Res divini iuris
(Note e riflessioni
su un libro recente di Antun Malenica)
Università Statale di Novi Pazar
(Serbia)
Università di Sarajevo Est
(Bosnia-Erzegovina/Repubblica Serba)
[MALENICA, ANTUN, Ствари
божанског
права у
римском
претхришћанском
периоду. (Le cose di diritto
divino nel periodo pre-cristiano di Roma),
Novi Sad, Pravni fakultet u Novom Sadu – Centar izdavačku delatnost Ed.,
2014, 96 pp.]
Un libro al tempo stesso aspettato e desiderato dalla
comunità scientifica, considerato che i primi risultati della ricerca sulle
cose nel Diritto romano dell’A. sono stati pubblicati ormai da diversi anni (De la notion de res dans la doctrine
juridique romaine, in Diritto @
Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana
(It), nr. 5/2006; Поделе
ствари и
појам „ствар“
у римској
правној
доктрини, in Raccolta degli scritti della Facoltà di Giurisprudenza
di Novi Sad (Serbia), nr. XL 1/2006).
Definendo il tema d’indagine, l’A. lascia la storia del
concetto delle cose divini iuris dopo
la vittoria della Cristianità ai ricercatori che si occupano della storia del
Diritto canonico. Pur non negando ogni legame storico, lo studioso sottolinea
che si tratta di un istituto sostanzialmente nuovo, e si concentra
esclusivamente sulle res divini iuris
nel significato che questa nozione ebbe nell’età pagana di Roma (pp. 92-93).
Quanto alla struttura del libro, dato che il concetto di res divini iuris non si può chiarire
senza la conoscenza del concetto di ius
divinum, e della religione romana pagana, l’autore prima di passare
all’oggetto centrale d’indagine, cioè le res
divini iuris di età pre-cristiana di Roma (pp. 37-93), ha deciso di
dedicare due parti del libro a temi sovramenzionati: la religione romana pagana
(pp. 11-23) e il ius divinum (pp.
25-35).
Le informazioni che l’A. offre sull’origine e sul
significato del termine religio (pp.
11-13), sull’atteggiamento degli antichi Romani nei confronti di religione (pp.
13-15), e sui loro riti religiosi (pp. 15-23) risulteranno importanti, come
vedremo più tardi, per la comprensione del concetto delle res divini iuris. Fra molte conclusioni basate sull’esegesi delle
fonti, mi limiterò a segnalare le più interessanti.
Con pieno accoglimento dell’opinione prevalente della
dottrina[1], secondo la quale la
parola religio fu usata per indicare
qualcosa di proibito ai mortali, l’A. in favore di essa aggiunge un argomento
nuovo: i religiosa loca agli inizi di
Roma furono luoghi di carattere sacrale, in cui la libertà del comportamento
umano fu limitata, sotto minaccia di vendetta divina (pp. 11-12; si veda:
Fest., Religiosus).
La grande importanza attribuita alla volontà divina nel
pensiero dei Romani aveva come conseguenza un’ampia area d’influsso della
religione nella vita quotidiana. Lo dimostra, fra l’altro, la struttura della
famosa opera enciclopedica di Varrone, Antiquitates rerum humanarum et
divinarum (pp. 13-14). Il
carattere politeista del paganesimo romano risultava privo di proselitismo e
intolleranza religiosa in età pre-cristiana (pp. 13-14).
Quanto ai riti religiosi, bisogna sottolineare che il ius divinum regolava soltanto quelli di
carattere pubblico. Furono la tradizione e la consuetudine a dare forma ai riti
privati (p. 15). L’A. descrive molti elementi dei riti religiosi romani, e
dedica un’attenzione particolare all’analisi del testo del Carmen Arvale, uno dei rari inni religiosi romani preservati fino a
oggi. Comparando il suono del Carmen
Arvale letto in ritmo ternario, con quello delle formule processuali delle
Leggi delle XII tavole lette allo stesso modo, l’A. è pervenuto ad un’ipotesi
originale, difesa coerentemente in tutto il libro, secondo la quale le prime
formule del ius humanum furono
concepite usando le formule del ius
divinum come modello. Piuttosto, l’A. crede che proprio qui vadano cercate
le radici del caratteristico stile breve e conciso dei giuristi romani di età
posteriore (pp. 19-20).
Quale il rapporto fra ius
divinum e ius humanum? L’A.
crede, accettando le idee di Francesco Sini[2], che questa divisione
fosse veramente antichissima, dato che le fonti attribuiscono all’età remota le
prime sistematizzazioni del ius divinum
(ai re Numa Pompilio e Anco Marzio), che precedevano le prime sistematizzazioni
del ius humanum nelle Leggi delle XII
tavole. Questo indica che i Romani, in questo periodo, già superarono la
convinzione primitiva secondo la quale per mezzo della magia si potessero
influenzare gli eventi. La magia fu sostituita ormai dalla religione nel senso
vero e proprio: cioè la credenza che fosse la volontà divina a dirigere gli
eventi. E proprio la religione fu una delle prime cose che gli organi comuni
dell’unione tribale dalla quale sarebbe nata la civitas, comunità politica romana, dovevano regolare. Ramnes, Titienses e Luceres
potevano avere una tradizione religiosa differente, e i reges dovevano intervenire per far creare il culto pubblico comune
(pp. 25-28; si veda: Liv. 1.20.5, 1.32.1-2, 6.1.9-10; D.1.2.2.2). Comunque, le
norme del ius divinum e del ius humanum non erano mai assolutamente
separate, e fra due sistemi, che insieme facevano l’ordinamento giuridico
romano, esistevano tanti legami – un atteggiamento assai diverso da quello
odierno, secondo il quale le norme religiose sono nettamente separate da quelle
di carattere “laico” (p. 28; si veda: G.2.2; D.1.1.1.2, 1.1.10.2; Sen., De benef. 7.2.4; Vell. Pater. 2.26.2).
Questo atteggiamento particolare illustra bene le fonti
del ius divinum. Le sue prime fonti
furono le formule religiose, custodite dai pontefici in antichissimi libri. Poi, la giurisprudenza
pontificale cominciò a interpretare il diritto religioso, e le decisioni dei
giureconsulti furono raccolte in forma di commentarii,
anch’essi custoditi dai pontefici. Però, le questioni non pertinenti
direttamente ai riti e templi, quali, ad esempio, i poteri dei magistrati
riguardo sacrifici e giochi pubblici e collegi sacerdotali, potevano essere
regolate dalle norme di carattere laico, quale la Legge della Colonia Genetiva (pp. 29-30). La tendenza principale
del ius divinum, quella di preservare
la pax deorum, ebbe come conseguenza
due caratteristiche di questo sistema del diritto: la prima, secondo cui
soltanto il culto pubblico, e non quello privato, veniva regolato dal ius divinum; la seconda, che le formule
religiose, una volta formulate, non si potevano più cambiare. Queste due caratteristiche
lo rendevano molto diverso dal ius
humanum, il quale nel corso del tempo si sarebbe sviluppato più nel campo
del diritto privato che di quello pubblico, e che avrebbe, poco a poco,
abbandonato il formalismo e conservativismo giuridico (pp. 30-35).
Passiamo ora alla parte centrale del libro (pp. 37-93),
quella dedicata alle singole categorie delle res divini iuris: res sacrae,
religiosae, e sanctae, la quale rappresenta, in effetti, un’analisi approfondita
della famosa summa rerum divisio Gaiana
(G. 2.1-3), e la sua categorizzazione delle res
divini iuris.
Le radici etimologiche del termine res sacra o sacrum sono
attribuite dall’A. all’arcaico saker
presente già nel testo del Lapis Niger.
L’A., trovando appoggio in un brano di
Festo (37-40; Fest., Sacer), attribuisce a questo termine due
significati, in un modo più simile all’opinione di Galante[3] che a quello di Fabbrini[4]: nel diritto pontificale
ebbe significato tecnico assai stretto di cosa dedicata al culto pubblico per mezzo
di un rito specifico di dedicatio – consecratio nel quale parteciparono gli organi pubblici, auguri e pontefici. Tutte
le altre cose e luoghi dedicati al culto furono cose sacre soltanto nel senso
ristretto, laico. La giurisprudenza laica accettò ambedue i significati, che
persistettero per molti secoli sia nelle opere di giurisprudenza romana, che in
testi letterari (pp. 40-42; D.1.2.2.45, 1.8.6.3, 1.8.9pr.; G.2.4, 2.7; Macr., Sat.
3.3.2). Le cose sacre per eccellenza sono, naturalmente, i templi dedicati alle
divinità, il cui regime giuridico merita attenzione particolare. Accettando
l’opinione di Fabbrini, secondo cui le res sacrae dipendevano dagli dei
in un rapporto non patrimoniale di “destinazione permanente”, l’A. rifiuta (pp.
50-51) le teorie di coloro che credono che le res sacrae fossero
“proprietà” di ciascuno - del popolo romano (Marquardt, Nissen, Pernice), delle
divinità (Glück, Mommsen, Uhrig, Giercke, Meurer), o dei templi stessi come
persone giuridiche (Galante), indicando le cose del genere semplicemente come extra
commercium, fuori qualsiasi rapporto patrimoniale. Quanto alle altre res
sacrae, l’autore distingue (seguendo la ricerca di Fabbrini)[5]
come categorie diverse i luoghi e gli spazi che avevano ottenuto la protezione
divina per consuetudine (i cosidetti religiosa loca, che non vanno
confusi con le res religiosae), e alcuni oggetti mobili sacri preservati
in templi (pp. 53-55).
Riguardo le res
religiosae, lasciando da parte il poco documentato significato di questo
termine nel diritto pontificale di “cose usate nei riti religiosi privati”,
l’indagine è concentrata sul ben noto significato che questo termine ebbe nel
diritto laico. Essenzialmente, res
religiosa è una tomba, e come tale è extra
commercium. Partendo da questi punti salienti, l’indagine si sviluppa in
molte direzioni: la nozione di tomba (locus
religiosus), funeraria come condizione di sua esistenza, ed il regime
patrimoniale del terreno (pp. 58-69); il suo stato extra commercium (pp. 69-72); il regime giuridico del cadavere
esumato, e condizioni per la sua traslazione (pp. 72-73); “tombe di famiglia”
ed ereditarie (pp. 73-83). Mi limito a
riassumere alcune conclusioni più interessanti.
I giuristi classici usavano due termini per indicare una
tomba: sepulchrum, adottato
dalla lingua quotidiana e quindi meno preciso, e locus religiosus,
derivante dal vocabolario della giurisprudenza laica. Locus fu di regola
una parte del terreno (portio fundi) (pp. 58-59). Diventava religiosus
soltanto quando ci furono conservati perpetuamente i resti umani, generalmente
dopo un rito funebre. Una tomba costruita e destinata a sepoltura prima che il
funerario ebbe luogo (locus purus) non aveva carattere religioso e non
veniva considerata res divini iuris (D. 11.7.2.4-5 Ulp. lib. 25 ad ed.). Quindi, poteva
essere oggetto di diritti e rapporti patrimoniali (pp. 59-61).
La decisione di seppellire un
cadavere in una parte del terreno e di farlo luogo religioso pertineva sempre
al proprietario del terreno, purché non arrecasse danno a terzi (ad es. ai
titolari di una servitù) (pp. 63-66; D.1.8.6.4, 11.7.2.7-9, 11.7.41). È
interessantissima l’evoluzione della protezione giuridica del proprietario nel
cui terreno sarebbe stato seppellito un corpo senza consenso del proprietario.
L’A. difende la tesi secondo cui la prima protezione era fornita dal pretore
nel caso di sepoltura in una tomba altrui senza consenso della persona da cui
dipendeva la tomba, per mezzo di una actio in factum, che dopo avrebbe
trovato posto nell’Editto, e quindi diventata azione decretale (D.11.7.2.2).
Ampliandone il campo dell’adempimento per mezzo d’interpretazione, la
giurisprudenza avrebbe garantito la protezione anche ai proprietari del terreno
purum. La formula edittale pertinente a tomba pura altrui (locum
purum alterius) e tomba (sepulchrum) veniva interpretata come spazio
altrui, senza distinzione se si trattasse di una tomba o un terreno (pp.
66-69; D.11.7.2.1, 11.7.7.1).
Quanto alla misteriosa prassi
di prescrizione di una pena pecuniaria da parte del fondatore di una tomba per
coloro che l’avessero violata, l’A. segue l’opinione di de Visscher[6],
che crede che le origini di questa pratica vadano ricercate nelle consuetudini
e nella tradizione, ma anche nell’ambiente politico della civitas
romana, in cui la sovranità dipendeva dai cittadini stessi, e non a uno “stato”
astratto. La democrazia diretta, in cui nella competenza dei cittadini
sussistevano molte attività oggi riservate agli organi statali, creò la
possibilità di un’emanazione delle leges privatae per la protezione
delle tombe (pp. 73-77).
Ugualmente interessante, ma per me meno convincente, è la
tesi che già alla fine del periodo classico il credo pagano che le tombe
dipendano dai mani, le divinità
dell’oltretomba, fosse in declino, forse sotto l’influsso della Cristianesimo.
Anche se questa possibilità non si può assolutamente escludere, le richieste
delle parti per consegna o divisione delle tombe dalla prima metà del terzo
secolo (sempre rifiutate dai rescritti imperiali) potrebbero essere semplicemente
una conseguenza della scarsa conoscenza del diritto e della religione romana da
parte dei cittadini nuovi, soprattutto di coloro della parte orientale
dell’Impero, dopo la Costituzione Antoniniana (pp. 81-82; C.3.44.4pr., 3.44.9).
La parte finale del libro dedicato alle res sanctae (pp. 83-93), il cui punto
saliente è l’esplicazione della famosa minuziosa separazione gaiana delle res sanctae da quelle sacrae e religiosae è, forse, la parte più intrigante (G.2.2). Secondo
l’opinione dell’A., Gaio, condividendo le res
divini iuris in tre cattegorie (sacrae,
religiosae e sanctae) non introdusse qualcosa di sostanzionalmente nuovo in
dottrina romana. Lui semplicemente disse, con linguaggio della giurisprudenza
laica, qualcosa che era già noto alla giurisprudenza pontificia. Era lei a
influenzare le nozioni religiose e regole e terminologia del diritto
pontificio, nel cui ambito nacque il concetto res divini iuris. Quindi, sia questa nozione generale che la sua
divisione (res sacrae, religiosae e sanctae) erano frutto della giurisprudenza pontificia, e
testimoniano sul suo lavoro e svilluppo del suo vocabolario tecnico-giuridico.
(pp. 83-84)
Fino a questo punto, la tesi dell’A. non sembra
rivoluzionaria. Però, quel che potrebbe suscitare una polemica scientifica è il
suo rifiuto dell’opinione degli Autori[7] che credono che le res sanctae fossero fuori della
categoria delle res divini iuris per
mancanza di un carattere di “santità”. Lo rifiuta sulla base degli argomenti
metodologici: le fonti non offrono nessuna indicazione sull’eventuale diverso
carattere religioso delle cose divini
iuris. Anzi, lui critica la sola questione, “se le res sanctae furono divini
iuris, o no?” come erroneamente formulata. Crede che si tratti di una
questione che i Romani non hanno mai posto, e che la sola idea sia il frutto
della trasposizione del pensiero giuridico moderno nel passato. Una questione
giusta, dunque, sarebbe: “che cosa erano per i Romani le porte e mura urbane, e
i confini degli agri?” (p. 91).
Una tesi che al lettore potrebbe sembrare troppo ardua,
ma solo a prima vista. Secondo quanto risulta dalla ricerca, è ovvia
l’evoluzione del termine res sacra, e
in tutti i periodi questo termine non aveva lo stesso significato. Circa
l’origine etimologica della parola sanctum,
da cui derivava il termine classico di res
sancta, l’A. vede nell’antichissimo rito di demarcazione dei confini sacri
di una città, tempio o agro, mediante il versamento sangue dell’animale
sacrificato, sul quale rito scrivevano Virgilio e Servio. Dunque, quando i
Romani demarcavano i fini dell’Urbe in età arcaica, non potevano indicarli
diversamente se non divini, presa in considerazione la forza della religione in
quel periodo e il carattere religioso del solo rito adottato dagli Etruschi (p.
88).
Nel secondo secolo d.C., in un ambiente culturale e
religioso diverso da quello dall’età di fondazione di Roma, le stesse cose sono
per Gaio divine soltanto “in qualche modo” (quodammodo divini iuris). Sulla base dell’analisi delle fonti, l’A. conclude:
1) che la separazione delle res sanctae da parte di Gaio come una sottocategoria delle cose divini iuris (diversa da quelle
religiose e sacre) era frutto del suo ragionamento giuridico;
2) che il pensiero degli altri giureconsulti classici non
andava nella stessa direzione;
3) che i giuristi giustinianei consideravano corretta la
posizione di Gaio, e perciò il suo testo lo sistemarono all’inizio del titolo
ottavo del primo libro del Digesto De
divisione rerum et qualitate (D. 1.8.1pr.).
Per i compilatori della Epitome
di Gaio nel V secolo, invece, in un ambiente culturale cristianizzato ormai,
queste cose non erano più divine affatto, ma profane, in patrimonio pubblico (Ep.
Gai. 2.1.1). E fu il punto finale
sull'evoluzione del concetto pagano di res sancta. Costruita nell'ambito
dell'antico ius divinum, questa nozione non avrebbe potuto trovare luogo
nel nuovo diritto della Chiesa Cristiana (pp. 91-93).
Insomma, i risultati della
ricerca, nel complesso persuasivi e sempre forniti da serrate argomentazioni, s'inseriscono nel contesto
della letteratura romanistica come un contributo di grande portata. Si tratta, indubbiamente, di un libro importantissimo per
la romanistica slava (generalmente povera di opere di tipo monografico), ma non
soltanto.
Possiamo auspicare una sua traduzione in una della grandi
lingue europee in futuro, affinché diventi raggiungibile ai romanisti in altri
paesi. Preso in considerazione l’influsso che la concezione romana di res divini iuris ha avuto sullo sviluppo
posteriore di questo concetto, attraverso il Diritto Canonico, fino alla
protezione speciale che l’ordinamento civile garantisce alle cose di carattere
religioso in molti stati odierni, oltre che ai romanisti e agli storici, questa
ricerca potrebbe interessare anche studiosi degli altri campi giuridici.
[1] Si veda a. e.: F.
SINI: Sua cuique civitati religio.
Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 268, n. 76; A. GUARINO: L’ordinamento giuridico romano, Napoli 1990, 135.
[4] F. FABBRINI, Res divini iuris, in Novissimo Digesto Italiano XV, 544.
[5] F. FABBRINI, Dai “religiosa loca” alle “res religiosae”,
in Bullettino dell’Istituto di diritto
romano “Vittorio Scialoia”, Terza
serie – Vol. XII, Dell’intera collezione Vol. LXXIII,
Milano 1970.
[6] F. de VISSCHER, Le droit des tombeaux
romains, Milano 1963, 118-122.