pertinentem in qualibet causa probabili crediderit actione pulsandum,
ad beatissimi papae judicium prius conveniat audiendus, ut aut ipse inter
utrosque more suae sanctitatis cognoscat aut causam deleget aequitatis studio
terminandam, et si forte, quod credi nefas est, competens desiderium fuerit
petitoris clusum, tunc ad saecularia fora iurganturus occurrat, quando suas
petitiones probaverit a supra dictae sedis praesule fuisse contemptas. Quod si
quis extiterit tam improbus litigator atque omnium iudicio sacrilega mente
damnatus, qui reverentiam tantae sedi exhibere contemnat et aliquid de nostris
affatibus crediderit promerendum, ante alicuius conventionis effectum, decem
librarum auri dispendio feriatur...». Vedi M.G.H., Cassiodori variae, VIII.XXIII, 255.
[57] G.
SALVIOLI, Storia del diritto italiano,
Torino 1921, 737. In tal senso anche F. SCLOPIS, Storia della legislazione italiana, Torino 1840, I, 105.
[58] In tal
senso S. MOCHI ONORY, Ricerche sui poteri
civili dei Vescovi nelle città umbre durante l'alto Medio-Evo, Roma 1930,
23.
[60] Vedi Add.
IV, c. 50: «Placuit ut, sicut
plerumque fit, quicumque odio aut longinque inter se lite discusserint et ad
pacem revocari diuturna intentione nequiverit, a civitatis primitus
sacerdotibus arguantur. Qui si
inimicitias deponere perniciosa intentione noluerint, de ecclesiae coetu
iustissima excommunicatione pellantur»; e ancora, c.55: «Si quis potentium quemlibet expoliaverit et
admonente episcopo non reddiderit, excommunicetur». Vedi M.G.H., LL, II, (pars altera), 150.
[62] Così
la raccolta del cardinale Deusdedit, IV, 283 (CXLVIIII) e 284, (ed. V.W.von Glanvell, Die
Kanonensammlung des Kardinals Deusdedit, Aalen, 1967, 550-551).
[63] c. 35, C. XI, q.I:
«Quicumque litem habens, sive possessor, sive petitor fuerit, vel in initio
litis vel decursis temporum curriculis, sive cum negotium peroratur, sive cum
jam coeperit promi sententia, judicium elegerit sacrosantae sedis Antistitis
illico sine aliqua dubitatione, etiamsi alia pars refragatur, ad Episcoporum
judicium cum sermone litigantium dirigatur».
[66] A. ERA, Istituzioni,
423, n. 1: Era sembra propendere per l’identificazione del decretista Paucapalea
col vescovo di S. Giusta operante nella metà del sec. XI (vedi su ciò E.
CORTESE, Il diritto nella storia
medievale, II, Il basso Medioevo,
Roma 1995, 209), e ricorda inoltre il dotto domenicano Oddone Sala, che dopo
aver studiato a Parigi, avrebbe coperto in Sardegna due cattedre episcopali,
quella di Torralba e quella di Arborea dal 1308 al 1312. Per non dire, last but not least del canonico Filippo
Mameli «doctore de decretu et de lege»
sepolto – nel 1349 – nella cattedrale di Oristano. Tra le opere destinate alla
istruzione dei chierici Era rileva: la presenza di almeno due copie del Decreto
di Graziano, della Summa di Uguccione, della prima compilazione di decretali
con la loro summa dovute a Bernardo da Pavia; delle altre due compilazioni di
decretali di Pietro Collivacinus e di Giovanni di Galles; erano inoltre
conosciuti il De ordine iuditiorum, e
cioè uno dei molti Ordines iuditiorum o
Ordines iudiciarii che il Besta riconduceva a quello di Tancredi da
Bologna; la Summa matrimonii che il Capra
individuava in quella di Bernardo Pavese e il Besta in quella di Tancredi; l'Item transcursus magistri petri capuani
e cioè la summa del medesimo alla
terza compilazione di decretali.
[69] Gregorio
Magno apparteneva alla nobile famiglia Anicia, che già aveva dato alla Chiesa
papa Felice III. Tre sue zie paterne (Tarsilla, Gordiana ed Emiliana), quali
vergini sacre in domo propria socialem
vitam duxerunt. Vedi N. TAMASSIA, L’Italia
verso la fine del sesto secolo. Profili gregoriani, in Scritti, cit., I, 414.
[70] P.F.
KEHR, Italia pontificia, sive repertorium
privilegiorum et literarum a romanis pontificibus ante annum MCLXXXXVIII
concessorum, X, Calabria Insulae, ed. Girgensohn, 1975. Questo volume ha
come obiettivo di raccogliere la documentazione – dalle origini sino al 1198 –
relativa alla Calabria e alle Isole. Oltre alla registrazione di 39 lettere
“sarde” e 10 “corse”, ne vengono segnalate altre 6 che, perdute in originale,
vengono inferite dalla letteratura superstite. Il Turtas ha proceduto ad un
esame delle fonti che gli ha consentito di completare il quadro, aggiungendo
altri cinque reperti, il che porta ad una cinquantina le lettere che
interessano l’Isola. A queste vanno aggiunte quelle (una ventina) inviate
dall’Isola al Pontefice, mentre si segnalano almeno una quindicina di persone
che si recano presso la Santa Sede a parlare con il Papa. Vedi R. TURTAS, Gregorio Magno e la Sardegna: gli
informatori del pontefice, in La
Sardegna paleocristiana fra Eusebio e Gregorio Magno, Atti del Convegno
internazionale di studi, Cagliari, 10-12 ottobre 1994, Cagliari 1999. Cfr.
M. SANNA, L’epistolario sardo-corso di
Gregorio Magno, in Gregorio Magno e
la Sardegna, a cura di Luigi G. Ricci, Firenze 2007.
[73]
Infatti, in tal senso si esprimevano ripetutamente le Scritture Vedi Ep.Romani, XIV, 17-19; Ep. Efesini, VI, 14-15; Ep. Filippesi, IV, 7-9; Vangelo di Giovanni, IV, 27; Vangelo di Matteo, XXVI, 52; Atti, X, 34-36. Ben presto, tuttavia, S.
Agostino (De civitate Dei, I, 21 in
MIGNE, P.L., XLI, col. 228, avvertirà
che il comandamento non occides non
si applica a chi obbedisce ad un ordine.
[75]
Epifanio, vescovo di Pavia, era molto stimato da Teodorico, che ne fece un
proprio consigliere. E' nota, infatti, un'azione diplomatica di Epifanio presso
il burgundione Gundobado per trattare il rilascio di prigionieri a favore di
Teodorico. Dell’episodio dà notizia E. GIBBON, op. cit., 1443. Nello stesso senso, si possono citare le frequenti
missioni di pace di S. Severino, testimoniate da Eugippo, uno scolaro del
santo. Con l'avanzare dei Rugi nella Bassa Austria, sotto la pressione di
Alamanni, Eruli e Turingi, S. Severino viene pregato dalle popolazioni locali
di intercedere presso il re dei Rugi, il quale stava prendendo disposizioni
drastiche al loro riguardo, e cioè «...retentos
abducere et in oppidis sibi tributariis atque vicinis ex quibus unus erat
Favianis, quae a Rugis tantummodo dirimebantur Danuvio, collocare». Al re,
S. Severino propone: «...fidei meae hos
committe subiectos, ne tanti exercitus compulsione vastentur potius quam
migrantur». Ne derivò che i Romani, «quos
in sua S. Severinus fide susceperat, de Lauriaco discedentes, pacificis
dispositionibus in oppidis ordinati, benivola cum Rugis societate vixerunt».
Vedi M.G.H., SS.AA, I, 2, 18 (XIX,
2-3), 23 (XXXI, 1-4).
[76]
ENNODIO, Vita Epiphani, in M.G.H., SS.AA., VII, 91. Sulla figura di
Ennodio, e sulla fortuna medievale dei suoi scritti vedi R.H. ROUSE-M.A. ROUSE,
Ennodius in the MiddleAges: Adonics,
Pseudo-Isidore, Cistercians and the School in Popes, Teachers, and Canon Law in the Middle Ages (a cura di S.R.
Sweeney e S. Chorodow), Ithaca and London, 1989, 91 ss.
[78] W.M. SWARTLEY, War and Peace in the New Testament, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, Berlin New York 1996,
II: Principat, 26, 3, 2348.
[79] Vedi Galati, 3, 19:« La legge fu promulgata dagli angeli attraverso un mediatore. Ora, non
si dà mediatore per una sola persona, e Dio è uno solo»; I Timoteo, 5,6: «Uno solo
infatti è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, Gesù Cristo»;
Ebrei, 12, 24:«Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova». Anche nel
difficile passaggio di I Cor., 15,
23-28 si cela, nelle parole di S. Paolo, il concetto di mediazione sovrannaturale fra spirito e corpo.
[82] Vedi AUGUSTINUS
HIPPONIENSIS, Enarrationes in Psalmos, in P.L., vol. 37, col. 1383: Quid est arbiter? Medius ad
componendam causam. Nonne
inimici eramus Dei, et malam causam habebamus adversus Deum? Quis finiret
causam istam malam, nisi ille medius arbiter, qui nisi veniret, misericordiae
perierat iter? De quo Apostolus dicit, Unus enim Deus et mediator Dei et
hominum, homo Christus Jesus.
[83] Così ad esempio l’AMBROSIASTER, Commentaria in
Epistolam ad Timotheum Primam, in MIGNE, P.L., vol. 17, col. 466: Unus
enim Deus, et unus mediator Dei et hominum homo Christus Jesus. Dei et Christi
unam significat esse voluntatem in salvandis hominibus, unde Deum Patrem, quia
ab ipso est omnis auctoritas, unum esse fatetur, et unum mediatorem Dei et
hominum Christum Jesum. Missus enim 293 a Patre factus arbiter reconciliavit
Deum et homines, reformando eos ad agnitionem ejus; ID., Commentaria in
Epistolam ad Romanos, in P.L.,
vol. 17, col. 89: Manifestum est per Christum nos aditum habere ad gratiam
Dei; ipse enim est arbiter Dei et hominum, qui nos doctrina sua erigens,
sperare fecit donum gratiae Dei, stantes in fide ejus.
[84] Vedi J. G. BOUGEROL, The Church Fathers and the Sentences of
Peter Lombard, in I. Backus (ed), The
reception of the church fathers in the West: from the Carolingians to the
Maurists, Leiden 1997, 154 ss.
[85] Questa funzione di
supremo garante della pace viene sempre rivendicata dal Pontefice come
intrinseca allo stesso mandato di Vicario di Cristo, grazie al quale pacificantur
caelestia cum terrestribus et terrestria cum caelestibus. Cfr. c. 13, X, 2,
1: «Numquid non poterimus de juramenti religione cognoscere quod ad judicium
ecclesiae non est dubium pertinere ut rupta pacis foedera reformentur?».
L’idea viene avanzata al Concilio di Parigi del 825, vedi M.G.H., Concilia,
II, 2, 549, e richiamata successivamente a più riprese. Vedi la dichiarazione
di Callisto II al Concilio di Reims nel 1119 in MANSI, Sacrorum Conciliorum
nova et amplissima collectio, 1776, XXI, 240.
[86] Così
espresso, il concetto sarebbe stato ripetuto in termini pressocchè identici da
molti Padri della Chiesa fra cui Tertulliano (De carne Christi,XV, in P.L.,
II, col. 779), Cipriano(Testimonia
adv. Judaeos, in P.L., 4,
col.704), Lattanzio (Divinarum
Institutionum,in P.L., 6, 524),
Ottavio di Milevi (De schismate
Donatistarum, in P.L.11, col. 928), Ambrogio da Milano (De Paradiso, in P.L. 14, col. 304; Enarrationes
in XII psalmos Davidicos, in P.L., 14, coll. 1064, 1159; Expositio evangelii secundum Lucam, in P.L. 15, coll. 1594,1824); Ambrosiaster
(Commentaria in Epistolam ad Timotheum Primam,
in P.L., 17, col.456) da vari passi
di Agostino d’Ippona (p. es.Confessiones,
in P.L., 32, col. 808); Isidoro
di Siviglia (Etymologiae, in P.L. vol.82, col.266) negli scritti di
molti Papi fra cui Vigilio (Epistolae et
decreta, in P.L., vol.69, col.55),
Gregorio I (Moralia, in P.L., 75, coll. 576, 612,616, 1139, Expositio in psalmos poenitentiales, in P.L. 79, col. 576, 609), Onorio I (Epistolae, in P.L.,80 col. 470), ed è presente nella versione della Bibbia di
Ulfila (P.L. 18, col. 837).
[88] Per
avere ragione della naturale aggressività umana: «...data opera est ut imperiosa civitas non solum jugum, verum etiam
linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imponeret...sed hoc quam
multis et quam grandibus bellis, quanta strage hominum, quanta effusione humani
sanguinis comparatum est? Quibus transactis, non est tamen eorundem malorum
finita miseria. Quamvis enim non defuerint, neque desint hostes, exterae nationes
contra quas semper bella gesta sunt et geruntur: tamen etiam ipsa imperii
latitudo peperit pejoris generis bella socialia scilicet et civilia». Vedi
A. AGOSTINO, De civitate Dei, cit.,
XIX, 7, in MIGNE, P.L., XLI, col.
634. Tuttavia la violenza barbarica è proprio quella che conduce S. Agostino ad
ammettere la liceità della guerra, almeno in termini difensivi. Vedi Ep. CCXX, 7, in MIGNE, P.L., XXXIII, col. 995.
[90] A.
AGOSTINO, De civitate Dei, cit., V,
17, col. 160. Al di fuori di questa ipotesi, peraltro, a quegli stessi sovrani
era dovuta obbedienza. Nel celebre dilemma posto da Agostino ai Donatisti, si
può leggere la difesa logica delle istituzioni giuridiche terrene: «Legantur
leges, ubi manifeste praeceperunt Imperatores, eos, qui praeter ecclesiae
catholicae communionem usurpant sibi nomen Christianum, nec volunt in pace colere pacis auctorem, nihil nomine ecclesiae
audeant possidere. Sed quid nobis est Imperatori? Sed jam dixi: de jure
humano agitur. Et tamen Apostolus voluit serviri regibus: voluit honorari
reges; et dixit: reges reveremini. Nolite dicere quid mihi et regi? Quid tibi
ergo et possessioni? Per jura regum possidentur possessiones. Dixisti quid mihi
et regi? Noli dicere
possessiones tuas, quia ipsa jura humana renuntiasti quibus possidentur
possessiones». Il passo è ripreso
nel Decretum grazianeo, c. 1, Quo jure, D. VIII.
[91] PAOLO
OROSIO, Hist. adv. pag., V, praef.;
l'a. accenna ancora agli «innumeri
diversarum gentium populi diu ante liberi, tum bello victi, patria abducti,
pretio venditi, servitute dispersi».
[92]
Tertulliano difende la necessità dell'Impero. Vedi Apologeticum, 26; Su ciò C. DAWSON, La formazione dell'unità europea dal secolo V al secolo XI (tr. it.),
Torino 1939, 57 ss.; F. FABBRINI, L'Impero
d'Augusto come ordinamento sovranazionale, Milano 1976, . 205.
[93] A.
AGOSTINO, De civitate Dei, IV, 4, in
MIGNE, cit., col. 115. L’espressione latrocinium
è termine che richiama i latrunculi
vel predones che la giurisprudenza romana contrapponeva agli hostes: con questo termine si definivano
coloro che si opponevano con le armi al popolo romano con un bellum indictum.
[95] Anzi
l'Ullmann avanza la tesi estremista secondo cui vi sarebbe una vera e propria
assenza della categoria del politico, che spiegherebbe il successo del Papato
in Occidente. Vedi W. ULLMANN, Principi
di governo e politica nel Medioevo, tr. it., Bologna 1972, 139-144.
[96] Ancora
interessanti, in proposito, le osservazioni di E. GIBBON, Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano (tr. it.),
Torino 1967, 1754-1755.
[97]
ZOSIMO, Hist. Rom., L, V, c. 45; P.
JAFFÉ, Regesta pontificum romanorum, Leipzig, 1885-1888, I, 68; cfr. anche F. GREGOROVIUS,
Storia della città di Roma nel Medioevo,
tr. it., Roma, 1912, I, 90 ss.
[98]
GIORDANES, De rebus geticis, c. 42,
in MURATORI, R.I.S., I, 212;
EUTROPIO, XIIII, in M.G.H., AA, II,
pp. 204-206; P. JAFFÉ, Regesta, cit., I, p. 68: «...tota p.legatione dignanter accepta, ita summi
sacerdotis praesentia rex gavisus est, ut bello abstineri praeciperet et ultra
Danubium promissa pace discederet»; notizia della legazione anche in
PROSPERI TIRONIS Epitome Chronicon,
a. 452, in M.G.H., Chronica minora,
I, p. 482: «...nihilque inter omnia
consilia principis ac senatus populique Romani salubrius visum est, quam ut per
legatos pax truculentissimi regi expeteretur. Suscepit hoc negotium cum viro
consulari Avieno et viro praefectorio Trygetio beatissimus papa Leo auxilio dei
fretus, quem sciret numquam piorum laboribus defuisse. nec alium secutum est
quam praesumpserat fides. nam tota delegatione dignanter accepta ita summi
sacerdotis praesentia rex gavisus est, ut et bello abstinere praeciperet et
ultra Danuvium promissa pace discederet». Sull'episodio cfr. F.
GREGOROVIUS, op. cit., I, p. 132.
[102] Per un
esame critico delle vicende relative a questa legazione vedi W. ENNSLIN, Papst Johannes I als Gesandter Theoderichs
des grossen bei Kaiser Justin, in Byz.
Zeitschr., 44, (1951), 128; V. von FALKENHAUSEN, I rapporti dei ceti dirigenti romani con Costantinopoli dalla fine
del V alla fine del VI secolo, in Il
mondo del diritto nell'epoca giustinianea, caratteri e problematiche,
Ravenna, 1985, 73; vedi su ciò anche F. GREGOROVIUS, op. cit., I, 230.
[105] P.
JAFFÉ, Regesta, cit., I, 1568. Altro
punto interessante da notare è che in questa importante pace compaiono due
donne in posizione dominante. La prima è Teodolinda, alla quale il Papa invia
una lettera di riconoscimento per il sostegno prestatogli; la seconda è
Warnifrida «ad cuius consilium idem
Ariulfus cuncta agat», di cui è detto che «omnino jurare despexisse». Vedi JAFFÉ, Regesta, cit., 1592. Il fatto che si rilevi espressamente che
Warnifrida si rifiuta di giurare darebbe ragione alla tesi sostenuta da M.T.
GUERRA MEDICI, La donna nel processo
longobardo, in Rivista di Storia del
diritto italiano, LX, 1987, 314, vale a dire che, in via di principio, la
donna longobarda potesse farlo.
[108] Indiculum episcopi de Langobardia, in Liber Diurnus Romanorum Pontificum,
form. 76 (ed. T. E. von Sickel), Vindobonae, 1889,
81.
[109] In un
intervento alle settimane di studio spoletine J. FERLUGA richiamava
l'attenzione su alcuni episodi che possono essere assunti come esemplificativi
del farsi e disfarsi di alleanze paradossali: verso la fine del secolo settimo,
Giustiniano II, fuggendo da Cherson dove era stato confinato, si rifugiò presso
i Cazari e poi rientrò con l'aiuto dei Bulgari, suoi nemici mentre era al
potere; nel 781 si sollevò il patrizio e stratego Elpidio, accusato di avere
preso parte ad un complotto contro l'imperatrice Irene, ma le forze siciliane
si rifiutarono di consegnare il ribelle al legato imperiale; l'anno seguente,
allorchè una grossa flotta inviata con lo stesso compito dal governo bizantino
s'avvicinò alla Sicilia, lo stratego passò con i suoi in Africa ove fu, con
l'appoggio arabo, proclamato imperatore. Vedi L'Italia bizantina dalla caduta dell'Esarcato di Ravenna alla metà del
secolo IX, in Bisanzio, Roma e
l'Italia nell'alto Medio Evo, Spoleto, 1988, I, 183.
[110] Anche
O. BERTOLINI (Roma e i Longobardi,
cit., 57) rileva l'importanza di precedente del cerimoniale adottato.
[112] Liber pontificalis, cit.,
I, 427-428. Vedi anche O.BERTOLINI, Il
problema delle origini del potere temporale dei papi nei suoi presupposti
teoretici iniziali: il concetto di “Restitutio” nelle prime cessioni
territoriali alla Chiesa di Roma (756-757) in Miscellanea Pio Paschini, Roma, 1948, I, 103-171, ora in (IDEM), Scritti scelti di storia medioevale, Livorno
1968, II, 487-547.
[113] Liber Pontificalis, cit,
I, 392. Sull'episodio vedi O. BERTOLINI, Roma
e i Longobardi,cit, 44.
[115] «Zacharias Ratchiso Langobardorum regi: de
pace constituenda scribit. Ad quem missa relatione b. pontificis, continuo ob reverentiam
principis apostolorum et eius precibus inclinatus, in viginti annorum spatium
invicem inita pace, universus Italiae quievit populus». Vedi P. JAFFÉ, op. cit., I, 264-265.
[116] Vedi
P. JAFFÉ, Regesta, cit., I, 753, 272:
«A Johanne, imperialis silentiario, cum
legatis apostolicis Constantinopoli reverso, accipit jussionem imperialem in
qua erat insertum: Ad Langobardorum regem sanctum papam esse properaturum de
recipiendam ravennatium urbem et civitates ad eam pertinentes»; vedi pure Liber pontificalis, cit., Vita Stephani, 98. Il Cortese (Il diritto,I, cit., 178) attira l’attenzione sul termine iussio che indicherebbe – quanto meno nell’ottica bizantina – una
subordinazione del Papa all’Imperatore. E tuttavia non di trattative
diplomatiche, ma di vera mediazione sembra essersi trattato, prova ne sia che
la vicenda evolve verso una conclusione inaspettata: l’alleanza epocale fra il
Papato e la neonata dinastia carolingia.
[122] Annales Fuldenses, p. I, a. 751, in M.G.H., SS., I, p. 346. La
risposta finì, nel XII secolo, per entrare nel Decreto di Graziano, servendo
come argomento ai canonisti per sostenere che i re potevano essere deposti dal
Papa. Vedi c.3 Alius item C. XV, q.6.
[123]
Annales Fuldenses, cit., a. 752. Sul
punto cfr. H. PIRENNE, Maometto e
Carlomagno, tr. it., cit., 215 e ss.
[127] Vita Walae, cit, 562. Per l'identificazione
del documento cui qui ci si riferisce, vedi HINSCHIUS (a cura di), Decretales pseudo-isidorianae, Leipzig
1863, CXCVI, il quale lo identifica con una collezione evidentemente composta
dai vescovi favorevoli alla fazione di Lotario, non con le pseudo-isidoriane
medesime.
[130] (Auct. inc.), Annalium fuldensium pars tertia, cit., 379. Nel Chronicon di Reginone dello stesso fatto
si dice: «Anno dominicae incarnationis
866 Arsenius episcopus, apocrisiarius et consiliarius Nicolai papae, vice
ipsius directus est in Franciam; quo perveniens tanta auctoritate et potestate
usus est, ac si idem summus praesul advenisset». Vedi M.G.H., SS., I,
573. Cfr. la lettera inviata, nell’ 865 da Nicola I a Carlo il Calvo perchè
addivenga a trattative di pace con Lodovico II, in M.G.H., Epp., IV (Karolini Aevi IV), pars altera, 301, nonchè quella con la
quale invita arcivescovi e vescovi del regno franco ad adoperarsi in tal senso (ivi, 303.
[131] Vedi DUMONT, Corps
Universel Diplomatique du Droit des
Gens, Amsterdam 1726, I, I, 12. Il passo rende notizia anche
delle difficoltà delle trattative: di una prima legazione non accettata, e di
una seconda legazione il cui contenuto «quia
et secundum Deum salubre et secundum seculum utile nobis videtur», veniva
portato a conoscenza affinchè «si vobis
ita sicut et nobis videtur, cum vestro consilio volumus illud recipere et quod
Deus concesserit ad necessarium effectum perducere». Il documento porta la
firma anche dei vescovi e dei nobili che avrebbero assistito alla stipulazione
del trattato. Fra i primi figura il nome di Incmaro.
[132] In
M.G.H., L.L., II, 1, Capitularia regum Francorum, 366. Anche
nel Sinodo di Metz, dell’859, i Vescovi rivolgono la loro admonitio a Lodovico chiamandosi «legati divinae pacis... fungentes legationem pro Christo». Vedi ibidem,
441.
[134] Vedi le osservazioni di L. GENICOT, Rois, ducs, comtes, évêques, moines, seigneurs: forces et jeux
politiques dans l'Anjou du XI siècle, in La
noblesse dans l'occident medieval, London 1982, 105.
[135] Cfr. J. GILISSEN, Essai
d'une histoire comparative de l'organisation de la paix, in La paix, Recueils de la societe Jean Bodin
pour l'histoire comparative des institutions, XIV, Bruxelles, 1962, 49.
[138] Vedi Epistole, 23, IV. Vedi A. SABA, Il pontificato romano e la Sardegna
medievale, Roma, 1929, 8-9; Cfr. D. FILIA, La Sardegna cristiana. Storia della Chiesa, I, Dalle origini al secolo
XI, Sassari 1909, 112.
[139] Vedi Corpus Christianorum, Series Latina, CXL (ed
D. Norberg), 1982, 71, I, 60 (a.591): Gregorius
Ianuario archiepiscopo de Carali Sardiniae.
Si ipse
se Dominus noster viduarum maritum orphanorumque patrem scripturae sanctae
testimonio profitetur, nos quoque membra corporis eius ad imitandum caput summo
debemus affectu mentis intendere et, salva iustitia, orphanis ac viduis praesto
esse necesse est. Et quia insinuatum nobis est Catellam religiosam feminam,
habentem filium hic Sanctae Romanae cui Deo auctore praesidemus ecclesiae
militantem, quorundam immissionibus vel inquietudinibus molestari, de qua e
fraternitatem vestram scriptis praesentibus necesse duximus adhortandam ut
eidem praedictae feminae tuitionem ferre, salva iustitia, non declinet, sciens
quod de huiuscemodi rebus et Dominum sibi debitorem faciat et nostram circa se
caritatem maius astringat. Causae enim praedictae feminae sive sunt, sive
fuerint, vestro volumus iudicio terminari, ut foralis illi inquietudo submoveri
debeat et tamen a iudicii iustitia nullatenus excusetur. Oro autem Dominum, qui
viam vestram cursu ad se prospero dirigat et ad regna venturae gloriae
propitiatus ipse perducat.
[141] Ibidem. Il passo sembrerebbe contraddire
chi vorrebbe Antico e Nuovo Testamento le fonti cui il vescovo avrebbe dovuto
rifarsi. Così ad esempio J. M. GONZÁLES DEL VALLE, Derecho Eclesiástico español, 29: «Inicialmente se aplicaba como
derecho la Biblia, tanto el Antiguo como el Nuevo Testamento. Ello supuso un
gran esfuerzo pues la Biblia no es un testo juridico». Tale uso sarebbe durato
fino al Decreto grazianeo.
[142] Sono ad esempio consigliati nelle epistole
VIII 35 (II,37), mentre arbitrati sono suggeriti nelle ep. I, 61, II, 47
()1,148)IX, 197 (II 185) XIV 2 (2,240) Così pure in epistole non riguardanti la
Sardegna: I, 36; VI 11; VIII 17; IX 235; XI 24 . Ad es. vedi Vedi Corpus Christianorum, cit., 72, ep. I,
61 «Sed si quas eam causas habere
contigerit, in electorum iudicio altercando ventiletur contentio, et quaecumque
fuerint definita, ita tranquille ad effectum vobis solaciantibus perducantur,
ut et vobis pro tui opere merces inhaereat, et nostris apicibus commendata
gaudeat se invenisse iustitiam».
[143] Corpus Christianorum, cit., CXL, 60, Ep.
I, 46: Iustitiam quam mente
geritis oportet coram hominibus luce operum demonstretis. Iuliana siquidem
abbatissa monasterii sancti Viti, quod Vitula quondam recordandae memoriae
construxerat, insinuavit nobis a Donato officiali vestro possessionem iuris
praedictimonasteri detentari. Qui cum excellentiae vestrae patrociniis cingi se
conspicit, ad examinandum iudicio fuerit definitum, effectui mancipetur, ut id
quod se amittere sive retinere prospexerit, non hoc virtutis opere fieri, sed
legis iustitiae debeat reputari. Pariter et Pompeiana religiosa, quae
monasterium in domo propria construxisse dinoscitur, questa est testamentum
quondam generi sui matrem defuncti velle cassare, quatenus ultimum filii eius
arbitrium ad irritum deducatur. Pro qua re caritate paterna gloriam vestram
necessarium duximus adhortandam ut piis se causis, salva iustitia, libenter
accomodet, et quicquid his iuris ratio benigne tribuit, iubeat custodire.
Dominum autem petimus, qui viam vitae vestae propitius dirigat, dignitatemque
eius susceptae administrationis prosperitate disponat.
[145] Corpus Christianorum, S.L., 140, A, XI,
7, 869. Quello delle tasse eccessive è, insieme alla politica religiosa,
alla lotta al paganesimo e alla difesa dell’isola contro i Longobardi, tema
ricorrente delle Epistole. Vedi M.
SANNA, op. cit., 76.
[148] Il vescovo cagliaritano Gianuario
rappresenta il prototipo negativo del Vescovo dell’età gregoriana, spesso in
lite con i grandi proprietari di cui cerca di occupare le terre. Già nel 592 è
denunciato al Papa, con l’accusa di trascurare la regolare celebrazione di
concili provinciali, di non impartire correttamente il battesimo, di incassare
vere e proprie tangenti (per l’ordinazione del clero, per le nozze dei chierici
e per le vergini che prendevano il velo), di non tutelare a sufficienza i
monasteri, gli xenodochia e in
generale la disciplina del clero, di non richiamare i sacerdoti lapsi, di prendere soldi per le sepolture
e infine, di trascurare la difesa delle mura, la protezione dei poveri e la
liberazione dei cristiani servi degli ebrei. Ma è soprattutto ritenuto
colpevole di non curarsi della predicazione del Cristianesimo: molti contadini
della Sardegna dovevano ancora essere convertiti. Vedi C. AZZARA,
Gregorio Magno, l'impero e i "regna": Atti dell'Incontro
internazionale di studio dell'Università degli studi di Salerno, Fisciano, 30
settembre - 1 ottobre, 2004 / Firenze 2008, 116.
[150] In ciò Era si poneva contro l' opinione di
P.S. LEICHT, Appunti sull'ordinamento
della proprietà ecclesiastica in Sardegna nell'alto Medio Evo, S.S. II,
1906 fasc. 2, 3, 136.