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Botta-foto-D@S-2014-1FABIO BOTTA

Università di Cagliari

 

Osservazioni in tema di criteri di imputazione soggettiva dell’homicidium in diritto romano classico

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ABSTRACT

 

Al objeto de precisar el elemento subjetivo requerido para la represión del homicidio, no se le ha dado la suficiente relevancia hasta ahora a la relación que parece existir en las fuentes entre el animus occidendi y el medio lesivo utilizado. Esto puede resultar del hecho de que los dos casos reprimidos por la lex Cornelia de sicariis fuesen uno un delito de daño (l’hominem occidere), el otro de peligro (l’ambulare cum telo), reconocidos sin embargo en una relación en la que uno representa la lesión inflingida y realizada al bien jurídico-vida solo (eventualmente) programado y (potencialmente) puesto en peligro con el otro. Ya que ambos deben considerarse dolosos y puesto que por lo tanto debe presuponerse lógicamente la identidad de los medios ejecutivos de la conducta totalmente lesiva y de la peligrosa, se entiende cómo la relación homicidio –uso de arma propia (telum o ferrum) pueda haberse convertido en un “tópico” en la argumentación jurídica con el fin de llegar, caso por caso, a una solución sobre la voluntariedad punible y sobre la involuntariedad no punible ex lege Cornelia.

El análisis de la casuística, desde el principado de Adriano hasta Diocleciano, nos lleva a ver, sobre la linea de investigación hasta ahora señalada, la amplitud del ámbito del elemento subjetivo exigido para la condena del homicidio desde el dolo intencional y directo, previsto originariamente por la lex publica, al dolo de ímpetu, a la involuntariedad, hasta el casus-culpa, por medio de la creación de nuevos crimina extra ordinem.

 

Ai fini di una precisazione dell’elemento soggettivo richiesto per la repressione dell’omicidio, non sufficiente rilievo si è finora dato al rapporto che sembra intercorrere nelle fonti tra l’animus occidendi e il mezzo lesivo utilizzato. Ciò sembra discendere dal fatto che le due fattispecie represse ex lege Cornelia de sicariis fossero l'una un reato di danno (l’hominem occidere), l'altra di pericolo (l’ambulare cum telo), raffigurabili tuttavia anche in un rapporto nel quale l'una rappresenta la lesione compiuta e realizzata del bene giuridico-vita solo (eventualmente) programmata e (potenzialmente) messa in pericolo con l'altra. Poiché entrambe le fattispecie debbono considerarsi dolose e poiché deve pertanto logicamente presupporsi l'identità dei mezzi esecutivi della condotta compiutamente lesiva e di quella di messa in pericolo, si comprende perché il rapporto omicidio – uso di arma propria (telum o ferrum) possa essere divenuto “topico” nell’argomentazione giuridica al fine di addivenire, caso per caso, ad una soluzione sulla volontarietà punibile e sulla involontarietà non punibile ex lege Cornelia.

L’analisi della casistica, a partire dal principato di Adriano e fino a Diocleziano, induce a vedere, sulla linea di sviluppo ora indicata, l’ampliamento dell’area dell’elemento soggettivo richiesto per la punibilità dell’omicidio dal dolo intenzionale e diretto, previsto originariamente dalla lex publica, al dolo d’impeto, alla preterintenzione, fino al casus-culpa, per mezzo della creazione di nuovi crimina extra ordinem.

 

 

1. – È noto, credo, a tutti i cultori del diritto romano, anche a chi non si è occupato ex professo di diritto criminale, che il tema dell’omicidio, sotto qualunque profilo lo si intenda affrontare (e, in particolare, sotto quello della sua imputazione soggettiva), si presenta arduo per la sostanziale oscurità e tendenziale incoerenza delle fonti che ne trattano; oscurità e incoerenza che sono causa – e a volte, purtroppo, anche effetto – di una copiosissima (al limite dell'incontrollabile) produzione dottrinaria, dalla quale è assai difficile ricavare risultati sufficientemente affidabili, ingenerandosi, invece, su quelle fonti, interpretazioni plurali e conclusioni totalmente divergenti[1].

Per questi motivi, reputo utile entrare direttamente nel fuoco del tema proposto, attraverso l'analisi di una costituzione di Diocleziano, per il fatto, da un lato, di essere, questa, la fonte cronologicamente più recente tra quelle espressamente dedicate a quel tema trasmessaci per mezzo della Compilazione[2], e, dall'altro, e conseguentemente, di rappresentare il probabile punto di arrivo, consolidatosi in una norma tendenzialmente idonea a un uso generale e astratto, della riflessione romana sull’“elemento soggettivo” richiesto per il perfezionamento del crimen di omicidio. Ciò congruamente con le caratteristiche proprie dell'intera produzione normativa dioclezianea, che, infatti, secondo Wieacker, «représente encore, sans aucun doute, le droit classique sévérien. Mais il transforme les problèmes en doctrines, la casuistique en normes astreignantes»[3].

Della costituzione possediamo due versioni:

 

Coll. 1.10.1 Item Gregorianus eodem libro et titulo [libro IIII sub titulo ad legem Corneliam de sicariis et ueneficis] tale rescriptum dedit: Exemplum s. l. dd. nn. Have Agatho karissime nobis. Qualitas precum Iuli Antonini clementiam nostram facile commovit: quippe quod adseveret homicidium se non voluntate, sed casu fortuito fecisse, cum calcis ictu mortis occasio praebita videatur. Quod si ita est neque super hoc ambigi poterit, omni eum metu ac suspicione, quod ex admissae rei discrimine sustinet, secundum id quod adnotatione nostra comprehensum est, volumus liberari;

 

C. 9.16.4(5): Exemplum sacrarum litterarum Diocletiani et Maximiani AA. Agathoni. Eum, qui adseverat homicidium se non voluntate, sed casu fortuito fecisse, cum calcis ictu mortis occasio praebita videatur, si hoc ita est neque super hoc ambigi poterit, omni metu ac suspicione, quam ex admissae rei discrimine sustinet, secundum id quod adnotatione nostra comprehensum est volumus liberari. <a 290 d. Prid. K. Dec. Sirmi ipsis AA. IIII et III conss.>.

 

In solo apparente contrasto con quanto or ora detto, proprio l'esistenza di due tradizioni della costituzione parrebbe in qualche modo impedire che essa sia portata ad esempio dell'affermazione di Wieacker. E infatti, Volterra[4], che ne fa uso nel suo lavoro sul testo delle costituzioni imperiali, confrontando le due versioni della disposizione dioclezianea, la richiama quale paradigma della massimazione delle costituzioni operate dai giustinianei al momento della loro selezione e sistemazione del materiale da estrarre dal Gregoriano (come nella specie) e dall’Ermogeniano per la compilazione del Codex.

A ben vedere, però, non è dalle minime differenze dei due testi (il saluto ad Agatho, titolare della funzione giurisdizionale chiamata a esprimersi sul caso di Iulius Antoninus; il nome stesso di quest’ultimo), irrilevanti circa la configurazione giuridica del caso, che può ricavarsi «l’evidente sforzo» dei compilatori del Codice, di dare alla disposizione di Diocleziano carattere di norma astratta, deducendo ciò dal «sopprimere ogni parola che ponesse in rapporto tale disposizione con la specie particolare esposta dall’interessato». Se cioè, per Volterra, C. 9.16.4 è esempio di estrazione della pura norma, non può non essere pura norma – o non può non esserlo per le ragioni che egli stesso indica – anche Coll. 1.10.1, dato che è proprio della rilevanza dell'operazione di astrazione dall’una all’altra versione della norma che deve dubitarsi. Dal che deve dedursi, all'inverso e invece, che se l'una è "massima" generale e astratta, l'altra può ben essere, con Wieacker, traduzione in "normes astreignantes" della casistica precedente. Ciò è dimostrato, d'altra parte, dal fatto che, in entrambe le tradizioni della costituzione, la fattispecie concreta è presentata nei suoi elementi essenziali, ma sempre all'interno di una subordinata causale “cum calcis … videatur”, quasi a giustificazione del principio di diritto che effettivamente viene costruito in termini generali e astratti su cui si assa la struttura dell'epistula: “eum, qui adseverat homicidium se non voluntate, sed casu fortuito fecisse, [...] omni metu ac suspicione [...] volumus liberari”.

Che sia dunque questo il momento nel quale, avanti all'omicidio involontario, si viene a fissare (sebbene con i limiti derivanti dal modo di lavorare – ancora fortemente casistico – proprio delle cancellerie del primo Dominato) una regola generale e astratta dai più ampi confini possibili è dimostrato, a mio avviso, tanto dagli stessi strumenti formali utilizzati qui dal legislatore, quanto dagli elementi del caso concreto che la cancelleria seleziona come idonei alla soluzione-definizione del caso.

Sotto il primo profilo, sembrerebbe, infatti, presente alla stessa cancelleria dioclezianea (ma altresì ai compilatori del Codex che non a caso prescelgono in funzione di norma regolativa della materia la costituzione in esame ad altre, dalla moderna dottrina già indicate come punto di arrivo della riflessione scientifica romana, quale ad es. C. 9.16.1 su cui torneremo presto) che non esistesse una regula consolidata in materia di omicidio involontario se è vero, come afferma nell’epistula l’imperatore dalmata, che la soluzione comprendente il principio da applicare nel caso sottoposto alla sua attenzione era già stata comunicata all’interessato, in risposta alle sue preces, per mezzo di adnotatio, nuova forma di costituzione imperiale che concedeva, sotto forma di privilegio, una deroga all’applicazione del diritto corrente: la soluzione apprestata dall’imperatore è dunque – ancora all’altezza della fine del terzo secolo – [5] per definizione ius singulare (nell’adnotatio) tendendo a trasformarsi, d’altra parte, solo d’ora in poi in ius certum con l’epistula ad Agatho.

Ne consegue, dunque, che ancora a quell’altezza temporale, nella prassi poteva anche non escludersi la repressione ex lege Cornelia de sicariis dell’evento morte di un essere umano (libero)[6] involontariamente causata, senza che rilevasse, inoltre, il mezzo di causazione della stessa (e cioè si punisse, in forza di quella legge, un crimine a forma libera). 

Circa la selezione degli elementi del caso concreto considerati rilevanti al fine dell’apprestamento del risolutivo principio di diritto, non può nascondersi l’interesse che suscita il soffermarsi del redattore dell’epistula sulla modalità di commissione dell’omicidio che si dice avvenuto cum calcis ictu[7].

A questo riguardo, proprio in considerazione della soluzione stessa apprestata dalla cancelleria, imperniata sulla distinzione (d’altra parte, come vedremo, certamente non inedita) tra voluntas e casus fortuitus, rileva il rapporto delineato nella costituzione tra la volontà di uccidere (o la sua assenza) e il mezzo utilizzato. E ciò per due ordini di motivi: da un lato, perché se anche – come subito si vedrà – dal mezzo lesivo si intendesse implicitamente dedurre indizio della mancanza di volontà dell’evento-morte, scompare dall’orizzonte della costituzione qualsiasi riferimento alla direzione della volizione che originariamente sottostava all’azione posta in essere con quel mezzo offensivo, se, cioè, la condotta fosse volontariamente indirizzata al concretamento di un illecito meno grave[8]. Diversamente da quanto registrato in fonti precedenti, quindi, viene così del tutto obliterata – sia o meno ciò conseguenza dell’analisi del caso concreto a noi sconosciuto – la prospettiva concettuale di quella ipotesi di responsabilità che noi chiameremmo "preterintenzione".

D’altra parte, come si accennava sopra, il rapporto tra voluntas e mezzo lesivo rileva in ragione della storia stessa della riflessione giuridica romana sul tema dell’elemento soggettivo nel reato di omicidio. È vero, difatti, che la cancelleria dioclezianea sembra rimarcare un certo elemento di novità, nella cucitura degli elementi costitutivi la fattispecie di omicidio involontario che si trova ad analizzare, sottolineando la circostanza che il fatto si sia concretato senza l’uso di armi, laddove, in precedenza (come ora si dirà), la casistica relativa a quella particolare forma di reato si era generalmente articolata intorno ad azioni omicidiarie poste in essere telo o ferro, cioè – volontariamente o involontariamente – con mezzi propriamente idonei alla causazione dell’evento morte.

In definitiva, nella costituzione dioclezianea sembra delinearsi un reato a condotta libera, normalmente punibile entro i limiti del fortuito (dunque ben oltre la sfera del dolo), nel quale la mancanza di volontà e rappresentazione nella condotta rileva solo in funzione dell’evento morte a questa conseguito e non della direzione della stessa condotta alla commissione di un qualsiasi altro illecito meno grave[9].

 

 

2. – Il crimen così configurato in Coll. 1.10.1 = C. 9.16.4, che àncora la punibilità ad un criterio di responsabilità diverso dal dolo[10], parrebbe perciò difficilmente riconducibile alla norma incriminatrice ordinaria per l'omicidio, contenuta originariamente nella lex Cornelia de sicariis et veneficis e riprodotta, dalla stessa cancelleria dioclezianea in

 

C. 9.16.6: Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Philisco. Is, qui cum telo ambulaverit hominis necandi causa, sicut is, qui hominem occiderit vel cuius dolo malo factum erit commissum, legis Corneliae de sicariis poena coercetur. [a 294 s.vii k.Ian.Nicomediae CC. conss.].

 

Al rescritto, estratto dall’Ermogeniano, viene apparentemente affidata nel repetitae praelectionis la funzione - che non è usualmente svolta da altre costituzioni in altri titoli del libro IX - di evidenziare il portato repressivo della lex repubblicana, restringendolo alle due principali fattispecie punite (l'ambulare cum telo e l'hominem occidere). Essa ha cioè funzione omologa nel Codice a quella svolta nel Digesto da

 

D. 48.8.1 pr. (Marcian. 14 Inst.) Lege Cornelia de sicariis et veneficis tenetur, qui hominem occiderit: cuiusve dolo malo incendium factum erit: quive hominis occidendi furtive faciendi causa cum telo ambulaverit […] (1). Praeterea tenetur, qui hominis necandi causa venenum confecerit dederit: quive falsum testimonium dolo malo dixerit, quo quis publico iudicio rei capitalis damnaretur: quive magistratus iudexve quaestionis ob capitalem causam pecuniam acceperit ut publica lege reus fieret.

 

e, precedentemente, nella Collatio da

 

Coll. 1.3.1 Ulpianus libro VII de officio proconsulis sub titulo de sicariis et veneficis. Capite primo legis Corneliae de sicariis cavetur, ut is praetor iudexve quaestionis, cui sorte obvenerit quaestio de sicariis eius quod in urbe Roma propiusve mille passus factum sit, uti quaerat cum iudicibus, qui ei ex lege sorte obvenerint de capite eius, qui cum telo ambulaverit hominis necandi furtive faciendi causa, hominemve occiderit, cuiusve id dolo malo factum erit. Et reliqua.

Coll. 1.3.2 Relatis uerbis legis modo ipse loquitur Vlpianus: Haec lex non omnem, qui cum telo ambulauerit, punit, sed eum tantum, qui hominis necandi furtiue faciendi causa telum gerit, coercet. Compescit item eum, qui hominem occidit, nec adiecit cuius condicionis hominem, ut ad seruum et peregrinum pertinere haec lex uideatur.

 

Proprio le modalità di riproduzione del testo sillano, utilizzate dalla cancelleria dioclezianea, aiutano nella soluzione di un problema, dipendente dal diverso portato delle due fonti giurisprudenziali ora citate, che ha occupato la romanistica e che riguarda l’ordine originario di collocazione nel testo della Cornelia delle fattispecie punite.

Poiché in C. 9.16.6 l’ambulare (o l’esse cum telo) hominis necandi causa precede l’hominem occidere, si hanno ulteriori argomenti a supporto della tesi, ormai prevalente (Kunkel[11], Cloud[12], Santalucia[13] e Ferrary[14]) secondo la quale le clausole si succedessero nella legge secondo l'esposizione di Ulpiano nella Collatio[15] e non secondo quella rinvenibile in Marciano e nel Digesto[16], che può essere effetto di rimaneggiamenti giustinianei[17] vista l'esposizione dei contenuti della lex de sicariis in

 

Inst. 4.18.5 Item lex Cornelia de sicariis, quae homicidas ultore ferro persequitur vel eos, "qui hominis occidendi causa cum telo ambulant".

 

Ne consegue che la lex Cornelia avrebbe punito in prima istanza il reato di pericolo consistente nell’ambulare cum telo hominis necandi causa[18] e, a seguire, il reato d’evento consistente nell’omicidio perfezionato[19].

Escluso che quest'ultima fattispecie possa essere stata aggiunta per estensione interpretativa al crimen di pericolo nel corso dell'ultimo secolo della repubblica[20], deve concludersi che la funzione repressiva originaria della legge, certamente destinata primariamente alla tutela della pace pubblica mediante la prevenzione di attentati contro la vita o l’integrità fisica delle persone[21], fosse effettivamente anche quella di predisporre la norma incriminatrice, fondamentale in ogni società giuridicamente organizzata, della causazione dell’evento morte di un essere umano[22].

Quanto con evidenza si rileva dalla comparazione dei frammenti su riportati – al di là delle loro incongruenze nella disposizione dei contenuti e delle loro differenze (incendium è probabilmente in Marciano un’aggiunta, benché necessitata perché anche l’ipotesi dell’incendio doloso rientrasse nelle specie punite dalla lex Cornelia) – è che entrambe le fattispecie previste sono punite solo in quanto poste in essere con dolo[23]. Ciò non può essere escluso per l’omicidio consumato (benché non lo si renda esplicito nella lettera della legge, così come riportata nelle fonti successive) perché inevitabilmente indotto tanto da quanto si afferma per la repressione della complicità (cuiusve id dolo malo factum erit: non è dato mandato doloso alla commissione di un crimine con diversa imputazione soggettiva)[24] quanto da ciò che riguarda l’ambulare cum telo, caso nel quale il dolo è interno al necandi (furtive faciendi) causa.

 

 

3. – Deve piuttosto chiedersi se mai possa essere intercorso un rapporto tra le due fattispecie della Cornelia, dipendente dalla rilevanza delle modalità esecutive dell'una e (per riflesso) dell'altra, che ha giocato un ruolo sul piano fenomenologico, quanto alla descrizione dell'homicidium, e/o, in più, sul piano ermeneutico quanto alla deduzione ab extrinseco della volontà colpevole.

Non può disattendersi difatti un dato statistico: che le fonti (sia di età repubblicana che imperiale) che ci riportano casi di repressione di omicidio consumato ex lege Cornelia de sicariis tendono per la quasi totalità a rappresentare l’omicidio violento, in sé e per sé considerato e cioè in quanto mero evento, avvenuto cum telo o cum ferro, quindi, parrebbe, quasi in connessione (logica e fattuale) con la fattispecie punita autonomamente dell'esse cum telo[25].

Si potrebbe addirittura giungere così per absurdum alla conclusione che omicidio fosse il solo evento morte prodotto da una condotta violenta tipica, quale quella posta in essere con l’uso di un’arma idonea allo scopo, il telum, appunto, o il ferrum o le altre individuate ad esempio in

 

Inst. 4.18.5 [...] "telum" autem, ut Gaius noster in interpretatione legis duodecim tabularum scriptum reliquit, vulgo quidem id appellatur quod ab arcu mittitur, sed et omne significatur quod manu cuiusdam mittitur: sequitur ergo ut et lapis et lignum et ferrum hoc nomine contineatur[26],

 

specie alla luce di

 

Coll. 1.13.2 (= PS 5.23.7) Paulus libro et titulo qui supra […] Teli autem appellatione non tantum ferrum continetur, sed omne, quod nocendi causa portatum est.

 

e di

 

PS 5.3.3 (= D. 48.6.11.1) Telorum autem appellatione omnia, ex quibus saluti hominis noceri possit [singuli homines nocere possunt D.], accipiuntur.

 

Seguendo, anzi,

 

Coll. 1.4.1 (= PS 5.23.2) Paulus libro qui supra et titulo dicit: Homicida est, qui aliquo genere teli hominem occidit mortisve causam praestitit,

 

conseguirebbe che è omicida solo colui il quale abbia dolosamente causato la morte di un uomo utilizzando un oggetto rientrante nell’ampia definizione di telum sopra offerta.

L’ancoraggio della fattispecie punita a una specifica modalità esecutiva sarebbe inoltre perfettamente funzionale a comprendere la necessaria simmetria richiesta dal confronto tra la repressione dell’omicidio (violento) sotto la specie “de sicariis” con quella dell’omicidio (fraudolento) sub speciede veneficis”, come s'è visto in Marcian. (14 Inst.) D. 48.8.1.1, ed è ribadito in

 

PS 5.23.1 (= Coll. 1.2.1) Lex Cornelia poenam deportationis infligit ei qui hominem occiderit eiusve rei causa furtive faciendi cum telo fuerit, et qui venenum hominis necandi causa habuerit vendiderit paraverit, falsum testimonium dixerit, quo quis periret, mortisve causam praestiterit. Et rell.,

 

con la conseguente, implicita rappresentazione di tutte le condotte punite dalla lex Cornelia quali reati dolosi in re ipsa, poiché l’uso di strumenti esecutivi quali il venenum e il telum manifestano in sé la volontà lesiva dell'azione e la rappresentazione dell'evento[27].

La conclusione secondo la quale, dunque, potesse essere tipica o tipizzata la condotta propria dell'omicidio violento[28] risulta assurda più per la necessità del sistema di dotarsi di una norma incriminatrice dell’omicidio come puro reato d’evento a forma libera[29] (cui d’altra parte dava corpo già la norma regia di Numa[30]) che dalla casistica.

Assai raramente, infatti, e principalmente in fonti extragiuridiche, prima dell'epistula dioclezianea da cui si son prese le mosse, si dà notizia di casi di omicidio commesso senza l'uso d’armi proprie[31].

All'inverso, per Quintiliano è invece – con valore definitorio - sicarius, dunque autore della condotta tipica ex lege Cornelia, colui il quale (per abusionem, cioè anche con arma diversa dalla sica) uccide telo quocumque:

 

Quintil., inst. or. 10.1.12. [...] nam per abusionem sicarios etiam omnis vocamus qui caedem telo quocumque commiserunt.

 

Ma, del pari, per

 

Isid., etym. 10.252: sicarius vocatur quia ad perpetrandum scelus telis armatus est. Sica enim gladius est, a secando vocatus.

 

 

4. – In questa luce, verrebbe assai più semplice comprendere il rescritto adrianeo riportato da Ulpiano e traditoci da

 

Coll. 1.6.1 Ulpianus 7 de officio proconsulis sub tit. de sicariis et ueneficis. distinctionem casus et uoluntatis in homicidio seruari rescripto Hadriani confirmatur. (2) Uerba rescripti: "et qui hominem occidit absolui solet, sed si non occidendi animo id admisit: et qui non occidit, sed uoluit occidere, pro homicida damnatur",

 

e più ancora, la parafrasi della stessa fonte normativa operata da Marciano[32] in

 

D. 48.8.1.3 (Marcian. 14 inst.) Divus Hadrianus rescripsit eum, qui hominem occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse, et qui hominem non occidit, sed vulneravit, ut occidat, pro homicida damnandum: et ex re constituendum hoc: nam si gladium strinxerit et in eo percusserit, indubitate occidendi animo id eum admisisse: sed si clavi percussit aut cuccuma in rixa, quamvis ferro percusserit, tamen non occidendi animo. Leniendam poenam eius, qui in rixa casu magis quam voluntate homicidium admisit.

 

da leggere, infine, nello specchio epiclassico di

 

PS 5.23.3 (= Coll. 1.7.1) Qui hominem occidit, aliquando absolvitur et qui non occidit, ut homicida damnatur: consilium enim uniuscuiusque, non factum puniendum est. Ideoque si cum vellet occidere, casu aliquo perpetrare non potuit, ut homicida punitur: et is qui casu iactu teli hominem inprudenter ferierit, absolvitur. (2) Quod si in rixa percussus homo perierit, quoniam ictus quoque ipsos contra unumquemque contemplari oportet, ideo humiliores in ludum aut in metallum damnantur, honestiores dimidia parte bonorum multati relegantur.

 

Così, il fatto che le due fattispecie represse ex lege Cornelia de sicariis fossero l'una un reato di danno (l’omicidio) l'altra di pericolo (l’ambulare cum telo), raffigurabili tuttavia anche in un rapporto nel quale l'una rappresenti la lesione compiuta e realizzata del bene giuridico-vita solo (eventualmente) programmata e (potenzialmente) messa in pericolo con l'altra[33] e, quindi, che per tale ragione debba logicamente presupporsi l'identità dei mezzi esecutivi della condotta compiutamente lesiva e di quella di messa in pericolo, prepara il giusto sfondo alla dialettica tra voluntas e casus, tra consilium e factum[34].

Si comprende, cioè, perché il rapporto omicidio-uso di arma propria possa essere divenuto “topico”[35] nell’argomentazione giuridica al fine di addivenire, caso per caso, ad una soluzione sulla volontarietà punibile e sulla involontarietà non punibile ex lege Cornelia.

Ne discende che, presupponendo la nozione di omicidio punibile ex lege Cornelia ancorata al dolo, da un lato, e “topicamente” ad una particolare modalità attuativa della condotta violenta dall’altro, giocano un ruolo decisivo sia la voluntas sia la stessa articolazione in concreto della condotta di specie a fronte, ad esempio, della distinzione presente nei passi surriportati onde punire il non omicida o assolvere chi ha causato l'evento morte.

In tal modo quest'ultimo può andare esente da pena, benché nell'azione si sia avvalso di un mezzo normalmente idoneo alla causazione dell'evento tipico (is qui casu iactu teli hominem inprudenter ferierit), quando il rapporto tra condotta ed evento è imputabile al casus e pertanto non è supportato dalla voluntas, normalmente resa esplicita dal mezzo esecutivo utilizzato. All'inverso, ma per la medesima logica, deve punirsi chi cum vellet occidere, casu aliquo perpetrare non potuit (che in Marciano è qui hominem non occidit, sed vulneravit, ut occidat) perché anche in questa ipotesi il rapporto tra (mancato) evento e condotta è riferibile al casus, capace qui di sviare la voluntas dalla direzione normalmente resa esplicita dal mezzo esecutivo utilizzato.

Il casus è dunque l'elemento che, a seguito dell'analisi della fattispecie concreta, permette il cambiamento di segno del rapporto tra volizione (topicamente deducibile dall'uso del mezzo esecutivo) ed evento, legittimando l'enunciazione del principio "consilium uniuscuiusque, non factum puniendum est", nella quale consilium è l'animus occidendi generalmente previsto dalla Cornelia per l'imputazione tanto del factum – omicidio consumato quanto del factumesse cum telo, reato perfezionato di pericolo.

Tutt'altra portata ha, a mio avviso, l'affermazione di Paolo in

 

D. 48.8.7 (Paul. l. sing. de publ. iudic.) In lege Cornelia dolus pro facto accipitur. neque in hac lege culpa lata pro dolo accipitur. quare si quis alto se praecipitaverit et super alium venerit eumque occiderit, aut putator, ex arbore cum ramum deiceret, non praeclamaverit et praetereuntem occiderit, ad huius legis coercitionem non pertinet.

 

Lungi dall'aver qualsiasi rapporto con la problematica del tentativo[36], la relazione disegnata dal giurista tra dolo e fatto, visto il contesto "casistico" nel quale è inserita[37], non può non significare che il dolo necessario al fine dell’imputazione soggettiva della condotta omicidiaria ex lege Cornelia è il solo dolo intenzionale e diretto[38] (in cui cioè sia piena tanto la volizione quanto la rappresentazione dell'evento)[39] e che tali caratteri della volontà punibile debbano ricavarsi dalla diagnosi del fatto concreto[40]. E, difatti, nella casistica portata da Paolo a esplicazione della regula, si descrivono fattispecie nelle quali l'evento è causato con modalità diverse da quelle "topiche" dell'uso di arma propria.

Poiché in tal modo si dimostra definitivamente che è assai lontano dal pensiero giuridico romano l’idea di una partizione del reato, deve dedursi che, nella giurisprudenza classica, il fatto come condotta viene concepito, considerato e valutato unitariamente tanto nelle sue modalità attuative quanto nell’elemento volitivo che lo sorregge, anzi quest’ultimo, come detto, deve dedursi da quelle[41].

In conclusione: è punibile ex lege de sicariis colui che abbia posto in essere una condotta esattamente sussumibile sotto le fattispecie tipiche previste dalla norma incriminatrice, e cioè chi è portatore di un telum hominis necandi causa o chi ha provocato la morte di un uomo (“normalmente” quando la morte è conseguenza dell’utilizzazione di un telum, cioè un lapis, lignum ferrum, quod in manu cuiusdam mittitur).

Entrambe le condotte considerate nella Cornelia sono da considerarsi in sé volontarie[42]; in particolare quella del reato di evento, descritta dal qui hominem occiderit, è dolosa e perciò punibile nella misura in cui l’interprete deduca la volontà maligna dallo strumento utilizzato (in quanto normalmente astrattamente idoneo a uccidere) e, comunque, dalle modalità di produzione dell’evento lesivo. Ogni articolazione dell'elemento psicologico diversa dal dolo intenzionale e diretto comporta l'inapplicabilità al fatto della lex de sicariis.

 

 

5. – Solo accettando questi presupposti possono comprendersi, a mio avviso, le logiche che sottendono le solutiones elaborate dai giuristi e dagli imperatori nella casistica pervenutaci del II e del III sec. d.C.

Si veda quanto disposto da Adriano in un rescritto di cui conosciamo una doppia versione, una contenuta nel già riportato Marcian. D. 48.8.1.3, l'altra, probabilmente in originale, riferitaci in

 

Coll. 1.6.1 Ulpianus 7 de officio proconsulis sub tit. de sicariis et ueneficis. distinctionem casus et voluntatis in homicidio servari rescripto Hadriani confirmatur. (2) Uerba rescripti: “et qui hominem occidit absolui solet, sed si non occidendi animo id admisit: et qui non occidit, sed uoluit occidere, pro homicida damnatur”. (3) “E re itaque constituendum est: ecquo ferro percussit Epafroditus? Nam si gladium instrinxit aut telo percussit, quid dubium est, quin occidendi animo percusserit? Si claue percussit aut cucuma aut, cum forte rixaretur, ferro percussit, sed non occidendi mente”. (4) “Ergo hoc exquirite et si uoluntas occidendi fuit, ut homicidam servum supplicio summo iure iubete affici”.

 

Il fatto[43], così come descritto da Ulpiano quale esempio della stessa generale distinzione tra casus e voluntas, è quello che riguarda il servo Epafrodito il quale, nel corso di una rissa, ha ucciso[44] utilizzando non un’arma preposta normalmente all’offesa, ma un oggetto comunque di ferro[45], affermando però che non voleva l’evento poi in concreto realizzatosi.

Il discrimine della volontà colpevole sembra dipendere, nella versione ulpianea del rescritto, primariamente dalla soluzione che può darsi al quesito posto dall'imperatore circa la natura stessa del ferrum con cui ha colpito Epafrodito. Se costui avesse usato un gladium o un telum, infatti, non vi sarebbe dubbio che avesse percosso occidendi animo. Ciò perché l’idoneità in astratto dello strumento utilizzato alla causazione dell'evento effettivamente realizzatosi, paleserebbe in sé l’esistenza di quella volontà. Ma Epafrodito ha colpito, in rixa (in un contesto di fatto, cioè, in cui volontà di offesa e di difesa tendono a coesistere[46]) e con un utensile di ferro trovato sul posto, normalmente inidoneo ad una condotta omicidiaria[47]. Può opporre, perciò, di aver colpito non occidendi mente, poiché dalla diagnosi del fatto non emergono elementi da cui oggettivamente (o in modo topico-presuntivo) dedurre né volizione, né rappresentazione dell'evento-morte[48]. Per Adriano/Ulpiano è necessario dunque verificare aliunde la voluntas occidendi, riscontrata la quale seguirebbe la pena del summum supplicium (irrogabile all'autore in quanto servo)[49]. Ne consegue che il giurista di Tiro, seguendo Adriano, reputa concretato il crimen non già per l’evento-morte imputabile al suo autore, come nel caso in esame, per l'astratta prefigurabilità dello stesso all’atto del porre in essere una qualsiasi condotta violenta contro la persona, ma al riscontro dell’effettivo insorgere di una volontà, nel corso della rissa, anche solo eventualmente indirizzata alla produzione dell'evento poi effettivamente realizzatosi, tenendo conto che questo si è poi concretato con l’uso di uno strumento (se non astrattamente) effettivamente (ferro) idoneo alla sua causazione[50].

Si individua così l'ipotesi-limite entro la quale risulta punibile la voluntas che non si rappresenti come dolo intenzionale e diretto: oltre tale ipotesi vi è il casus, il non occidendi animus che legittima, per prassi che così sembrerebbe essere consolidata, l'absolvi solet[51].

Diversamente, in Marciano – che dall’opera di Ulpiano ricava probabilmente il materiale criminalistico dei suoi lavori, spesso, come nel caso di specie, tendendo ad astrarne regulae – la punibilità in generale di un fatto quale quello descritto nella costituzione adrianea è rimessa, probabilmente, alla discrezione dell'organo giudicante (absolvi posse) che può irrogare una poena lenior rispetto a quella edittale della lex Cornelia.

La contraddizione con Adriano/Ulpiano è evidente, giacché la regola, cui l'imperatore strettamente si attiene ampliando semmai l'area della voluntas punibile, imporrebbe che la mancanza di animus occidendi determini di per sé la necessità dell’assoluzione. Al contrario, il ragionamento svolto nelle Institutiones, manipolando il rescritto di Adriano, non fa perno sull'indagine circa il rapporto intercorrente tra voluntas ed evento, deducendo la prima dalla diagnosi del fatto concreto, cioè dalle circostanze e dalle modalità attuative della condotta, ma si assumono queste ultime (l'uso di un oggetto “improprio” di ferro – anzi, quamvis ferro –; la rissa) come gli elementi del fatto da cui "topicamente" dedurre la mancanza di animus occidendi, dunque la non imputabilità dell'evento al suo autore nella forma del dolo, tanto che, si dice, l'homicidium è da attribuirsi casu magis quam voluntate. Ciò, tuttavia, non conduce all'assoluzione, come si dovrebbe per l'applicazione della norma della lex de sicariis, ma, all'inverso, permette un giudizio a posteriori di riprovevolezza di quella condotta che giustifica l’irrogazione comunque di una sanzione, benché lenior e quindi, necessariamente, extra ordinem[52].

In definitiva, diversamente da quanto richiesto da Adriano nel suo rescritto, di individuare, cioè, se l'evento sia imputabile al casus o alla voluntas attraverso un’analisi diretta dell’elemento soggettivo (originario o insorto successivamente) in capo all’omicida durante la rissa, Marciano costruisce un criterio di imputazione (in rixa casu magis quam voluntate)[53] esplicitamente "misto" di voluntas e casus, che sembra esprimere in radice il modello della preterintenzione[54] e rappresentare il caso maggiormente esemplificativo del criterio di imputazione soggettiva "impetu"[55], intermedio tra quello della piena voluntas delinquendi ("proposito") e il casus, teorizzato dallo stesso giurista nei libri de publicis iudiciis[56]:

 

D. 48.19.11.2 (Marcian. 2 de publ. iudic.) Delinquitur autem aut proposito aut impetu aut casu. proposito delinquunt latrones, qui factionem habent: impetu autem, cum per ebrietatem ad manus aut ad ferrum venitur: casu vero, cum in venando telum in feram missum hominem interfecit.

 

Ora solo vedendo estesa fino all'impetus l'area del dolo[57] (ma dovrebbe con ciò darsi per inverato l'assunto che possa essere considerato effetto di una condotta dolosa l'evento causato casu magis quam voluntate), potrebbe dirsi che l'omicidio preterintenzionale fosse parificato al doloso[58], e, dunque, punibile la preterintenzione in forza della stessa lex Cornelia; non però necessariamente deducendosi da ciò, come alcuni hanno autorevolmente sostenuto[59], che essa intendesse il dolo «solo come volontarietà dell’atto anziché come volontarietà dell'evento»[60], né che, «dopo Adriano [...] si credette conveniente di punire l'omicidio preterintenzionale extra ordinem più gravemente del fatto che era nella intenzione del colpevole»[61].

Più verosimile parrebbe, invece, l'ipotesi che Marciano segnali l'ingenerarsi di una tendenza a reprimere quale più lieve crimen extra ordinem l'omicidio anche nei casi in cui il modello di responsabilità riconoscibile nel caso concreto non fosse quello implicitamente richiesto dalla legge[62], il dolo, ma l'evento fosse comunque imputabile alla voluntas dell'agente (ricavabile "pro facto", dalle medesime modalità attuative della condotta), quand'anche in concorso con il casus[63].

 

 

6. – Parallelamente allo stesso risultato di ampliare l’area dell’omicidio punibile includendovi anche fatti imputabili al loro autore per mezzo di criteri diversi dal dolo intenzionale e diretto, sono indirizzati i rescritti di Caracalla e di Alessandro Severo riportati in

 

Coll. 1.8.1 Gregorianus libro IIII sub titulo ad legem Corneliam de sicariis et veneficis talem constitutionem ponit: Imperator Antoninus A. Aurelio Herculano et aliis militibus. Frater vester rectius fecerit, si se praesidi provinciae optulerit: cui si probaverit non occidendi animo Iustam a se percussam esse, remissa homicidii poena secundum disciplinam militarem sententiam proferet.

1.9.1 Item Gregorianus eodem titulo et libro talem constitutionem ponit. Alexander A. Aurelio Flavio et aliis militibus. Si modo pro quo libellum dedistis, non dolo praestitit mortem, minime perhorrescat: crimen quippe ita contrahitur, si et voluntas occidendi intercedat. Ceterum ea, quae ex improviso casu potius, quam fraude accidunt, fato plerumque, non noxae inputantur.

 

fusi dai Compilatori in

 

C. 9.16.1 pr. Imperator Antoninus A. Aurelio Herculiano et aliis militibus. Frater vester rectius fecerit, si se praesidi provinciae obtulerit: qui si probaverit non occidendi animo Iustum a se percussum esse, remissa homicidii poena secundum disciplinam militarem sententiam proferet. (1) Crimen enim contrahitur, si et voluntas nocendi intercedat. ceterum ea, quae ex improviso casu potius quam fraude accidunt, fato plerumque, non noxae imputantur.

 

ove si afferma, in apparente applicazione del precetto della Cornelia, che, benché si sia percussum (saxo, fusta, ferro D. 29.5.17.1; D. 48.8.1.3; gladio, D. 47.10.7.1)[64], è tuttavia remissa la pena dell’omicidio[65] a colui il quale abbia causato la morte non occidendi animo di qualcuno in conseguenza del percutere, poiché non dolo praestitit mortem, ma ex improviso casu potius quam fraude.

Se da un lato, perciò, parrebbe togliersi valore ermeneutico al criterio "topico" secondo il quale la voluntas viene a dedursi, di norma, dall’uso sciente di uno strumento idoneo ad un’offesa omicidiaria, dall’altro, articolandosi il giudizio di rimproverabilità della condotta, descritta come volutamente violenta e dunque astrattamente idonea alla produzione dell'evento poi effettivamente realizzatosi[66], sul criterio della "prevedibilità" di quest'ultimo, viene a ridisegnarsi il discrimine tra fraus e casus (improvisus): il prevalere di quest'ultimo sulla prima[67] esclude certo l’animus occidendi, e conduce all’assoluzione del reo – senza che si faccia questione circa l'irrogabilità della pena lenior proposta da Marciano[68] – nei limiti tuttavia della imprevedibilità e, quindi, dell’inevitabilità dell’evento, condizioni indispensabili perché il fatto in esame sia riconducibile al fatum e non susciti pertanto un giudizio di riprovevolezza sufficiente a giustificare l’irrogazione della pena criminale[69].

L’apparizione del limite esplicito della prevedibilità a delimitazione dell'area del casus non punibile, introduce all’analisi del rapporto che intercorre tra dolo e culpa e tra culpa e fortuito nella visione classica della repressione dell’omicidio.

Se teniamo conto infatti dell'esemplificazione di Marciano in D. 48.19.11.2, secondo la quale casu vero, cum in venando telum in feram missum hominem interfecit, riscontriamo che il giurista, avvalendosi  del caso (ormai di scuola)[70] risalente a

 

XII tab. 24: Si telum manu fugit magis quam iecit, aries subicitur,

 

che deve leggersi nello specchio della lex Numae riferita da

 

Servius in Virgilii ecl. 4.43. In Numae legibus cautum est, ut si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi agnatis eius in contione offerret arietem,

 

a sua volta connessa con l'altra, traditaci da

 

Fest. (Paul. Diac.), s.v. parrici‹di› quaestores [L. 247]: […] lex Numae Pompili regis his composita uerbis: “si qui hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas esto”[71]

 

sembra suggerire l'equiparazione di casus e inprudentia (come, d’altronde, poi nel succitato passo delle Sententiae PS 5.23.3.1 [= Coll. 1.7.1]) e, così, nell'esatta contrapposizione di casus e dolo, quella altrettanto netta tra dolo e culpa[72].

Se, da un lato, ciò comporterebbe una prima conclusione, ovvia alla luce di quanto fin qui detto, secondo la quale per il diritto romano, sin dall’età più risalente, l’omicidio è punibile con pena criminale solo se dolosamente concretato - anzi è omicidio, nel senso stretto del termine, solo quello in cui si è effettivamente voluto sia il fatto che l’evento, così che dall’ambito che lo riguarda è escluso ogni fatto non doloso - da altro lato, l’apparire, nei rescritti severiani sopra indicati, del criterio della prevedibilità al fine della delimitazione della nozione di casus, segnala una tensione all’interno della tendenziale equivalenza tra quest’ultima e quella di inprudentia, data invece per acquisita in molte delle fonti finora viste[73].

Dal momento, infatti, in cui si intende non punibile il casus improvisus in cui si è ingenerato omicidio, si intende, per l’inverso, punibile il non improvisus, il prevedibile: dunque, si mantiene l’equiparazione casus-inprudentia invertendone però il segno e cioè connettendo la lesione di regole cautelari di esperienza, in cui si sostanzia quest’ultima, con la prevedibilità dell’evento come conseguenza punibile di quella lesione.

Saremmo perciò nel campo dell’omicidio colposo punibile. Saremmo però altrettanto chiaramente fuori dall’ambito delle fattispecie represse ex lege Cornelia de sicariis.

Ora, dall’affermazione di Paolo in D. 48.8.7: neque in hac lege culpa lata pro dolo accipitur, viene confermato solo che per il perfezionamento del crimen ex lege Cornelia il dolo è il criterio minimo di imputazione soggettiva della responsabilità per omicidio, non essendo idonea a questa nemmeno la culpa lata, esemplificata dai casi del suicida che precipitandosi dall’alto uccida un passante[74] e del potatore di alberi che non preavvertendo della caduta del ramo determini la morte di chi sta transitando. Sia nell’uno che nell’altro caso non si avrebbe la coercitio huius legis.

Il parallelo con

 

D. 9.2.31 (Paul. 10 ad Sab.) Si putator ex arbore ramum cum deiceret vel machinarius hominem praetereuntem occidit, ita tenetur, si is in publicum decidat nec ille proclamavit, ut casus eius evitari possit. sed Mucius etiam dixit, si in privato idem accidisset, posse de culpa agi: culpam autem esse, quod cum a diligente provideri poterit, non esset provisum aut tum denuntiatum esset, cum periculum evitari non possit. secundum quam rationem non multum refert, per publicum an per privatum iter fieret, cum plerumque per privata loca volgo iter fiat. quod si nullum iter erit, dolum dumtaxat praestare debet, ne immittat in eum, quem viderit transeuntem: nam culpa ab eo exigenda non est, cum divinare non potuerit, an per eum locum aliquis transiturus sit.

 

nel quale in generale la medesima condotta del potatore comporta invece sottoposizione all’actio ex lege Aquilia[75] dà il segno esatto del discrimine tra sanzione criminale e sanzione privata che si appoggia per i romani al discrimine tra culpa e dolo o, meglio, che perfeziona a fini diversi quello che nella logica del diritto criminale è il non diverso discrimine tra casus e dolo e vi si individua l’ipotesi del potatore imprudente proprio perché configura un'ipotesi nella quale, come descritto in D. 9.2.31, l’evento morte fosse astrattamente prevedibile come conseguenza della condotta benché si confidasse nel suo non avverarsi; un caso cioè che nella moderna dommatica diremmo di colpa cosciente[76]. Introdotta successivamente, infatti, come meglio si vedrà, una forma di repressione dell'omicidio meno che doloso, anche al medesimo caso del putator sarà applicabile una sanzione criminale, extra ordinem[77], perché, ancora, in legem non incurrit[78]:

 

PS 5.23.12: Si putator, ex arbore cum ramum deiceret, non proclamavit, ut vitaretur, atque ita praeteriens eiusdem ictu perierit, etsi in legem non incurrit, in metallum datur.

 

 

7. – Dovremmo, dunque, ipotizzare che i casi in cui si prospetta la possibilità di una repressione criminale dell'omicidio concretatosi in forme meno che dolose (intendendosi, come s'è visto, il dolo nella sua forma intenzionale e diretta) poiché insussumibili sotto la norma incriminatrice della lex Cornelia de sicariis, dovessero rappresentare le specie di un nuovo crimen extra ordinem.

Non a caso nella sola fonte di mia conoscenza nella quale compare il termine culpa quale criterio di imputazione, l’omicidio viene evidentemente a reprimersi con modalità differenti  (anche se non in forme diverse[79]) da quelle del publicum iudicium ex lege de sicariis.

Si tratta del conosciutissimo caso[80] che è oggetto di una consultatio del proconsole della Betica rivolta ad Adriano e riportatoci in

 

Coll. 1.11.1 Ulpianus libro VII de officio proconsulis. Cum quidam per lasciuiam causam mortis praebuisset, conprobatum est factum Taurini Egnati proconsulis Baeticae a divo Hadriano, quod eum in quinquennium relegasset. (2). Uerba consultationis et rescripti ita se habent: "inter Claudium, optime imperator, et Euaristum cognoui, quod Claudius Lupi filius in conuiuio, dum sago iactatur, culpa Mari Euaristi ita male acceptus fuerit, ut post diem quintum moreretur. Atque adparebat nullam inimicitiam cum Euaristo ei fuisse. Tamen cupiditatis culpa coercendum credidi, ut ceteri eiusdem aetatis iuuenes emendarentur. Ideoque Mario Euaristo urbe Italia prouincia Baetica in quinquennium interdixi et decreui, ut impendi causa duo milia patri eius persolueret Euaristus, quod manifesta eius fuerat paupertas". (3) Uerba rescripti: "poenam Mari Euaristi recte, Taurine, moderatus es ad modum culpae: refert enim et in maioribus delictis, consulto aliquid admittatur an casu. (4) Et sane in omnibus criminibus distinctio haec poenam aut iustam prouocare debet aut temperamentum admittere.

 

La culpa, esplicitamente indicata nei verba consultationis del proconsole Taurino quale criterio di imputazione dell’omicidio, è presa in considerazione, nella descrizione del fatto lesivo - dunque quale elemento costitutivo dell'illecito[81] -, nella sua forma di lesione di regole doverose di condotta e cioè quale imprudenza, imperizia o negligenza dimostrate nel gioco pericoloso del sago[82] cui attendevano l'omicida Evaristo e la vittima Claudio[83].

Poiché il dolo è decisamente escluso, per le parole stesse del giudicante (adparebat nullam inimicitiam cum Euaristo ei fuisse), la fattispecie sarebbe stata (e difatti è stata) da considerare esterna all'area dell'homicidium ex lege de sicariis: dunque coincidente con le ipotesi normalmente incluse sotto la specie del casus non punibile con pena criminale.

Ma non per quella culpa[84] viene irrogata dal proconsole e approvata dall'imperatore (che la reputa correttamente dosata ad modum culpae) la poena extra ordinem della relegatio quinquennii[85], bensì per la cupiditatis culpa[86], che Ulpiano definisce lascivia[87], che muove i giovani al gioco "inutilmente" pericoloso nel cui svolgimento, inoltre, non può, per esperienza consolidata, escludersi la previsione dell'evento poi in concreto verificatosi, accettandone o meno il rischio[88].

Nulla, a ben vedere, dal punto di vista del criterio di imputazione farebbe differire la condotta del giovane giocatore di sago da quella dell’imprudens lanciatore di telum o del putator negligente (indenni da pena criminale) se non l’accettazione sociale della pericolosità implicita dell’azione di costoro a fronte dell'inadeguatezza, alla stregua del medesimo indice, della condotta del primo, il quale, come s'è detto, pone in essere un’attività pericolosa non fondata su una necessità socio-economica capace di supportare il rischio del prevedibile evento morte a quella condotta eziologicamente collegabile in astratto[89]. È in tal modo che si spiegano le esplicite finalità generalpreventive[90] perseguite con l'irrogazione della pena, e cioè far discendere dal reprimere condotte futilmente pericolose il dissuadere altri dal riprodurle.

 

 

8. – Per giungere alle conclusioni e per verificare dunque se i postulati di partenza possono dirsi dimostrati, manca un'altra veloce rilettura di alcune delle fonti finora utilizzate da operare tenendo presente il valore e la qualificazione in ciascuna assunti dal termine casus.

È casu aliquo in Coll. 1.7.1 che chi voleva uccidere non abbia effettivamente causato l’evento e perciò va punito; così come nella medesima fonte è casu che il lanciatore di telum che non voleva uccidere, ma l'evento s'è verificato, verrà assolto. Qui casus (senza aggettivazione) rappresenta il fattore idoneo ad interrompere il nesso psicologico che è, nella previsione dell’agente, tra l’atto  voluto e la sua conseguenza, in entrambi i casi disvoluta. Il casus, incontrollabile, non è imputabile all’agente tanto che sia a suo vantaggio quanto che non lo sia[91]. Ne discende che, come s’è detto, viene a punirsi o a non punirsi il consilium, la volontà dell’atto nella sua direzione di previsione dell'evento in astratto e non dell’evento effettivamente conseguente e/o non conseguito (factum).

Diversamente sta casus quando contrapposto a voluntas nella prima regula generale e astratta regolativa della materia rinvenibile in Ulpiano Coll. 1.6.1. Qui casus è criterio di imputazione soggettiva e riassume tutte le sfumature dell’elemento soggettivo dell’atto omicidiario diverso dal dolo, se voluntas e dolo (come appare da Paolo D. 48.8.7) tendono a coincidere[92].

D’altra parte se si considera che il casus, in forza del quale si esclude la responsabilità e la sottoposizione a pena in Coll. 1.9.1 e in C. 9.16.1 (tanto che si imputa così l’evento fato potius quam fraude), viene aggettivato improvisus, talché l'evento non è né previsto né prevedibile (ma senza che si specifichi se tale imprevedibilità sia accertabile con diagnosi ex ante o ex post); se inoltre si considera che anche la medesima prevedibilità in astratto dell’evento non è comunque in sé ascrivibile sempre al dolo, ma anzi configura in sé una specie precisa della culpa, tanto che viene così a legittimarsi il caso di repressione criminale dell’omicidio colposo descritto nell’epistula adrianea relativa al caso del gioco del sago[93]; se si aggiunge infine che è questa è una delle due sole ipotesi[94] riportate nelle fonti di irrogazione di una pena (benché extra ordinem), per un’ipotesi di omicidio involontario (e commesso senza uso di armi proprie e improprie), si comprende in pieno, a mio avviso, il valore di regula generale ed astratta, capace di superare le ambiguità adrianeo-severiane e di sintetizzarne le conclusioni, che è del rescritto di Diocleziano da cui si sono prese le mosse[95].

La costituzione, infatti, prende in considerazione un fatto omicidiario commesso attraverso un’azione non topica (cioè senza uso d’arma) ma non utilizzando questo elemento del caso concreto in funzione di presunzione dell’elemento soggettivo dell’illecito (come nella casistica precedente) bensì come una mera opzione naturalistica dell’homicidium (capace perciò di ricomprendere anche i casi di punibilità in astratto di un qualsiasi omicidio colposo), riproducendo pertanto, e direi con logica conseguenza, il criterio severiano della colpevolezza fondato sulla prevedibilità dell’evento attraverso l'indicazione del suo limite negativo rappresentato dal fortuitus[96].

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Stante la «carenza in diritto romano di una teoria unitaria sull'elemento psicologico del reato» (G. MUCIACCIA, Sull'uso del termine «casus» nel diritto penale romano, in Atti del II Seminario romanistico Gardesano, Milano 1980, 339), valgano, per tutti, le osservazioni generali di C. GIOFFREDI, Su l'elemento intenzionale nel diritto penale romano, in Studi Grosso, III, Torino 1968, 46, utilizzabili anche in tema di elemento soggettivo del reato di omicidio, secondo le quali, «data la mentalità dei romani e quindi il carattere delle loro fonti giuridiche, l'esclusione o l'attenuazione della pena non è fatta conseguire a uno schema logico che preveda le varie forme di esclusione o attenuazione della responsabilità: in altre parole non si parte dalla responsabilità distinguendola in responsabilità per dolo, per colpa, per fatto preterintenzionale, né ad essa si affiancano quella che oggi chiamiamo la non punibilità per caso fortuito o forza maggiore o legittima difesa e le circostanze attenuanti e la cosiddetta impunibilità per vizio di mente o per minore età: i casi sono esposti confusamente senza essere fatti discendere da una teoria generale della 'colpevolezza'».

 

[2] Fuori dalla Compilazione, vd. Nov. Val. 19 "de homicidiis casu vel voluntate factis", su cui vd. A. WACKE, Fahrlässige Vergehen im römischen Strafrecht, in RIDA 26 (1979), 540 s.; MUCIACCIA, Casus, cit., 352 ss., che imputa all'atto normativo l'origine (a mio avviso non tenendo conto sufficientemente del dettato di Coll. 1.10.1 = C. 9.16.4[5]) dell'ampliamento fino ai limiti del fortuito della repressione dell'omicidio.

 

[3] F. WIEACKER, Le droit romain de la mort d'Alexandre Sévère à l'avènement de Dioclétien (235-294 apr. J.-C.), in RHDE 49 (1971), 219.

 

[4] E. VOLTERRA, Il problema del testo nelle costituzioni imperiali, in La critica del testo, Atti del II congr. int. di Storia del Diritto, Firenze 1971, 1038 s.

 

[5] Vd. W. TURPIN, Adnotatio and Imperial Rescript in Roman Legal Procedure, in RIDA 35 (1988), 285 ss. (ove precedente letteratura); R. MATHISEN, Adnotatio and petitio:the Emperors favor and special exceptions in the early Byzantine Empire, in La pétition à Byzance (curr. D. FEISSEL-J. GASCOU), Paris 2004, 23 ss.

 

[6] J.D. CLOUD, The primary purpose of the lex Cornelia de sicariis, in ZSS 68 (1969), 262; B. SANTALUCIA, Omicidio, in Studi di diritto penale romano, Roma, 1994, 125 ss. (vd. Coll. 1.3.2).

 

[7] Sottolinea tale elemento come decisivo nella redazione della costituzione dunque nella soluzione data al caso dalla cancelleria dioclezianea, WACKE, Vergehen, cit., 540, rimarcandone, però, il dato in ragione della pericolosità intrinseca della condotta con cui si è generato l'evento lesivo. Il rapporto tra pericolosità dell'azione e esito lesivo è infatti utile nella ricostruzione dell'A. tedesco per tenere unita la decisione assolutoria dioclezianea di un caso di omicidio involontario con le soluzioni adottate nella precedente riflessione giurisprudenziale e autoritativa di età adrianeo-severiana, ove, secondo Wacke, l'innovazione di reprimere la culpa nell'omicidio è dipendente dalla volontà (in definitiva general preventiva) di reprimere casi di mala exempla.

 

[8] Diversamente, MUCIACCIA, Casus, cit., 353.

 

[9] Non a caso, a mio avviso, diversamente da quanto vedremo nelle fonti di età classica, La descrizione, attraverso i modi di consumazione, dell'omicidio punibile che dà Giustiniano è significativamente la seguente: Nov. 22.15.1 «[...] h] farmavkoi~ h} xivfei h} kaqV e{teron toiou`tovn tina trovpon (pollai; de; ajnqrwvpoi~ aiJ pro;~ kakivan oJdoiv) [Auth. Sive venenis sive gladio sive alio simili modo (multae enim hominibus ad flagitium viae sunt)]». Cfr. Nov. 22.15.2.

 

[10] Dolo malo. «La regola è che niun delitto sussiste senza il dolo. E questo è vero fin dai primi tempi pei crimini colpiti da pena pubblica»: C. FERRINI, Diritto penale romano. Teorie generali, Milano 1899, 77 (vd. anche 86, in cui l'equiparazione, per la lex Cornelia, di animus occidendi e dolo), e l'omicidio viene riportato quale esempio tipico di reato punito esclusivamente nella sua forma dolosa (il riferimento immediato sembra la legislazione numana). La tesi opposta (rinverdita, più recentemente, da G. POLARA, Marciano e l'elemento soggettivo del reato, in BIDR 77 [1974], 103 ss.) per la quale stadio originario di ogni diritto sarebbe stata una «fase materiale oggettiva» in cui si imputa oggettivamente l'evento morte all'autore sulla scorta del solo nesso eziologico, è avversata dall'A. perché non tiene conto delle «testimonianze specifiche della storia del diritto romano [e dei] risultati delle indagini comparative» (in ordine alle quali vd. anche e correttamente ora M.U. SPERANDIO, Dolus pro facto. Alle radici del problema giuridico del tentativo, Napoli 1998, 135 ove si cita la cognitio Caesaris Augusti de caede Cnidi facta [FIRA III, 582 ss.] ll. 24-25). Altrove (Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale. Estratto dall'Enciclopedia del Diritto Penale Italiano dir. da E. Pessina, rist. Roma 1976, 40 e ntt. ove precedente letteratura) FERRINI afferma che «è naturale che, finché vige il principio della vendetta privata, l'elemento intenzionale venga meno in considerazione; da una parte manca l'autorità idonea a constatarla, dall'altra l'ira dell'offeso sorge pel fatto stesso del male patito».

 

[11] W. KUNKEL, Quaestio, in Kleine Schriften, Weimar 1974, 64 ss.

 

[12] CLOUD, The primary purpose, cit., 258 ss.

 

[13] SANTALUCIA, Omicidio, cit., 119.

 

[14] J.L. FERRARY, Lex Cornelia de sicariis et veneficis, in Athenaeum 79 (1991), 420 ss.

 

[15] Ora, per tutti, A. NOGRADY, Römisches Strafrecht nach Ulpian. Buch 7 bis 9 De officio proconsulis, Berlin 2006, 157.

 

[16] F. WIEACKER, Textstufen klassischer Juristen, Göttingen 1960, 402 s.; POLARA, Marciano, cit., 101.

 

[17] U. BRASIELLO, Sulla ricostruzione dei crimini in diritto romano. Cenni sulla evoluzione dell'omicidio, in SDHI 42 (1976), 254.

 

[18] Per POLARA, Marciano, cit., 101, con tutta diversa prospettiva «atti che, pur non essendo di per sé comportamenti materiali antigiuridici, sono comunque, per il legislatore, configurabili come reati»; «azioni umane per loro natura non punibili» (ibidem, 104).

 

[19] Cfr. Claud. Sat. (l.s. de poenis pag.) D. 48.19.16.8 "lex non minus eum qui occidendi hominis causa cum telo fuerit quam eum qui occiderit puniat". Vd., tra gli altri, soprattutto, R. BONINI, D. 48.19.16, Claudius Saturninus: De poenis paganorum, in RISG 10 (1959-62), 175 ss.; cfr. 159; G. SPOSITO, ‘Quattuor genera … septem modis’: Le circostanze del reato in D. 48.19.16 (Claudius Saturninus de poenis paganorum), in SDHI 65 (1999), 107; M.U. SPERANDIO, Dolus pro facto, cit., 147 ss.

 

[20] R.A. BAUMAN, The ‘leges iudiciorum publicorum’ and their Interpretation in the Republic, Principate and Late Empire, in ANRW II.13, New York-Berlin 1980, 121 ss. Vd. ora anche G.P. DEMURO, Il dolo I, svolgimento storico del concetto, Milano 2007, 54, che vede effetto delle influenze stoiche la formazione di un «diritto penale della volontà», al posto di un diritto penale del fatto, all'inizio dell'impero, da cui, dunque, l’“innovazione” ipotizzata da Bauman.

 

[21] TH. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, 615; SANTALUCIA, Omicidio, cit., 119.

 

[22] Coll. 1.3.2 [...] Compescit item eum, qui hominem occidit, nec adiecit cuius condicionis hominem, ut ad seruum et peregrinum pertinere haec lex uideatur. Cfr. D. 48.8.1.2.

 

[23] FERRINI, Esposizione, cit., 48: «l'elemento soggettivo [il dolo] qui non è escluso ma sottinteso e si eruisce del resto dalle altre parole della legge medesima»; C. GIOFFREDI, I principii del diritto penale romano, Torino 1970, 78 s. «il dolo è presunto nella lex Cornelia». Vd. altresì SANTALUCIA, Omicidio, cit., 122. Contra, meno persuasivamente, POLARA, Marciano, cit., 89 ss.

 

[24] Vd. D. NÖRR, Causa mortis, München 1986, 90.

 

[25] SANTALUCIA, Omicidio, cit., 123:«con la lex Cornelia de sicariis et veneficis, [...] deferiva al giudizio della quaestio non soltanto l'omicidio perpetrato con armi o per mezzo di sostanza venefiche, ma anche altre azioni criminose (come l'ambulare cum telo [...]) che pur essendo solo indirettamente suscettibili di cagionare la morte di un uomo costituivano, per la loro particolare gravità, un pericolo per la pace sociale».

 

[26] D. 50.16.233.2 (Gai. 1 ad l. XII tab.): "telum" volgo quidem id appellatur, quod ab arcu mittitur: sed non minus omne significatur, quod mittitur manu: ita sequitur, ut et lapis et lignum et ferrum hoc nomine contineatur et rell.

 

[27] Vd. Isid., Orig. 1.12.4: Causales dicuntur a causa eo, quod aliquid cogitent facere, ut puta, "occido illum, quia habet aurum"; causa est. Rationales dicuntur a ratione, qua quisque utitur in faciendo, ut "quomodo eum occidam, ne agnoscar? veneno an ferro?". Ipotizza che l'animus occidendi si deduca dalle circostanze del fatto e in particolare dal mezzo utilizzato, F. CORDERO, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Bari 1999, 226 nt. 48. Ancora, ricavando motivi dal «deducting intention from the character of the tool used for committing the crime», K. AMIELANCZYK, The guilt of the perpetrator, in Labeo 46 (2000), 91 s. Vd. anche DEMURO, Il dolo, cit., 55 s. e nt. 130, che desume nelle fonti una «tecnica di accertamento del dolo che dalle circostanze esterne risale direttamente allo stato psichico». Vd. anche infra nt. 35.

 

[28] Vd. CLOUD, The primary purpose, cit., 261.

 

[29] Vd. NOGRADY, Strafrecht, cit., 159.

 

[30] Vd. infra. L’affermazione in testo, ovviamente, deve essere assunta al netto delle osservazioni di S. TONDO, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, 82 s., secondo il quale dolo(n) sarebbe sinonimo arcaico di sica (Plut., Tib. Gr. 10.7), onde nella lex Numae 16 l’individuazione dell’elemento soggettivo del crimen commesso si deferirebbe solo a “sciens”, “dolo” essendo ablativo strumentale.

 

[31] Apul., Met. 8.5.

 

[32] Sul rapporto tra le due fonti, vd. POLARA, Marciano, cit., 112 ss.; M. BALZARINI, Appunti sulla «rixa» nel diritto criminale romano, in Labeo 28 (1982), 20 ss.

 

[33] Vd. BRASIELLO, s.v. Tentativo, in NNDI 18, 1129 ss.; ID., Sulla ricostruzione, cit., 253 e nt. 20 (per il quale le due ipotesi di reato sono «un tutt'uno»); SANTALUCIA, Omicidio, cit., 120, con qualche piccola correzione dogmatico-ricostruttiva. Altre osservazioni in L. RODRIGUEZ ÁLVAREZ, La tentativa de homicidio en la jurisprudencia romana, in AHDE 49 (1979), 5 ss., poi sostanzialmente riprodotto, per la parte che interessa in ID., Nueva aproximación al tema del «veneficium», in Labeo 37 (1991), 326. A parere di NOGRADY, Strafrecht, cit., 167, è solo a partire dal I sec. d.C. (e per la precisione da Sen., de ben. 5.14.2) che si avrebbe un nuovo significato del rapporto tra le due clausole della lex Cornelia, così che si possa prendere «die cum telo-Klausel als Indiz für das Erfordernis des Tötungsvorsatzes» e contrapporre «die telum-Form der factum perfectum-Form».

 

[34] È in tal direzione che si muove, non erroneamente a mio avviso, anche CLOUD, The primary purpose, cit., 286, per il quale il rescritto di Adriano che vedremo in Coll. 1.6 e in D. 48.8.1.3 rappresenta «the final stage in a series of discussions about voluntas that go back to the late Republic [...] the tendency to misunderstand the qui cum telo ... clause in a personal and 'psychological way of the man who has animus occidendi, but for reasons outside his control has not yet completed the deed. Thus going about with a weapon is regarded as being a sign of homicidium imperfectum, an objective proof of a subjectively murderous disposition; in other words, it is assimilated to murder, whereas in Sulla's day it would have been truer to say that murder was assimilated to it». Così anche per A. LEBIGRE, Quelques aspects de la responsabilité pénale en droit romain classique, Paris 1967, 74 nt. 3, secondo il quale l'opera delle cancellerie del periodo è finalizzata alla individuazione di linee direttrici che superino il quadro dei casi proposti all'attenzione del Principe. Ciò non significa – e bene lo evidenzia SPERANDIO, Dolus pro facto, cit., 122 ss., con fonti a supporto – che il termine voluntas compaia nel linguaggio giuridico romano (nella funzione propria che ha nei rescritti del secondo secolo) a partire da Adriano, come, invece, reputa L. WINKEL, «Sciens dolo malo» et «ope consiliove»: ancêtres des conceptions modernes?, in Mél. Wubbe, Freiburg 1993, 576.

 

[35] BALZARINI, Rixa, cit., 22 s., parla in proposito di «una presunzione iuris et de iure in ordine all'esistenza dell'animus basata sull'idoneità del mezzo adoperato dall'agente per percuotere la vittima».

 

[36] F. CANCELLI, s.v. Dolo, in ED 13, Milano 1964, 723. Ricognizione esaustiva della letteratura sul punto in POLARA, Marciano, cit., 109 s. nt. 42. Gioca qui un ruolo determinante la correlazione rinvenuta spesso in dottrina tra il passo di Paolo in esame, Coll. 1.6.1 (vd. infra) e D. 48.8.14 (Call. 6 de cogn.) Divus Hadrianus in haec verba rescripsit: 'in maleficiis voluntas spectatur non exitus', frammento quest'ultimo che, al di là della collocazione compilatoria e della possibile congruenza con il rescritto riportato nel passo della Collatio succitato (vd. POLARA, Marciano, cit., ibidem), sembrerebbe prestarsi a descrivere (J.C. GENIN, La répression des actes de tentative en droit criminel romain: contribution à l'étude de la subjectivité répressive à Rome, Lyon 1968, 101) «l'ipotesi in cui pur non essendo seguito l'evento, vi è però la prova del disegno criminoso e dunque si dichiara la punibilità del tentativo» (DEMURO, Il dolo, cit., 51). Critiche a quest'assunto in SPERANDIO, Dolus pro facto, cit., 106 ss. e soprattutto 113 nt. 19. Su D. 48.8.14, vd. R. BONINI, I “libri de cognitionibus” di Callistrato, Milano 1964, 106 ss.

 

[37] Esegesi accurata in WACKE, Vergehen, cit., 516 ss.

 

[38] Vd. FERRINI Esposizione, cit., 51. Ora, DEMURO, Il dolo, cit., 43, con precedente letteratura.

 

[39] Vd. Cic., Pro Tull. 10: "Quod ergo eo animo factum est, […] ut homines caedem fecerent, id si voluerunt et cogitarunt et perfecerunt, potestis eam voluntatem, id consilium, id factum a dolo malo seiungere?". Cfr. FERRINI, Teorie, cit., 103.

 

[40] Vd. GIOFFREDI, I principii, cit., 78.

 

[41] D. 44.4.1.2 (Paul. 71 ad ed.) Sed an dolo quid factum sit, ex facto intellegitur.

 

[42] All'inverso, POLARA, Marciano, cit., 107, afferma che il passo di Paolo è portatore di un contenuto repressivo che intende colpire «la volontà interiore del soggetto, attribuendo ad essa una qualificazione antigiuridica, anche quando ancora non è stato compiuto alcun atto materiale vietato». Il dolo è, cioè, «punito come se fosse un fatto materiale come cioè, se la volontà interiore del soggetto costituisse da sola un reato a prescindere dall'esistenza di un comportamento lesivo dell'altrui diritto».

 

[43] Sul passo, da ultimi, V. MAROTTA, Multa de iure sanxit. Aspetti della politica del diritto di Antonino Pio, Milano 1988, 174 ss.; E. HÖBENREICH, Überlegungen zur Verfolgung unbeabsichtigter Tötungen von Sulla bis Hadrian, in ZSS 107 (1990), 295 ss.; SPERANDIO, Dolus pro facto, cit., 128 ss.; NOGRADY, Strafrecht, cit., 167 ss.

 

[44] O tentato di uccidere, vista la scarsa chiarezza circa l'effettivo rapporto che intercorre tra il principio posto quale incipit dei verba rescripti da Adriano/Ulpiano e il caso concreto giudicato. Sulle diverse opzioni in proposito selezionate in dottrina, vd. – con la solita visione critica – M. TALAMANCA, Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR 80 (1977), 285 nt. 191.

 

[45] Considerazioni sul punto in BALZARINI, Rixa, cit., 25; 31 s., ma, assai più condivisibili quelle di NOGRADY, Strafrecht, cit., 168 ss. e praecipue, 172.

 

[46] BALZARINI, Rixa, cit., 34 e ntt. Cfr. D. 9.2.52.1 e D. 44.7.20. Pertanto, poiché «è pacifico che i rissanti intendano ledersi», sarebbe qui considerato, se perfezionato, un omicidio preterintenzionale per MUCIACCIA, Casus, cit., 351.

 

[47] WACKE, Vergehen, cit., 543. Diversa l'interpretazione di ferrum che in un'alternativa esegesi del passo dà SPERANDIO, Dolus pro facto, cit., 132.

 

[48] Così F.M. DE ROBERTIS, La variazione della pena «pro modo admissi», in Studi di diritto penale romano, Città di Castello 1942, 163. Diversamente BALZARINI, Rixa, cit., 24 ss. per il quale il parametro dell'idoneità del mezzo lesivo, al fine di orientare la eventuale dichiarazione di involontarietà della condotta lesiva, deve essere, per lo stesso dato testuale, accompagnato dall'altro, altrettanto oggettivo, dell'essersi concretata "in rixa" che, anzi, è circostanza prevalente a quel fine, perché la stessa richiesta imperiale di ricerca della voluntas occidendi si connette non solo con la necessità del riscontro di elementi presuntivi (o topici), ma considera la rissa «in virtù della difficoltà di stabilire se, nel caso concreto, fosse presente o meno, nell'agente già individuato, la volontà di uccidere».

 

[49] Sulla problematiche della poena ex lege Cornelia (deportatio: Marcian. [14 Inst.] D. 48.8.3.5; Mod. [3 poen.] D. 48.8.16; PS 5.23.1) vd., da ultima, HÖBENREICH, Überlegungen, cit., 300 e nt. 166; 303 e nt. 169.

 

[50] Così, sembra, NOGRADY, Strafrecht, cit., 170 ss., praecipue 172 ove, condivisibilmente, si dice che «Epafroditus nicht lediglich ut homicidam, wie ein Mörder zu verurteilen gewesen wäre [...], sondern direkt unter den Grundtatbestand der Lex Cornelia gefallen wäre».

 

[51] Vd., per tutti, HÖBENREICH, Überlegungen, cit., 304.

 

[52] SANTALUCIA, Omicidio, cit., 127 s.

 

[53] Considerazioni in HÖBENREICH, Überlegungen, cit., 301 s. e ntt.

 

[54] POLARA, Marciano, cit., 117: «è palese che seppur mancava l'animus occidendi, sicuramente non si era privi della volontà di arrecare un danno». Vd. altresì, ibid., 123 s. «né Adriano, né Alessandro Severo conoscono la figura dell'omicidio preterintenzionale».

 

[55] DE ROBERTIS, La variazione, cit., 145; 163 nt. 4, richiamando Diocl. et Maxim. C. 9.35.5 «si in rixa inconsulto calore prolapsus homicidii convicium obiecisti»; WACKE, Vergehen, cit., 541 ss. Contra BALZARINI, Rixa, cit., 27 e nt. 31.

 

[56] Su cui, soprattutto, POLARA, Marciano, cit., 90 ss. Precedentemente, quale teorizzazione propria di Marciano, A. LÖFFLER, Die Schuldformen des Strafrechts in vergleichend-historischer und dogmatischer Darstellung, Leipzig 1895, 82.

 

[57] Dibattito ottocentesco in FERRINI, Teorie, cit., 97 s. Sulla distinzione dolo di proposito - dolo d'impeto, ancora, ibidem, 88; 93 e soprattutto 95 ss. Più chiaramente, sul punto, ID., Esposizione, cit., 46 s.: impetus è «uno stato in cui la parte affettiva prevale sulla cogitativa», ma che non esclude il dolo e dunque la punibilità ex lege Cornelia. Vd. altresì, Cic., de inv. 2.5.17; Rhet. ad Her. 2.16 e, soprattutto, Coll. 4.9.1; 10.1. Su queste ultime fonti, diversamente, POLARA, Marciano, cit., 103 s. e nt. 31; 126; 130; per il quale comunque «la rilevanza dell'impetus non vale a fare escludere la punibilità del reo, che resta sempre un omicida, ma serve solo al fine di una riduzione della pena, ferma restando la qualificazione del reato come omicidio commesso occidendi animo», (ibid., 125). Sull'impetus come elemento di commisurazione della pena o come veicolo di introduzione nel diritto penale romano delle "attenuanti soggettive", vd. ora DEMURO, Il dolo, cit., 48 ss. e note con precedente letteratura.

 

[58] Vd. FERRINI, Teorie, cit., 107, ma, altrove, ID., Esposizione, cit., 48: «l'omicidio preterintenzionale non è compreso nella persecuzione della legge Cornelia». Quivi, l'A., infatti, riporta il caso di Coll. 1.6.4 all'area di quelli soggetti a coercizione straordinaria come omicidio colposo.

 

[59] G. PUGLIESE, Linee generali dell'evoluzione del diritto penale pubblico durante il principato, in Scritti giuridici scelti, II, Napoli 1985, 761.

 

[60] Affermazione che, invece, parrebbe attagliarsi assai più – tenendo conto della casistica pervenutaci – al regime della repressione de sicariis precedente la legge sillana se si tiene conto del fatto narratoci da Liv. 3.13 ss.: Ibi [in Subura] rixam natam esse fratremque suum [M. Volsci] maiorem natu, necdum ex morbo satis validum, pugno ictum ab Caesone cecidisse; semianimem inter manus domum ablatum, mortuumque inde arbitrari. Vd. FERRINI, Teorie, cit., 48.

 

[61] FERRINI Esposizione, cit., 101.

 

[62] BRASIELLO, Sulla ricostruzione, cit., 248.

 

[63] FERRINI, Teorie, cit., 99, che legge la locuzione usata da Marciano casu magis quam voluntate come «eccesso dell'eventus in paragone dell'intenzione» e rimarca (nt. 2) «senza volontà di uccidere, ma solo di ferire». Ne consegue - non brillando di estrema coerenza - che il passo di Marciano, così come si legge nel Digesto, sarebbe frutto di interpolazione da parte dei giustinianei (così poi anche BIONDI, Diritto romano cristiano, II, Milano 1952, 314; POLARA, Marciano, cit., 111 nt. 43), presso i quali, a parere dell'A. (che non tiene conto, a mio avviso, dell'apporto sistematico che è, nella Compilazione, principalmente di C. 9.16.4) «non è più conservata la pena dell'omicidio meramente colposo» (FERRINI, Esposizione, cit., 49).

 

[64] Vd., prima, Quintil., Inst. Or. 6.2.31.

 

[65] Vd. WACKE, Vergehen, cit., 536 s.

 

[66] E, difatti, per MUCIACCIA, Casus, cit., 346 «qui si versa in una tipica fattispecie di omicidio preterintenzionale».

 

[67] Sul significato di fraus, vd. GIOFFREDI, Su l'elemento, cit., 42 ss.

 

[68] Ma è irrogata una pena connessa alla disciplina militaris, visto lo status dell'agente, come esplicitato in Coll. 1.8.1. Nota, tuttavia, WACKE, Vergehen, cit., 537 e ntt., che tale pena parrebbe connessa, più che all'illecito in sé, alla mancata comparizione del colpevole innanzi al tribunale che doveva giudicarlo, concretandosi con ciò una diserzione, punita con pena militare. Ma il testo non aiuta una chiara comprensione.

 

[69] Il valore discriminante dell'imprevedibilità evidenziato nelle fonti di cui in testo, non permette perciò di essere totalmente d'accordo con WACKE, Vergehen, cit., 538 s., quando, sulla base della comparazione tra i casi descritti in Coll. 1.6.1 e 1.8.1 – e dunque considerando già introdotto un principio legittimante la repressione dell'omicidio involontario – fa discendere la soluzione assolutoria presente nel rescritto di Caracalla dalla discrezionalità insita nella coercitio dei funzionari giudicanti, liberi di irrogare o meno extra ordinem la pena agli autori di omicidi non intenzionali.

 

[70] Vd. F. REINOSO-BARBERO, Sobre los precedentes griegos del «casus», in Index 21 (1993), 499 ss. Vd. anche MUCIACCIA, Casus, cit., 342.

 

[71] Sulle leggi di Numa, per tutti, SANTALUCIA, Omicidio, cit., 107 ss. Sul valore di "dolo sciens", da ultimo e riassuntivamente, DEMURO, Il dolo, cit., 28 ss.

 

[72] Che Servio usi il termine imprudens per qualificare il reato come colposo è opinione di POLARA, Marciano, cit., 97. E che esista una tradizione testuale «compatta» che s’avvale del termine «per qualificare l’assenza di premeditazione che caratterizza l’omicidio involontario» è quanto afferma TONDO, Leges regiae, cit., 82, ove il richiamo alle fonti che danno corpo a quella tradizione.

 

[73] FERRINI, Esposizione, cit., 51. Casu, id est neglegentia: D. 47.9.9 (Gai. 4 ad l. XII tab.), su cui vd. MUCIACCIA, Casus, cit., 339 ss., ove precedente letteratura.

 

[74] Vd. A. WACKE, Der Selbstmord im römischen Recht und in der Rechtsentwicklung, in ZSS 97 (1980), 49 s.

 

[75] Vd., WACKE, Vergehen, cit., 522 ss. Precedente letteratura ibidem, 523 ntt. 67; 68.

 

[76] E ciò anche per la logica esclusione della figura del dolo eventuale che, al di là del fatto che possa ravvisarsi nel caso in questione (o in altri descritti nella giurisprudenza), ove fosse stato mai preso in considerazione dal pensiero giuridico classico, avrebbe comportato sussunzione della fattispecie sotto la norma della lex Cornelia. Non a caso, infatti, si dice che «di un dolo eventuale nulla sa il diritto penale romano» (FERRINI, Esposizione, cit., 51; DEMURO, Il dolo, cit., 43 ss., con rassegna di precedente dottrina). All'inverso, K. BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, II, Leipzig 1877, 395 nt. 616; 409 s. che equipara culpa lata e dolo eventuale. Sulla nozione di culpa lata vd. anche G. MACCORMACK, Culpa, in SDHI 38 (1972), 176 ss.; praecipue, in ordine alle problematiche dell’omicidio, 181 s.

 

[77] Sui rapporti tra le pene extra ordinem che si rinvengono nella repressione dell'omicidio non doloso – la poena metalli in PS 5.23.12 che si irroga al putator imprudente e la deportatio quinquennii presente per l'omicidio colposo in Coll. 1.11 – vd. WACKE, Vergehen, cit., 520 ss.

 

[78] Afferma WACKE, Vergehen, cit., 524: «Schon hier deutet sich überdies an, daß die strafrechtliche Fahrlässigkeitslehre der Römer im Vergleich zu ihrer zivilrechtlichen unterentwickelt und zurückgeblieben ist». Vd., altresì, NOGRADY, Strafrecht, cit., 177 e nt. 831.

 

[79] E ciò perché può a mio avviso ricavarsi dalla consultatio che la procedura fosse stata introdotta innanzi al proconsole della Betica per mezzo di un'accusatio ex lege Cornelia de sicariis da parte del padre della vittima.

 

[80] Sul passo, da ultimi, WACKE, Vergehen, cit., 525 ss.; HÖBENREICH, Überlegungen, 306 ss.; NOGRADY, Strafrecht, cit., 173 ss.

 

[81] «Der erste sichere Fall extraordinärer Bestrafung einer fahrlässigen Tötung»: WACKE, Vergehen, cit., 535.

 

[82] Vd. A. WACKE, Incidenti nello sport e nel gioco in diritto romano e moderno, in Index 19 (1991), 359 ss. (ove richiamate e riprese le conclusioni cui l'A. era giunto  anche in precedenti saggi su identiche tematiche). Altre informazioni da NOGRADY, Strafrecht, cit., 174 ss.

 

[83] Per MUCIACCIA, Casus, cit., 344, trattasi qui di colpa intesa quale confidenza erronea dell'autore a che «non si realizzi quella conseguenza che pur si presenta alla mente dell'agente, ma è da questi ritenuta improbabile».

 

[84] Vd. WACKE, Vergehen, cit., 530; HÖBENREICH, Überlegungen, 311.

 

[85] Vd. HÖBENREICH, Überlegungen, 309 e nt. 193.

 

[86] Vd. D. DAUBE, A meaning of cupiditas, in Studi De Francisci, I, Milano 1956, 124 ss.

 

[87] Su cui vd. BINDING, Die Normen, cit., II, cit., 367 ss., ove è equiparata alla culpa lata. Diversamente (passione disordinata, agire sfrenato), FERRINI, Teorie, cit., 102; ID., Esposizione, cit., 50, che considera ingiustificato l'escludere che nell'azione per lasciviam  vi sia qualunque dolo. Vd. altresì, WACKE, Vergehen, cit., 525 ss.; NÖRR, Causa mortis, cit., 108 ss.; HÖBENREICH, Überlegungen, 306 ss.

 

[88] FERRINI, Teorie, cit., 102 s.

 

[89] Fondamentali, in proposito, le riflessioni di WACKE, Vergehen, cit., 548 s.

 

[90] Per tutti, WACKE, Vergehen, cit., 529; HÖBENREICH, Überlegungen, 309.

 

[91] BALZARINI, Rixa, cit., 29 nt. 39: «casus come fatalità che dà luogo a risultati diversi da quelli voluti come conseguenza di un'azione in sé voluta».

 

[92] Così generalmente, per FERRINI, Teorie, cit., 103: «casus indica ogni evento non dolosamente arrecato»; per POLARA, Marciano, cit., 137, «omicidio casu [...] tutto quanto non rientra nell'omicidio volontario, tutti quei casi in cui non può ragionevolmente supporsi l'esistenza dell'animus occidendi»; per GIOFFREDI, Su l'elemento, cit., 48, «casus è quanto avviene per disavventura, il che non esclude ad esempio l'imprudenza [...] casus è quanto si oppone [...] al determinato proposito. [...] con casus non si vuole alludere al caso fortuito, ma piuttosto al fatto che oggi si qualifica come colposo».

 

[93] Così che per WACKE, Vergehen, cit., 530, «casus und culpa (oder lascivia) bilden daher im römischen Strafrecht keine Gegensätze»

 

[94] L'altra è, come si ricorderà, PS 5.23.12, evidente frutto di un ampliamento senza dubbio postclassico dell'area di punibilità dell'omicidio colposo.

 

[95] Contra, implicitamente, BALZARINI, Rixa, cit., 31 nt. 40: «si può dire, dunque, che la repressione degli omicidi commessi casu (colposi e preterintenzionali) non sia assurta al valore di principio generale e astratto per tutta l'età classica e che, malgrado lo sforzo teorizzante di Marciano e Ulpiano, a ciò non si sia giunti neanche successivamente». Il che però non corrisponde a quanto in età successiva si rinviene nel dettato stesso di Nov. Val. 19.

 

[96] Cfr. C. 4.24.6: fortuitis casibus quae praevideri non potuerint. Sull'equivalenza di improvisus e fortuitus casus, vd. WACKE, Vergehen, cit., 540.