Università di Cagliari
IL FIERI DELLA FATTISPECIE CONTRATTUALE SINE NOMINE
E
L’EVIZIONE DELL’OB REM DATUM *
Ai miei allievi carissimi
Enrica e Francesco
Sommario:
1. Per un
approccio alla disciplina formativa delle figure contrattuali romane. – 2. I
meccanismi formativi della fattispecie contrattuale nominata. – 3. ‘Re’, ‘verbis’,
(‘litteris’) ‘contrahere’ e
‘re’, ‘verbis’, (‘litteris’) ‘fieri’. – 4. La rilevanza teorica e metodologica
della ‘legitima conventio’ nella
prospettiva del ‘fieri’ della
fattispecie. – 5. La definizione paolina della ‘legitima conventio’ ed il
suo rapporto con il problema delle figure di ‘contractus’. –
6. La ‘legitima conventio’
nell’economia della classificazione ulpianea delle ‘conventiones’. – 7. Il
fieri della fattispecie contrattuale
‘sine nomine’: i dati fondamentali. – 8. La ‘risposta’ di Aristone
a Celso e le sue implicazioni sostanziali. – 9. La rilettura aristoniana del suna@llagma di Labeone: dal rapporto
all’atto. – 10. La prospettiva aristoniana dal punto
di vista della tecnica formulare. – 11. Il significato della
‘critica’ di Mauriciano a Giuliano. – 12.
Contenuto dell’azione e funzione pratica delle tutele esprimibili
nell’ipotesi dell’evizione dell’‘ob rem datum’. – 13. Il
rigore teorico di Giuliano. – 14. La
vitalità dell’apporto giulianeo nella costruzione delle tutele in
tema di ‘permutatio’. – Abstract.
È essenzialmente dal punto di
vista del procedimento – vale a dire della formazione della fattispecie
– che vorrei qui tentare un approccio[1] al variegato ed
articolato tema del contratto nell’esperienza giuridica romana. Si tratta
di una prospettiva particolarmente complessa, specie con riferimento alla
più ampia problematica del riconoscimento delle fattispecie contrattuali
sine nomine, vale a dire non
contemplate in astratto nell’editto del pretore. Per addentrarci su
questa via, nondimeno, è indispensabile procedere, innanzitutto, alla
ricostruzione dei meccanismi procedimentali che governano la formazione delle
fattispecie contrattuali nominate. Ed al riguardo, conviene subito avere
sott’occhio un testo assai noto,
Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.1.3: Conventionis verbum
generale est ad omnia pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa
consentiunt qui inter se agunt: nam sicuti convenire dicuntur qui ex diversis
locis in unum locum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis animi
motibus in unum consentiunt, [id est in unam sententiam decurrunt]. adeo autem
conventionis nomen generale est, ut eleganter dicat Pedius nullum esse
contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re
sive verbis fiat: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum,
nulla est.
Prescindendo, per ora, da un riesame delle
varie ipotesi ricostruttive emerse in dottrina a proposito
dell’interazione tra il dictum
Pedii e l’argomentazione di Ulpiano, mi pare di specifico interesse,
nella nostra peculiare prospettiva euristica, riflettere su alcuni punti
salienti. Innanzitutto, va sottolineata la metafora di cui Ulpiano si avvale
per chiarire il significato del termine ‘conventio’, inteso – in senso generalissimo –
come riferibile a qualsiasi accordo finalizzato a dar vita od a porre fine ad
un affare: il giurista fa riferimento al percorso di due persone che, venendo
da strade diverse, s’incontrano in un unico luogo. La conventio è dunque l’esito
di un cammino: ed è in questa metafora – un
«Konvergenzprozess»[2] – che si
riscontra l’idea del procedimento di formazione della fattispecie, alla
quale, più tecnicamente, il giurista si relaziona poco dopo parlando di
un ‘divenire’ – ‘fieri’
– di volta in volta qualificato.
E difatti, non può non notarsi il
rapporto tra l’habere in se
conventionem che sottende qualsiasi figura contrattuale, ed il re oppure verbis ‘fieri’.
A seguire l’esegesi, ampiamente rappresentata in dottrina, che vede nel
rapporto tra contractus e obligatio nel dictum Pedii un’endiadi[3] che vale ‘obligatio contracta’, il fieri – il divenire –
è, con evidenza, riferito alla figura contrattuale, quale che sia: il
giurista – Pedio – evidenzia dunque come la conventio rappresenti il nucleo indefettibile di una qualsiasi
figura contrattuale, quand’anche essa si formi per tramite di spostamento
patrimoniale o per pronuncia di specifici verba.
A corollario di questa affermazione, è Ulpiano – e non più
Pedio – ad evidenziare[4] come la stipulatio, che si perfeziona verbis, non possa dirsi integrata in
difetto di consensus sottostante al
rapporto tra interrogatio e responsio: profilo che, a condividere
l’esegesi del Romano[5], secondo la quale
‘conventio’ esprimerebbe
l’accordo nel senso di ‘contenuto negoziale’[6],
laddove ‘consensus’
esprimerebbe semmai la volontà singola adesiva[7],
conferma come l’argomentazione del giurista s’inquadri in una
prospettiva attenta a cogliere essenzialmente i profili formativi della
fattispecie[8].
In sostanza, a proporre un’esegesi
di Ulp. D. 2.14.1.3 orientata a delineare in quali termini il giurista si
relazionasse al problema del procedimento di formazione della fattispecie
contrattuale, emerge sullo sfondo un meccanismo formativo, per così
dire, ‘a due livelli’[9]: il primo, che
costituisce il nucleo fondamentale di qualsiasi figura contrattuale, è
dato dal rapporto tra conventio e consensus, tra convenire e consentire;
il secondo, che non può prescindere dal primo, è dato –
come suggerisce esattamente il Garofalo – da un «indice della
giuridicità esterno e formale»[10] –
nell’esempio pediano, lo spostamento patrimoniale o la pronuncia di verba, ma deve ritenersi implicito in
questo ragionamento anche l’iscrizione del nome del debitore nel codex accepti et expensi del pater familias nel caso del nomen transscripticium – che
suggelli – nella sua intrinseca dimensione naturalistica implicante una
realtà fenomenica percepibile dai sensi[11] –
l’accordo di per sé già raggiunto.
Nella terminologia di Ulpiano, questo
nesso tra primo e secondo livello della disciplina formativa si riscontra bene
– con riferimento alla stipulatio
– nel rapporto tra l’habere
consensum ed il verbis fieri che connota la precisazione del
giurista al dictum Pedii: la stipulatio che, pur
‘divenendo’ verbis, non
abbia a monte un consensus, non
può dirsi integrata quale fattispecie idonea ad obbligare. Basti
pensare, al riguardo e solo per fare un esempio, alla patologia che sconterebbe
una stipulatio viziata da errore
ostativo alla luce della prospettiva delineata, come è noto, da Pomp. 36
ad Q. Muc. D. 44.7.57 [12] con riferimento
al dissentire delle parti aliud alio existimante[13].
Va qui solo ulteriormente evidenziato
come, almeno per epoca severiana, le idee sottostanti al dictum Pedii sembrino ormai pienamente assimilate: non è un
caso, infatti, che l’annotazione di Ulpiano, secondo il quale et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat
consensum, nulla est, sia in fin dei conti coincidente – e la
connessione è stata puntualmente rilevata[14] – con la
rielaborazione istituzionale di Paolo[15] che, muovendo
dall’intrinseca insufficienza del dare
et accipere per la nascita dell’obbligazione ove non sottesi
dall’intendimento di produrla, dava per scontata
l’inidoneità della stipulatio
conclusa per iocum o demonstrandi intellectus causa a
generare la verborum obligatio.
In questo quadro – e siamo ad un
punto cruciale – solo il primo livello formativo – conventio e consensus – è sempre indefettibile per la genesi della
figura contrattuale: qui il ‘Geschichtsverständnis’ dei prudentes riafferma – specie ad
incentrare il discorso sulla stipulatio,
come suggeriva l’elegante riflessione di Pedio – un connotato
dell’atto idoneo a creare l’obligatio
ad esso connaturato sin dalla sua origine[16], da ravvisarsi
– alla luce di Gai 4.17a – nel lege
agere per iudicis postulationem previsto dalla legislazione decemvirale[17].
Il suggerimento pediano, in sostanza,
indicava una via che, forse, si era in una certa misura progressivamente persa
di vista, ed andava recuperata nel senso che qualsiasi obligatio contracta – tale è appunto il significato
dell’endiadi – presuppone l’intrinseca rilevanza della conventio.
Ma è nella più matura
rielaborazione di questo suggerimento che si delineano, a cavaliere tra II e
III secolo, i punti essenziali dell’argomentazione ulpianea.
Ed allora, per alcune fattispecie la
chiusura della sequenza procedimentale che perfeziona il consensus – primo livello del meccanismo del fieri contrattuale – è
sentita insufficiente se la conventio
così formatasi non risulti ulteriormente resa salda da un elemento
concreto di natura procedimentale che formalmente mostri, anche su un piano di
percezione fenomenica, il segno della giuridicità del vincolo. Per altre
figure, invece, la disciplina formativa prescinde da questo indice esterno e
formale di giuridicità della convenzione, come può ritenersi in
fin dei conti implicito già nell’argomentazione di Pedio, che
evidentemente insisteva sul sive re sive
verbis fieri con specifica attenzione per le ipotesi percepite come
più problematiche, vale a dire quelle per cui il riconoscimento
dell’habere in se conventionem dell’obligatio contracta poteva ormai risultare
‘mascherato’ dal formalismo procedimentale.
Ed è appunto su questa diversa
configurazione del meccanismo formativo della fattispecie contrattuale che
occorre ora indagare.
Per delineare i termini della questione
or ora evidenziata occorre aprire una parentesi, che ci consentirà di
soffermarci sulla distanza che intercorre, da un lato, tra l’agere re e verbis labeoniano, ed il re
o verbis contrahere di Gaio; e,
dall’altro, tra quest’ultima prospettiva e quella, di Pedio e di
Ulpiano, del re o verbis fieri. In sostanza, dobbiamo
chiederci in quale rapporto si collochino, in chiave procedimentale, l’agere, il contrahere, il fieri in
riferimento a res e verba. Al riguardo, sarà bene rileggere
Ulp. 11 ad ed. D. 50.16.19: Labeo libro primo
praetoris urbani definit, quod quaedam ‘agantur’, quaedam
‘gerantur’, quaedam ‘contrahantur’: et actum quidem
generale verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel
numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci suna@llagma vocant, veluti emptionem venditionem,
locationem conductionem, societatem: gestum rem significare sine verbis factam.
È impossibile, e forse neppure
davvero necessario almeno in questa sede, ripercorrere l’intero travaglio
dottrinale della definitio
labeoniana: ci limiteremo a cogliere, al riguardo, appena alcuni spunti
essenziali, incidenti sulla peculiarità dell’agere rispetto al contrahere.
Dagli esempi addotti dal giurista, e dal complessivo andamento del suo
ragionamento, si ricava che è l’agere la figura generale; mentre il contrahere ed il gerere
si presentano come realtà particolari rispetto ad essa. Come figura
generale, l’agere – che
si realizza re oppure verbis, come nelle ipotesi della numeratio e della stipulatio, cui deve affiancarsi l’expensi latio e, quindi, l’agere litteris[18] – va
senz’altro ricondotto ai tre atti obbligatori di muciana memoria[19],
chiaramente delineati in
Cic. pro Roscio com. 4.13-5.14: (13) Ceteri cum ad iudicem causam
labefactari animadvertunt, ad arbitrum confugiunt, hic ab arbitro ad iudicem
venire est ausus! qui cum de hac pecunia tabularum fide arbitrum sumpsit,
iudicavit sibi pecuniam non deberi. Iam duae partes causae sunt confectae;
adnumerasse sese negat, expensum tulisse non dicit, cum tabulas non recitat.
Reliquum est ut stipulatum se esse dicat; praeterea enim quem ad modum certam
pecuniam petere possit non reperio. Stipulatus es – ubi, quo die, quo
tempore, quo praesente? quis spopondisse me dicit? Nemo. (14)
Hic ego si finem faciam dicendi, satis fidei et diligentiae meae, satis causae
et controversiae, satis formulae et sponsioni, satis etiam iudici fecisse
videar cur secundum Roscium iudicari debeat. Pecunia petita est certa; cum
tertia parte sponsio facta est. Haec pecunia necesse est aut data aut expensa
lata aut stipulata sit. Datam non esse Fannius confitetur, expensam latam non
esse codices Fanni confirmant, stipulatam non esse taciturnitas testium concedit.
Per difendere Roscio nella causa civile
intentatagli da Fannio, Cicerone contesta la genesi stessa
dell’obbligazione di certam
pecuniam dare oggetto della pretesa: di necessità,
l’obbligazione può sorgere unicamente re (aut data), litteris (aut expensa lata) o verbis
(aut stipulata). Il creditore per
primo esclude la prima configurazione genetica; i codices del medesimo escludono il nomen transscripticium; la verborum
obligatio è esclusa per il silenzio dei testimoni sul punto. Dunque
il convenuto nulla deve, sicché secundum
Roscium iudicari debet.
In sostanza, alla prima metà del
I secolo a.C. è l’agere re, litteris o verbis, inteso come atto obbligatorio, lo schema essenziale –
proprio, come si diceva poc’anzi, dell’elaborazione muciana –
adoperabile per dar vita al vincolo di certum
dare, protetto – in convinta adesione in sostanza alla tesi del Kaser[20]
sulla portata della lex Aebutia
– dalla condictio,
invariabilmente esperibile con efficacia iure
civili sia nella sua orginiaria struttura ancorata al lege agere, sia nella sua recenziore configurazione per formulas.
In questo quadro, l’agere re, verbis (e litteris,
dovendosi ritenere solamente caduto questo riferimento in D. 50.16.19) tenuto
presente da Labeone sembra produrre il vincolo, a voler provare ad adoperare le
nostre categorie dogmatiche, alla stregua più di un atto in senso
stretto che di un atto negoziale: in sostanza, pur nella tendenziale
inadeguatezza di questo approccio teorico, si può forse dire che, nei
contesti considerati, il volere venga in rilievo in quanto orientato più
che altro alla imputazione in capo alle parti di un effetto già
interamente previsto dall’ordinamento; ed è in questo senso che, a
mio parere, può dirsi che il giurista separi l’atto dal fatto[21].
Per converso, nella partitio[22] delineata
dall’argomentazione del giurista il contrahere
ed il gerere vanno riferiti, per
così dire, a due ‘nicchie’ – introdotte da un autem – che, evidentemente, non
rappresentavano per Labeone la prospettiva ordinaria: con la prima espressione,
egli faceva riferimento ai vincoli reciproci scaturenti da atti socialmente
tipici per le civitates mediterranee,
ancora in via di recezione nel ius civile
di Roma; con la seconda, il sine verbis
fieri della res lascia pensare a
figure che – quasi in via residuale rispetto all’agere ed al contrahere – prescindono dal ricorso a verba costitutivi, come avviene per la stipulatio, ma allo stesso tempo non sono idonee a generare ultro citroque obligatio. Al riguardo,
quantunque la questione sembri destinata a rimanere aperta, non si può
escludere che il giurista avesse in mente, a chiusura della tricotomia del contrahere, ma in immediata
prossimità di essa, essenzialmente il mandato[23],
tanto più ove si ritenga che i relativi contorni, ancora in via di elaborazione
per epoca augustea, si caratterizzino per una «dialettica mai sopita, fra
unilateralità ‘strutturale’ e bilateralità
‘funzionale’»[24].
Si può dire, in sostanza, che per
Labeone l’agere sia la figura
‘principe’ – una «categoria generale»[25],
suscettibile di divisio nelle species dell’agere re, verbis e litteris – adoperabile per la
creazione di vincoli e che – lasciando in disparte il gerere – il contrahere si collochi semplicemente a suo fianco[26],
quasi in un rapporto di giustapposizione. In altri termini, agere ed actum vanno riferiti all’atto obbligatorio ordinariamente
configurato dal ius civile
quiritario, a struttura formale ed efficacia unilaterale; contrahere e contractum
all’atto obbligatorio ‘nuovo’, a struttura informale ed
efficacia bilaterale, che l’ordinamento della civitas stava progressivamente accogliendo dal ius gentium: dell’uno come dell’altro schema il
giurista doveva indicare, tramite quello stesso passaggio da nome comune a nome
proprio che connoterà la classificazione ulpianea delle conventiones, tre species, identificate rispettivamente da stipulatio, numeratio, expensi latio, e da emptio venditio, locatio
conductio, societas.
Labeone è, in fin dei conti,
sulla stessa linea di Quinto Mucio, che – nell’interpretazione data
da Pomponio e confluita in D. 46.3.80 [27] –
giustapponeva la struttura formale della fattispecie estintiva dei vincoli
sorti verbis, re, litteris,
all’informalità del nudus
consensus per i casi dei vincoli sorti da compravendita e locazione: e non
è un caso che Quinto Mucio muova dall’aequitas – intesa come fattore di sviluppo delle regole
normalmente applicabili[28], sentite
però come insufficienti per le esigenze economico-sociali prese in
considerazione: e si pensi appunto all’actum inteso come generale
verbum – in ragione della
‘novità’ delle figure – quali appunto compravendita e
locazione – in via di recezione nell’ordinamento della civitas.
A questo punto è agevole
percepire, sul piano innanzitutto linguistico, la distanza tra la
centralità dell’agere
per Labeone, e la centralità, semmai, del contrahere nell’esposizione gaiana, che si apprezza per il
tramite del filtro costituito dalla riflessione di Pedio[29],
nonché forse, ancor prima, quale possibile esito della forza propulsiva
dell’agere verbis, struttura
convenzionale ab origine[30],
astrattamente equiparabile, sul piano effettuale, all’agere re ed all’agere litteris solo ove determinante
vincoli di certum protetti da condictio, ma tendenzialmente irriducibile
a queste ultime ipotesi ove determinante, piuttosto, quei vincoli d’incertum per i quali il lege agere era impraticabile, con
conseguente ricorso alla concessione delle prime formulae inter cives[31].
E dunque, mentre l’agere re o verbis, inteso – in via di tendenziale opzione ricostruttiva
– come ‘atto’, era suscettibile d’imputare un effetto
in linea di principio – ma con il significativo fattore di sviluppo
costituito dalla stipulatio per le
prestazioni di incertum –
predeterminato, la rilevanza procedimentale della conventio segna, nella prospettiva gaiana – e quindi,
verosimilmente, di area sabiniana –, il passaggio dalla centralità
dell’atto e della correlata rilevanza costitutiva dell’indice di
giuridicità esterno e formale che lo connota alla centralità
della conventio e della sua
attitudine a rendere vincolanti assetti d’interessi riconosciuti come
meritevoli presso tutte le gentes humanae,
e quindi in quanto tali sganciati da un simile requisito procedimentale.
Sul piano linguistico, questo
svolgimento si percepisce bene, a mio parere, nella circostanza che ad essere verbum generale per Labeone era l’agere, mentre per Ulpiano, per
l’appunto, è ora la conventio,
indefettibilmente interna alla fattispecie anche quando la figura contrattuale
si formi re o verbis. Rileggiamo, però, per aver più chiara questa
prospettiva, un testo famosissimo,
Gai 3.89: Et prius videamus de his, quae ex contractu nascuntur. Harum autem quattuor genera sunt: aut
enim re contrahitur obligatio aut verbis aut litteris aut consensu.
Nel quadro sinora emerso, a me pare che
la sistemazione istituzionale gaiana – pur presupponendo un’idea di
contratto forse meno ampia di quanto, di recente, si tenda ad ipotizzare[32]
– esprima a chiare lettere il viatico, nella seconda metà del II
secolo, verso la prospettiva che Ulpiano suggeriva recuperando idee pediane:
dall’agere re et verbis cui
faceva da contrappunto il contrahere,
si giunge ad una costruzione interamente imperniata sul contrahere, sicché il re,
verbis, litteris contrahere non è più imputazione di un
vincolo scaturente da un ‘atto’ proceduralmente formale, ma accordo
sullo scopo pratico del ricorso ad un indice esterno e formale di
giuridicità che perfeziona la figura contrattuale rendendola vincolante;
per converso, il consensu contrahere
– che sembra quasi una ‘novità’, ma reca in sé
la storia stessa dell’obligatio
romana – è visto sullo stesso piano degli altri tre genera dal punto di vista della
rilevanza intrinseca ed indefettibile della conventio,
ma da essi si distanzia in quanto appare dotato di una pure intrinseca forza
causale che assurge ad indice di giuridicità, come dice il Garofalo,
«interno e contenutistico»[33].
D’altro canto, a muoversi sul
piano delle tutele e, soprattutto, della tecnica formulare, è sempre in
questa costante osmosi tra ‘antico’ e ‘nuovo’ che si
può forse intravedere un ulteriore aspetto rilevante: come la lex Aebutia, legalizzando la condictio formulare, offriva a Labeone
il presupposto per considerare generale
la terminologia ‘actum’ a
significare lo strumento ordinariamente utilizzato dai cives per creare l’obligatio,
così la lex Iulia iudiciorum
privatorum, con la legalizzazione di qualsiasi altra tutela in ius concepta e la conseguente piena
protezione iure civili dei vincoli di
incertum – tra i quali
emergevano non solo quelli ex
stipulatione, ma anche e soprattutto quelli di buona fede che sorgevano
dalle figure contrattuali ricordate da Labeone –, creava il presupposto
per la ‘trasfigurazione’ dell’agere nel contrahere, che
pone le antiche figure muciane sullo stesso piano – nel segno di quella conventio che è il
‘nuovo’ verbum generale,
ma allo stesso tempo riemersione di un’intuizione decemvirale, dovuta al
‘Geschichtsverständnis’ di Pedio, di Gaio, di Ulpiano –
di quelle del ius gentium.
Ed allora, se forse ancora con Pedio
«gli atti diretti a creare obbligazione, ma che la producono con i
meccanismi obbligatori del re obligari,
del verbis obligari e del litteris obligari, non sono contractus»[34],
per la via da lui indicata sono destinati di necessità a divenirlo[35],
come del resto appare implicito nell’endiadi che – a mio avviso
indiscutibilmente[36] – connota
il dictum Pedii.
Una riconfigurazione, questa, che si
percepisce con chiarezza per epoca severiana, quando anche il segno ‘fiducia’ diverrà nomen contractus[37];
ma che, allo stesso tempo, affonda le sue radici su risorse precedentemente
elaborate tra I e II secolo, che portano, fra l’altro, a limare la
distanza teorica, di per sé innegabile, che intercorre tra condictio – a presidio dell’obligatio re, verbis, litteris –
ed azioni ‘contrattuali’[38]: in un certo
senso, si potrebbe forse dire – recuperando idee che, come noto,
circolano nel pensiero privatistico italiano a seguito delle penetranti
indagini sul formalismo condotte dall’Irti[39] – che il
sistema contrattuale severiano, rielaborando una grande linea di tendenza che
giustappone l’antico al nuovo, conosca e distingua ‘strutture
forti’ e ‘strutture deboli’, rispettivamente riconducibili al
re, verbis, litteris contrahere
le prime, ed al consensu contrahere
le seconde; ma che – al di là della ‘forza’ o della
‘debolezza’ della struttura della fattispecie – le une come
le altre siano pur sempre figure di contractus.
D’altronde, non riterrei
irragionevole ritenere che proprio la duttilità del condicere – in ragione della sua attitudine a proteggere
l’obbligazione ‘in sé’, a prescindere dalla deduzione
del relativo titolo – possa aver favorito una tendenziale assimilazione,
a fronte di vincoli derivanti da figure che hanno in se una conventio, di
alcune tutele restitutorie a quelle contrattuali, specie in coincidenza con il
progressivo riconoscimento di posizioni tutelabili, nel processo classico,
mediante iudicia contraria.
Se ora riprendiamo l’esame di D.
2.14.1.3, ci rendiamo conto del fatto che Pedio, in ultima analisi, suggeriva
un recupero dell’originario rapporto – risalente
all’«invenzione dell’obbligazione»[40]
con il riconoscimento del lege agere per
iudicis postulationem nella legislazione decemvirale – tra conventio e consensus da intendersi, nella sua ‘centralità
storica’, quale primo ed indefettibile nucleo procedimentale di qualsiasi
fattispecie contrattuale, finanche quelle – risultato
dell’evoluzione concettuale dell’agere labeoniano: le ‘strutture forti’, se così
vogliamo chiamarle – il cui perfezionamento impone il ricorso ad un
meccanismo procedimentale di secondo livello, vale a dire il ricorso
all’indice esterno e formale di giuridicità a suggello
dell’idoneità della conventio
a produrre l’obbligazione.
Siamo ora in grado di percepire la
distanza tra il re, verbis, litteris contrahere gaiano ed il re, verbis, litteris fieri di (Pedio e) Ulpiano.
Al riguardo, innanzitutto, non mi pare
che questa distanza possa individuarsi in una prospettiva, per così
dire, ‘evolutiva’: il fieri
non rappresenta una configurazione più matura del contrahere. Semmai, il fieri
della fattispecie mostra chiaramente l’approccio in senso procedimentale
del giurista, che si occupa non già delle singole figure contrattuali,
ma della disciplina ed efficacia formativa ad esse riferibile. Sicché il
contrahere, nella trattazione
istituzionale di Gaio, è risorsa innanzitutto espositiva, che pone al
centro dei quattuor genera la conventio, differenziata per tramite del
«momento determinante per la nascita dell’obbligazione»[41];
il fieri, invece, risponde alla
logica della configurazione di un procedimento formativo della fattispecie, sicché
il divenire di essa si coglie nell’individuazione della sequenza di volta
in volta rilevante.
In questa chiave, tra il II ed il III
secolo le tre figure muciane in cui si risolveva l’agere labeoniano presentano una disciplina procedimentale incentrata
sul doppio livello – formazione della conventio
e ricorso ad un indice di giuridicità ad essa esterno e formale –
del meccanismo sinora delineato; l’antico contrahere labeoniano si ferma al primo livello, non essendo
necessario, per via della tipicità funzionale riconosciuta sul piano del
ius gentium, giungere al secondo.
Delineata per linee essenziali la
prospettiva della disciplina procedimentale che emerge nel discorso del
giurista, appare a mio parere ancor più evidente la sostanziale
classicità del fr. 1.4 di D. 2.14, in cui Ulpiano passa dal fieri al transire in nomen: in sostanza, mentre il fieri evidenzia la disciplina ed efficacia procedimentale, il nomen – il transire in nomen – rappresenta quella che, per noi, è
semmai la disciplina ed efficacia sostantiva, vale a dire
l’individuazione della fattispecie già formata, che apre le porte
alla configurazione della sua efficacia. Ed è in questo rapporto tra fieri e nomen – sul cui sfondo si staglia la distanza tra prospettiva
procedimentale e prospettiva sostantiva – che il giurista coglie
l’incontro tra un più antico un sistema formale di genesi del
vincolo, ascrivibile alle logiche proprie del ius proprium civitatis, ed un altro, non esclusivo della civitas, ma da questa recepito per
condivisione con le altre gentes humanae,
e per questa via recenziore nella sua valenza civilistica.
Il fin
de non-recevoir che un’autorevole lettura[42]
aveva prospettato in ordine ai problemi sottesi dai riferimenti di Ulpiano (D.
2.14.5) e di Paolo (D. 2.14.6) alla legitima
conventio, insieme con le innegabili difficoltà ricostruttive ad
essa connesse, ha finito per implicare, quasi di necessità, una visione
parziale della problematica contrattuale nel diritto romano, tutta polarizzata,
in via pressoché esclusiva, sulla rilevanza della iuris gentium conventio, e quindi su una sola delle due –
alternative ed uniche – species
della conventio ex privata causa.
Secondo questa prospettazione, sarebbe «ovvio» che le «obligationes ex contractu dell’antico
ius civile» – le obligationes verbis e litteris, e comunque il mutuo –
«non possano rientrare nella legitima
conventio, della quale, nel Digesto, dà la definizione Paul. 3 ad ed. D. 2.14.6, l’altra species che, accanto a quelle iuris gentium è compresa nella privata conventio»[43],
e ciò in quanto «essa riguarda specifiche disposizioni normative,
contenute in una legge od in un senatoconsulto, né può riferirsi
a quelle XII Tavole cui si potevano riportare, in definitiva, gli antichi
negozi obbligatori del ius civile (ad
eccezione dell’expensilatio)»[44].
Io credo, invece, opportuno riprendere
anche in questa sede l’esame del problema, onde vagliare se ed in quale
misura la legitima conventio, e forse
ancor più il modello teorico e metodologico che fornisce
all’elaborazione dei prudentes,
abbia avuto un ruolo nella costruzione della fattispecie contrattuale.
Alla luce di quanto sinora emerso, come
ho avuto modo di rilevare in una recente indagine in cui ho ampiamente indagato
su uno spunto suggerito da Álvaro d’Ors[45],
io credo che l’esemplificazione di Ulpiano nel fr. 1.4 non possa
considerarsi – specie ad attribuire al giurista severiano il tratto
finale del fr. 1.3 – un glossema rientrato nel testo[46],
ma debba leggersi quale indicazione di due nomina
di convenzioni il cui fieri non
abbisogna di indici esterni e formali di giuridicità, ed altri due di
convenzioni il cui fieri non
può farne a meno, l’una che – per l’appunto – re fit, vale a dire la fiducia, l’altra che verbis fit, vale a dire la stipulatio:
Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.1.4: Sed conventionum
pleraeque in aliud nomen transeunt: veluti in emptionem, in locationem, in
[pignus] <fiduciam> vel in stipulationem.
Quanto osservato[47]
equivale, secondo me, ad ipotizzare che egli così anticipasse, rispetto
alla classificazione delle conventiones
che leggiamo nel successivo fr. 5, due nomina
di iuris gentium conventiones e due nomina di legitimae conventiones.
Esaminiamo, infatti,
Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.5: Conventionum autem
tres sunt species. aut enim ex publica causa fiunt aut ex privata: privata aut
legitima aut iuris gentium. publica conventio est, quae fit per pacem, quotiens
inter se duces belli quaedam paciscuntur.
Il passo di Ulpiano è assai
discusso, specie per quanto concerne la problematica individuazione delle
figure di legitima conventio. Per un
corretto approccio alla questione, è per me indispensabile tener conto
del fatto che, nella complessiva argomentazione del giurista, emerge una
tecnica espositiva polarizzata su dicotomie successive del nomen generale ‘conventio’: la prima dicotomia
immediatamente percepibile in chiave privatistica è quella tra accordi negotii contrahendi causa ed accordi negotii transigendi causa, vale a dire
strumentali a dar vita od a porre fine ad un affare[48];
quindi la maggior parte delle convenzioni passa in un suo specifico nomen, indicativo di fattispecie
formata, come ad esempio vendita e locazione da un lato, fiducia e stipulatio
dall’altro; infine, al di là della dicotomia considerata in
apertura, esistono tre categorie – a ben vedere, «classi terminali
di una doppia dicotomia successiva»[49] – di conventiones, l’una ex privata causa (che evidentemente
può essere strumentale, come suggeriva il giurista in apertura, a contrahere oppure a transigere), l’altra ex
publica causa; e quella ex privata
causa può risultare legitima
o iuris gentium.
Ed è in quest’ottica che le
dicotomie successive del genus
considerato – ‘conventio’,
appunto – inducono a ritenere che i quattro esempi indicati nel fr. 1.4
corrispondano, come si diceva, a due nomina
di iuris gentium conventio, e a due nomina di legitima conventio, che hanno dunque il ruolo di ‘coppie
diaretiche’[50].
In sostanza, nel fr. 5 – in cui
ritorna in termini generalizzanti la prospettiva del fieri, che dunque rappresenta la chiave di lettura per riconoscere
l’esistenza di problemi attinenti alla disciplina ed efficacia
procedimentale in qualsiasi figura negoziale bilaterale – si chiude un
discorso da cui emerge che la iuris
gentium conventio ‘diviene’ e ‘transita’ in un proprium nomen (ad esempio, ‘emptio’ o ‘locatio’) senza il ricorso ad
indici esterni e formali di giuridicità, essendo a tal fine sufficiente
la sua peculiare rilevanza causale universalmente condivisa; e che la legitima conventio ‘diviene’
e ‘transita’ in un proprium
nomen (ad esempio ‘fiducia’
o ‘stipulatio’) mediante
il ricorso agli indici formali dello spostamento patrimoniale (conseguente al
ricorso all’atto formale di alienazione nella fiducia, che deve considerarsi costitutivo di essa come fattispecie
contrattuale) o dell’impiego dei verba.
Ad orientarsi in questa direzione[51],
e tenendo conto altresì di interessanti spunti suggeriti da una risalente
ed autorevole dottrina[52], la legitima conventio appare, come tra poco
vedremo meglio, come l’accordo che affonda le sue radici – la sua
‘vincolatività’ – nell’esperienza del ius proprium civitatis, e che
dall’agere re et verbis labeoniano
giunge, per la via indicata da Pedio[53], al re et verbis contrahere della
sistematica istituzionale gaiana; iuris
gentium conventio è, invece, l’accordo che affonda le sue
radici nell’esperienza giuridica condivisa dalla civitas con le altre gentes
humanae, il cui vincolo configura un oportere ex fide bona, comune
denominatore processuale[54] come sostanziale
dell’elenco che riscontriamo in
Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7 pr.:
Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam exceptiones. (1) Quae
pariunt actiones, in suo nomine non stant, sed transeunt in proprium nomen
contractus: ut emptio venditio, locatio conductio, societas, commodatum,
depositum et ceteri similes contractus.
L’ulteriore
dicotomia suggerita dal giurista nel prosieguo del suo discorso distingue, tra
le iuris gentium conventiones, quelle
che generano azioni, e quelle che generano eccezioni. Le prime transitano in un
proprium nomen contractus: i primi
due nomina di esse, emptio e locatio, sono quelli già ricordati, e non a caso, nel fr.
1.4, sicché Ulpiano ricorre qui, come già ho avuto modo di
osservare[55],
alla «menzione o trattazione dei diversi tipi secondo sequenze
regolari»[56];
gli altri nomina fanno parte di un
elenco uniforme dal punto di vista della configurazione della tutela.
In
questo quadro, non sembrano cogliere nel segno tutte quelle esegesi – con
specifico riferimento a quella del Talamanca[57], ma anche, di
recente, del Cannata[58] – che
riconoscono la riconducibilità a nomina
contractus delle sole figure sottese
da iuris gentium conventio, o
comunque – ma la distanza è minima – di quelle riconducibili
ad obligationes consensu contractae.
Semmai, io credo che, nel pensiero ulpianeo, le due species della iuris gentium
conventio e della legitima conventio
trovino sintesi nella categoria sovraordinata della conventio ex privata causa, che finisce per avere un ruolo
‘unificante’ delle figure contrattuali conosciute
dall’editto: Ulpiano, del resto, come evidenziava esattamente il Burdese[59],
scriveva questi tratti dell’ad
edictum più o meno contestualmente all’emanazione della constitutio Antoniniana de civitate,
sicché il risultato pratico della sua trattazione doveva essere in fin
dei conti funzionale a chiarire come il regime strutturale dei meccanismi di
tutela – ormai astrattamente uniformi per tutti gli incholae dell’Impero, divenuti novi cives –
potesse giustificarsi pienamente solo nella prospettiva storica che li aveva
visti sorgere.
E
così, le obligationes sorgenti
da iuris gentium conventiones che
transitano in un proprium nomen
contractus hanno tutela formulare al quidquid
ob eam rem dare facere oportet ex fide bona, che non si riscontra mai[60]
per quelle scaturenti da figure di legitima
conventio, ovvero – in ipotesi, e come vedremo meglio tra poco
– le obbligazioni sorgenti, essenzialmente, da stipulatio, fiducia e mutui datio: il che, se vogliamo, evoca
la distinzione[61]
tra i ciceroniani sine lege iudicia[62], ed i iudicia basati sulla lex
intesa come fonte ultimativa del ius
proprium civitatis, i quali, ai tempi di Ulpiano, erano i iudicia stricti iuris cui si affianca, a
guisa di ponte, l’actio fiduciae[63].
Alla ricostruzione sinora proposta,
invero, non è – almeno a mio modo di vedere – ostativa
l’idea che Paolo, in un frammento visibilmente alterato, doveva avere
della legitima conventio,
conservataci in
Paul. 3 ad ed. D. 2.14.6: Legitima conventio est quae lege aliqua <...> confirmatur. <…>
[Et ideo] <…> interdum ex pacto actio nascitur vel tollitur,
<…> [quotiens lege aut senatus consulto adiuvatur].
Gli emendamenti al testo sono tuttora
quelli che proponevo in una recente indagine[64], in cui mi era parso
plausibile prendere le mosse da sch. 2 ad
Bas. 11.1.6 [65]
e da Paul. 1 manual. Vat. Fragm. 50 [66].
Non è possibile, in questa sede, riesaminare compiutamente queste fonti;
mi limiterò dunque ad osservare, ad estrema sintesi dei risultati cui
ero pervenuto, come nelle tracce del discorso di Paolo in D. 2.14.6
l’espressione ‘confirmare’,
a mio parere ascrivibile a quel che resta del sostrato classico
dell’originaria argomentazione, sia adoperata con riferimento alla
legislazione decemvirale, e segnatamente – nel frammento conservatoci nei
Vaticana – ad una specifica
configurazione della deductio usus
fructus. Si tratta, non a caso, della stessa fattispecie di cui discuteva,
in una lezione su D. 2.14.6, l’antecessor
beritense Stefano, il cui ‘Geschichtsverständnis’ – se
si tiene conto dell’ampiezza di una lettura di gran lunga più
articolata di quanto si legga nella scarna definizione adottata nel Digesto[67]
– difficilmente faceva a meno del ricordo del testo originale paolino.
In questo quadro, se si tiene altresì
conto del fatto che i giuristi classici, e lo stesso Paolo[68],
adoperano l’espressione ‘lex
aliqua’ con riferimento a dati normativi del ius civile repubblicano[69], tra cui la
legislazione decemvirale, più che avallare la correzione proposta dal
Beseler[70]
del termine ‘aliqua’ con
l’espressione ‘XII Tabularum’,
mi pare plausibile ritenere che la legitima
conventio sia semplicemente l’antitesi ordinamentale – in cui
si esaurisce la dicotomia di Ulpiano in D. 2.14.5 [71]
– della iuris gentium conventio:
vale a dire un accordo solo apparentemente nudo, che quindi genera comunque
l’actio perché – a
prescindere dal riscontro di una funzione meritevole – trova a priori la sua forza nei dati normativi
del ius civile, dati che,
nell’esperienza a cavaliere tra II e III secolo, sono peraltro sentiti
come vigenti solo in quell’interpretatio
che non può fare a meno di andare alla ricerca del suo principium.
La lex
che entra nell’argomentazione di Paolo, in buona sostanza, è
‘aliqua’ nel senso che fa
riferimento a realtà esistente, ma non individuabile[72],
sicché a priori non ci
consente di pensare a «specifiche disposizioni normative»[73]:
in altri termini, essa è ‘aliqua’
perche ‘dissolta’ nella sola
interpretatio in cui consiste il ius
civile[74],
ma allo stesso tempo vigente come principium
di essa.
Con specifico riferimento a Tab. 6.1, in
particolare, mi è parso da ricondurre senz’altro alla legitima conventio, tanto più
alla luce dei risultati cui perviene una recente ricostruzione del problema
posto da nuncupationes e leges mancipii[75],
il noto passo di
Gai. 3 ad l. XII Tab. D. 2.14.48: In
[traditionibus] <mancipationibus> rerum quodcumque pactum sit, id valere
manifestissimum est.
Così come Paolo sostiene che legitima conventio è quella resa
salda da ‘lex aliqua’, allo
stesso modo qui Gaio, indagando su un principium
decemvirale che è la potissima
pars della questione da lui trattata, afferma l’evidente valere di qualsiasi convenzione che si
formi nel contesto degli atti formali di alienazione di res[76]:
si tratta della convenzione che sottende, esprimendone la funzione pratica[77],
la mancipatio come l’in iure cessio. Il nesso con i profili
discussi da Stefano nello sch. 2 ad
Bas. 11.1.6 e da Paul. 1 manual.
Fragm. Vat. 50 mi pare evidente; come mi pare a questo punto plausibile che il
cosiddetto ‘pactum fiduciae’,
in quanto convenzione in mancipationibus
rerum, altro non sia se non una (figura di) legitima conventio, riconducibile al principium dettato da Tab. 6.1.
In D. 2.14.6, dunque, il lege aliqua confirmari di Paolo va letto
come individuazione del principium
che sottende l’interpretatio di
dati normativi di ius civile
repubblicano – con riferimento agli esempi ulpianei nel fr. 1.4, per la fiducia si può pensare, come si
accennava, a Tab. 6.1[78]; per la stipulatio a Tab. 2.1b ed alla tutela per iudicis postulationem[79],
e quindi, in prosieguo, alle leges
che configurano il lege agere per
condictionem, vale a dire la Silia
e la Calpurnia[80]
– con la quale l’esperienza giuridica romana ha progressivamente
riconosciuto forza vincolante – vale a dire attitudine a generare
l’obligatio, ormai creata con
la legislazione decemvirale – alle figure destinate, in più maturi
contesti, a confluire nella (più ampia) problematica dell’agere re e dell’agere verbis e, quindi, del re contrahere e del verbis contrahere, che rappresentano in ultima analisi
l’esito di un percorso culturale e pratico essenzialmente quiritario, e
come tale ‘legitimus’.
Con una peculiarità: la legitima conventio non solo è di
per sé idonea a generare l’actio
a protezione dell’obbligazione da essa prodotta, ma anche a farla venir
meno, come avviene nel caso del transigere
cum fure che, non a caso, trova il suo principium
ancora una volta nella legislazione decemvirale, e segnatamente in Tab. 8.2[81].
Ad orientarsi in quest’ordine di
idee, d’altra parte, anche il mutuo – specie a condividere le
magistrali pagine dell’Albanese[82] sulla storia del creditum – finisce, almeno tra il
II e il III secolo, per divenire una figura di contractus, che in se habet
conventionem, da rintracciarsi in una iusta
causa traditionis – accordo sullo scopo pratico del tradere, che in questo caso consiste nel
generare il creditum – la cui
ancestrale ‘quiritarieta’ – e quindi riconducibilità,
da questo punto di vista, a legitima
conventio – è data non tanto dallo spostamento patrimoniale in
sé considerato, quanto dalla gratuità originaria che lo connota[83],
e dal correlato intervento normativo – dovuto ancora una volta alla
legislazione decemvirale, con specifico riferimento a Tab. 8.18 – funzionale
a stabilire limiti ‘legitimi’
alle usurae una volta configurato il
passaggio, con l’avvento della moneta coniata, dal mutuo di derrate al
mutuo di denaro[84].
Ma riprendiamo l’analisi del
discorso di Ulpiano.
Che la (evidentemente perduta)
‘definizione’ – ammesso e non concesso che tale fosse –
di Ulpiano della legitima conventio
non coincidesse con quella di Paolo – che, fra l’altro, scriveva
prima della constitutio Antoniniana
– è implicito nella scelta dei Compilatori[85]
di discostarsi, su questo punto, dalla trattazione adoperata in via principale
nella costruzione di questa parte del titolo de pactis del Digesto, e di preferire, sul punto, un testo paolino;
nella ‘Geistesart’ del VI secolo, peraltro, è verosimile che
si preferisse recuperare un testo – come quello di Paolo – che si
prestasse ad affermare, sia pure per eterogenesi, la vincolatività di
qualsiasi convenzione riconosciuta espressamente da norme imperiali, piuttosto
che un testo in cui, a ragionare in base al rapporto tra il fr. 1.4 ed il fr. 5
del titolo de pactis, doveva con ogni
probabilità insistersi sulla polarità storico-culturale del ius gentium rispetto al ius civile, senza peraltro entrare in
stridente contraddizione con la scelta espositiva di Paolo[86].
In sostanza, come poc’anzi
accennavo, le convenzioni sottostanti a fiducia[87],
stipulatio[88],
mutui datio[89]
– queste ultime, per di più, normalmente collegate nello
‘Stipulationsdarlehen’ – devono considerarsi, sul piano della
loro genesi ordinamentale[90], istituti propri
dei cives Romani, correlabili a principia normativi di ius civile repubblicano, la cui vigenza
per epoca imperiale – e comunque per epoca severiana, che ormai vi
riconosce, come già emergeva dal terzo commentarius gaiano[91], figure di contractus – è data
dall’esito della relativa plurisecolare interpretatio.
Ciò non significa, per converso,
affermare in termini generalizzanti che ad ogni figura di agere re o verbis –
o comunque di re o verbis contrahere nel linguaggio di Gaio
– debba di necessità dogmatica vedersi sottostante una legitima conventio; né che la legitima conventio sia stata
riconosciuta sottostante unicamente a figure contrattuali[92]:
è ragionevole, semmai, pensare che i prudentes
abbiano tenuto presente questo modello quiritario quale risorsa
pratico-applicativa utilizzabile anche in palese assenza di un principium normativo civilistico,
purché ricorressero i presupposti per una sua progressiva estensione.
Tenderei a leggere in questa chiave ricostruttiva, principalmente, la
problematica del nomen transscripticium[93],
sentito come istituto proprio dei cives,
ma non riconducibile di per sé a dati normativi del ius civile: qui la conventio
che sottende l’iscrizione del nome del debitore nei registri del pater familias può sì
dirsi legitima – e credo che
tale potesse considerarla quanto meno Ulpiano –, ma solo in senso lato,
vale a dire quale recenziore applicazione di modelli, quali quelli or ora
ricordati, rispetto ai quali la connessione con un principium normativo risulta di più agevole verifica. Ed
è dunque in questa prospettiva che la aut data aut expensa lata aut stipulata pecunia di cui parla
Cicerone deve ritenersi sottesa da legitima
conventio.
In questa chiave, la seconda coppia di
esempi portati nel fr. 1.4 di D. 2.14 – fiducia e stipulatio
– sono, in altre parole, per la più matura esperienza classica
figure contrattuali propriae civium
Romanorum: ed è appunto sulla base di questo ricordo sostanziale,
formalmente superato dalla constitutio
Antoniniana, che Ulpiano spiega la classificazione delle conventiones ed il loro rapporto –
rilevante innanzitutto sul piano della tecnica formulare – con i nomina contractus edittali. In estrema
sintesi, le figure contrattuali sottese da legitima
conventio si connotano, sul piano della disciplina procedimentale, per un
meccanismo a doppio livello, costituito dalla formazione dell’accordo
suggellato da un indice esterno e formale di giuridicità, che chiude la
sequenza del fieri: si tratta, in
sostanza, di una conventio sullo
scopo pratico del ricorso allo spostamento patrimoniale, a specifici verba, od al limite – quale figura
propria dei cives Romani, ma recenziore rispetto alle precedenti – al nomen transscribere. Le figure
contrattuali sottese da iuris gentium
conventio, invece, si connotano per il perfezionamento di una conventio che, per la sua rilevanza
funzionale universalmente riconosciuta, non abbisogna di indici esterni e
formali di giuridicità: non è richiesta, direbbe Gaio, alcuna
ulteriore proprietas perché
l’ordinamento le riconosca idoneità a creare l’obligatio. Le une come le altre, intese
come figure di conventiones ex privata causa, transitano comunque in
nomina contractus –
identificativi, sul piano edittale, della disciplina ed efficacia sostantiva di
fattispecie già formate – le cui tutele sono diversificate –
in base alla presenza o meno, nella formula,
della clausola ex fide bona
– in ragione della genesi storica della loro rilevanza ordinamentale[94].
Se vogliamo, come Labeone giustapponeva
l’actum e la sua tricotomia
– stipulatio, numeratio, expensi latio – al contractum
ed alla sua speculare tricotomia – emptio
venditio, locatio conductio, societas – cogliendo
l’interazione tra l’antico ed il nuovo nel riconoscimento delle
figure a struttura bilaterale idonee a produrre l’obligatio, non diversamente Ulpiano, polarizzando la propria
analisi direttamente sulla conventio,
distingue nella dicotomia di quella ex
privata causa l’antico – la legitima
conventio – ed il nuovo – la iuris gentium conventio – che connota la disciplina formativa
e contenutistica delle figure contrattuali per le quali l’editto appresta
una tutela.
Nell’ordine di idee sinora
delineato, allora, i cosiddetti contratti reali del ius gentium, tra i quali Ulpiano ricorda – nel fr. 7.1
– il comodato ed il deposito, rappresentano, a mio modo di vedere, la
traccia della ‘contaminazione’ tra l’antico agere re ed il ‘nuovo’ re contrahere: la conventio che li sottende è senz’altro iuris gentium, e la tutela, per epoca
severiana, è pure basata sull’oportere
ex fide bona; nondimeno, queste
figure, che inizialmente il pretore considerava ‘fatti’,
individuando la conseguente struttura delle tutele, divengono ora nomina contractus la cui disciplina
formativa si colloca a cavaliere tra il re
contrahere quiritario – implicante invariabilmente trasferimento
– e la sua nuova, più ampia configurazione, a mio avviso ben
testimoniata dall’«interporsi» della res «in quanto tale» – l’intercedere della res ipsa di Mod. 2 reg.
D. 44.7.52.1[95],
che va riferito sia all’attribuzione traslativa, sia
all’attribuzione di naturalis
possessio – tra la conventio
ed il suo effetto[96], e comunque sia
al re obligari sotteso da conventio, sia a quello che – come
nell’indebiti solutio –
ne prescinde.
In sostanza, nell’elenco di
Modestino, la cui problematicità tuttora affatica la dottrina senza che
al riguardo possa trovarsi un’esegesi realmente soddisfacente[97],
l’obbligazione è creata non tanto dalla res, ma dalla res ipsa, e
quindi ‘dalla cosa in sé’, vale a dire dalla cosa quale ne
sia il contenuto attributivo – del dominium,
come nel modello più risalente dell’obligatio re, così come della naturalis possessio – implicante un dovere restitutorio,
trasversalmente correlabile all’impossibillità di agire in
petitorio per il recupero del bene[98]: ed è in
questa stessa logica che va letto il discorso del parafraste di Gaio[99]
confluito in Gai. 2 aur. D.
44.7.1.3-7, dove – pur recuperandosi, con il correttivo delle variae causarum figurae, la divisio gaiana dell’omnis obligatio, che Modestino non segue
– comodato, deposito e pegno sono figure riconducibili a re obligari. Ed allora, in una
prospettiva, almeno da questo punto di vista, in fin dei conti non distante da quella
suggerita dal Cannata[100], il
riconoscimento funzionale di queste figure a livello di ius gentium in una certa misura ‘semplifica’
l’indice di giuridicità, per la cui integrazione è
sufficiente l’attribuzione di una naturalis
possessio che è allo stesso tempo requisito naturalistico necessario
– se vogliamo, informale e contenutistico – per la realizzazione
della funzione pratica della figura.
Siamo ora in grado di esaminare il
procedimento formativo delle conventiones
sine nomine: vedremo ora in quali termini gli schemi or ora esaminati,
ancora una volta, in una certa misura interagiscano, ove si consideri che, per
un verso, queste figure contrattuali richiedono, sul piano perfezionativo, uno
spostamento patrimoniale riconducibile ad un trasferimento oppure
all’intervenuta esecuzione di un facere,
sicché da questo punto di vista presentano analogie con
l’evoluzione dell’agere re et
verbis in re et verbis contrahere;
e che, per altro verso, come emerge dal discorso di Ulpiano –
nonché da altri importanti riscontri, su cui avremo modo di soffermarci
– i rapporti scaturenti da queste figure sono protetti al quidquid ob eam rem dare facere oportet ex
fide bona.
Per esaminare la disciplina formativa
della fattispecie contrattuale che non rientri in un nomen edittale occorre muovere, innanzitutto, da
Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7.2: Sed et si in alium
contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso
respondit esse obligationem. ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut
aliquid facias: hoc suna@llagma
esse et hinc nasci civilem obligationem. et ideo puto recte Iulianum a
Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas:
manumisisti: evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a
praetore dandam: ille ait civilem incerti actionem, [id est praescriptis
verbis] sufficere: esse enim contractum, quod Aristo suna@llagma dicit, unde haec nascitur actio.
Ulpiano prosegue nell’argomentazione
contenuta nei frammenti 7 pr.-1, in cui si era evidenziata la dicotomia tra le iuris gentium conventiones suscettibili
di generare l’actio, le quali
tutte transitano in proprium nomen
contractus, con protezione formulare al
quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona, e quelle che
producono solamente la tutela in via di exceptio:
nondimeno, quand’anche l’affare non integri una figura contrattuale
nominata, ma sussista una funzione meritevole, con eleganza Aristone risponde a
Celso che v’è la civilis
obligatio.
Per il momento possiamo fermare qui la
nostra lettura.
Innanzitutto, questa obbligazione, a mio
parere, contiene senz’altro il dovere di (contro)prestazione correlato
alla datio iniziale, ed appare
irriducibile – nonostante un recente tentativo esegetico in tal senso[101]
– all’obligatio auctoritatis ed alla conseguente tutela,
vale a dire l’actio auctoritatis,
astrattamente ipotizzabile per la casistica in esame, ma del tutto irrilevante nella
specifica prospettiva euristica di Aristone.
È, ad ogni modo, in questa
risposta che va ricercato un primo spunto per ricostruire la disciplina
procedimentale della fattispecie contrattuale innominata.
Innanzitutto, occorre muovere, prima
ancora che dal complessivo andamento espositivo, dagli esempi addotti da
Aristone, citato da Ulpiano: una permutatio,
in primo luogo; un trasferimento strumentale a vincolare la controparte ad una
prestazione di facere. Il primo di
essi – quello della permutatio
– è particolarmente interessante: Aristone, giurista
sostanzialmente ‘indipendente’, ma comunque senza dubbio vicino
alla scuola sabiniana[102], sembra
riconoscere nei confronti del più giovane Celso, scolarca proculiano, la
fondatezza della posizione dei diversae
scholae auctores, che negavano alla permuta la riconducibilità allo
schema dell’emptio venditio[103],
né probabilmente – pur non disconoscendo la possibilità di condicere – ammettevano una tutela
in ius concepta, affiancando al
rimedio restitutorio una tutela in factum[104].
A fronte di questa apertura, egli
parrebbe peraltro insistere sulla configurabilità di un’obligatio; ed in questo quadro occorre,
a mio parere, tener conto di
Paul. 5 ad Plaut. D. 19.4.2: Aristo ait, quoniam
permutatio vicina esset emptioni, sanum quoque furtis noxisque solutum et non
esse fugitivum servum praestandum, qui ex causa daretur.
Aristone ritiene che gli strumenti con i
quali il venditore garantisce l’acquirente di servi debbano applicarsi anche alla permutatio, la quale non è considerata equivalente alla
compravendita, ma a questa solamente vicina[105].
Egli, dunque, riconosce la figura come innominata sul piano
dell’architettura edittale, che in epoca traianea ancora non le riserva
una rubrica; nondimeno, suggerisce di trarre dalla vicinitas della convenzione all’emptio venditio una specifica ricaduta pratica, inerente appunto
alla configurazione di un’ipotesi di garanzia per vizi. Le figure, in
sostanza, sembrano vicine sul piano dell’assetto d’interessi,
imperniato allo stesso modo su un sinallagma commutativo, ma lontane su quello
formativo-strutturale, come evidenzia bene il discorso confluito in
Paul. [32] <33> ad ed. D. 19.4.1.2: Item emptio ac
venditio nuda consentientium voluntate contrahitur, permutatio autem ex re
tradita initium obligationi praebet: alioquin si res nondum tradita sit, nudo
consensu constitui obligationem dicemus, quod in his dumtaxat receptum est,
quae nomen suum habent, ut in emptione venditione, conductione, mandato.
In sostanza, insieme con il superamento
– percepibile, a mio parere, già in Iul. D. 19.5.13.1, come
vedremo più avanti – della dissensio
tra le due scuole in ordine alla distinzione tra compravendita e permuta, si
supera altresì, in questo passo dell’ad edictum paolino[106], la correlata
difficoltà incidente sul piano strutturale: non essendo riconducibile ad
una figura qualificata di compravendita, la permuta finisce per avere
invariabilmente struttura non già consensuale, ma reale. Sul piano
procedimentale, insomma, la permutatio
consegue ad un re fieri: il che non
significa – né potrebbe dogmaticamente significare – che la permutatio sia così attratta
«all’area delle obligationes
re contractae»[107]; semmai,
riemerge qui il modello procedimentale dell’agere re, in via di evoluzione, ai tempi di Aristone, verso il re contrahere gaiano, e la sua
recuperabilità per far fronte all’emersione di nuove e diverse
esigenze.
Tutto questo impone ora uno specifico
approfondimento.
Avevo ipotizzato, nei paragrafi
precedenti, che l’agere re et
verbis labeoniano fosse in ultima analisi sotteso da legitima conventio, vale a dire accordo di per sé produttivo
dell’azione in quanto riconducibile ad un principium normativo quiritario, progressivamente sentito come
vigente nella sua sola interpretatio;
ed avevo altresì osservato come sulla base di questo modello emerga
altresì la figura recenziore del nomen
transscripticium, inteso dai prudentes
– seppur in assenza di un riscontro normativo civilistico – come
esclusivo dei cives Romani.
In quest’ordine di idee, è
dunque nel ‘nucleo quiritario’ dell’agere re et verbis che va ricercata la connessione con la legitima conventio delle figure
contrattuali protette da iudicia
privi della clausola ex fide bona.
Ora, l’agere re, verbis e, se
vogliamo, litteris, presuppone la rilevanza
di un accordo sullo scopo pratico del ricorso ad indici esterni e formali di
giuridicità – la proprietas
di cui parla Gaio – per creare l’obligatio, sicché per questa via emerge una chiara sinapsi
con il modello teorico e metodologico della iusta
causa traditionis, che altro non è se non «l’accordo
sullo scopo per cui avviene la consegna materiale della cosa»[108].
Il che non significa che la iusta causa
– è appena il caso di dirlo – nelle sue più varie
applicazioni debba sistematicamente identificarsi con una legitima conventio: basti pensare, del resto, alla compravendita
che, ove venga in rilievo come iusta
causa traditionis, è di per sé iuris gentium conventio. Semmai, è da dirsi che il modello
dell’agere re conosce, per
così dire, una sua ‘seconda stagione’, in quanto finisce per
trovare applicazione al di fuori del contesto originariamente perimetrato ai
vincoli protetti da legis actio per
condictionem: mi riferisco alle dationes
ob rem, in cui la iusta causa
traditionis è l’accordo sullo scopo di un trasferimento
funzionale a «vincolare l’accipiente ad un dato
comportamento»[109].
Questo accordo rappresenta, a ben
vedere, l’esito di un percorso interpretativo che coglie nel modello
– nel solo modello – delle più antiche configurazioni della legitima conventio il suo sostrato
operazionale. In connessione con le dationes
ob rem, infatti, non vi è affatto una legitima conventio, ma – come si è rilevato[110],
senza forse trarne tutte le possibili implicazioni – una iuris gentium conventio, nel senso che
la convenzione sine nomine passa
‘dal pregiuridico al giuridico’[111],
e ‘diviene’ figura contrattuale, nel momento in cui
l’astratto programma di scambio trova una sua prima parziale
concretizzazione mediante un trasferimento che – in forza della iusta causa che sottende l’atto
traslativo, orientandolo a concretizzare l’assetto d’interessi
programmato in modo da creare il vincolo giuridico in capo alla controparte
– determina una civilis obligatio
azionabile.
In tutti questi casi, in sostanza, siamo
di fronte ad un ‘re fieri’
della fattispecie, e la iusta causa
traditionis sottostante alla datio
assume una funzione formativa, esprimendo lo scopo pratico delle parti di
rendere vincolante la iuris gentium
conventio priva di nomen.
Si coglie, al riguardo,
un’evidente sinapsi con quello stesso meccanismo procedimentale che
connota il ‘divenire’ delle legitimae
conventiones dell’ordinamento esclusivo della civitas in figure contrattuali: le fattispecie sine nomine di cui si discute in questo fr. 7.2, in ultima analisi,
sono una sorta di ‘ibrido procedimentale’, in quanto riconducibili
ad una conventio che, per un verso,
trae la sua forza vincolante non già da un principium normativo quiritario vigente nella relativa interpretatio, ma da una causa sottostante, la cui insussistenza,
per l’appunto, preclude – come chiarisce Ulpiano nel successivo fr.
7.4 – la tutela in via d’azione; e che, per altro verso, abbisogna
nondimeno di un indice esterno e formale di giuridicità[112],
come si riscontra nell’elaborazione dell’agere re et verbis labeoniano riconfigurato in re et verbis contrahere nella più matura esperienza
imperiale, che funge da modello operazionale.
In quest’ordine di idee, il
meccanismo procedimentale si colloca ad un duplice livello formativo: mentre
l’indice esterno e formale di giuridicità, vale a dire la datio, rappresenta il momento determinante per
la nascita del vincolo, l’elemento suscettibile di giustificarla è
la causa che, nei casi considerati,
si concretizza in un suna@llagma,
vale a dire uno scambio[113], da cui appunto
nasce – è significativo l’avverbio ‘hinc’ – la civilis obligatio. In sostanza, la iuris gentium conventio sottesa da causa, ma non riconducibile ad un indice
contenutistico universalmente condiviso da tutte le gentes humanae come avviene nelle figure contrattuali nominate
riconducibili ai contratti consensuali, impone di ricorrere ad un suggello
esterno di serietà: che i prudentes
ricercano recuperando un modello pratico-applicativo a loro ben noto, in quanto
connotante la plurisecolare esperienza nella ricerca della vincolatività
dell’accordo in funzione della produzione dell’obbligazione di certum dare oportere squisitamente
quiritaria, come tale protetta dalla condictio.
Da questo punto di vista, io credo che
la difficoltà in cui è incorsa ed incorre la dottrina nel
tentativo di identificare – come peraltro credo si debba – le
rispettive aree di autonomia concettuale del subesse causa, del suna@llagma e della datio vada
ricercata nella mancata percezione della valenza essenzialmente procedimentale
e formativa di quest’ultima[114],
che va intesa non già in una tendenziale equiparazione tra i contratti
innominati ed i contratti reali[115], che non pare
una prospettiva dogmaticamente accettabile[116]
oltre che lontana dal modo di pensare dei Romani, ma nell’eterogenesi del
modello dell’agere re,
adoperato in questa casistica nel senso che l’intervenuta esecuzione
della prestazione, una volta ricondotta all’area concettuale della
disciplina procedimentale, «viene a dar forza all’accordo, a
renderlo vincolante»[117].
L’obligatio re, in sostanza, s’incentra su uno spostamento
patrimoniale che impone un riequilibrio di esso, per modo che
l’obbligazione è, appunto, creata ‘dalla cosa’; il re fieri della fattispecie contrattuale
considerata da Aristone vincola semmai ad una prestazione corrispettiva.
Ciò significa che senza la datio
la conventio che non transita in una
figura contrattuale tipica non è idonea a creare il vincolo: come,
quindi, l’indice esterno e formale di giuridicità rinforzava un
contesto funzionale non immediatamente percepibile – una causa esterna,
direbbero i civilisti contemporanei – nell’agere re et verbis, così nei casi in cui non emerga forte e
chiara una funzione universalmente condivisa da tutte le gentes humanae – acquistare, locare, stringere
società, cooperare nell’altrui sfera giuridica – e per
questo a priori meritevole, i prudentes ritengono insufficiente una
disciplina procedimentale puramente consensuale, e recuperano una linea di
tendenza propria della civitas e mai sopita, imponendo –
con la rilevanza costitutiva della datio
ob rem – un indice esterno alla iuris
gentium conventio non già ‘funzionalmente universale’,
ma semmai ‘funzionalmente individuale’, vale a dire funzionalmente
limitata ad un contesto soggettivo emerso in termini circostanziati rilevanti hic et nunc.
In sostanza, mentre il suna@llagma giustifica la nascita
dell’obbligazione, la datio ne
rappresenta il momento determinante, assumendo valenza formativa in quanto
sottesa da iusta causa orientata
‘ob rem’, vale a dire
‘a realizzare un affare’.
Che, del resto, l’esecuzione della
prestazione possa, a determinate condizioni, atteggiarsi a coelemento di un
meccanismo formativo di fattispecie contrattuale è alla base – a
voler cogliere un possibile nesso con una prospettiva teorica contemporanea
–del dato normativo confluito nell’art. 1327 cod. civ., la cui
peculiarità risiede, come si è esattamente rilevato, nel fatto
che «la sequenza ha termine con un atto reale»[118],
vale a dire l’inizio dell’esecuzione, da intendersi come «un
tipico esempio di negozio attuativo»[119].
Ed è appunto in questo quadro che si può parlare di re fieri per un approccio alla
disciplina formativa delle figure contrattuali innominate romane: in questo
contesto la conventio si qualifica
‘iuris gentium’ perché
ad essere universalmente riconosciuto da tutte le gentes humanae è non tanto il suo contenuto, quanto forse
l’idea stessa dell’autonomia privata, vale a dire la libertà
di dar vita, entro certi limiti, a figure contrattuali diverse da quelle
già riconosciute dall’ordinamento, finanche a configurare, se
vogliamo, una sfera di ‘autonomia procedimentale’.
In sostanza, il riconoscimento di
rilevanza costitutiva alla datio ob rem,
intesa come meccanismo formativo della fattispecie contrattuale sine nomine, implica che
l’esperienza giuridica romana non nega a priori la libertà negoziale né ove incidente sulla
determinazione dei contenuti dell’atto, né ove incidente sui
relativi meccanismi formativi. I prudentes
impongono, se vogliamo, in questo caso un doppio indefettibile controllo:
quello sulla causa, e quello
incidente sull’esistenza di un indice esterno e formale di
giuridicità, che rappresenta – quale concreto avvio della
realizzazione del complessivo assetto d’interessi, rilevante sul piano
procedimentale – la serietà delle parti nell’assunzione del
vincolo. Vincolo che, per Aristone, è comunque l’obligatio: negli esempi addotti, si
riscontra una funzione di scambio, la quale, pur non essendo universalmente
riconosciuta da tutte le gentes humanae,
è suggellata dall’esecuzione della prima prestazione programmata,
che perfeziona la fattispecie contrattuale e fa sì che la iuris gentium conventio rientri, pur in
assenza di nomen edittale, nel novero
di quelle quae pariunt actionem.
Nella prospettiva via via emersa, non
credo che Aristone, nel rispondere a Celso, facesse riferimento alla posizione
espressa da quest’ultimo in un testo assai noto[120],
che è bene avere sott’occhio:
Cels. [3] <8> dig. D. 12.4.16: Dedi tibi pecuniam, ut
mihi Stichum dares: utrum id contractus genus pro portione emptionis et
venditionis est, an nulla hic alia obligatio est quam ob rem dati re non
secuta? in quod proclivior sum: et ideo, si mortuus est Stichus, repetere
possum quod ideo tibi dedi, ut mihi Stichum dares. finge alienum esse Stichum,
sed te tamen eum [tradidisse] <mancipio dedisse>: repetere a te pecuniam
potero, quia hominem accipientis non feceris: et rursus, si tuus est Stichus et
pro evictione eius promittere non vis, non liberaberis, quo minus a te pecuniam
repetere possim.
In linea di principio, tenderei ad
escludere che l’argomentazione del giurista esprimesse una sorta di
avversione, sua o comunque della scuola proculiana, per il riconoscimento di
una tutela in via d’azione per l’ipotesi dell’inadempimento
della controprestazione nelle fattispecie contrattuali sinallagmatiche sine nomine. A me pare, piuttosto, che
la soluzione individuata in D. 12.4.16 debba rimanere confinata alla peculiarità
della fattispecie, e come tale fosse percepita nella comunità
scientifica dei prudentes:
l’argomentazione del giurista, invero, non lascia trasparire il ricorso
ad una specifica opzione concettuale applicabile in termini tendenzialmente
generali. Invero, nel caso dell’attribuzione di una somma di denaro per
vincolare l’accipiente a trasferire la proprietà di uno schiavo,
il giurista ragiona essenzialmente domandandosi se possa dirsi che la datio pecuniae stia all’emere come lo Stichum dare sta al vendere[121],
così da ‘rapportarsi’ la convenzione non tanto a contratto
‘prossimo’ alla compravendita nominata, ma appunto a questa precisa
figura[122],
oppure «qui» – vale a dire nella peculiarità del caso
considerato, ed ‘isolando’ di conseguenza la propria interpretazione[123]
– non sorga altra obligatio, se
non quella restitutoria: ed egli è ‘più proclive’ a
questa seconda soluzione, escludendo l’integrazione di una venditio, in quanto – come
rilevavano già i Glossatori, ed in specie Azzone – è contra naturam venditionis che il venditor sia tenuto a rem accipientis facere[124].
Nondimeno, l’assetto
d’interessi è sostanzialmente sovrapponibile, sul piano del suo
significato economico-sociale, alla compravendita: ed è proprio questa
la ragione che sottende l’argomentazione celsina, costruita non
già per prossimità, ma – come si rilevava – pro portione: ed allora, almeno a mio
parere, in quest’ordine di idee non sorge altra obligatio se non quella restitutoria, protetta con la condictio ob rem dati re non secuta,
unicamente perché, nella prospettiva del giurista, le parti finiscono
per optare per uno schema atipico nonostante l’ordinamento preveda uno
schema tipico ad esso in tutto equivalente sul piano economico-sociale, senza
che emerga una qualche nota di meritevolezza di questa opzione incidente su
quello – come oggi si tende a dire – economico-individuale.
Invero, qui l’autonomia privata su
discosta dallo schema nominato dell’emere
vendere innanzitutto sul piano della sua disciplina sostantiva, ove si
consideri che la programmazione di un vincolo a dare Stichum, irriducibile a quello di rem mancipio dare delineato da Gai 4.131-131a e Papin. 27 quaest. D. 22.1.4 pr.[125],
snatura il significato funzionale della compravendita. Una volta esclusa la venditio, peraltro, la convenzione si
discosta dalla figura tipica, quasi per corollario, anche sul piano della
disciplina formativa, in quanto la datio
pecuniae si palesa non già
come (attuativa di) un’emptio[126],
e quindi come solutio di un prezzo,
ma come effettuata ‘ob rem’:
è l’id quod actum est,
in sostanza, che porta a leggere nell’attività negoziale delle
parti un atto reale in luogo di quello tipico puramente consensuale[127].
Tutto questo presenta
un’intrinseca difficoltà: sino a che punto l’autonomia
privata può disporre del tipo negoziale configurato – sul piano
funzionale come formativo – dall’ordinamento? E qual è il
confine tra mera modificazione arbitraria del tipo edittale nominato, e genesi
di una figura innominata, e quindi, se vogliamo, tra ‘anomalia’ ed
‘atipicità’? Sono queste le difficoltà che inducono
il giurista a dichiararsi semplicemente ‘più proclive’ alla
lettura che esclude qualsiasi obligatio,
fuorché quella restitutoria, sicché delle due l’una: o
questo contractus genus si riporta
‘proporzionalmente’ alla compravendita, e solo ad essa, oppure
determina mera dazione ripetibile.
In altri termini, l’astratta
possibilità di dar vita ad una convenzione atipica civilisticamente
rilevante – che Celso non nega, ma semmai dà per presupposta nel
suo ragionamento – non equivale a modificare arbitrariamente un tipo
edittale per raggiungere in fin dei conti un risultato che si palesa
economicamente ininfluente: altro è la convenzione sine nomine, altro è la modificazione del tipo, che deve
considerarsi tendenzialmente indisponibile. Tendenzialmente: perché
Celso sembra rilevare solo una debolezza funzionale – non
un’assenza: ché in caso di esatta attuazione della
controprestazione, non sarebbe sorto alcun problema; d’altronde, egli
qualifica espressamente la convenzione come ‘contractus genus’ – nella convenzione programmata,
non sorretta nemmeno dal pur presente indice esterno dell’intervenuta datio pecuniae, in quanto le parti
disponevano di uno schema tipico – che appunto appare modificato in
termini ultimativamente arbitrari – economicamente sovrapponibile a
quello realizzato.
Ed è in quest’ottica
– escludendo, pertanto, che le parti non avessero raggiunto
l’accordo sul prezzo[128] – che
può altresì osservarsi come, se coglieva un profilo senza dubbio
di centrale rilevanza Azzone, insistendo sull’incompatibilità di
un vincolo a rem accipientis facere
con la natura venditionis, non avesse
allo stesso tempo tutti i torti neppure Giovanni Bassiano, che incentrava la
propria lettura sul problema del rapporto tra tipicità della figura ed
autonomia privata[129].
Quanto osservato trova conferma nelle tres rationes
che la scienza giuridica medievale rintracciava nella seconda parte della legge
dedi tibi.
E difatti, consegue da quanto osserva il
giurista che la fattispecie realizzata non è né vendita,
né altro, né sullo sfondo emerge – nemmeno a livello di
problema – la tutela con l’actio
auctoritatis[130]: con la duplice
conseguenza di considerare ripetibile la datio
pecuniae nel caso della mors servi
inimputabile (dovendosi altrimenti ritenere irripetibile, in quanto la scuola
proculiana professava invariabilmente la regola del periculum emptoris); e di ritenere non realizzato lo scambio
– con conseguente persistente esperibilità della condictio – ove sia fatta la mancipatio di un servus alienus o, specularmente, il dans rifiuti di promittere
pro servi evictione. Dal primo punto di vista, l’arbitrario
discostamento dall’equivalente schema nominato implicherebbe uno
stravolgimento della regola di rischio riconosciuta dalla scuola proculiana
nella compravendita[131]; dal secondo
punto di vista, il giurista individua – sfruttando, e non a caso, il
modello della fattispecie nominata – nel duplice ed inscindibile rapporto
tra legittimazione a disporre e promissio
per il rischio del fatto evizionale – ovvero due facce della stessa
medaglia – l’indice di serietà di una convenzione ai limiti
della meritevolezza nella sua, per così dire, ‘arbitraria
atipicità’. Anche quest’ultima precisazione, allora, deve
ritenersi classica[132]: in sostanza, la
debolezza funzionale della convenzione – debolezza più
significativa di quella che di per sé connota le convenzioni sine nomine, che infatti abbisognano
dell’indice esterno e formale di giuridicità – giustifica
unicamente l’esatta realizzazione dello scambio programmato[133].
Ed allora, da D. 12.4.16 non si
può desumere che Celso ignorasse la tutela apprestata già da
Labeone per le convenzioni sine nomine
– che mostra di conoscere perfettamente tanto nel tratto confluito in
Cels. 8 dig. D. 19.5.2[134],
escerpito, secondo il Lenel, da una discussione in tema di aestimatum[135], quanto in Pomp.
11 ad Sab. D. 13.6.13.2[136]
– né dunque, se non per ingiustificata generalizzazione, si
può inferire che egli – o comunque la scuola proculiana, di cui
è in sostanza l’ultimo corifeo – negasse in linea di
principio tutela in ius concepta per
l’inadempimento della controprestazione[137],
né che le riconoscesse, al limite, un «carattere sussidiario, in
mancanza della possibilità di utilizzare, nel caso specifico,
un’azione edittale tipica»[138].
Semmai, mi pare colgano uno spunto
significativo alcune ricostruzioni che, pur muovendo da diverse vie
d’indagine, giungono a leggere ‘in filigrana’, nel pensiero
celsino ed in particolare nel problematico tratto confluito in D. 19.5.2, il
riconoscimento di tutela in ius concepta
mediante il ricorso ad un criterio di prossimità del caso concreto a
quello tipizzato nell’editto[139]:
in sostanza, Giuvenzio Celso da un lato rifiuta il riconoscimento di figure sine nomine arbitrariamente distanti da
schemi tipici economicamente equivalenti, così affermando a tutte
lettere la (tendenziale) indisponibilità del tipo (Cels. D. 12.4.16);
dall’altro, ove l’opzione dell’autonomia privata non possa
dirsi un arbitrario abbandono della ‘via maestra’ costituita dalle
figure tipiche, si apre al riconoscimento sulla base di un criterio di
prossimità – che va tenuta ben distinta dalla mera modifica del
tipo edittale – a queste ultime (Cels. D. 19.5.2 e Pomp.-Cels. D.
13.6.13.2).
In questo quadro, sarei più
propenso a ritenere che a questo tendenziale criterio ‘di
prossimità’ Aristone opponesse un più appropriato criterio
‘normativo’, imperniato su una rilettura del suna@llagma labeoniano e con esso – come
vedremo a breve – su una ben precisa linea di continuità, a
livello di tecnica formulare, dell’agere
praescriptis verbis nella civilis
incerti actio da lui proposta[140].
Mi pare più probabile, in sostanza, che un primo, assai lato significato
della ‘risposta’ di Aristone a Celso sia da intendersi nel senso
che, nei casi considerati nella sua argomentazione, debba sempre ritenersi
sussistente l’obligatio civilis,
con conseguente tutela in ius concepta,
escludendo così radicalmente quella in
factum[141],
alla quale i prudentes dovevano
ricorrere, caso per caso ed al di fuori di una vera e propria dissensio tra le due scuole sul tema dei
contratti innominati[142], ove non
ritenessero appropriata – in ragione, come dicevo, di un’eccessiva
distanza della figura considerata rispetto a quella, nominata, da prendere a
modello – una formula in ius adattata, per prossimità
appunto, al caso concreto[143]. La prospettiva
che Aristone proponeva, in sostanza, va letta non già come obiezione ad
una specifica soluzione suggerita da Celso, ma come indicazione di massima per
una nuova ‘lettura complessiva’ di questioni circoscritte al
recupero del suna@llagma
labeoniano ed alla sua attitudine, a determinate condizioni incidenti sul
rapporto tra autonomia privata e disciplina tanto formativa quanto
contenutistica, a creare civilis
obligatio.
Viepiù, la risposta si comprende,
forse, ancor meglio ove la si contestualizzi con riferimento al primo degli
esempi addotti in D. 2.14.7.2, vale a dire la permutatio: riallacciandoci a quanto dicevamo all’inizio del
paragrafo 7, infatti, se è vero che «la tesi sabiniana,
considerando la permuta come un’ipotesi di compravendita, presentava
indubbiamente il grosso vantaggio di attribuire al nostro istituto una tutela
processuale fin dal momento dell’accordo attraverso la concessione delle actiones empti et venditi»[144],
è allora altresì plausibile che sia da ascriversi all’area
culturale proculiana la possibilità che fosse riconosciuta una tutela
ulteriore rispetto alla fisiologica possibilità di condicere o, al limite, di esperire l’actio doli: «una tutela ulteriore doveva, infatti, essere
concessa quanto meno attraverso actiones
in factum»[145]. In questo
quadro, Aristone, pur vicino alla scuola sabiniana, riconosceva – come si
è osservato – come corretta la tesi proculiana, che distingueva la
vendita dalla permuta, pur ritenendo quest’ultima vicina alla prima; nondimeno, doveva rimarcare l’esistenza di
un’obligatio civilis,
così escludendo la tutela in
factum, nelle fattispecie contrattuali formate per dationes ob rem ed in particolare nella permuta. E nell’esprimere
questa posizione non poteva che relazionarsi ai Proculiani, e per essi a
Giuvenzio Celso: nel caso della convenzione configurata secondo lo schema del
‘do ut des’ – e
quindi della permuta, ma anche del ‘do
ut facias’ – sorge una civilis
obligatio tutelata da una civilis
incerti actio.
È dunque con Aristone, a mio
avviso, che la tutela non già in
factum, ma in ius concepta viene
considerata senz’altro appropriata per la permutatio: precedentemente, la questione doveva rimanere
controversa in area proculiana[146], non
sussistendo, per la peculiare opzione adottata, ragioni di dissenso in area
sabiniana. In questo contesto, il giurista – vicino alla scuola
sabiniana, ma con significativi rapporti con i Proculiani – sembra quasi
dar vita ad una ‘mediazione scientifica’[147]:
da un lato, si discosta dai Sabiniani, ritenendo la permuta solamente vicina alla compravendita;
dall’altro, suggerisce, innanzitutto per lo schema del ‘do ut des’, la sistematica
ricorrenza della civilis obligatio,
da tutelarsi per il tramite della civilis
incerti actio, che – come vedremo meglio nei prossimi paragrafi
– va ricondotta alla tutela praescriptis
verbis di buona fede individuata a suo tempo da Labeone.
In sostanza, l’opzione per la
rilevanza civilistica – e quindi contrattuale – della conventio deve ritenersi, dunque,
limitata alle convenzioni senza nome edittale sinallagmatiche – è
dal suna@llagma,
‘hinc’, che nasce la civilis obligatio – e comunque
perfezionate in base al meccanismo procedimentale della datio ob rem, che il giurista augusteo non prendeva in
considerazione, dato che, semmai, alla struttura formale ed all’efficacia
unilaterale dell’agere nelle sue tre species giustapponeva la struttura informale – diremmo noi,
meramente consensuale – del contrahere
ad efficacia bilaterale.
Alla luce di quanto è emerso,
diviene a questo punto necessario tentare di delineare in quali termini si
ponga la linea di continuità tra il suna@llagma labeoniano (D. 50.16.19) e quello cui
fa riferimento Aristone in D. 2.14.7.2, la quale, pur se innegabilmente
presente, mi pare nondimeno rimeditata da un duplice punto di vista.
Per un verso, infatti, il giurista
traianeo, nell’affermare l’idoneità delle convenzioni
innominate sinallagmatiche a produrre civilis
obligatio, tiene presente, sul piano della causa, unicamente[148] quelle in cui si
riscontra un suna@llagma
rigorosamente commutativo[149], cui resta
estraneo, a mio modo di vedere, il suna@llagma associativo. Ed invero, il suna@llagma associativo si connota per una valenza
per così dire ‘centripeta’ dello scambio, che indirizza le obligationes reciprocamente assunte dai
soci ad un’«attività di gestione», il cui risultato
è programmaticamente imputato ai soci stessi «mediante la
divisione degli utili e delle perdite»[150]:
quando Labeone ricordava, accanto alla vendita ed alla locazione, anche la societas, egli ravvisava un comune
denominatore nella reciprocità delle obbligazioni[151];
del modello della societas,
recuperando l’idea dell’ultro
citroque obligatio non già sul piano degli effetti, ma su quello
programmatico e normativo del contenuto della fattispecie, Aristone fa invece a
meno.
Per altro verso, egli recupera la
prospettiva labeoniana riportandola dal rapporto all’atto, così da
riconoscere al suna@llagma,
come si è esattamente rilevato[152],
una funzione normativa: il che ha un suo significato teorico e pratico
incidente sull’apertura del sistema romano dei contratti alle figure
innominate.
Premetto di condividere, al riguardo, la
ricostruzione secondo la quale gli interventi di Labeone «si situano
tutti in zone di confine o comunque vicine a figure contrattuali sicuramente
riconosciute o protette, nelle quali non rientravano per ragioni spesso di
fatto ma anche di qualificazione giuridica. La concessione di un’azione
in sostituzione di quella contrattuale avviene, qui, in base a questa
somiglianza: è, in un modo o nell’altro, l’adattamento
dell’azione che sarebbe spettata, ove non vi fossero stati gli impedimenti
di fatto o le incertezze di diritto riscontrato nel caso discusso»[153].
Ed in questa prospettiva, «l’azione così concessa è,
sempre, l’adattamento di un iudicium
bonae fidei od è comunque modellata su un tale iudicium»[154]. A questo
criterio di prossimità, come si è visto, abbiamo correlato
l’ermeneutica edittale, e l’approccio alla tecnica formulare, di
Giuvenzio Celso, ipotizzando che la risposta di Aristone incidesse, in via
generale ed al di fuori da una polemica su una particolare soluzione prospettata,
sulla possibilità di recuperare un criterio normativo fondato sul suna@llagma labeoniano.
Ed infatti, è la riconduzione
aristoniana del suna@llagma
dalla corrispettività di rapporti al contenuto funzionale
dell’atto a consentire un quid
pluris sul piano delle ricadute pratiche della via aperta da Labeone:
ovvero, riconoscere ‘de principe’ tutela in ius concepta alle convenzioni sinallagmatiche innominate –
o, meglio, ad alcune di esse, vale a dire quelle che si perfezionano, sul piano
della disciplina formativa, con l’esecuzione di una prestazione in dando – alla luce della
possibilità di valutare la vicinitas
alle fattispecie tipiche non già ‘a valle’, cioè sul
piano dell’ultro citroque obligatio,
ma semmai ‘a monte’, cioè su quello della loro peculiare
dimensione causale. Sicché, rispetto alla dottrina or ora ricordata, il
dissenso cade – come avremo modo di vedere nel prossimo paragrafo –
unicamente sull’inconfigurabilità, nella soluzione aristoniana in
D. 2.14.7.2, di un iudicium bonae fidei
in stretta continuità processuale con l’agere praescriptis verbis labeoniano[155].
In sostanza, la prospettiva
ricostruttiva di Aristone emergente da D. 2.14.7.2 s’incentra su due
perni, che configurano l’autonomia privata in rapporto tanto al
procedimento formativo, quanto al profilo funzionale della fattispecie
contrattuale formata.
Il primo perno, rilevante sul piano
della disciplina essenzialmente procedimentale, è la datio, che chiude la sequenza formativa
della figura contrattuale, e che nell’impostazione labeoniana non
assumeva alcuna specifica rilevanza in questa specifica prospettiva; il
secondo, rilevante sul piano funzionale, inerisce invece al contenuto della
figura contrattuale, e si identifica nel suna@llagma inteso in senso normativo ed in una
logica strettamente commutativa[156]. La disciplina
formativa e funzionale delle figure contrattuali innominate passa dunque dal
piano del giudizio di prossimità a quelle nominate al piano dello
scambio in senso normativo suggellato dall’esecuzione di una delle prestazioni
programmate.
Sarà Ulpiano, muovendo dal suna@llagma aristoniano, a riconoscere più
in generale l’adeguatezza funzionale delle iuris gentium conventiones prive di nomen in base ad un subesse
causa che contiene in sé il suna@llagma, ma si apre allo stesso tempo alla
valutabilità di un qualsiasi altro assetto d’interessi che appaia
meritevole con la lente dell’interpretatio.
E dunque, Aristone recupera l’esigenza, tipica del riconoscimento
quiritario del concetto stesso di obligatio,
di ricorrere ad un indice esterno e formale di giuridicità ogni qual
volta le figure che Labeone riconduceva a contrahere
non rientrino negli schemi, tipici, consensuali ed informali, recepiti dal ius gentium, sicché vi riconosce
l’obligatio al di fuori di un
criterio valutativo casistico di prossimità purché sul piano
funzionale sia riconoscibile uno scambio – inteso in senso normativo,
come si diceva – suggellato, sul piano formativo, dal suo concreto avvio.
La distanza da Labeone incide, dunque,
sia sul piano procedimentale sia su quello contenutistico: Aristone ne segue,
nondimeno, come ora immediatamente vedremo, le tracce per quanto concerne la
configurazione – sul piano della tecnica formulare – delle tutele
esprimibili.
Restano, ad ogni modo, al di fuori
dall’interpretazione aristoniana le convenzioni senza nome non
sinallagmatiche[157], tra cui quelle
unilateralmente produttive di obligatio
in conseguenza dell’attribuzione, con valenza procedimentale, di naturalis possessio, e le convenzioni,
ancorché sinallagmatiche, perfezionate con l’intervenuta
prestazione di un facere. Se, del
resto, si considera che l’attribuzione di disponibilità non
traslativa, sul piano della dogmatica della prestazione[158],
è, in fin dei conti, il risultato di un facere, tra le due classi di ipotesi non v’è un
abisso: per le prime – e penso, per fare solo un esempio, alla datio ad inspiciendum[159],
per la quale si discuteva se fosse similis
al comodato oppure al deposito – sarà la giurisprudenza severiana,
di pari passo con la riconduzione a figure di contractus del comodato e del deposito stessi, ricordati nel fr.
7.1, a sfruttare ulteriormente la risorsa ormai in espansione, dopo la svolta
aristoniana, dell’actio
praescriptis verbis, a volte reinterpretando spunti già labeoniani;
per le seconde, la tutela in questi termini, a leggere quanto confluito in
Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.3-4[160],
parrebbe prospettiva ancora scientificamente calda tra il II e III secolo,
fors’anche perché appunto il facere
eseguito per vincolare la controparte ad una prestazione corrispettiva non
rientrava nel modello aristoniano. L’estensione di questo modello di
tutela ha comunque alla fine costituito, anche in questi casi, un punto
d’arrivo ineludibile una volta riconosciuta l’attitudine del suna@llagma a comprendere in sé non solo la datio ob rem, ma anche, se vogliamo, il
‘facere ob rem’[161].
Quanto rilevato – è forse
il caso di evidenziarlo – non significa, ad ogni modo, che Aristone, al
di fuori delle dationes ob rem,
negasse a priori la
configurabilità di civilis
obligatio: semmai, sarei propenso a ritenere che lasciasse la questione
aperta alla valutazione dei casi concreti, ritenendo per converso acquisito
questo esito interpretativo con riferimento alle figure perfezionate per
tramite di datio ob rem.
Nell’ottica sinora tratteggiata
emerge un problema alquanto discusso in dottrina[162],
tanto più ove si ritenga di potersi discostare dalla posizione di chi,
con problematico approccio alle fonti a nostra disposizione, considera la
tutela in factum concepta
l’unica esprimibile almeno sino a Giuliano[163].
Ci si chiede, dunque, quale sia la struttura formulare a protezione dell’obligatio, che nella parte finale di D.
2.14.7.2 è rapportata da Ulpiano, che cita Mauriciano, ad una civilis incerti actio.
Sul punto, ritengo plausibile,
innanzitutto, che Mauriciano semplicemente seguisse la posizione di Aristone in
ordine al riconoscimento della tutela per la convenzione sinallagmatica senza
nome, e l’estendesse –
come vedremo nel prossimo paragrafo – ad un contesto particolare,
incidente sull’evizione dell’ob
rem datum, esplicitando altresì quanto per lui doveva esserne il prius logico, vale a dire
l’identificazione del suna@llagma aristoniano con una figura contrattuale (esse enim contractum, quod Aristo suna@llagma
dicit)[164].
Discutere, dunque, della tutela proposta
da Mauriciano significa per me discutere del perimetro applicativo della
medesima struttura ipotizzata da Aristone.
Il problema fondamentale, ad ogni modo,
è dato dalla conceptio verborum
della civilis incerti actio. Al
riguardo, è noto come in dottrina – ed in particolare, nelle
coincidenti ricostruzioni del Burdese e del Talamanca – si tenda a
ritenere che, mentre l’agere
praescriptis verbis proposto da Labeone avrebbe senz’altro contenuto
la clausola di buona fede, questa importante risorsa formulare sarebbe poi
risultata impraticabile con riferimento alla civilis incerti actio di Aristone e Mauriciano[165],
sicché l’ex fide bona sembrerebbe
quasi ‘sparito’ nella rimeditazione che degli spunti labeoniani si
faceva in epoca traianea[166], con una
conseguente, difficilmente comprensibile rinuncia, a favore di un’azione
di stretto diritto, ad una tutela – come riconosce anche la corrente di
pensiero qui criticata – «molto più adeguata ed
articolata»[167].
«In via preferenziale»[168],
allora, sono più propenso a ritenere che anche la formula aristoniana contenesse la clausola di buona fede.
Al riguardo, ed in piena adesione alle
ricostruzioni del Cannata[169] e dello
Schmidlin[170],
ritengo di dover chiarire, prima di andare avanti, che le espressioni ‘actio praescriptis verbis’[171]
o ‘agere praescriptis verbis’
e – seppur isolatamente – ‘actio civilis in factum’[172]
appaiono riferibili, in ultima analisi, a due diversi modi di descrivere una
medesima realtà processuale, e che espressioni quali ‘actio civilis incerti’ o ‘incerti agere’, in questo fr. 7.2
come altrove[173],
sembrano individuare semplicemente una tipologia processuale generale –
un genus formulare – rispetto
al quale la condictio incerti[174]
e l’actio praescriptis verbis,
accanto alle tutele ex stipulatu ed ex testamento[175],
sono species[176].
In questo quadro, può accadere
che, come avviene appunto in D. 2.14.7.2, i prudentes
si esprimano con riferimento a volte al genus
formulare, lasciandone implicita la specificazione[177],
a volte alle relative species:
né dunque escluderei a priori,
quanto meno per gli sviluppi d’epoca severiana della questione, la
fondatezza di un’acuta esegesi – che mi pare perfettamente
compatibile, in linea di principio, con la corrente di pensiero qui condivisa
– secondo la quale, in ultima analisi, le actiones praescriptis verbis altro non sarebbero che figure di
tutela riconducibili alla categoria edittale dell’actio utilis[178], vale a dire
l’azione «che viene così designata in quanto si vuole
indicare che essa si modella su un’azione edittale e ne segue, nei limiti
del possibile, il regime»[179]: quanto, nel
nostro caso, si risolverebbe appunto – specie a ragionare sul tenore di
un rescriptum di Severo Alessandro
del 230[180]
– nel concedere un’«azione munita di una speciale demonstratio»[181],
vale a dire l’azione edittale in
ius concepta ed ex fide bona
prevista per tutte le figure di contratto nominato elencate da Ulpiano in D.
2.14.7.1 adattata nella conceptio
verborum della demonstratio.
Queste precisazioni sono fondamentali,
in quanto la loro condivisione – o meno – finisce inevitabilmente
per condizionare l’esegesi delle fonti a nostra disposizione.
Ulteriormente osserverei, e quasi per
conseguenza, come, sul piano terminologico, sia estremamente problematico
ritenere sistematico frutto di alterazioni testuali il riferimento ai praescripta verba nelle fonti che ne
fanno menzione: con specifico riferimento al nostro passo, vale a dire in D.
2.14.7.2, l’espressione ‘id
est praescriptis verbis’ – che ha tutta l’aria di un glossema
esplicativo, con cui si finisce per generalizzare un’espressione di cui
forse il giurista faceva a meno – parrebbe sì frutto di alterazione,
ma si rivela sostanzialmente innocua, dato che, sul piano
dell’intelligenza del testo, a mio parere nulla cambia[182].
Riterrei, infatti, che questo glossema compendi un’interpolazione
formale, vale a dire un più ampio discorso del giurista classico in cui
doveva probabilmente chiarirsi che, all’interno del genus dell’incerti
agere, nel caso di specie l’azione esperibile era proprio quella praescriptis verbis.
Ciò chiarito, a me pare –
come accennavo poc’anzi – che il comune denominatore processuale
delle iuris gentium conventiones che in proprium nomen transeunt – vale
a dire la tutela al quidquid ob eam rem
dare facere oportet ex fide bona – sottenda, nella prospettiva di
Ulpiano, anche quelle che pariunt
actionem non già in quanto nominate, ma in forza del binomio tra causa ed indice esterno e formale di
giuridicità. Se, del resto, siamo di fronte pur sempre a iuris gentium conventiones – ed
è questo il punto su cui non mi pare si sia sufficientemente insistito
in dottrina – sarebbe ben singolare pensare che queste ultime possano dar
vita a fattispecie obbligatorie protette da un giudizio di stretto diritto, che
appare peculiare di rapporti giuridici propri ed esclusivi dei cives Romani, tanto più ove si
consideri che la clausola di buona fede è il segno che, in tema di
protezione dei rapporti obbligatori, la recezione del ius gentium nel ius civile
lascia nel processo formulare.
D’altro canto, Ulpiano, cui si
deve questa classificazione condotta per dicotomie successive, afferma senza
alcun serio dubbio che l’actio
praescriptis verbis – species, come si è detto, del genus rappresentato dall’agere incerti, e segnatamente
concretizzazione processuale della civilis
incerti actio in D. 2.14.7.2 –
‘ex bona fide oritur’[183]:
sicché mi pare singolare che, citando Aristone e Mauriciano per
arricchire la propria prospettiva euristica, egli tenesse conto del pensiero di
giuristi che in ipotesi optassero, in un più ampio contesto espositivo,
per una tutela di stretto diritto nei casi considerati[184].
Per altro verso, se Aristone finiva per
concordare con i diversae scholae
auctores nel senso che la permutatio
– oggetto del primo esempio addotto in questo fr. 7.2 – non si
identificasse con la compravendita, ma fosse a questa solamente vicina, mi pare singolare, anche da questo
secondo punto di vista, che egli, affermando l’esistenza dell’obligatio, perdesse di vista del tutto
quanto la scuola cui era culturalmente prossimo aveva sostenuto nel I secolo:
se, cioè, la permutatio era
sentita come identificabile con la vendita nella prospettiva sabiniana,
è evidente che in seno a quella scuola la struttura formulare prevista
per la tutela del vincolo altro non sarebbe stata se non l’intentio di buona fede adoperata per le actiones ex empto ed ex vendito. Sicché sarebbe
singolare pensare che Aristone non solo non seguisse, nonostante la sua
vicinanza al pensiero sabiniano, la prospettiva proclive a sovrapporre le
fattispecie, ma altresì pensasse, senza una plausibile giustificazione,
ad una struttura formulare di stretto diritto, quando precedentemente, sempre
in area culturale sabiniana, non si sarebbe neppure pensato – per ovvie
ragioni – di discutere sul punto.
Ad ogni modo, riterrei che, a rinforzare
le pur decisive osservazioni del Cannata, imperniate sullo scolio Maqw@n (sch. 1 di Stefano ad Bas. 11.1.7, in BS, 187), possano forse addursi alcuni ulteriori
indizi nelle fonti a nostra disposizione: infatti, se mi pare ineccepibile
considerare, alla luce del discorso di Stefano (ma anche del rescriptum di Severo Alessandro già
ricordato), l’actio praescriptis
verbis come un’azione munita di una praescriptio in funzione di demonstratio,
l’esegesi del Cannata non sembra offrire, secondo me, altrettante
certezze in ordine alla configurazione dell’intentio, ed in particolare in ordine alla possibilità che
quest’ultima contenesse (o meno) la clausola di buona fede, come peraltro
l’insigne Autore esattamente propone[185].
Per aver più chiara
quest’ultima problematica, riterrei opportuno esaminare alcuni contesti
– ulteriori rispetto a quelli discussi dal Cannata – in cui i prudentes si esprimono con ricorso al genus formulare dell’incerti agere in contesti riconducibili,
come avviene in D. 2.14.7.2, a convenzioni sine
nomine, e dunque al di fuori della casistica in cui questa espressione
ricorre in termini riconducibili alla tutela ex stipulatu od ex testamento,
oppure alla condictio incerti.
Al riguardo, penso, innanzitutto, che
Aristone non potesse ignorare alcuni spunti emersi in area culturale
proculiana: uno di questi – di particolare interesse in quanto
ascrivibile ad un altro giurista traianeo, Nerazio – sembra emergere,
invero, da
Nerat. 1 resp. D. 19.5.6: Insulam hoc modo, ut
aliam insulam reficeres, vendidi. respondit nullam esse venditionem, sed civili
intentione incerti agendum est.
Nel caso in esame si fa il caso della venditio di un’insula, posta in essere per vincolare
l’acquirente alla refectio di
un’altra insula. Non è
in discussione, a mio parere, l’integrazione, sul piano fattuale, della
fattispecie ‘venditio’:
l’acquirente ha senz’altro l’obbligazione di prezzo[186].
‘Vendidi’, infatti,
significa che una venditio nominata
è stata conclusa, così da creare in capo alle parti le rispettive
obligationes; ma è stata pur
sempre conclusa per vincolare l’emptor
ad aliam insulam reficere,
sicché quest’ultimo è tenuto non solo a pagare numerata pecunia, ma altresì a
realizzare questa specifica attività.
È per questo che, per il
giurista, la fattispecie integratasi non è una vendita:
l’addivenire al contratto nominato, in sé considerato, altro non
è se non una prestazione di facere
– tale è il contrahere
– realizzata, come si diceva, per vincolare la controparte all’aliam insulam reficere; il che mi pare,
alla fine, suggerire una logica per certi versi sovrapponibile a quella che
sottende l’interpretazione ulpianea – che ormai considerava contractus, con genesi dell’oportere ex fide bona, anche il comodato
– del famoso caso del ‘comodato reciproco’[187],
in cui l’addivenire – reciprocamente appunto – al comodato
dei buoi mediante datio non
traslativa integra alla fine un ‘facio
ut facias’. In sostanza, Nerazio ritiene di dover indicare la figura
di tutela per la fattispecie contrattuale globalmente considerata alla luce
dell’id quod actum est,
considerando inadeguata una
lettura, per così dire, ‘atomistica’ del caso, suscettibile
di isolare la compravendita dalla sua correlazione al reficere: si tratta di un’interpretazione alquanto attenta
alla percezione della realtà imprenditoriale sottostante alla
compravendita immobiliare collegata con attività di demolizione,
rifacimento e recupero di materiali edilizi, particolarmente significativa nel
principato[188].
Ciò chiarito, nel caso esaminato
da Nerazio la struttura formulare dell’actio ex vendito non consentirebbe – stante la demonstratio tipica esemplata
sull’astratta configurabilità di una compravendita – al
giudice di apprezzare al meglio il complessivo assetto di interessi, che
integra appunto un ‘facio ut facias’,
sicché Nerazio suggerisce di agere
civili intentione incerti: espressione, questa, in tutto analoga a quella
che figura nel discorso di Aristone (e Mauriciano) in D. 2.14.7.2. Orbene, a me
sembra singolare che Nerazio, per consentire l’apprezzamento di una
fattispecie più ampia della venditio,
che di per sé rappresenta
semplicemente una prestazione di facere
(sub specie di un contrahere) già realizzata in
funzione di vincolare l’emptor
ad un reficere, perdesse di vista
l’importanza di conservare, in questa civilis
intentio, la clausola di buona fede.
Sulla scia delle tutele con praescripta verba che riconosceva
praticabili Labeone in contesti non esattamente riconducibili alla figura
tipica, che in dottrina sono normalmente ricostruite con clausola di buona
fede, non vedo ragioni perché Nerazio, scolarca proculiano, accordasse
una tutela di stretto diritto nel caso considerato[189]:
è il medesimo criterio di prossimità celsino – al centro
della presa di posizione aristoniana – a governare la soluzione sul piano
dell’approccio all’ermeneutica edittale ed alla gestione delle
risorse offerte dalla tecnica formulare. Ed allora, come la permutatio è vicina emptioni, così la venditio
realizzata per vincolare ad un reficere
appare pur sempre fattispecie prossima, per connessione, alla figura tipica:
né nell’uno, né nell’altro caso mi pare emergere una
ragione per pensare che la struttura formulare utilizzabile non prevedesse la
clausola di buona fede.
In sostanza, il civili intentione incerti agere di Nerazio descrive, sul piano
della tecnica formulare appropriata, la conceptio
verborum della civilis incerti actio
del discorso di Aristone e Mauriciano[190]:
quella tutela, cioè, che Aristone proponeva di generalizzare nella
sussistenza dei due perni, l’uno funzionale, il suna@llagma, l’altro procedimentale, la datio, che integrano la figura contrattuale
sine nomine riconoscendole
cittadinanza nel ius civile, o meglio
nel rapporto di esso con il ius gentium.
Un’analoga chiave di lettura,
quindi, sottende, a mio parere, l’argomentazione di Pomponio conservata
in
Pomp. 22 ad Sab. D. 19.5.16 pr.: Permisisti mihi
cretam eximere de agro tuo ita, ut eum locum, unde exemissem, replerem: exemi
nec repleo: quaesitum est, quam habeas actionem. < ? > sed certum est
civilem actionem incerti competere: si autem vendidisti cretam, ex vendito
ages. quod si post exemptionem cretae replevero nec patieris me cretam tollere
tu, agam ad exhibendum, quia mea facta est, cum voluntate tua exempta sit.
Siamo di fronte, anche in questo caso,
ad un ‘facio ut facias’:
un cretam eximere permittere
correlato ad un replere. Tu consente
ad Ego estrarre creta dal proprio fondo, con l’intesa che
quest’ultimo procederà a riempire la cava oggetto
dell’attività estrattiva, evidentemente con un sostrato – mi
pare appena il caso di insistervi – diverso dalla creta stessa.
L’interesse è allora bilaterale[191]:
Ego può estrarre la creta, Tu può sostituire alla creta un
sostrato diverso, forse utile alla coltivazione. La convenzione è
perfezionata, sul piano formativo, nel momento in cui Ego estrae la creta, che
segna il momento dell’intervenuta esecuzione della prestazione di Tu, il
quale doveva semplicemente permittere
questa attività. Nondimeno, Ego non procede al rinterro della cava: si
chiede dunque quale azione spetti a Tu.
Mi pare ragionevole ipotizzare,
innanzitutto, che il tratto contenente la quaestio
sia caduto, e che i Compilatori ci abbiano restituito unicamente la soluzione
di Pomponio, secondo cui spetta senz’altro una civilis actio incerti. Qui, a ben vedere, Pomponio tiene presente
Aristone, ma va oltre, riconoscendo la tutela in ius in un contesto non esattamente riconducibile né al
‘do ut des’, né al
‘do ut facias’[192];
nondimeno, quel che ci interessa è che, ad ogni modo, nel caso in cui Tu
non si sia limitato a cretam eximere
permittere, ma abbia venduto la creta, sempre con l’intesa –
data per presupposta nel complessivo andamento del passo – in ordine al
successivo rinterro, l’inadempimento dell’acquirente – che va
riferito non certo all’inadempimento dell’obbligazione di pagare la
creta, ma appunto di procedere altresì al rinterro – sembra
rientrare senza problemi nella tutela ex
vendito.
Questa posizione merita un
approfondimento.
E difatti, a fronte di una venditio cretae correlata ad una
prestazione di locum replere naturalisticamente
riferibile alla rimessione in pristino, se non forse, come è ben
più probabile, al miglioramento dello stato dei luoghi mediante
sostituzione della creta con altro materiale, non sembra emergere la
peculiarità che induceva Nerazio ad escludere la tutela ex vendito per l’ipotesi di una venditio insulae conclusa al fine di
vincolare l’acquirente ad aliam
insulam reficere: al riguardo,
più che ad un ius controversum,
riterrei che la specifica configurazione dell’assetto d’interessi
nel caso esaminato da Pomponio non fosse tanto incisiva da snaturare la
struttura essenziale della compravendita, imponendo al compratore una semplice
prestazione accessoria di buona fede. E dunque, mentre il rinterro della cava
da cui è estratta la creta è naturalisticamente necessario e,
come tale, non può non rientrare nei vincoli imposti dalla buona fede
all’emptor, l’aliam insulam reficere non può
considerarsi tale, in quanto semmai risponde ad una logica di squisite
cointeressenze imprenditoriali, sicché la tutela ex vendito è inadeguata, e si deve ricorrere ad un civili intentione incerti agere.
A questo punto, però, se si
considera che la civilis incerti actio
e l’actio ex vendito sono
individuate da Pomponio, ciascuna in ragione del concreto atteggiarsi dell’id quod actum est, non già per
consentire la ripetizione (del valore) di un incertum, ma per una medesima invariabile funzione, vale a dire
tutelare l’interesse positivo di Tu al rinterro della cava, mi pare
singolare che solo la seconda, e non anche la prima, contenesse la clausola di
buona fede[193].
La civilis incerti actio altro non
è, in ultima analisi, se non – passando dal genus alla species
– l’actio praescriptis verbis.
In prosieguo di tempo, e segnatamente
per epoca severiana, mi pare dunque in linea con questa lettura
l’espressione ‘fides
contractus’ che, a proposito di una fattispecie contrattuale sine nomine, viene utilizzata da
Papiniano in connessione proprio con l’incerti actione teneri, come risulta bene da
Papin. 11 resp. D. 19.5.9: Ob eam causam accepto
liberatus, ut nomen Titii debitoris delegaret, si fidem contractus non impleat,
incerti actione tenebitur. itaque iudicis officio non vetus obligatio
restaurabitur, sed promissa praestabitur aut condemnatio sequetur.
Siamo di fronte, ancora una volta, ad un
‘facio ut facias’,
riconducibile alla casistica genericamente riconducibile ai debitores exigendi, per la quale Paolo,
in D. 19.5.5.4, considerava più sicuro accordare la tutela con l’actio praescriptis verbis. E difatti,
una remissione formale è posta in essere, in modo che il debitore
liberato ceda il titolo vantato nei confronti di un terzo. Contro il debitore
formalmente liberato è esperibile un’actio incerti, che risulta connessa, come si diceva, alla fides contractus, ritenuta violata in
caso di inadempimento della controprestazione correlata alla vicenda estintiva.
Una volta esclusa, ed esattamente[194],
la riconducibilità della tutela ad actio
incerti ex stipulatu, mi pare dunque difficile che la struttura formulare
prescindesse dalla clausola di buona fede[195]:
profilo, questo, che fra l’altro induce a ritenere come il nesso forte
– che comunque non considero identità – tra
l’impostazione labeoniana e quella aristoniana non sia limitato ad
aspetti puramente sostanziali, ma anche – lo si diceva –
processuali.
In questo quadro, mi pare che alla fine
esprima bene il rilevato rapporto di genus
ad speciem sul piano formulare quanto leggiamo in
Papin. 27 quaest. D. 19.5.8: Si dominus servum,
cum furto argueretur, quaestionis habendae causa aestimatum dedisset neque de
eo compertum fuisset et is non redderetur, eo nomine civiliter agi posse, licet
aliquo casu servum retenturus esset, qui traditum accepisset. potest enim
retinere servum, sive dominus pro eo pecuniam elegisset sive in admisso
deprehensus fuisset: tunc enim et datam aestimationem reddi a domino oportere.
sed quaesitum est, qua actione pecunia, si eam dominus elegisset, peti posset.
dixi, tametsi quod inter eos ageretur verbis quoque stipulationis conclusum non
fuisset, si tamen lex contractus non lateret, praescriptis verbis incerti et
hic agi posse, nec videri nudum pactum intervenisse, quotiens certa lege dari
probaretur.
In questo caso, in cui si discute della
tutela «per richiedere la stima dello schiavo sospettato di furto e dato
stimato perché fosse sottoposto in merito a quaestio»[196],
l’espressione ‘praescriptis
verbis incerti’[197], con la
giustapposizione dei praescripta verba
che connotano la demonstratio
all’incertum che connota
l’intentio, mostra come, per il giurista, fosse normale considerare questa
specifica tutela – vale a dire l’actio praescriptis verbis
– come appunto una species
dell’agere incerti.
Quand’anche le parti non abbiano fatto ricorso alla verborum obligatio, purché la lex contractus non risulti inespressa, «anche qui»
– dice Papiniano: e dunque, ‘qui come in altri casi’ –
è possibile agire con intentio
indeterminata utilizzando la struttura formulare in ius concepta che impone i praescripta
verba in funzione di demonstratio.
Ma l’intentio, considerato che
la tutela non è data in funzione restitutoria della datio servi[198], ma per ottenere
la stima del servo, aspetto che, a mio parere, presenta una specifica e
significativa sinapsi con un assetto commutativo non eccessivamente distante da
una venditio, non può non
contenere la clausola di buona fede[199].
In quest’ordine di idee, che
risulta chiaramente recepito dalla cancelleria dioclezianea[200],
mi pare quindi problematico l’accostamento del ragionamento di Aristone
in D. 2.14.7.2 a quello – tramandato tramite Nerazio – che leggiamo
in
Ulp. 38 ad ed. D. 13.1.12.2: Neratius libris
membranarum Aristonem existimasse refert eum, cui pignori res data sit, incerti
condictione acturum, si ea subrepta sit.
Nel caso in esame, Ulpiano cita Nerazio,
il quale ricorda che, secondo Aristone, al creditore pignoratizio derubato
sarebbe spettata una condictio incerti.
Il che è plausibile: il dominus
rei subreptae, oltre che dell’actio
furti, può valersi della condictio
furtiva, rimedio in personam offerto
contro il ladro onde non costringere il derubato ad agire in petitorio ove
intenda cumulare al rimedio penale quello reipersecutorio. Ma mentre per il dominus il parametro di stima della condemnatio è dato dal valore del
bene, per il creditore pignoratizio derubato del pegno stesso questo valore
patrimoniale è dato dall’interesse a disporre della garanzia: a
non essere spogliato di essa. Di qui l’utilità di agire sul
modello della condictio furtiva[201],
ma con adattamento dell’intentio ad
un incertum petere ultimativamente
riconducibile ad un «rimedio processuale per perseguire
l’arricchimento ingiustificato»[202].
Chiarito, quindi, il significato della
posizione di Aristone, osserverei come, in fin dei conti, l’agere incerti sia una generica categoria
espositiva con la quale i giuristi descrivono la necessità di ricorrere
– muovendoci su un piano generalissimo della tecnica formulare – ad
una formula civile con intentio indeterminata, e conseguente
(indefettibile) demonstratio[203]:
formula che, a seconda dei contesti,
potrà configurarsi in una species
di stretto diritto, come ci attendiamo per una figura di condictio, oppure in una species
di buona fede, come invece ci possiamo attendere ove si discuta della
protezione dell’interesse positivo all’esecuzione di rapporti obbligatori
sorgenti da fattispecie contrattuali che hanno in sé una iuris gentium conventio[204].
Ed è dunque in questa prospettiva
che non mi pare possa affermarsi l’esistenza, per diritto classico, di
due distinte formulae, l’una di
buona fede, l’altra di stretto diritto, rispettivamente inerente
all’agere praescriptis verbis labeoniano,
ed alla civilis actio incerti
indicata da Aristone, prevista per la tutela dell’interesse alla
controprestazione radicantesi in capo al dans
ob rem[205]:
semmai, all’interno del genus
formulare dell’incerti agere,
emergono le species della condictio incerti da un lato, e
dell’actio praescriptis verbis
contrattuale dall’altro, così qualificata con la terminologia che
si consolida – in conseguenza della ‘codificazione’
dell’editto giulianeo? – a partire, forse, da Pomponio[206],
«secondo una scelta mai attestata in precedenza»[207].
Su quest’ultimo, specifico, punto, del resto, a me pare tutto sommato
plausibile ritenere che, una volta entrata nell’ordinario una
terminologia che, con Aristone, qualifica come ‘actio’ l’incerti
civili intentione agere, qualificare a sua volta come ‘actio’ una sua species fosse un utile corollario, che
consentiva di individuare come figure di tutela correnti e distinte tanto il
rimedio restitutorio di stretto diritto quanto il rimedio di buona fede.
Queste ultime, all’evidenza, sono
peraltro veicolate da formulae
costruite per rispondere a due funzioni pratiche radicalmente distinte
dell’agere incerti, che non mi
pare possano realmente intersecarsi: in sostanza, a me pare in fin dei conti
abbastanza agevole percepire come altro sia la previsione di un’actio incerti – che si
contestualizza nella sua species
dell’actio praescriptis verbis –
a protezione di un’interesse positivo – il valore
dell’interesse all’esecuzione della prestazione correlata alla datio in D. 2.14.7.2 –, altro la
previsione di una condictio incerti,
che rappresenta, nelle fonti a nostra dosposizione, un rimedio restitutorio
incidente su ambiti extracontrattuali[208],
che Aristone ricordava in un contesto in cui si rendeva necessario adattare la
struttura formulare della condictio
furtiva.
Anche da questo punto di vista, è
davvero significativa la distanza tra la condictio
incerti che Aristone accorda al creditore pignoratizio derubato, e l’actio incerti esperibile dal dans in D. 2.14.7.2. Siamo però
giunti, a questo punto, a dover procedere all’esegesi della seconda parte
del passo: infatti, il secondo esempio addotto da Aristone equipara alla permutatio il dedi ut aliquid facias, che è al centro del caso –
discusso, come vedremo, anche da Papiniano – della datio funzionale a vincolare la controparte a procedere alla manumissio di un proprio servus.
Esaminiamo ora la seconda parte del passo
di cui abbiamo avviato l’esegesi nel paragrafo 7. Al riguardo,
sarà bene averlo ancora sott’occhio:
Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7.2: Sed et si in alium
contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso respondit
esse obligationem. ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid
facias: hoc suna@llagma
esse et hinc nasci civilem obligationem. et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano
reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas: manumisisti:
evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a praetore dandam:
ille ait civilem incerti actionem, [id est praescriptis verbis] sufficere: esse
enim contractum, quod Aristo suna@llagma dicit, unde haec nascitur actio.
Il passo va correlato con almeno altri
due loci paralleli del Digesto in cui
si discute della medesima fattispecie contrattuale, vale a dire
Papin. 2 quaest. D. 19.5.7: Si tibi decem dedero,
ut Stichum manumittas, et cessaveris, confestim agam praescriptis verbis, ut
solvas quanti mea interest: aut, si nihil interest, condicam tibi, ut decem
reddas.
nonché la parte finale di
Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.2: At cum do ut
facias, si tale sit factum, quod locari solet, puta ut tabulam pingas, pecunia
data locatio erit, sicut superiore casu emptio: si rem <do>, non erit
locatio, sed nascetur vel civilis actio in hoc quod mea interest vel ad
repetendum condictio. quod si tale est factum, quod locari non possit, puta ut
servum manumittas, sive certum tempus adiectum est, intra quod manumittatur
idque, cum potuisset manumitti, vivo servo transierit, sive finitum non fuit et
tantum temporis consumptum sit, ut potuerit debueritque manumitti, condici ei potest
vel praescriptis verbis agi: quod his quae diximus convenit. sed si dedi tibi
servum, ut servum tuum manumitteres, et manumisisti et is quem dedi evictus
est, si sciens dedi, de dolo in me dandam actionem Iulianus scribit, si
ignorans, in factum [civilem].
Procediamo, innanzitutto, a ripercorrere
il ragionamento di Ulpiano che, nella seconda parte del tratto confluito in D.
2.14.7.2, dopo aver richiamato la ‘risposta’ di Aristone a Celso,
contestualizza il secondo esempio addotto – il ‘do ut facias’ – in un caso
particolarmente significativo, vale a dire un trasferimento patrimoniale
funzionale a vincolare la controparte alla manumissio
di un proprio servus. In questa
contestualizzazione del ‘do ut
facias’ – che si connota per un facere irreversibile, quale appunto la concessione della
libertà al servo – emerge una ‘critica’ che Mauriciano
rivolge – a ragione, secondo Ulpiano – a Giuliano in ordine alla
tecnica di tutela da adoperarsi per il caso dell’evizione dell’ob rem datum.
Più precisamente, dopo aver
chiarito – generalizzando l’idea Aristone, che vedeva il perno
funzionale della fattispecie contrattuale sine
nomine nel suna@llagma
– la centralità del subesse
causa ai fini della produzione
della civilis obligatio, Ulpiano
evidenzia come, di conseguenza, debba ritenersi corretta la
‘critica’ che Mauriciano rivolgeva a Giuliano: nell’ipotesi
in cui la datio ob rem sia posta in
essere senza legittimazione a disporre, con conseguente evizione, ma nondimeno
l’accipiens abbia proceduto ad
un’irreversibile manumissio, a
quest’ultimo spetta la stessa actio
civilis incerti che sarebbe spettata al dans
per l’ipotesi di inadempimento della prestazione di manumittere.
La soluzione di Mauriciano, dunque,
presuppone a mio avviso la condivisione di quella di Aristone; e si giustifica
in una chiave di lettura squisitamente procedimentale.
In sostanza, il suna@llagma, nelle logiche di questi giuristi,
è presupposto per la nascita dell’obligatio, mentre la datio ob
rem costituisce un requisito esterno, di natura formativa, inerente al fieri della fattispecie: la mancata
integrazione (del risultato acquisitivo definitivo) di essa non tanto per mero
difetto di legittimazione, quanto semmai per l’intervenuta evictio ad essa conseguente –
dovendosi dunque riconoscere spazio sanante all’usucapio[209] –, non
incide sul significato dello scambio astrattamente programmato, sicché,
nella perdurante attualità funzionale del suna@llagma[210], è l’intervenuta manumissio a chiudere comunque, in un
secondo momento, la sequenza formativa della fattispecie sine nomine, legittimando così il manumittens alla stessa tutela che avrebbe potuto esperire il dans per l’ipotesi
dell’inadempimento della (contro)prestazione.
Non credo, dunque, che Mauriciano
reinterpretasse – come si è suggerito anche di recente[211]
– la datio proveniente a non domino, presupposto logico di un
(successivo) fatto evizionale, come un facere,
così in ultima analisi prospettando una lettura della fattispecie
nettamente contrastante con l’id
quod actum est. Semmai, Mauriciano pone sullo stesso piano, dal punto di
vista della disciplina formativa, l’intervenuta esatta attuazione di una
delle due prestazioni programmate, e correlativamente il definitivo
inadempimento di una delle due: se la prima esecuzione non va a buon fine, la
fattispecie è formata con l’esatta esecuzione della seconda[212].
Non escludo – anzi, lo ritengo
estremamente probabile – che a questa soluzione Mauriciano potesse
pervenire in quanto la seconda prestazione consisteva non già in un
dovere di dare, ma appunto in un facere, che in linea di principio sfugge
alle logiche della iusta causa
traditionis, ed in particolare della causa
solvendi, tanto che – come vedremo a conclusione di questa ricerca
– ad un analogo risultato i prudentes
non sembrano pervenire in tema di permutatio.
Ma su questo avremo modo di soffermarci più avanti: per il momento,
possiamo limitarci a rilevare come la posizione di Mauriciano risulti comunque
significativa per gli svolgimenti successivi.
Se, infatti, per Aristone il suna@llagma si incentra essenzialmente sul perno
formativo della datio ob rem,
Mauriciano va oltre: l’accezione in senso normativo dello scambio risulta
ancor più accentuata – tanto è vero che alla fine il suna@llagma diviene, nell’argomentazione di
questo giurista, sinonimo di contractus
– sino a consentire di ritenere spostamento patrimoniale idoneo al
perfezionamento della fattispecie contrattuale l’attuazione d’una
qualsiasi delle due prestazioni programmate. Il che significa riconoscere, per
corollario, che non solo la ‘datio’,
ma anche il ‘facere’
può costituire il momento determinante, in senso procedimentale, per la
nascita di un’obbligazione giustificata da quella che ormai si atteggia a
‘funzione generale di scambio’: prospettiva, questa, che
sarà alla base della discussione contenuta nei celebri quattro articuli delle Quaestiones di Paolo.
Sul piano della tecnica formulare, per
Mauriciano quella medesima tutela indicata da Aristone «è
sufficiente» nel senso che neppure nel caso dell’evizione
dell’ob rem datum è
necessario ricorrere al pretore per la configurazione di una formula interamente in factum: basta l’intervento sulla demonstratio, onde descrivere la peculiarità del contesto
fattuale, senza con ciò dover modificare l’intentio, che rimane in ius
concepta. In questo quadro, l’unica correzione che ipotizzo nel testo
è quella relativa al glossema esplicativo in ordine alla qualificazione
come ‘praescriptis verbis’
dell’azione, descritta come civilis
incerti in base al suo genus in
D. 2.14.7.2: si tratta, con ogni probabilità, di un –
assolutamente innocuo – glossema postclassico rientrato nel testo,
inserito tenendo presente il locus
parallelus papinianeo di D. 19.5.7.
Veniamo dunque alla posizione di
Giuliano, criticata da Mauriciano, e con lui da Ulpiano che lo segue.
Per Salvio Giuliano, solo
l’intervenuta esatta attuazione della datio
– nel senso di realizzare il risultato traslativo – è
suscettibile di chiudere la sequenza formativa. Il che significa dire che, per
l’ultimo corifeo dei Sabiniani, il suna@llagma e l’acquisizione definitiva
conseguente alla datio sono due facce
della stessa medaglia. In questo, il giurista in una certa misura sembra
discostarsi dalla soluzione di Aristone, che dal suna@llagma riteneva nascere – ‘et hinc nasci’ – la civilis obligatio: per Giuliano, in
sostanza, il suna@llagma
e la datio, vale a dire il perno
funzionale ed il perno formativo della fattispecie nel discorso di Aristone,
hanno la medesima importanza ed indefettibilità. E dunque la conseguenza
dell’evictio per difetto di legittimazione
a disporre – di per sé sola ininfluente – è la
mancata integrazione della fattispecie, stante la gravità, sul piano
formativo, dell’acclarata impossibilità, per l’accipiens, di conservare il proprio
acquisto a fronte della perdita definitiva del servus in quanto manumissus:
sul piano civilistico, non v’è civilis
obligatio; e la convenzione, rimasta inattuata, rileva come factum cui solo il pretore può
accordare protezione.
Il discorso di Paolo in D. 19.5.5.2
completa le informazioni in nostro possesso.
Qualcosa nel frammento paolino è
senz’altro caduto, pur senza dover ipotizzare le conseguenze di un
omoteleuto suggerite anche di recente[213],
o che il giurista fosse in un certo qual modo vicino alla posizione giulianea[214]:
a mio avviso, Paolo semplicemente riporta l’opinione di Giuliano come
ricordo di una posizione controversiale, che – tenendo conto della
condivisione di Ulpiano del pensiero di Mauriciano – possiamo ritenere
superata per epoca severiana, seppur solo in via tendenziale, ove si consideri
che la prospettiva indicata dal giurista adrianeo doveva risultare – come
vedremo a conclusione di questa ricerca – ancora attuale in tema di permutatio. Purtroppo, nulla consente di
individuare con certezza quale idea avesse Paolo della soluzione giulianea, di
cui forse si occupava a conclusione – irrimediabilmente perduta –
del discorso che figura nella parte finale dell’attuale fr. 5.2, sino a
giungere a discutere della problematica actio
de dolo prospettata nel fr. 5.3[215],
che compare in un contesto sin troppo compresso per potersi considerare
pienamente affidabile, e che probabilmente era residuale rispetto alla condictio ob rem dati re non secuta.
Ad ogni modo, la testimonianza di Paolo
integra quella di Ulpiano: se ne ricava che, secondo Giuliano, occorre
distinguere sulla base della consapevolezza o meno del dans in ordine al proprio difetto di legittimazione a disporre,
sicché adversus ignorantem si
deve dare l’azione pretoria in
factum, costruita sull’alternativa si
paret - si non paret, reipersecutoria e funzionale, con ogni
probabilità, a liquidare il quanti
ea res erit[216]; mentre adversus scientem si deve dare l’actio de dolo. In quest’ordine di
idee, si è ritenuto che «la possibilità di ricostruire la
logica della contrapposizione tra Giuliano e Mauriciano rende maggiormente
affidabile la testimonianza di Ulpiano rispetto a quella paolina e porta dunque
a preferire l’ipotesi dell’intervento giustinianeo nella
testimonianza di Paolo, con la finalità di omologare all’interno
della prospettiva civilistica il rinvio all’actio in factum che viene resa come actio in factum civilis»[217].
Sul piano esegetico, quindi, «la fluidità delle tutele residuali
consente di sfumare anche la rigidità del criterio di
sussidiarietà dell’azione di dolo: il principio vale infatti
soltanto rispetto agli strumenti tipici di cui l’azione di dolo completa
le lacune legate naturalmente alla tipicità del sistema»[218].
Veniamo così a confrontare la
testimonianza di Paolo in D. 19.5.5.2 con quella di Papiniano confluita in D.
19.5.7.
Il caso dell’evizione dell’ob rem datum, inannzitutto, non pare
presentare una rilevanza centrale né nell’argomentazione di
Papiniano, né comunque in quella di Paolo: in linea di massima, dunque,
essi sembrano perpetuare la soluzione aristoniana con la quale, se è
corretta la mia ipotesi ricostruttiva, si generalizzava la tutela in ius concepta per tutte le iuris gentium conventiones giustificate
da una causa meritevole e perfezionate, sul piano della disciplina formativa,
da una datio ob rem. In questi casi,
a fronte dell’inadempimento della controparte, chi ha già
adempiuto – e quindi dimostra la serietà del programma negoziale
su cui incide la convenzione – può agire, in ragione della
valutazione del proprio interesse, per una duplice via.
La prima è una tutela restitutoria, vale a dire la condictio ob rem dati re non secuta, di
stretto diritto ed ormai pienamente idonea a gestire non solo l’interesse
ad una ‘risoluzione per inadempimento’, ma altresì
l’inevitabile configurazione, di pari passo con il progressivo
affinamento della ‘funzione generale di scambio’, di una regola di
rischio contrattuale[219]. La seconda
è un’actio civilis incerti,
sub specie della praescriptis verbis di labeoniana memoria, di buona fede e idonea
ad assicurare anche l’interesse
positivo, senza che fosse necessario l’inserimento di exceptiones, intrinseche al quidquid ob eam rem dare facere oportet ex
fide bona[220].
Questa ‘contrapposizione’ tra le funzioni dei due rimedi,
chiaramente esplicitata tanto nel passo di Papiniano quanto in quello di Paolo,
era in fin dei conti alla base della soluzione di Aristone, quantunque in D. 2.14.7.2
ciò resti in una certa misura in ombra: era necessario, in altri
termini, individuare un rimedio ulteriore, da affiancarsi al condicere e comunque ancorato ad una
struttura formulare in ius concepta.
Una ‘contrapposizione’ che,
nondimeno, non va esasperata: una volta che si accetti l’idea che
«le regole della responsabilità e le regole sul rischio concorrono
insieme a permettere al giudice di determinare, in una situazione
prospettatagli da una parte, quali siano le obbligazioni residue
dell’altra parte verso di lei»[221],
sia la condictio ob rem dati re non
secuta, sia l’actio
praescriptis verbis consentono di valutare l’una come l’altra
prospettiva. Ne consegue che, quando Papiniano e Paolo si esprimono per una
specifica area d’incidenza dei due rimedi semplicemente chiariscono che,
quale che sia la configurazione in concreto dell’inevitabile intreccio,
proprio della configurazione romana dell’obbligazione di praestare, tra regola di rischio e
regola di responsabilità, la parte adempiente che scelga di condicere[222]
non otterrà che l’equivalente dell’interesse negativo, o
meglio qualcosa di meno di esso[223], mentre la parte
adempiente che scelga di agire praescriptis
verbis mobilita il rimedio in assoluto più ampio, che consente di
liquidare, all’esito della cognizione, non solo il valore
dell’eventuale interesse negativo, ma anche, e soprattutto, quello
dell’interesse positivo all’attuazione della controprestazione. Ed
è in questa logica che si
percepisce, a mio avviso, un’ulteriore ragione a favore del riconoscimento
della clausola di buona fede nell’intentio
formulare della civilis incerti actio
che si concreta nell’actio praescriptis verbis: riconoscere spazio
all’obbligazione di praestare
in questi casi esattamente come avviene in qualsiasi altro iudicium bonae fidei[224].
Ma torniano al problema
dell’adesione ulpianea alla tesi di Mauriciano.
La complessiva argomentazione di Ulpiano
ci induce, come si diceva, a ritenere che, per epoca severiana, si fosse
tendenzialmente affermata la soluzione di Mauriciano, e che anche Paolo, con
ogni probabilità, in fin dei conti la condividesse[225]:
tendenzialmente, però, perché se egli ancora riportava la diversa
lettura di Giuliano, la questione doveva pur risultare in un certo qual modo un
ius controversum ancora non sopito, e
ciò tanto più ove si consideri che, come vedremo nel prossimo
paragrafo, la tesi di Giuliano – ed è questa, per me, la vera
chiave di lettura del problema – sembra trovare un precedente in una
soluzione pediana in tema di permuta, la cui vitalità tra II e III
secolo non sembra in discussione.
Prima di procedere oltre, tuttavia, mi
pare opportuno trarre alcuni corollari dall’esegesi sinora proposta, che
inducono a rivedere, a mio parere, una ricostruzione tendenzialmente
consolidata in dottrina, che vedrebbe da un lato Salvio Giuliano e Giuvenzio
Celso ancorati alla necessità, per la produzione di civilis obligatio, di una causa tipica sottostante alla conventio, ed Aristone e Mauriciano
dall’altro come fautori di un «atteggiamento riformistico, che
rompeva con la tradizione, accontentandosi di una causa atipica, non tanto da
vagliarsi caso per caso, quanto da controllare sul parametro delle prestazioni
corrispettive»[226].
Come Celso – nel rapporto tra i
testi tratti dall’ottavo libro dei Digesta,
confluiti in D. 12.4.16 e D. 19.5.2 – non chiudeva astrattamente le porte
all’actio praescriptis verbis per
la tutela delle convenzioni atipiche, così Giuliano – né
sarebbe disarmonica con questa ricostruzione la testimonianza di Iul. 14 dig. D. 19.5.3, che esamineremo nel
prossimo paragrafo – non contraddice necessariamente la posizione di
Aristone. Giuliano nega l’integrazione della fattispecie nel caso
dell’evizione dell’ob rem
datum, sicché la sua lettura si differenzia, più che altro,
da quella di Mauriciano.
Per converso, Celso e Giuliano, vale a
dire gli ultimi corifei delle due scuole in epoca adrianea, sembrano
considerare – per diverse vie, e con diverso approccio casistico –
con particolare attenzione il caso dell’evizione nell’esecuzione di
convenzioni sinallagmatiche atipiche. Sia chiaro: escludo che la soluzione
celsina in D. 12.4.16 riguardi, come pure si è ipotizzato, la stessa
fattispecie[227]
che sottende la soluzione giulianea in D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2; nondimeno, vi
è una sinapsi. Che si riscontra nel fatto che per Celso la grave
debolezza funzionale della datio pecuniae
per vincolare a trasferire la proprietà di un servo non consente di
ritenere integrato il complessivo assetto di scambio – e quindi la
fattispecie – in caso di evizione non già dell’ob rem datum, ma appunto del servus oggetto della controprestazione;
per Giuliano, la necessità che il suna@llagma si combini in inscindibile binomio con
la definitività dell’acquisto conseguente alla datio ob rem preclude a monte
l’integrazione della fattispecie.
Le due scuole, quindi, andavano assai
prudenti sul riconoscimento delle convenzioni sine nomine: comune denominatore di questa attenzione è, a
mio parere, al di là degli autonomi percorsi euristici seguiti, la
ricerca di indici di serietà dell’operazione economica, il cui
problematico riscontro preclude il fieri
della fattispecie contrattuale, e la conseguente tutela in ius.
Nell’approccio al tema delle
convenzioni sinallagmatiche sine nomine
le tracce a noi pervenute del pensiero di Giuliano non consentono di affermare
con sicurezza, come si diceva, che egli rifiutasse senz’altro
l’opzione suggerita da Aristone, il cui perimetro applicativo era stato
esteso da Mauriciano.
Diciamo che siamo in grado di
riscontrare unicamente ipotesi in cui per il giurista non s’integrava,
per diverse ragioni, la fattispecie contrattuale in senso civilistico; non
siamo in grado, invece, di renderci conto in quali ipotesi essa fosse
senz’altro integrata. D’altronde, da una catena di passi di
Papiniano, Celso e Giuliano, così costruita dai Compilatori, emerge
come, in fin dei conti, sia Celso sia Giuliano, gli ultimi corifei delle due
scuole in epoca adrianea, fossero consapevoli dell’astratta possibilità
di ricorrere all’actio civilis in
factum, come può desumersi da
Papin. 8 quaest. D. 19.5.1: Nonnumquam evenit, ut
cessantibus iudiciis proditis et vulgaribus actionibus, cum proprium nomen
invenire non possumus, facile descendamus ad eas, quae in factum appellantur.
sed ne res exemplis egeat, paucis agam. (1) Domino mercium in magistrum navis,
si sit incertum, utrum navem conduxerit an merces vehendas locaverit, civilem
actionem in factum esse dandam Labeo scribit. (2) Item si quis pretii
explorandi gratia rem tradat, neque depositum neque commodatum erit, sed non
exhibita fide in factum civilis subicitur actio
Cels. 8 dig. D. 19.5.2: (nam cum deficiant
vulgaria atque usitata actionum nomina, praescriptis verbis agendum est)
Iul. 14 dig. D. 19.5.3: in quam necesse est
confugere, quotiens contractus existunt, quorum appellationes nullae iure
civili proditae sunt.
Senza voler chiedere più di
quanto sia ragionevole a questa catena di passi, essa semplicemente induce a
leggere ‘in filigrana’ – sia pur suggestivamente, ed in
ragione della sola connessione, voluta dai Compilatori, tra il pensiero dei
giuristi adrianei ricordati con quello labeoniano[228],
tenuto presente da Papiniano,
incidente sull’actio civilis
in factum, che è poi l’actio
praescriptis verbis nella terminologia di Pomponio –
l’esistenza di un problema ricostruttivo di gran lunga più
complesso di quel che mostrano le fonti a noi pervenute. Tutto questo
suggerisce una certa cautela nel considerare Giuliano come il paladino della
tutela pretoria, in netta antitesi con la soluzione indicata da Aristone: per
un verso, infatti, la tutela in quam
necesse est confugere sarebbe quella della in factum civilis actio del fr. 1.2, sicché in linea di
principio sarebbe nota a Salvio Giuliano; per altro verso la precisazione che i
commissari imperiali inseriscono per tramite di parole di Giuvenzio Celso
– tratte dall’ottavo libro dei Digesti, come il passo confluito in
D. 12.4.16 – identificherebbe quest’ultima, appunto, con l’actio praescriptis verbis.
D’altronde, in nessun luogo in cui
le fonti a nostra disposizione mostrano tracce, anche significative, di
pensiero di Giuliano in tema di convenzioni sine
nomine si riscontra realmente la medesima casistica riconducibile ai due
esempi-chiave descritti nella prima parte di D. 2.14.7.2. Per converso, siamo
in grado di ipotizzare, con un certo margine di sicurezza, che Giuliano
seguisse sostanzialmente la medesima prospettiva di Aristone per quanto
concerne la condictio incerti; e che
a questa lettura finisse per contrapporsi quella di Ulpiano, proclive a
sfruttare l’actio praescriptis
verbis in tutte le sue potenzialità.
Occorre, innanzitutto, avere nuovamente
sott’occhio
Ulp. 38 ad ed. D. 13.1.12.2: Neratius libris
membranarum Aristonem existimasse refert eum, cui pignori res data sit, incerti
condictione acturum, si ea subrepta sit.
che va letto insieme con
Iul. 49 dig. D. 43.26.19.2: Cum quid precario
rogatum est, non solum interdicto uti possumus, sed et incerti condictione, [id
est praescriptis verbis].
Nella prospettiva di Giuliano, la condictio incerti – che il
giurista mostra di ben conoscere anche per altri contesti dei suoi Digesta[229]
– avverso il precarista[230] supera una
verosimile posizione di Sabino[231], ed è
concessa, secondo me, nella medesima logica che giustificava il rimedio offerto
al creditore pignoratizio derubato secondo Aristone, e ciò tanto
più ove si consideri che il rimedio è dato, nell’uno come
nell’altro caso, avverso un non
dominus.
Al riguardo, si rileverà
innanzitutto come, tra la fine del I secolo e l’inizio del secondo, si
sia affiancata, per il comodato, una tutela in
ius concepta accanto a quella, preesistente, in factum[232], e come, per il precarium immobiliare, ad esso affine,
sia quindi emersa l’esigenza di disporre di una tutela in via
d’azione, da affiancarsi a quella interdittale. Si riconosce, dunque, al
concedente un’azione in ius,
seppur di stretto diritto, esemplata sul modello della condictio, con la quale viene protetto un interesse la cui
valutazione non è sentita come assimilabile all’interesse positivo
all’esecuzione di una controprestazione contrattuale. Qui, in sostanza,
il dovere restitutorio del precarista, irriducibile – come nella condictio furtiva – alla
conseguenza di un’attribuzione traslativa, per un verso non è
considerato adeguatamente valutabile per il tramite della conceptio verborum di una condictio
certi; mentre, per altro verso, più che pensare ad un uso
‘contrattuale’ della condictio
incerti, non escluderei che Giuliano, nella ben nota connotazione
moralistica che segna le sue riflessioni, considerasse il precarista che non
restituisse il bene alla stregua di un ladro, a prescindere dalla
possibilità di esperire l’actio
furti.
Il glossema esplicativo che figura in D.
43.26.19.2 è svelato, a mio avviso, da esigenze di omologazione
espositiva rispetto alla ben diversa interpretazione che della fattispecie dava
Ulpiano, come risulta bene da
Ulp. 71 ad ed. D. 43.26.2.2: Et naturalem habet
in se aequitatem, namque precarium revocare volenti competit: est enim natura
aequum tamdiu te liberalitate mea uti, quamdiu ego velim, et ut possim
revocare, cum mutavero voluntatem. itaque cum quid precario rogatum est, non
solum hoc interdicto uti possumus, sed etiam praescriptis verbis actione, quae
ex bona fide oritur.
Qui Ulpiano ricorda senza dubbio la
precedente lettura di Giuliano, che concedeva, accanto all’interdictum quod precario, la condictio
incerti: egli, nondimeno, va un poco oltre, sicché, valendosi
dell’interpretatio che ormai da
tempo aveva riconosciuto l’oportere
ex fide bona nel comodato[233], estende lo
spettro applicativo dell’actio
praescriptis verbis anche alla tutela del concedente[234],
il che può essere forse correlabile alla ritenuta esperibilità
– come si è rilevato, in connessione con spunti già labeoniani
– dell’actio praescriptis
verbis anche per i rapporti sorgenti da convenzioni senza nome
unilateralmente produttive di obligatio
in conseguenza dell’attribuzione, con valenza procedimentale, di naturalis possessio, come ad esempio la datio ad inspiciendum. Ciò
significa che, per la medesima fattispecie, all’interno del genus formulare dell’incerti agere Giuliano optava per la condictio di stretto diritto, mentre
Ulpiano – sentendola evidentemente inadeguata – per l’altra
sua species, vale a dire la tutela praescriptis verbis di buona fede, ad
ulteriore conferma, se vogliamo, dell’esegesi condotta nel precedente
paragrafo 10: sicché mi pare tutto sommato evidente come in Iul. 49 dig. D. 43.26.19.2 si sia introdotto un
glossema esplicativo per esigenza omologante rispetto al contenuto di Ulp. 71 ad ed. D. 43.26.2.2, dove riscontriamo,
semmai, una diversa lettura della protezione giudiziaria del concedente, in
tutto adeguata alle ‘nuove’ configurazioni della tutela
restitutoria contrattuale in esito all’attribuzione della naturalis possessio.
Siamo ora in grado di suggerire una
prima nota conclusiva, che sia però allo stesso tempo
d’introduzione agli ulteriori profili della posizione di Giuliano.
Per un verso, la connessione forte tra
il pensiero del giurista e quello di Aristone con riferimento al perimetro
applicativo della condictio incerti
(D. 13.1.12.2 e D. 43.26.19.2) rappresenta, a mio parere, un elemento ulteriore
per escludere l’identificazione della civilis
incerti actio di D. 2.14.7.2 con la condictio
incerti: manca, infatti, nel precarium,
qualsiasi aggancio con le fattispecie sinallagmatiche ipotizzate nella prima
parte di D. 2.14.7.2. Per altro verso, se passiamo ad esaminare alcuni
ulteriori profili dell’approccio di Giuliano alle convenzioni sine nomine, dovremo avvalerci, in
ultima analisi, della medesima chiave di lettura: ovvero, come avremo modo di
vedere, un’applicazione rigorosa, nella casistica considerata, della
prospettiva aristoniana, così da escludere sistematicamente la tutela in ius ove non risulti configurabile un suna@llagma commutativo.
Esaminiamo, innanzitutto,
Ulp. 30 ad Sab. D. 19.5.13.1: Iulianus libro
undecimo digestorum scribit, si tibi areae meae dominium dedero, ut insula
aedificata partem mihi reddas, neque emptionem esse, quia pretii loco partem
rei meae recipio, neque mandatum, quia non est gratuitum, neque societatem,
quia nemo societatem contrahendo rei suae dominus esse desinit. sed si puerum
docendum vel pecus pascendum tibi dedero vel puerum nutriendum ita, ut, si post
certos annos venisset, pretium inter nos communicaretur, abhorrere haec ab area
eo, quod hic dominus esse non desinit qui prius fuit: competit igitur pro socio
actio. sed si forte puerum dominii tui fecero, idem se quod in area dicturum,
quia dominium desinit ad primum dominum pertinere. quid ergo est? in factum
putat actionem Iulianus dandam, [id est praescriptis verbis]. ergo si quis
areae dominium non transtulerit, sed passus sit te sic aedificare, ut
communicaretur vel ipsa vel pretium, erit societas. idemque et si partis areae
dominium transtulerit, partis non, et eadem lege aedificare passus sit.
Ulpiano ci informa che Giuliano, nei Digesta e quindi nella stessa opera in
cui prospettava la condictio incerti avverso
il precarista, a protezione del concedente, aveva ritenuto esperibile l’actio in factum in un caso in cui
l’assetto d’interessi prevedeva il trasferimento della
proprietà di un’area per vincolare l’avente causa a
trasferire al dans una pars dell’isolato da realizzare
sull’area stessa. Il giurista accorda un’actio in factum, vale a dire un rimedio interamente pretorio,
dovendosi ritenere il tratto ‘id
est praescriptis verbis’ l’ennesimo glossema
esplicativo-omologante rientrato nel testo: e la soluzione, a mio parere, si
giustifica perché in questo caso non si ravvisa affatto una datio ob rem nel senso indicato da
Aristone.
Ripercorriamo, però, il
ragionamento del giurista.
In primo luogo, la convenzione non
può essere qualificata come emptio,
«perché manca il prezzo in pecunia
numerata»[235]. Da questo punto
di vista, l’ultimo corifeo dei Sabiniani parrebbe mostrare
l’intervenuto superamento della dissensio
tra le due scuole sul problema della distanza tra vendita e permuta[236];
profilo, questo, che tenderei a collegare con l’affermazione di Aristone
in Paul. 5 ad Plaut. D. 19.4.2, di
cui si è detto nel precedente paragrafo 7.
Essa, nondimeno, non può
integrare un mandato: questa figura è essenzialmente gratuita nel senso
che deve risultare neutra, sul piano patrimoniale, per il mandatario. Nel caso
in esame, l’assetto d’interessi non è gratuito, implicando
un risultato patrimoniale lucrativo per entrambi. Ed è proprio questo il
punto nodale: si tratterebbe senz’altro di una societas – al cui schema induce a pensare la programmazione
dell’attribuzione al dans di
una quota parte dell’isolato da realizzarsi, intesa come pars lucri et damni – se non fosse
per la peculiare vicenda procedimentale voluta dalle parti[237],
che vede il trasferimento della proprietà dell’area[238]
come momento perfezionativo della fattispecie contrattuale. L’esperienza
romana, tuttavia, non conosce, come ormai può dirsi con assoluta
certezza, la societas re contracta:
sicché, pur identificandosi il profilo funzionale con quello proprio
della societas, come si desume dal
ragionamento a contrario contenuto
nella parte finale del passo, la fattispecie tipica non si integra per un
arbitrario discostamento procedimentale rispetto al suo modello formativo, che
è puramente consensuale.
Se è corretta la mia esegesi
della posizione di Celso in D. 12.4.16, è suggestivo rilevare come gli
ultimi corifei delle due scuole considerassero con estremo rigore il
discostarsi dell’autonomia privata, sul piano formativo come
contenutistico, dagli schemi tipici, quando questi ultimi fossero
economicamente equivalenti a quelli ‘individualmente atipici’
realizzati. In sostanza, come chi dia una somma di denaro per ottenere la
proprietà di un servo non ha una ragione seria per discostarsi
dall’equivalente schema della vendita nominata, così chi intende
mettere a disposizione un’area per avere una quota parte
dell’isolato da realizzarsi in loco
non ha una seria ragione per non affidarsi allo schema tipico della societas consensuale. Anche in questo
caso, in sostanza, il giurista si domanda sino a che punto l’autonomia
privata possa incidere sulla disciplina – in questo caso formativa
– della fattispecie contrattuale tipica: in altri termini, il tipo
edittale è, in linea di principio, indisponibile, nel senso che
l’autonomia privata non può, modificandolo, snaturarne i contenuti
essenziali; per converso, per dar vita ad una figura atipica, che non abbia i
caratteri di una mera alterazione arbitraria di un tipo edittale economicamente
equivalente, che si risolverebbe in un’operazione priva di senso, occorre
una seria giustificazione in concreto.
Se, dunque, per questa ragione non
v’è societas, occorre
domandarsi se possa riconoscersi una figura contrattuale innominata, e quale
possa essere, in ipotesi, la forma di tutela esprimibile sul piano
dell’ermeneutica edittale.
Ora, mentre nel caso esaminato da Celso
lo scostamento incide arbitrariamente sul contenuto del programma negoziale,
rendendolo incompatibile con quello tipico quantunque ad esso economicamente
equivalente, e solo per corollario sul procedimento formativo, nel caso
sottoposto a Giuliano lo scostamento, egualmente arbitrario, si apprezza
unicamente sul piano – che appare forse meno incisivo – del
rapporto tra autonomia privata e disciplina procedimentale: il che gli consente
di riconoscere quanto meno la tutela in
factum, senza peraltro ritenere perfezionata, sul piano civilistico, una
fattispecie contrattuale sine nomine.
Tutto questo, peraltro, non autorizza a
ritenere che Giuliano si discostasse dalla soluzione di Aristone: egli, semmai,
sembra applicarla alla lettera, nel senso di escludere l’integrazione
della fattispecie contrattuale sine
nomine in senso civilistico per inconfigurabilità del suna@llagma come inteso dal giurista traianeo. Si
è osservato, infatti, come Aristone, pur innestandosi nel filone che
aveva iniziato a percorrere Labeone, ritenesse sistematicamente sussistere
l’obligatio civilis nelle
convenzioni sine nomine purché
suggellate dalla datio (ob rem), e comunque purché
sottese da uno scambio in senso strettamente commutativo, restando al di fuori
di questo schema funzionale il suna@llagma associativo[239]. E poiché
nel caso in esame viene in rilievo proprio un suna@llagma associativo, non sussistono i
presupposti per applicare la soluzione di Aristone: l’actio in factum consegue, semmai, al
mancato riconoscimento della fattispecie contrattuale in chiave civilistica per
via del non-senso procedimentale mediante il quale le parti si sono, senza una
plausibile ragione, discostate da una figura tipica economicamente equivalente.
Ad un analogo risultato consente, a mio
avviso, di pervenire l’esegesi di
Afr. 8 quaest. D. 19.5.24: Titius Sempronio
triginta dedit pactique sunt, ut ex reditu eius pecuniae tributum, quod Titius
pendere deberet, Sempronius praestaret computatis usuris semissibus, quantoque
minus tributorum nomine praestitum foret, quam earum usurarum quantitas esset,
ut id Titio restitueret, quod amplius praestitum esset, id ex sorte decederet,
aut, si et sortem et usuras summa tributorum excessisset, id quod amplius esset
Titius Sempronio praestaret: neque de ea re ulla stipulatio interposita est.
Titius consulebat, id quod amplius ex usuris Sempronius redegisset, quam
tributorum nomine praestitisset, qua actione ab eo consequi possit. respondit
pecuniae quidem creditae usuras nisi in stipulationem deductas non deberi:
verum in proposito videndum, ne non tam faenerata pecunia intellegi debeat,
quam quasi mandatum inter eos contractum, nisi quod ultra semissem consecuturus
esset: sed ne ipsius quidem sortis petitionem pecuniae creditae fuisse, quando,
si Sempronius eam pecuniam sine dolo malo vel amisisset vel vacuam habuisset,
dicendum nihil eum eo nomine praestare debuisse. quare tutius esse
[praescriptis verbis] in factum actionem dari, praesertim cum illud quoque
convenisset, ut quod amplius praestitum esset, quam ex usuris redigeretur,
sorti decederet: quod ipsum ius et causam pecuniae creditae excedat.
Che nei testi di Sesto Cecilio Africano
riecheggi genuino pensiero di Giuliano è noto: ed il discorso indiretto
conseguente al respondit fa pensare
ad una soluzione indicata da quest’ultimo[240].
La convenzione intercorsa tra Tizio e
Sempronio, non versata in una stipulatio,
sottende la dazione di una somma di denaro con l’intesa che
quest’ultimo, utilizzando la remunerazione del capitale, stimata dalle
parti ad un indice del 6% annuo, provveda al pagamento di un tributo dovuto dal
primo. Dato che l’esatto ammontare del tributo non è, al momento
della convenzione, prevedibile[241], si danno due
ipotesi: nella prima, l’accipiens
avrebbe dovuto restituire a Tizio la differenza tra la minor somma sborsata per
pagare il tributo e la remunerazione del capitale convenzionalmente indicizzata
al 6% di interesse annuo, laddove l’eventuale maggior esborso per
l’adempimento tributario sarebbe andato in detrazione dal capitale; nella
seconda, per il caso dell’eccedenza del tributo rispetto tanto al
capitale, quanto all’interesse così predeterminato, sarebbe stato
Tizio a dover rimborsare Sempronio.
Tizio chiede al giurista con quale
azione possa ottenere da Sempronio la differenza tra il capitale indicizzato
convenzionalmente al 6% e l’esborso inerente all’intervenuto
adempimento tributario.
Giuliano, innanzitutto, evidenzia a
monte l’impossibilità di considerare dovute le pecuniae creditae usurae in assenza di verborum obligatio; tuttavia, occorre
valutare se nella fattispecie prospettata si possa ravvisare non tanto
un’operazione di credito, quanto semmai una sorta di mandato: ipotesi,
questa, contraddetta peraltro dalla peculiarità di un assetto
d’interessi costruito in modo da consentire al ‘mandatario’
di ottenere, nel proprio interesse, un ben preciso risultato lucrativo
dall’impiego del capitale, ove si consideri che la somma ricevuta
può essere investita dall’accipiens
anche ad un indice superiore al 6% annuo; e comunque – quasi a corollario
– dalla constatazione che, ad accedere a questa qualificazione della
convenzione, si dovrebbe comunque escludere a
priori la responsabilità di Sempronio per l’eventuale amittere pecuniam o per il vacuam pecuniam habere in assenza di
dolo, in quanto – in linea di principio – la responsabilità
del mandatario è limitata al riscontro di questo rigoroso criterio
soggettivo[242].
Pertanto è più sicuro
– prima ancora che più appropriato – accordare una tutela in factum concepta: e ciò tanto
più ove si consideri – e così il discorso si riallaccia al
problema della faenerata pecunia
– che le parti hanno stabilito – con riferimento all’esatta
determinazione ex post della summa tributorum, che a priori sfugge al loro controllo ed era
ignota al momento della convenzione – che l’eventuale maggior
esborso in sede di adempimento tributario avrebbe inciso innanzitutto non
già sulle usurae conseguite,
ma sul capitale: sicché la regola voluta dall’autonomia privata va
oltre (non solo un’elastica forma
mandati, ma) anche la configurazione giuridica della causa credendi, che impone comunque, e senza alcun dubbio, la
restituzione integrale del capitale.
In sostanza, quantunque Giuliano accosti
la convenzione più ad una sorta di mandato che alla faenerata pecunia, essa alla fine risulta irriducibile
all’una come all’altra ipotesi presa in considerazione, pur
presentando con l’una e con l’altra elementi di connessione.
E veniamo così ad indagare sul punto
centrale dell’argomentazione del giurista.
Al riguardo, mi pare opportuno,
innanzitutto, evidenziare due aspetti: da un lato, il risultato lucrativo
conseguibile da Sempronio viene a correlarsi, qualunque idea si abbia in
merito, non già ad un dovere di prestazione di Tizio, ma essenzialmente
all’abilità finanziaria dell’accipiens nell’impiego del capitale: nell’ultra semissem consequi non può
dunque ipotizzarsi, in capo a Tizio, un vincolo assimilabile ad una sorta di
‘compenso al mandatario’. Dall’altro, la precisazione in
ordine al causam pecuniae creditae
excedere – vale a dire un assetto suscettibile di determinare
l’erosione dello stesso capitale ricevuto – non lascia dubbi su
come il giurista fosse certo almeno di un punto della questione: qualunque idea
si abbia circa la qualificazione dell’id
quod actum est, la convenzione non solo non presenta caratteri di
sinallagmaticità, ma neppure risulta agevolmente riconducibile ad una
vera e propria operazione di finanziamento.
È evidente allora come, in questo
contesto, non ci si trovi di fronte ad una datio
ob rem nel senso indicato da Aristone.
Per rispondere a Tizio, a questo punto,
Giuliano poteva – in astratto, e sul piano della tecnica formulare
– prendere a modello due formulae
edittali: quella, che forse doveva di primo acchito apparirgli più
appropriata, dell’actio mandati,
di buona fede, e quella – quasi certamente ritenuta meno appropriata
– dell’actio certae creditae pecuniae, di stretto
diritto e configurata sul perno del certam
pecuniam dare oportere della condictio
repubblicana. Un’alternativa tanto netta, quanto decisamente singolare
per le implicazioni pratiche come dogmatiche che la sottendono: né
l’una né l’altra formula
è di per sé pienamente appropriata al caso; ma optare, in
ipotesi, per un adattamento pretorio dell’una o dell’altra conceptio verborum – in ipotesi,
mediante i praescripta verba
all’intentio dell’actio mandati, oppure riproponendo la condictio incerti, ma quasi
paradossalmente per ottenere una somma di denaro – implica comunque una
ben precisa scelta di prossimità sistematicamente insoddisfacente,
nell’un caso più verso la cooperazione ex fide bona nell’altrui sfera giuridica, nell’altro
più verso l’area del creditum;
nondimeno – ed in questo la duplicità di prospettive pone comunque
problemi – andare in una direzione implica allontanarsi troppo
dall’altra, e viceversa, ove si consideri che gli elementi di
connessione, sul piano dell’id quod
actum est, sono pur sempre reciproci.
Ed allora in questo caso, in cui nella
convenzione non è possibile intellegere
né una sorta di mandato né un’operazione di credito, ma
allo stesso tempo non emerge nemmeno una datio
ob rem sottostante ad un suna@llagma di scambio rigorosamente commutativo, è dunque
più sicuro, per Tizio, esperire un’actio in factum, vale a dire una tutela puramente pretoria senza demonstratio, che dunque consideri la
convenzione nella sua valenza meramente fattuale: la tutela in factum, in altri termini, si rivela
alla fine come l’unica risorsa formulare appropriata, suscettibile di
consentire – mi si permetta di attingere al mito di Admeto e Alcesti
– di ‘aggiogare al carro un leone ed un cinghiale’.
Di qui, fra l’altro, la
necessità di emendare il riferimento ai praescripta verba in apposizione al riferimento all’in factum actionem dari.
Anche al di là di quanto or ora
osservato, del resto, nel frammento in esame il glossema è comunque
tradito, più che da espressioni tipicamente esplicative, da un duplice
ordine di considerazioni: da un lato, l’espressione ‘praescriptis verbis in factum’, che si riscontra unicamente in questo passo di
Africano e non coincide neppure con la rubrica del titolo 19.5 del Digesto, de praescriptis verbis et in factum actionibus,
sembrerebbe implicare una sovrapposizione tra due realtà formulari, in
sé considerate, profondamente diverse, l’una con intentio in ius concepta, l’altra
con intentio in factum concepta;
dall’altro, le fonti mostrano come ad esprimersi per la prima volta con
riferimento ad ‘actio’,
anziché a generico ‘agere’,
in correlazione con il sintagma ‘praescriptis
verbis’ sia stato Pomponio[243],
cui dunque va riconosciuta in questa opzione espositiva una
‘priorità scientifica’ percepibile anche rispetto a giuristi
sostanzialmente suoi contemporanei, che assorbe quella puramente cronologica[244].
Ed allora, è decisamente
probabile che il tratto ‘praescriptis
verbis’ altro non sia se non un qualche glossema interlineare,
(erroneamente) esplicativo dell’espressione ‘in factum’, rientrato nel testo[245].
Con questo chiarimento, a me pare che,
anche in questo caso, Giuliano – se è a lui che, come credo, va
ascritta la soluzione – non tradisce affatto la soluzione aristoniana, ma
la applica rigorosamente: il trasferimento patrimoniale – la datio pecuniae – v’è
stato; difetta radicalmente una funzione commutativa. Ora, se si considera che
i testi in cui, alla luce delle fonti a nostra disposizione, il nome di
Giuliano è associato alla tutela per le convenzioni sine nomine sono rappresentati unicamente dal binomio costituito da
D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2, nonché dai passi qui esaminati, vale a dire
D. 43.26.19.2, D. 19.5.13.1 e D. 19.5.24, mi pare che nulla consenta di
affermare che egli rifiutasse la soluzione di Aristone[246]:
semmai, quanto ci è pervenuto mostra come, in una casistica per varie
vie irriducibile alla logica sottesa dall’argomentazione confluita in D.
2.14.7.2, Giuliano si sforzasse di mantenerla all’interno di un perimetro
particolarmente rigoroso, entro il quale va collocata, a mio avviso, la testimonianza
di D. 19.5.3[247].
Sicché parrebbe potersi dire che lo spunto del giurista traianeo, per
Giuliano, non fosse applicabile né in caso di evictio dell’ob rem
datum, né in tutti quei casi in cui non si riscontra un suna@llagma in senso rigorosamente commutativo: si
tratta di ipotesi acontrattuali in senso civilistico, per le quali può
farsi ricorso unicamente ad una tutela in tutto configurata per via
onoraria.
È
da dirsi, a questo punto, che con riferimento all’evizione dell’ob rem datum la soluzione di Giuliano,
criticata da Mauriciano, non viene dal nulla e non finisce nel nulla[248].
Ed è su questo profilo che, a conclusione dell’indagine, vorrei
soffermarmi, anche per evidenziare la distanza della ricostruzione qui proposta
da un’autorevole esgesi, che non trovo – sul punto –
convincente[249].
Innanzitutto, occorre esaminare
Paul. [32] <33> ad ed. D. 19.4.1.3: Ideoque Pedius ait
alienam rem dantem nullam contrahere permutationem.
Emerge da questo passo dell’ad edictum paolino come Pedio, il
giurista che aveva dato un contributo tanto significativo
all’elaborazione della dottrina delle figure contrattuali, ritenesse
ostativa all’integrazione della permutatio
– ancora senza nome edittale, ma identificata da un nome socialmente
tipico, alla fine del I secolo[250] – il
difetto di legittimazione a disporre della parte che, evidentemente per prima,
addivenisse all’atto di trasferimento. Qui il vulnus è sentito forse come ancor più grave di quello
che anima l’argomentazione di Giuliano in D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2: per
Giuliano, a precludere il fieri della
fattispecie, così da impedire il riconoscimento della civilis obligatio, era non già il
mero difetto di legittimazione a disporre, ma l’intervenuta evictio. In ragione del significato
funzionale della permutatio, che
impone alle parti di assicurarsi reciprocamente l’acquisto della
proprietà secondo le rispettive regole ordinamentali[251],
il difetto di legittimazione a disporre, precludendo in astratto lo scambio
così come programmato, sembra ridondare in difetto causale: nondimeno,
la prospettiva pediana qui esaminata appare ancor più drastica di quella
di Giuliano, perché a rigore sembra addirittura precludere il risultato
sanante dell’usucapio[252],
che per il giurista adrianeo, a mio avviso, non doveva essere in discussione.
Credo, ad ogni modo, che tutto il fr.
1.3 sia il compendio di un’idea classica, la cui estensione originaria
deve essere stata drasticamente compressa: e ciò non solo per via della
congiunzione tipicamente compilatoria ‘ideoque’, ma anche, e soprattutto, perché il
ragionamento di Pedio doveva essere utilizzato da Paolo come argomento
rafforzativo per sostenere il re fieri
della permutatio. Come dire: a differenza
di vendita, locazione, mandato, che producono nudo consensu l’obligatio,
la permuta si perfeziona con l’intervenuta esecuzione di una prestazione in dando, tanto che Pedio arrivava
addirittura a dire che il difetto di legittimazione a disporre avrebbe
implicato la mancata integrazione della figura contrattuale; il che non
significa che Paolo condividesse questa soluzione.
È, semmai, proprio in questa
prospettiva che «la riflessione pediana nella sua consistenza originaria
si è perduta nella trama della scrittura di Paolo»[253]:
del resto, che il perno della questione – che a mio avviso incideva
sull’individuazione di una pluralità di tutele esprimibili –
fosse non tanto il difetto di legittimazione, quanto semmai l’evictio, Paolo l’aveva detto poco
prima; ed è verosimile, allora, che proprio in base alla lettura di
Giuliano – quella ricostruibile dalle citazioni di Ulpiano e Paolo
conservate in D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2 – i prudentes abbiano rimeditato, nella seconda metà del II
secolo, il problema del difetto di legittimazione nelle dationes ob rem, sia – con Mauriciano – nel caso del
‘do ut facias’, sia
– recuperando idee di Giuliano – nel caso del ‘do ut des’.
In altri termini, la prospettiva di
Pedio drasticamente escludeva l’integrazione della figura per il mero
difetto di legittimazione a disporre che finiva per ridondare, come si diceva,
in un problema incidente sul piano funzionale, nel senso che, in tale
evenienza, lo scambio non può configurarsi neppure in astratto. Da
questa posizione, evidentemente sentita inadeguata, si giunge, recuperando la
lettura di Giuliano, a polarizzare la questione essenzialmente sulla disciplina
formativa dell’atto – sul suo ‘re fieri’ –
vista nel più ampio quadro della tecnica di realizzazione dello scambio
in senso giuridico: si tratta di un aspetto importante, cui abbiamo fatto solo
un breve cenno nel precedente paragrafo 11, per modo che occorre ora spendere
qualche parola di più.
Al riguardo, se la iusta causa traditionis è «l’accordo sullo scopo
per cui avviene la consegna materiale della cosa»[254],
risulta impossibile applicare alla permuta la soluzione che Mauriciano opponeva
a Giuliano per l’evizione dell’ob
rem datum nel caso del ‘do ut
facias’.
E difatti, nel passaggio ‘dal
pregiuridico al giuridico’, l’astratto programma di scambio
riconducibile al ‘do ut des’
che connota la convenzione si concretizza – ‘diviene’ figura
contrattuale, civilisticamente rilevante – con una prima datio, che avviene ‘ob rem’ in quanto sottesa da un
accordo strumentale a «vincolare l’accipiente ad un dato
comportamento»[255], che nel caso di
specie consiste nel dovere di prestazione imposto da una civilis obligatio essenzialmente
in dando, corrispettiva del primo trasferimento. Diciamo che questa
obbligazione, all’interno dell’ampio spettro dell’oportere ex fide bona, impone
all’accipiente di assicurare alla controparte l’acquisto, a sua
volta, della proprietà: sicché, connotandosi per un contenuto
riconducibile ad un rem dare, seppur
configurabile non già come il certum
dare oportere di stretto diritto protetto da condictio, ma – per così dire – come un ‘dare oportere ex fide bona’, la
sua esecuzione avviene comunque per causa
solvendi[256],
vale a dire per accordo solutorio. Esso, evidentemente, determina il
trasferimento a prescindere dall’esistenza della civilis obligatio, salvo l’esposizione dell’accipiens alla condictio indebiti, ed è radicalmente insuscettibile di
essere ‘reinterpretato’ in senso opposto, cioè come accordo
funzionale non già ad estinguere, ma a creare un vincolo[257],
vale a dire come momento formativo della fattispecie.
Ora, nel caso del ‘do ut facias’, al centro della
critica di Mauriciano a Giuliano, una simile difficoltà non aveva
ragione di porsi, perché a priori
l’adempimento di un’obbligazione di facere – per il quale i prudentes
neppure adoperano una specifica terminologia[258]
– è del tutto estranea al solvere
in senso tecnico ed alla vicenda traslativa che lo connota. In buona sostanza, nella permuta l’evizione dell’ob rem datum, cui si correla
l’impossibilità di riconoscere un initium alla civilis
obligatio per irreparabile vulnus
alla disciplina procedimentale della fattispecie contrattuale, non ammette un
‘equivalente’ formativo come nel caso del ‘do ut facias’.
Sicché è in questa
direzione che dobbiamo leggere
Paul. [32] <33> ad ed. D. 19.4.1.1: Unde si ea res, quam
acceperim vel dederim, postea evincatur, in factum dandam actionem respondetur.
Innanzitutto, una volta chiarito che
nella permutatio la posizione delle
parti è assolutamente speculare, in quanto, come si legge in Paul. D.
19.4.1 pr. in permutatione discerni non
potest, uter emptor vel uter venditor sit, l’accipere vel dare va indifferentemente riferito alla prima
esecuzione di una delle due prestazioni in
dando, nell’assoluta irrilevanza di chi, tra le due parti della
convenzione, la ponga in essere[259], vale a dire
tanto che sia Ego a ricevere per primo, quanto che sia invece Ego a trasferire
per primo[260].
Nel ‘respondetur’ di
Paolo emerge, semmai, il tendenziale superamento dei profili di irragionevolezza[261]
intrinseci alla soluzione originariamente proposta da Pedio: è
l’evizione dell’ob rem datum,
e non il semplice difetto di legittimazione del permutante che per primo
effettui la datio, a determinare la
mancata integrazione della fattispecie contrattuale[262].
È ragionevole ritenere, del resto, che lo scambio fosse inteso, ex fide bona, non già in
astratto, ma in concreto, sicché le parti devono semplicemente
assicurarsi vicendevolmente sulla definitività dell’acquisto del dominium, tanto più ove si consideri
da un lato la possibilità di tutela con l’actio Publiciana, dall’altro i tempi ragionevolmente brevi
dell’usucapio classica[263].
Ed allora, se dietro quel ‘respondetur’ si colloca la
personalità scientifica di Giuliano, non credo che il testo debba essere
corretto, come ritiene normalmente chi ravvisa la connessione tra Paul. D.
19.4.1.1, e la testimonianza giulianea conservata da Paul. D. 19.5.5.2 e Ulp.
D. 2.14.7.2: la forma verbale impersonale esprime, semmai, l’intervenuta
recezione di un responsum ormai
condiviso nel contesto scientifico in cui opera Paolo.
È qui, dunque, che riscontriamo
la vitalità della prospettiva aperta da Giuliano: se, in linea di
massima, per il ‘do ut facias’
può ammettersi l’integrazione della fattispecie – e la
conseguente civilis obligatio,
protetta praescriptis verbis per
l’interesse positivo – anche con l’esatta esecuzione del facere per il caso dell’evizione
dell’ob rem datum,
nell’ipotesi del ‘do ut des’,
e segnatamente di quella permutatio
che ormai, ai tempi di Paolo, aveva una sua rubrica edittale, questa soluzione
è impraticabile. In altri termini, il recupero severiano della
prospettiva giulianea va letto nel senso che il suna@llagma e la (stabilità della) datio, in tema di permutatio, sono due facce della stessa medaglia, egualmente
indefettibili per l’integrazione della fattispecie, la produzione di civilis obligatio e la tutela
(dell’interesse positivo) per tramite di actio praescriptis verbis[264].
In questo quadro, non può dirsi
che l’actio in factum di cui ci
informa Paul. D. 19.4.1.1 sia l’azione che, in generale, è data
per la tutela del permutante[265]: essa
rappresenta, semmai, il (limitato) recupero di idee pediane per tramite di
Giuliano. Sicché quanto si legge in
Paul. [32] <33> ad ed. D. 19.4.1.4: Igitur ex altera
parte traditione facta si alter rem nolit tradere, non in hoc agemus ut res
<tradita nobis reddatur, sed in id quod interest> nostra illam rem
accepisse, de qua convenit: sed ut res contra nobis reddatur, condictioni locus
est quasi re non secuta.
ed in
Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.1: Et si quidem
pecuniam dem, ut rem accipiam, emptio et venditio est: sin autem rem do, ut rem
accipiam, quia non placet permutationem rerum emptionem esse, dubium non est
nasci civilem obligationem, < ? > in qua actione id veniet, non ut reddas
quod acceperis, sed ut damneris mihi, quanti interest mea illud de quo convenit
accipere: vel si meum recipere velim, repetatur quod datum est, quasi ob rem
datum re non secuta. < ? > sed si scyphos tibi dedi, ut Stichum mihi
dares, periculo meo Stichus erit ac tu dumtaxat culpam praestare debes.
explicitus est articulus ille do ut des.
mostra semplicemente, a mio modesto parere, che la permuta,
nell’esperienza dell’epoca severiana, generava la civilis obligatio ove la prima datio determinasse un acquisto
definitivo; e che la relativa tutela era configurata, in ragione del
riconoscimento civilistico del rapporto obbligatorio, per tramite dell’actio praescriptis verbis per l’interesse
positivo, e per tramite della condictio
‘quasi’ ob rem dati re non secuta per l’interesse negativo, o meglio –
stante la struttura della condemnatio,
come si è visto – per ottenere qualcosa di meno di esso. Una volta
riconosciuta – in D. 19.5.5.1 – la civilis obligatio come un dato assolutamente incontrovertibile
– dubium non est nasci civilem
obligationem, dice Paolo – si può al limite ipotizzare una
compressione del testo, che comunque – nel suo complessivo andamento
– impone di leggere nell’actio
in cui ‘viene’ non già l’interesse alla
restituzione, ma quello all’attuazione dello scambio, la tutela praescriptis verbis, quantunque non
nominata in questi termini nella configurazione testuale a noi pervenuta.
Per altro verso, i problemi testuali che,
notoriamente, connotano il testo di D. 19.4.1.4 non mi paiono affatto decisivi:
l’integrazione proposta dal Mommsen, prima ancora che sulla scorta dei Basilici, la cui testimonianza di per
sé potrebbe apparire non decisiva, può giustificarsi proprio con
il passo paolino delle Quaestiones,
dove – a parte un’innocua inconcinnitas[266],
che svela al più i tagli implicanti la rilevata compressione – si
riscontra senza dubbio il riferimento alla distinzione, che ormai ci
sarà familiare, tra l’azione per l’interesse positivo e
l’azione restitutoria. In merito, occorre qui solo di rilevare come la condictio sia qualificata ‘quasi’ ob rem dati re non secuta
in quanto ormai, ai tempi di Paolo, la permutatio
aveva una sua rubrica edittale, sicché la condictio è adoperata alla stregua della generica tutela in
funzione ‘risolutoria’ prevista per l’inadempimento correlato
a dationes ob rem non contemplate
nell’editto, nonostante ormai la fattispecie fosse senz’altro
prevista.
Siamo ora in grado di tirare le fila di
questo discorso.
Nel contesto via via emerso, i fr. 5.1
– or ora esaminato – e 5.2 – di cui ci siamo occupati nel
precedente paragrafo 11 – di D. 19.5 riportano frammentariamente, e con
significative compressioni, un nucleo di pensiero di Paolo sufficientemente esteso
perché si possa cogliere i tratti essenziali del tentativo di
sistemazione che connota l’argomentazione delle Quaestiones. I passi in esame, invero, mostrano come,
nell’originario discorso di Paolo, fossero ripresi e sviluppati,
innanzitutto, i due esempi indicati da Aristone nella citazione ulpianea in D.
2.14.7.2: essi divengono, e non a caso, i primi due articuli del totius ob rem
dati tractatus del giurista, orientato a delineare un’esposizione
esaustiva non già – come normalmente si ritiene[267]
– dei contratti innominati, ma delle quattro figure di ob rem datum[268],
al fine di risolvere la quaestio
indicata nel fr. 5 pr.[269], che
rappresenta, nello schema espositivo ‘ad anello’ che connota il
complessivo andamento di D. 19.5.5, l’inizio e la conclusione del
discorso.
Al riguardo, a me pare plausibile che,
in linea di principio, Paolo seguisse la posizione aristoniana, sia per il
‘do ut des’, sia per il
‘do ut facias’, rispetto
al quale, esattamente come faceva Ulpiano in D. 2.14.7.2, egli teneva peraltro presente
anche la posizione di Giuliano per l’ipotesi, evidentemente sentita come
particolare, dell’evizione dell’ob
rem datum: ma il significato di questo richiamo, per i due giuristi
severiani, non doveva essere, a mio avviso, nel senso di un’incondizionata
e generalizzante accettazione della prospettiva giulianea, che almeno Ulpiano,
approvando la critica di Mauriciano, senz’altro escludeva.
Semmai, tornando a Paolo, quella lettura
non solo si rivelava senza dubbio autorevolissima, ma implicava altresì problemi
interpretativi ancora attuali, la cui piena consapevolezza da parte del
giurista ci è appunto rivelata dal tratto dell’ad edictum confluito in D. 19.4.1.1,
dove, come si è visto a proposito del significato da darsi al ‘respondetur’, si nasconde la
personalità scientifica di Giuliano e, con essa, la sua peculiare
interpretazione dei casi di evizione dell’ob rem datum. D’altro canto, la precisazione di Paul. D.
19.5.5.3 – in ordine all’esperibilità dell’actio de dolo a fronte di inadempimento
dell’obbligazione di dare nel
caso del ‘facio ut des’
– non sembra affatto una generalizzazione – né indizio di
incondizionata condivisione – della soluzione di Giuliano ricordata in
chiusura dell’articulus
dedicato al ‘do ut facias’[270]:
semmai, questo terzo articulus del totius ob rem dati tractatus –
quasi certamente oggetto di una notevole compressione in sede compilatoria
– parrebbe da limitarsi, in quel che ci è pervenuto,
all’individuazione di una tutela residuale rispetto alla sola condictio ob rem dati re non secuta[271],
dovendosi ritenere comunque possibile agire praescriptis
verbis per l’interesse positivo, come nel caso del ‘facio ut facias’ del successivo
fr. 5.4.
E così torniamo alla permutatio: in questo quadro, se non
v’è dubbio, come dice Paolo, che la tutela normalmente esperibile
per l’interesse positivo è l’actio praescriptis verbis, alternativa al condicere concesso ‘come nei casi in cui si agisce ob rem dati re non secuta’, ad
essa doveva evidentemente affiancarsi una terza figura di tutela, prevista per
le ipotesi in cui, sul piano della disciplina formativa, non potesse dirsi
integrata la figura contrattuale in senso civilistico, con conseguente
preclusione a riconoscere una civilis
obligatio.
Ed allora, le tutele in materia di
permuta, per epoca severiana, dovevano essere tre: l’actio praescriptis verbis per l’interesse positivo del
permutante che per primo esattamente adempia la propria datio all’esatta attuazione dello scambio; la condictio quasi ob rem dati re non secuta,
per l’esclusivo interesse restitutorio a fronte della sopravvenuta
impossibilità inimputabile dello scambio, o dell’inadempimento
rispetto al quale la parte reputi preferibile ‘risolvere’ il
contratto; e l’actio in factum strettamente
intesa, vale a dire senza demonstratio,
per l’evizione – che è ben più del semplice difetto
di legittimazione a disporre – dell’ob rem datum, vale a dire della prima datio.
È qui – come da tempo
intuiva parte della dottrina – che riemerge la rigorosa lettura di
Giuliano ricordata da Paolo nelle Quaestiones
(D. 19.5.5.2) e da Ulpiano nell’ad
edictum (D. 2.14.7.2): il che impone
solo un’ulteriore, duplice precisazione, che concluderà la nostra
indagine.
Per un verso, infatti,
nell’ipotesi «in cui entrambe le parti abbiano eseguito la traditio, ma uno dei soggetti abbia
trasmesso una cosa altrui, la controparte potrà agire con l’actio praescriptis verbis»[272]
solamente se si tratti del soggetto per primo esattamente adempiente[273],
che dunque realizza il momento perfezionativo – l’initium correlato da Paolo alla genesi
dell’obligatio in D. 19.4.1.2
– della fattispecie contrattuale, presupposto dell’oportere ex fide bona civilistico;
viceversa, nel caso in cui la prima datio
provenga a non domino e determini il
fatto evizionale, il permutante che abbia esattamente adempiuto la propria
successiva datio può solamente
condicere oppure agire con formula in factum concepta, in quanto in
questa seconda ipotesi non si riscontra il re
fieri della permutatio come figura
contrattuale: si dovrebbe, anzi, forse ritenere che la condictio, in questa specifica ipotesi, fosse percepita più
come condictio indebiti – per
essersi ingiustamente privato il permutante della proprietà per una causa solvendi nonostante
l’inesistenza, ignota alle parti che evidentemente fanno affidamento
sulla stabilità della prima datio[274],
della civilis obligatio di dare ex fide bona – che come condictio ‘quasi’ ob rem dati re
non secuta.
Per altro verso, occorre forse evitare
di leggere in questo atteggiamento un approccio nel senso di una quasi
paradossale ‘diminuzione’ di tutela per il (secondo) permutante
evitto, ma esattamente adempiente, ravvisabile nella circostanza che la tutela in factum potrebbe apparire prima facie meno soddisfacente sul piano pratico processuale di quella
con intentio al quidquid ob eam rem dare facere oportet ex
fide bona: sul piano del risultato pratico, infatti, la tutela in factum e la tutela in ius risultano patrimonialmente
equivalenti ove si riconosca nel primo caso, come credo si debba, la condemnatio al quanti ea res erit[275].
The
research aims to show how the classical Roman law have an approach to the
contract’s formation set of problems, and in particular to the formation of
the atypical contracts. In this view, the ‘datio ob rem’ indicates
a rule of formation, because only with the ‘datio’ the simple ‘conventio’,
i.e. the simple agreement, will ‘pass’ in a atypical contract and
consequently the parties will have the protection based on the ‘actio praescriptis verbis’.
[Gli scritti della sezione “Memorie” sono
stati oggetto di valutazione da parte dell’organizzazione scientifica del
Convegno, d'intesa con la direzione di Diritto @ Storia]
* [ Atti del Convegno di Studi «Nomen contractus. Tutele edittali nella Roma classica»,
organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università
di Verona (14 maggio 2013), per iniziativa di Tommaso dalla Massara e Carlo
Pelloso. n.d.r.]
[1] Per vero già suggerito in una
precedente ricerca: cfr. R. Fercia,
«Fiduciam contrahere» e
«contractus fiduciae». Prospettive di diritto romano ed europeo,
Napoli, 2012, 49 ss., in particolare 152 ss. Peto veniam per i costanti rinvii a questo libro (su cui cfr. le
recensioni di P. Lambrini, in LR, II, 2013, 395 ss., e di R.M. Rampelberg, in Iura, LXII, 2014, 377 ss.), imposti unicamente dall’esigenza
di evitare una semplice riesposizione di un percorso di indagine già in
larga misura delineato: ad esso mi vedo costretto a far riferimento per le
prospettive più di dettaglio, e comunque per un completo esame della
letteratura inerente al tema del rapporto tra la fiducia ed i nomina
contractus.
[2] Così, esattamente, R. Meyer-Pritzl, ‘Pactum’, ‘conventio’,
‘contractus’. Zum
Vertrags- und Konsensverständnis im klassischen römischen Recht, in Pacte convention contrat. Mélanges en l’honneur du
Professeur B. Schmidlin, ed. par A. Dufour, I. Rens, R.
Meyer-Pritzl et B. Winiger, Bâle et Francfort-sur-le-Main, 1998, 102.
[3] In questo senso cfr. essenzialmente P. Voci, La dottrina romana del contratto, Milano, 1946, 300; M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana,
II, Milano, 1973, 662 e nt. 51; A. Schiavone,
La scrittura di Ulpiano. Storia e sistema
nelle teorie contrattualistiche del quarto libro ‘ad edictum’,
in Le teorie contrattualistiche romane
nella storiografia contemporanea, a cura di N. Bellocci, Napoli, 1991, 135;
M. Talamanca, ‘Conventio’ e
‘stipulatio’, in Le
teorie, cit., 211 e ntt. 171 e 172; Id.,
Contratto e patto nel diritto romano,
ora in Le dottrine del contratto nella
giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 69, nt. 125; A. Burdese, Sulle nozioni di patto, convenzione e contratto in diritto romano,
in Sem. compl., V, 1993, 62; Id., Il contratto romano tra forma, consenso e causa, in Le dottrine, cit., 102; Id., Divagazioni in tema di contratto romano tra forma, consenso e causa,
in ‘Iuris vincula’. Studi in
onore di M. Talamanca, VII, Napoli, 2001, 346; T. dalla Massara, Alle
origini della causa del contratto. Elaborazione di un concetto nella
giurisprudenza classica, Padova, 2004, 67; C. Giachi, Studi su Sesto
Pedio. La tradizione, l’editto, Milano, 2005, 523 e nt. 55; 526 e nt.
62; a proposito del dictum Pedii, parla
di «consenso inerente a tutti i contratti» B. Schmidlin, Il consensualismo contrattuale tra ‘nomina contractus’ e
‘bonae fidei iudicia’, in Diritto
romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo. Giornate di
studio in ricordo di G. Pugliese, a cura di L. Vacca, Padova, 2008, 115; J.
Paricio, Contrato. La formación de un concepto, Cizur Menor, 2008,
81. Di recente, contestano questa impostazione, per diverse vie esegetiche, R. Santoro, Su D. 46.3.80 (Pomp. 4 ‘ad Quintum Mucium’), in AUPA, LV, 2012, 580 s.; C.A. Cannata, Labeone, Aristone e il sinallagma, in Iura, LVIII, 2010, 56 (già Id.,
Der Vertrag als zivilrechtlicher
Obligierungsgrund in der römischen Jurisprudenz der klassischen Zeit,
in ‘Collatio iuris Romani’.
Études dédiées à H. Ankum à l’occasion
de son 65e anniversaire, I, Amsterdam, 1995, 66); L. Garofalo, Contratto, obbligazione e convenzione in Sesto Pedio, in Le dottrine, cit., 350; R. Knütel, La ‘causa’ nella dottrina dei patti, in Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica.
Atti del II Congresso Internazionale ARISTEC, Palermo, 7-8 giugno 1995, a
cura di L. Vacca, Torino, 1997, 133: sul punto, cfr. peraltro quanto scrivo in «Fiduciam contrahere», cit.,
55 s. e ntt. 15, 16 e 17.
[4] Con L. Garofalo, Contratto,
cit., 340, nt. 2, e 352, nt. 37, F. Gallo,
‘Synallagma’ e
‘conventio’ nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria
contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di
Diritto romano, II, Torino, 1995, 216, e G. Melillo, ‘Contrahere’,
‘pacisci’, ‘transigere’. Contributi allo studio del
negozio bilaterale romano, Napoli, 1994, 178, ritengo (cfr. «Fiduciam contrahere», cit.,
62 s.) che il periodo ‘nam et
stipulatio - nulla est’ sia una precisazione di Ulpiano: del resto,
ove continuasse il discorso di Pedio, sarebbe ragionevole attendersi una
costruzione sintattica con subordinazione infinitiva, come nel tratto
precedente.
[5] G. Romano,
‘Conventio’ e
‘consensus’. (A proposito di Ulp. 4 ‘ad ed.’ D.
2.14.1.3), in AUPA, XLVIII, 2003,
241 ss.
[7] G. Romano,
‘Conventio’, cit., 276
ss.; analogamente, G. Pugliese, Lezione introduttiva sul contratto in
diritto romano, ora in Le dottrine
del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova,
2006, 27.
[8] Ulpiano, dunque, valuta «le
conseguenze giuridiche scaturenti dall’assenza di un elemento giudicato
essenziale ai fini del perfezionamento della fattispecie obbligante» (G. Romano, ‘Conventio’, cit., 316); nondimeno, a mio parere
‘nulla est’ significa
semplicemente che ‘non v’è stipulatio’, nel senso che la fattispecie non si integra.
[9] Mi si perdonerà il ricorso a
questa terminologia, che riconosco puramente descrittiva, e quasi empirica,
sino forse ad ingenerare l’idea di una riconfigurazione sovrastrutturale
della prospettiva romana: è, nondimeno, l’insufficienza delle
categorie dogmatiche contemporanee, che qui adopero per quanto possibile ed in
adesione alle tesi di G. Benedetti,
Dal contratto al negozio unilaterale,
Milano, 1969 (rist. anast.: Milano, 2007, con prefazione di G.B. Ferri), passim, ed in particolare 86 s., 100 e
152 s., ad indurmi a questo approccio. Nella logica che emerge da Ulp. D.
2.14.1.3 (e, vedremo, Paul. D. 44.7.3.2) il rapporto consensus-conventio è il presupposto logico – e prima
ancora storico, dato che la nozione stessa di obligatio nasce con il riconoscimento della sua fonte consensuale,
la sponsio – del fieri della fattispecie, che peraltro
– per la genesi di alcune figure, che vedremo esito dell’interpretatio imperiale sui modelli
dell’agere re e verbis labeoniano – impone di
ricorrere ad un ulteriore meccanismo formativo: di qui l’immagine –
che mi propongo di adoperare al di fuori di qualsiasi inutile pretesa di
concettualizzazione – di una disciplina procedimentale articolata su due
livelli formativi.
[10] Cfr. al riguardo la convincente lettura
di L. Garofalo, Gratuità e responsabilità
contrattuale, in Scambio e
gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura
di L. Garofalo, Padova, 2011, 52 (ed amplius
50 ss.).
[11] Nel senso che i verba si devono sentire, le res
consegnate al mutuatario (o comunque le cose rubate, od indebitamente pagate)
sono tangibili, le litterae con cui
si iscrive il nome del debitore si leggono: udito, tatto, vista sono dunque i
sensi umani naturalisticamente necessari per la genesi del vincolo. La
disciplina ed efficacia procedimentale romana, inerente al fieri della
fattispecie, ha il suo perno nella proprietas
di verba, res, litterae come
destinati alla percezione sensoriale umana.
[12] In
omnibus negotiis contrahendis, sive bona fide sint sive non sint, si error
aliquis intervenit, ut aliud sentiat puta qui emit aut qui conducit, aliud qui
cum his contrahit, nihil valet quod acti sit. et idem in societate quoque
coeunda respondendum est, ut, si dissentiant aliud alio existimante, nihil
valet ea societas, quae in consensu consistit.
[13] Sul punto cfr., di recente, J.D. Harke, ‘Si error aliquis intervenit’. Irrtum im klassischen
römischen Vertragsrecht, Berlin, 2005, 124 ss. ed in particolare 127
s. per il rapporto tra D. 2.14.1.3 e D. 44.7.57.
[14] Da C.A. Cannata, ‘Cum
alterius detrimento et iniuria fieri locupletiorem’.
L’arricchimento ingiustificato nel diritto romano, in Arricchimento ingiustificato e ripetizione
dell’indebito. Atti del VI Congresso Internazionale ARISTEC,
Padova-Verona-Padova, 25-26-27 settembre 2003, a cura di L. Vacca, Torino,
2005, 15 e nt. 5.
[15] Paul. 2 inst. D. 44.7.3 pr.: Obligationum substantia non in eo consistit,
ut aliquod corpus nostrum aut servitutem nostram faciat, sed ut alium nobis
obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum. (1) Non satis autem est dantis esse nummos et
fieri accipientis, ut obligatio nascatur, sed etiam hoc animo dari et accipi,
ut obligatio constituatur. Itaque si quis pecuniam suam donandi causa dederit
mihi, quamquam et donantis fuerit et mea fiat, tamen non obligabor ei, quia non
hoc inter nos actum est. (2) Verborum
quoque obligatio constat, si inter contrahentes id agatur: nec enim si per
iocum puta vel demonstrandi intellectus causa ego tibi dixero
‘spondes’? et tu responderis ‘spondeo’, nascetur
obligatio. A me pare
che, in fin dei conti, l’animus
cui fa riferimento Paolo nel fr. 3.1 esprima, in ultima analisi, la sintesi del
rapporto tra consensus e conventio su cui si polarizza il
discorso di Ulpiano, tramite Pedio, in D. 2.14.1.3: in questo mi pare
plausibile leggere una sostanziale consonanza tra il dictum Pedii annotato da Ulpiano con riferimento alla stipulatio, ed il complessivo discorso
che – specie nei fr. 3.1-2 di D. 44.7 – connota l’esposizione
istituzionale di Paolo.
[16] Così, quasi testualmente, C.A. Cannata, Materiali per un corso di fondamenti del diritto europeo, II,
Torino, 2008, 22 e nt. 50.
[17]
Cfr. in merito anche le
interessanti pagine di R. Cardilli,
Archetipi
dell’‘oportere’ nell’‘oportere ex
sponsione’, in ‘Obligatio’-obbligazione.
Un confronto interdisciplinare, a cura di L. Capogrossi Colognesi e M.F.
Cursi, Napoli, 2011, 1 ss.
[18] L’assenza dell’agere ‘litteris’ nella divisio, configurata come dicotomia e
non come tricotomia, può derivare da soppressione in sede compilatoria,
come ritiene M. Talamanca, Contratto, cit., 50 e nt. 52. Mi pare
allora plausibile, ma in fin dei conti non strettamente necessaria, la
ricostruzione del testo proposta da C.A. Cannata,
Labeone, cit., 42 (analoga a quella
indicata per D. 2.14.1.3, in Id.,
La nozione di contratto nella
giurisprudenza romana dell’epoca classica, in Autour du droit des contrats. Contributions de droit romain en l’honneur de F. Wubbe,
éd. P. Pichonnaz,
Genève, 2009, 27 e nt. 24): non strettamente necessaria perché,
nella prospettiva in testo, è pure ammissibile che, già nel
dettato classico, si facesse in entrambi i luoghi riferimento all’agere re et verbis, in quanto originaria
configurazione dell’obligatio
civilis quiritaria, riconducibile – lo vedremo meglio oltre – recta via a legitima conventio, laddove l’agere litteris ne rappresenta, a mio parere, solo
l’estensione.
[19] Ce lo conferma, evidentemente, Pomp. 4 ad Q. Muc. D. 46.3.80: Prout quidque contractum est, ita et solvi
debet: ut, cum re contraxerimus, re solvi debet: veluti cum mutuum dedimus, ut
retro pecuniae tantundem solvi debeat. et cum verbis aliquid contraximus, vel
re vel verbis obligatio solvi debet, verbis, veluti cum acceptum promissori
fit, re, veluti cum solvit quod promisit. aeque cum emptio vel venditio vel
locatio contracta est, quoniam consensu nudo contrahi potest, etiam dissensu
contrario dissolvi potest. Sul punto seguo l’esegesi del Cannata, di
recente riproposta dall’insigne Autore, con richiamo alla precedente
letteratura e in adesione a F. Gallo,
‘Synallagma’ e
‘conventio’ nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria
contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di
Diritto romano, I, Torino, 1992, 32 ss., in Materiali, II, cit., 59 ss.: anche per me l’intero passo
contiene pensiero di Quinto Mucio; né mi pare convincente, al riguardo,
il tentativo di R. Santoro, Su D. 46.3.80, cit., 556 ss., di far
risalire la nozione di obligatio non
già all’epoca (almeno) decemvirale, ma semmai ad epoca classica,
ipotizzando «la esclusione dal tessuto genuino di D. 46.3.80 di ogni
riferimento alla obligatio ed al suo
fondamentale modo di estinzione costituito dalla solutio-adempimento»
(ivi, 612 s.).
[20] M. Kaser, Die ‘lex Aebutia’, in Ausgewählte Schriften, II, Napoli, 1976, 441 ss. (già in Studi in memoria di E. Albertario, I, Milano, 1953, 25 ss.), con le
ulteriori precisazioni indicate in Id.,
‘Ius honorarium’ und
‘ius civile’, in ZSS,
CI, 1984, 52 s.
[21] Cfr., non diversamente, F. Gallo, ‘Synallagma’, I, cit., 142 ss., e 149 ss.; Id., Contratto e atto secondo Labeone: una dottrina da riconsiderare, in
Roma e America. Diritto romano comune,
VII, 1999, 22 ss.
[22] Per me è partitio (cfr. N. Donadio,
L’idea di contratto nel pensiero
giuridico romano, in L’idea di
contratto nella prospettiva storico-comparatistica. Materiali didattici, a
cura di S. Cherti, Padova, 2010, 43; A. Burdese,
Sul concetto di contratto e i contratti
innominati in Labeone, in Le dottrine
del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova,
2006, 121) il riferimento ad agere, contrahere, gerere, mentre vedo una divisio
nella riconduzione del verbum generale
‘actum’ alle species dell’agere ‘re’ e
‘verbis’ (e comunque litteris), una tricotomia correlabile a
quella del contrahere, scandita in emptio venditio, locatio conductio, societas.
Pur secondo una prospettiva non pienamente coincidente con quella qui
suggerita, pensa ad una partitio
anche F. Gallo, ‘Synallagma’, I, cit., 100
s., 119, 127 ss.; Id., Contratto, cit., 22; in questo quadro,
escludo peraltro che ‘actum’
possa comprendere in sé ‘contractum’
(cfr. F. Gallo, Eredità di Labeone in materia
contrattuale, ora in Le dottrine del
contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006,
149; ma la posizione non si riscontra in Id.,
‘Synallagma’, I, cit.,
139 ss., 142 ss. e 149 ss.; Id., Contratto, cit., 22 ss.), così
come che il gestum fosse scomponibile
nell’actum e nel contractum (cfr. ancora ulteriormente Id., Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, in Le teorie contrattualistiche nella
storiografia contemporanea, a cura di N. Bellocci, Napoli, 1991, 24 s.; Id, Contratto,
cit., 19 ss.). Criticamente sul punto cfr. C.A. Cannata, La nozione,
cit., 31 e nt. 34, che pensa ad una divisio.
[23] Secondo J. Paricio, Contrato,
cit., 47 ss., ed in particolare 49 s., sarebbe peraltro possibile ricondurre al
contrahere labeoniano anche il
mandato (analogamente, ora, cfr. anche S. Viaro,
Il mandato romano tra bilateralità
perfetta e imperfetta, in Scambio e
gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura
di L. Garofalo, Padova, 2011, 351 ss., in particolare 365), che tuttavia non
sembra accostabile ai casi dell’emptio
venditio, della locatio conductio
e – seppur in termini particolari – della societas considerati nel frammento. In questo quadro, è
difficile che anche il mandato rientrasse nell’ultro citroque obligatio considerata da Labeone: è L. Garofalo, Gratuità, cit., 47 ss., ad ipotizzare la possibilità
di rapportare il mandato alla categoria del gestum.
[24] S. Randazzo,
‘Mandare’. Radici della
doverosità e percorsi consensualistici nell’evoluzione del mandato
romano, Milano, 2005, 245, che parla di ‘bilateralità
asimmetrica’. Mi pare comunque plausibile che per epoca classica matura
– sulla base di Gai 3.155 – l’invicem teneri debba intendersi come mera reciprocità
– non anche interdipendenza funzionale – dei vincoli generati dalla
figura.
[28] Nel passo di Pomp. 4 ad Q. Muc. D. 46.3.80 – riportato
sopra, a nt. 19 – l’avverbio ‘aeque’ non «funge da cerniera tra le due parti del
discorso stabilendo una relazione di equivalenza» (R. Santoro, Su D. 46.3.80, cit., 564), ma evidenza la necessità di
modificare la disciplina normalmente applicabile alle figure di obligatio sicuramente riconosciute e
tutelate dal ius civile, tra le quali
non rientrano ancora – in quanto in via di recezione – quelle
prodotte da fattispecie come compravendita e locazione, che appunto per Labeone
non rientrano nell’agere, ma
nel contrahere.
[29] Cfr. esattamente G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, con la collaborazione di F. Sitzia e
L. Vacca, 3a ed., Torino, 1991, 528; Id.,
Lezione, cit., 27 ss.
[31] Cfr. ancora C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 71 s. Accanto alla genesi di una struttura
formulare autonoma rispetto al condicere,
costituita dall’actio ex stipulatu
incerti (cfr. C.A. Cannata, op. cit., 72), penso soprattutto alla
concessione delle formulae
dell’actio rei uxoriae e
dell’actio fiduciae (cfr. sul
punto M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano,
1990, 148 e 553).
[32] Cfr. J. Paricio, Contrato,
cit., 34. In realtà, la divisio
dell’obligatio suggerita da
Gaio è più che altro una proiezione della divisio tra funzione reipersecutoria e funzione penale della tutela
in personam (cfr. C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 80 s.) emergente da Gai 4.6-8, sicché
– al di là della stretta difficoltà logico-linguistica
della scelta adottata – non mostra che il giurista accogliesse una
dogmatica realmente distante da quella che emerge dal dictum Pedii in D. 2.14.1.3.
[34] C.A. Cannata,
La nozione, cit., 30. E dunque il
dissenso cade, più che altro, sull’esclusione di una prospettiva
diacronica – in specie per epoca classica – negli svolgimenti
dogmatici in tema di contractus, in
quanto, secondo l’insigne Autore, «tutta la giurisprudenza classica
impiegò tecnicamente la denominazione di contractus per i soli atti obbligatori che creano obbligazioni consensu, e per tutti questi atti; il
che implica la precisazione complementare che anche deposito, comodato e pegno
sono contratti, in quanto le rispettive obbligazioni nascono consensu e non re, perché il meccanismo del re obligari è quello dell’obbligazione creata dalla res, e precisamente da una cosa che,
entrata nel patrimonio di un soggetto B, spetta invece ad un soggetto A, il
quale tuttavia, la cosa essendo di B, non può rivendicarla. Fra le obligationes, nel senso di
“atti”, tale è il caso del mutuo» (Id., Labeone, cit., 57).
[35] Un’apertura in questa direzione
è comunque riconosciuta da C.A. Cannata,
Materiali, II, cit., 89.
[36] Negando questa lettura (C.A. Cannata, La nozione, cit., 29 s.; Id., Labeone, cit., 56), il Cannata finisce per considerare
«elucubrazioni pseudo-sistematiche a fini didattici» (Id., Labeone, cit., 57) la lettura di Gaio, che innegabilmente –
come anche C.A. Cannata, La nozione, cit., 45, riconosce –
considera mutuo, stipulatio ed expensilatio come contractus. Sul punto, basti qui richiamare quanto scriveva G. Grosso, Il sistema romano dei contratti, 3a ed.,Torino, 1963, 40 ss., 73
ss., 78 ss., ed in particolare 123 ss. e 132.
[39] N. Irti,
‘Idola libertatis’. Tre esercizi sul formalismo giuridico,
Milano, 1985, 79 ss., in particolare 82 ss.
[45] Á.
d’Ors, Réplicas
panormitanas, III,
‘Conventiones’ y ‘contractus’, in AHDE, XLVI, 1976, 132 s.; 137, in cui
peraltro l’Autore pensava alla riconducibilità della fiducia a conventio del ius civile,
ma non a contractus. Al riguardo,
cfr. quanto osservo in «Fiduciam
contrahere», cit., 69 ss.
[46] M. Talamanca,
Contratto, cit., 71 e nt. 135, 72 e
nt. 137; Id., ‘Conventio’, cit., 213 e nt.
179. Per la sostanziale classicità del fr. 1.4 di D. 2.14 si schiera,
peraltro, la più recente dottrina: cfr. C.A. Cannata, Labeone,
cit., 58; L. Garofalo, Contratto, cit., 360, nt. 52; Id., Gratuità, cit., 67, nt. 156; T. dalla Massara, Alle
origini, cit., 68; A. Mantello,
Le ‘classi nominali’ per i
giuristi romani. Il caso d’Ulpiano, in SDHI, LXI, 1995, 248 ss., in particolare 256 s.; A. Burdese, I contratti innominati, in Derecho
romano de obligaciones. Homenaje al profesor J.L. Murga Gener, Madrid,
1994, 65; Id., Recenti prospettive in tema di contratti,
in Labeo, XXXVIII, 1992, 218; F. Gallo, Eredità di giuristi romani, cit., 59, nt. 117; A. Schiavone, La scrittura, cit., 135, nt. 26, e 137 ss. Per R. Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone, in AUPA, XXXVII, 1983, 197 ss. e 202 s., la frase esprimerebbe
pensiero di Pedio e non di Ulpiano. Sospetta il testo per il riferimento a pignus e stipulatio G. Romano,
‘Conventio’, cit., 252,
nt. 47; per l’ipotesi dell’interpolazione di [vel in stipulationem], prospettata da tempo, cfr. fondamentalmente G. Grosso, Da Pedio ai Bizantini in D. 2.14.3.1-4, in Studi in onore di E. Volterra, I, Milano, 1971, 55 ss., con
ricognizione ed analisi della letteratura precedente (cfr. inoltre Id., Il sistema, cit., 53 ss.). Per le congetture più risalenti,
in termini non conservativi, sia peraltro consentito un rinvio ad Index interpolationum quae in Iustiniani
Digestis inesse dicuntur editionem a L. Mitteis inchoatam ab aliis viris doctis
perfectam curaverunt E. Levy et E. Rabel, I-III, suppl. I, Weimar, 1929-, ad h.l., nonché alla letteratura
citata da R. Santoro, op. cit., 195, nt. 96.
[47] L’esegesi qui proposta diverge
significativamente da quella indicata, innanzitutto su basi linguistiche che
non condivido, da C.A. Cannata, Labeone, cit., 58:
«l’enumerazione si sarebbe potuta costruire senza congiunzioni
– è il caso in cui noi siamo abituati a mettere delle virgole
– o con una sequenza di et,
ovvero con una sequenza di vel; ma
Ulpiano ha fatto diversamente. I termini dell’enumerazione sono quattro,
ed egli ha impiegato un solo vel, che
risulta così separare i primi esempi senza congiunzioni (emptio, locatio, pignus)
dall’ultimo (stipulatio):
perché i primi sono esempi di contractus,
mentre l’ultimo è un atto obbligatorio che non è contractus». Nondimeno, la
coordinazione è struttura chiastica, in quanto introdotta da un primo vel(ut)
e chiusa, per la quarta ipotesi, da un secondo vel, adoperati in senso soggettivo in quanto al giurista interessa
più che altro passare dal nomen
generale a nomina particolari di conventiones (cfr. quanto osservo in «Fiduciam contrahere», cit.,
57 ss.).
[48] Cfr. M.A. Fino, L’origine
della ‘transactio’. Pluralità di prospettive nella
riflessione dei giuristi antoniniani, Milano, 2004, 241 ss., in particolare
243; N. Donadio, L’idea, cit., 47 s.
[49] M.
Talamanca, ‘Ius
gentium’ da Adriano ai Severi, in La
codificazione del diritto dall’antico al moderno, Napoli, 1998, 198,
nt. 24.
[50] R. Fercia,
«Fiduciam contrahere»,
cit., 70 e nt. 55 per la distanza di questa prospettiva da quella indicata da
R. Knütel, La causa, cit., 133: secondo questo
Autore, che nega l’endiadi nel dictum
Pedii e considera interamente genuino il fr. 1.4, la prima coppia andrebbe
riferita, con attenzione al fr. 1.3, alle figure di contractus, la seconda alle obligationes;
laddove a mio avviso – a parte la diversa lettura del dictum Pedii, che rappresenta
senz’altro un’endiadi – le due coppie si proiettano, semmai,
sul discorso contenuto nel fr. 5, sicché la prima va riferita alla iuris gentium conventio, la seconda alla
legitima conventio. Si
rileverà fra l’altro come le coppie del fr. 1.4 siano disposte a
struttura chiastica rispetto alla dicotomia del fr. 5, esattamente come a
struttura chiastica è la coordinazione per tramite delle disgiuntive,
vale a dire il vel(ut) iniziale ed il vel conclusivo. In sostanza, vi è una struttura chiastica
sia nell’elencazione delle quattro figure indicate nel fr. 1.4, sia nel
rapporto di esse, per coppie diairetiche, rispetto alla dicotomia della conventio ex privata causa: non credo
che tutto questo possa derivare dalle intenzioni di un glossatore.
[51] Cfr. in particolare A. Mantello, Le ‘classi nominali’, cit., 255 ss., e S. Tondo, Note ulpianee alla rubrica edittale per i ‘pacta conventa’,
in SDHI, LXIV, 1998, 449 ss.
[52] S.
Riccobono, La formazione della
teoria generale del ‘contractus’ nel periodo della giurisprudenza
classica, in Studi in onore di P.
Bonfante, I, Milano, 1930, 145 s.; Id.,
Stipulation and the Theory of Contract,
translated from the Italian with notes by W. Kerr Wylie, revised and edited
wiyh further notes and an introduction by B. Beinart, Amsterdam-Cape Town,
1957, 181 (che corrisponde a ‘Stipulatio’
ed ‘instrumentum’ nel diritto giustinianeo, in ZSS, XLIII, 1922, 341).
[53] Ed è su questo punto, ma con le
diverse coordinate concettuali esposte in testo, che m’innesto nel
discorso di L. Garofalo, Contratto, cit., 337 ss., in particolare
350 ss.
[54] M. Talamanca, ‘Conventio’,
cit., 212. A conclusioni (solo) in parte analoghe mi pare giunga M. Sargenti, Svolgimento dell’idea di contratto nel pensiero giuridico romano,
in Iura, XXXIX, 1988, 59 ss., in
particolare 64; non mi pare quindi condivisibile, nelle coordinate concettuali
qui seguite, A. Burdese, I contratti innominati, cit., 65, che
considera l’elenco ulpianeo come riferibile a contratti causali.
[56] C. Cascione,
‘Consensus’. Problemi di
origine, tutela processuale prospettive sistematiche, Napoli, 2003, 464 e
466, nt. 239 per i problemi posti da D. 2.14.1.4, tenuto presente dal punto di
vista della prima coppia diairetica (emptio/locatio),
che si riscontra, come abbiamo visto, anche in Ulp.-Lab. D. 50.16.19 ed in
Pomp.-Q. Muc. D. 46.3.80.
[60] Neppure nella formula dell’actio
fiduciae, imperniata sulla clausola ut
inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione testimoniato da Cic. off. 3.17.70, su cui cfr., di recente, R. Fiori, ‘Bonus vir’. Politica filosofia retorica e diritto nel
‘de officiis’ di Cicerone, Napoli, 2011, 250 e 334 s. Sul punto
cfr. O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung, 3a ed., Leipzig,
1927, 291 ss., nonché quanto dico in «Fiduciam
contrahere», cit., 232 ss.
[61] Sul punto cfr. R. Fiori, ‘Ius
civile’, ‘ius gentium’, ‘ius honorarium’: il
problema della ‘recezione’ dei ‘iudicia bonae fidei’,
in BIDR, CI-CII, 1998-1999, 190 s.;
nonché Id., ‘Bonus vir’, cit., 134 s.
[63] R. Fercia,
«Fiduciam contrahere»,
cit., 76 e 114. In una diversa prospettiva d’indagine, ma in fin dei
conti in termini non divergenti da quanto si suggerisce in testo, cfr. P. Fuenteseca, Visión procesal de
la historia del contrato en derecho romano clásico, in Estudios de derecho romano en honor de
Á. D’Ors, I, Pamplona, 1987, 485 s.
[65] sch.
2 ad Bas. 11.1.6 (BS, 185): òEgnwv th#n pou@blikan konbenti@ona. Ma@qe nu^n kai# th#n
legiti@man. Legiti@ma eèsti# konbenti@wn hé aèpo# no@mou
tino#v hà do@gmatov bebaioume@nh, kaènteu^qen kai# sunista^sa
aègwgh#n kai# lu@ousa kata# to# iòpso ièou^re
aègwgh@n. Kai# dia# tou^to eòsq èoçte aèpo#
yilou^ sumfw@nou ti@ktetai aègwgh# kai# lu@etai kata# to# iòpso
ièou^re aègwgh@n, toute@stin, oçtan to# pa@kton
uépo# no@mou kurou^tai, oié^on (eiòpw de@ soi pro@teron,
po@te aèpo# yilou^ pa@ktou suni@statai aègwgh@) eèa@n tiv
traditeu@wn aègro#n ouçtwv eiòphj * traditeu@w soi to#n
aègro@n, iòna eòcw tou@tou to#n ouèsoufrou^kton,
th#n crh^sin tw^n karpw^n hà th#n pa@rodon. èEpeidh# tau@thn th#n
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eèrrw^sqai ta# eèn thj^ traditi@oni gino@mena su@mfwna [D.
2.14.48; specialiter D. 8.4.6 et D. 8.4.7, i.e. in l. IV de iudiciis, ut
infra], du@natai oé traditeu@sav
eèkdikh^sai th#n crh^sin tw^n karpw^n. Kai# oçtan
eèpaggei@lwmai proiki@zein tina@
[C. 5.11.6],
kai# oçte po@liv danei@zousa sumfwnh@sei lamba@nein to@kouv [D.
22.1.30], kai# oçte ièdiw@thv
danei@zwn karpou#v sumfwne@sei lamba@nein to@kouv [D. 20.1.11.1
et D. 13.7.33] hà th#n
doulei@an, wév eèn twj^ g @. kai# d @. bibli@wj tw^n de#
ièoudiki@hv [D. ex ordine l. VII, de iudiciis l. III; D. ex ordine
l. VIII, de iudiciis l. IV, ut supra]
manqa@neiv. çWsper
ouè^n kai# eèpi# to# eènecu@rwj geno@menon su@mfwnon,
kaòn siwphro#n hjù, eòcei ti@ktein aègwgh@n,
toute@sti th#n Serbianh@n, wév oé Pau^lov eèn twj^ iz @
dig. fhsi@n [D. 2.14.17.2] (oiè^dav de@, oçti kai# dwrea@, kai# auòth
aèpo# yilou^ sumfw@nou, ti@ktei sh@meron to#n eèx le@ge
kondikti@kion [C. 8.53.35.5-5e et I. 2.7.2]) ouòtw me#n ouè^n suni@sthsin
aègwgh#n hà legiti@ma konbenti@wn. Pw^v de# kata# to#
auèto# di@kaion lu@ei aègwgh@n, ma@qe. Peri# th^v fou^rti
pakteu@ein no@mov eèpe@treyen, wév manqa@neiv eèn twj^ iz
@ dig. tou^ paro@ntov tit. [D. 2.14.17.1]. èEa#n ouè^n tiv pakteu@shj th#n fou@rti
mh# kinei^n, lu@etai kata# to# ipso ioure hé fou^rti. çOti ga#r
th#n fou^rti kata# to# iòpso ièou^re to# pa@kton
aènairei^, manqa@neiv eèn twj^ iz @ dig. tou^ paro@ntov tit. [D.
2.14.17.1]. Kai@toi to# mh# uépo# no@mou
ièdikw^v kurou^menon pa@kton, oié^on, ouèk aèpaitw^
se to# cre@ov, dia# paragrafh^v, aèlla# ouè kata# to# ipso ioure
th#n aègwgh#n aènairei^, wév manqa@neiv eèn twj^
auètwj^ iz @ dig. kai# wév oé Ouèlpiano#v
euèqu#v eèpife@rei [D. 2.14.7 pr.]. L’attribuzione
all’Indice di Stefano è in ‘Basilicorum
libri LX’, post A. Fabroti curas ope codd. mss. G.E. Heimbachio
aliisque collatorum integriores cum scholiis edidit, editos denuo recensuit,
deperditos restituit, translationem Latinam et adnotationem criticam adiecit
D.C.G.E. Heimbach, VI, ‘Prolegomena
et manuale Basilicorum continens’, Lipsiae, 1870, 224. Sul punto cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 82 ss.; in altra
prospettiva d’indagine, ma con identico approccio di metodo, si occupa
della lezione di Stefano G. Santucci,
‘Pacta adversus leges’.
Tracce della Legge delle XII tavole nel commento edittale ulpianeo, in Tradizione romanistica e Costituzione,
diretto da L. Labruna, a cura di M.P. Baccari e C. Cascione, II, Napoli, 2006,
1197 ss.
[66] Paul. 1 manual. Vat. Fragm. 50: In
mancipationibus vel in iure cessione an deduci possit vel ex tempore vel ad
tempus vel ex condicione vel ad condicionem, dubium est; quemadmodum si is, cui
in iure ceditur dicit: aio hunc
fundum meum esse deducto usu fructu ex Kal. Ian. Vel deducto usu fructu usque
ad Kal. Ian decimas, vel aio
hunc fundum meum esse deducto usu fructu, si navis ex Asia venerit; item in mancipatione: emptus mihi esto [pretio] <hoc aere
aeneaque libra?> deducto usu fructu
ex Kal. illis vel usque ad Kal.
illas; et eadem sunt in condicione. Pomponius igitur putat non posse ad certum
tempus deduci nec per in iure cessionem nec per mancipationem, sed tantum transferri
ipsum posse. ego didici et deduci ad tempus posse, quia et mancipationem et in
iure cessionem lex XII tabularum confirmat. Num quid ergo et ex
tempore et condicione deduci possit? sequitur et legatum deduci ad certum
tempus posse. Sul punto
cfr. ancora R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit.,
102 ss.
[67] Cfr. F. Goria, Il giurista
nell’impero romano d’Oriente (da Giustiniano agli inizi del secolo
XI), in Fontes minores XI,
herausgegeben von L. Burgmann, Frankfurt am Main, 2005, 163 e nt. 46.
L’insegnamento degli antecessores,
infatti, si risolveva nell’«esprimere in lingua greca, per di
più spesso chiarendoli e semplificandoli, i testi prevalentemente latini
del Corpus iuris»; ed è
per questo che «proprio le loro opere hanno costituito il substrato a cui
attinsero, per tutto l’impero d’Oriente, la maggior parte delle
compilazioni giuridiche successive, al punto che, quando queste ultime si
discostano dal testo latino originario, sorge il fondato sospetto che tale
discrepanza non sia da attribuire al compilatore più recente, ma risalga
al giurista del secolo VI».
[68] Cfr. Paul. 15 quaest. D. 46.3.98.8 e Paul. 72 ad
ed. D. 45.1.83.5: rinvio a R. Fercia,
«Fiduciam contrahere»,
cit., 100 s.
[69] Cfr. Gai 4.21 e Tit. Ulp. 11.3; sul
punto, si veda ancora R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit.,
96 ss.
[71] L’opzione testuale ed esegetica
qui adottata conduce lontano, per conseguenza, dalla ricostruzione suggerita da
P. Cerami, ‘Contrahere cum fisco’, in AUPA, XXXIV, 1973, 338 ss. (e quindi, successivamente, Id., D.2.14.5 (Ulp. 4 ‘ad ed.’),
cit., 209 ss.), seguito da A. Schiavone,
La scrittura, cit., 138 s. e ntt. 34
e 35, secondo la quale accanto alle conventiones
ex causa publica ed ex causa privata
Ulpiano avrebbe fatto originariamente riferimento alle conventiones ex causa fiscali.
[72] «Aliquis … afferma
l’esistenza di persona o cosa non individuabile»: così A. Traina - G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, 6a
ed., a cura di C. Marangoni, Bologna, 1998, 206; cfr. quanto osservo in «Fiduciam contrahere», cit.,
99.
[74] In quest’ordine di idee, dissento
dunque dai tentativi ricostruttivi con cui si è ricercata la
concretizzazione della legitima conventio,
anziché in principia normativi
nel senso gaiano dell’espressione, in specifiche disposizioni di leges, plebiscita o senatus consulta:
cfr. in particolare P. Cerami, D.2.14.5
(Ulp. 4 ‘ad ed.’). Congetture sulle ‘tres
species conventionum’, in AUPA, XXXVI, 1976, 167 ss.
[75] S. Randazzo,
‘Leges mancipii’. Contributo
allo studio dei limiti di rilevanza dell’accordo negli atti formali di
alienazione, Milano, 1999, passim,
ed in particolare 34 ss. e 155 ss.; cfr. R. Fercia,
«Fiduciam contrahere»,
cit., 161 ss.
[76] Su questo passo, trovo convincente in
linea di principio, anche per la giustificazione dell’opzione
critico-testuale, la recente lettura di B. Biscotti,
Dal ‘pacere’ ai ‘pacta
conventa’, Milano, 2002, 93 ss.; cfr. anche quanto rilevo in «Fiduciam contrahere», cit.,
159 ss., con altra letteratura.
[77] Ed in questo mi riallaccio alla lettura
di A. Corbino, Intervento, in Poteri ‘negotia’ ‘actiones’
nell’esperienza romana arcaica. Atti del Convegno di diritto romano, Copanello,
12-15 maggio 1982, a cura di F. Milazzo, Napoli, 1984, 255; Id., La struttura della dichiarazione di acquisto nella
‘mancipatio’ e nella ‘in iure cessio’, in ‘Collatio iuris Romani’.
Études dédiées à H. Ankum à l’occasion
de son 65e anniversaire, cit., 82; e, quindi, Id., Il formalismo negoziale nell’esperienza romana,
2a ed., Torino, 2006, 29 ss., e 43; cfr. R. Fercia,
«Fiduciam contrahere»,
cit., 184 ss.
[78] Riconosceva, ma per una diversa via
esegetica, una legitima conventio
nella fiducia B. Biondi, Contratto e
‘stipulatio’, Milano, 1953, 81, 118 e 142. Nella prospettiva
ricostruttiva che proponevo in «Fiduciam
contrahere», cit., 209 ss., il ricorso al rito mancipatorio deve
intendersi nella sua struttura gestuale e verbale ‘astratta’,
testimoniata da Gai 1.119; penso, infatti, che l’expressio causae più volte attestata, per le mancipationes,
dalle fonti documentarie in nostro possesso costituisca prova non già di
un arricchimento in senso funzionale del formulario ordinario della mancipatio, ma semmai
dell’esigenza, sentita dalla prassi, di documentare la convenzione
sostanziale sottostante al rito, inespressa nel relativo formalismo.
D’altro canto, non abbiamo alcuna prova della possibilità di
configurare in senso funzionale il formalismo dell’in iure cessio, che pure – al pari della mancipatio – era comunque utilizzato per costituire la fiducia su res nec mancipi. Nel caso della fiducia,
dunque, il fiduciario è obbligato, innanzitutto, ‘dalla
cosa’, trasferita per atto formale, nel senso più stretto e
tecnico dell’obligatio re; la
convenzione sostanziale sottostante al gestum
per aes et libram, quindi, opera direttamente sul piano del ius civile, orientandone l’effetto
in modo da dar vita alla fattispecie fiduciaria e produrre il rapporto obbligatorio.
Questa convenzione era percepita come una figura di legitima conventio riconducibile al principium normativo di Tab. 6.1: e dunque quel che noi chiamiamo
– con espressione non romana – ‘pactum fiduciae’ altro non era, in sostanza, se non
un’applicazione di quel sicuro valere
del quodcumque pactum sit in
mancipationibus rerum testimoniato da Gai. D. 2.14.48. In
quest’ordine di idee, per un verso la convenzione fiduciaria operava
unicamente in correlazione con gli atti formali di alienazione, stante la sua
debolezza funzionale – cui suppliva evidentemente il formalismo del rito
– che impediva di riconoscerla come iusta
causa traditionis; per altro verso l’attribuzione
patrimoniale al fiduciario creava una proprietà
‘funzionale’, ma non ‘temporanea’.
[79] Come si è già più
volte rilevato, infatti, «la giurisprudenza pontificale romana introdusse
nel patrimonio concettuale del diritto civile la nozione di obbligazione,
individuando nella sponsio la sua
fonte e creando la legis actio per
iudicis postulationem per la sua sanzione» (C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 38).
[82] B. Albanese,
Per la storia del ‘creditum’,
in AUPA, XXXII, 1971, in particolare 155 s., 157 s. e 173. Cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 130 ss.
[86] Su tutti questi aspetti rinvio a «Fiduciam contrahere», cit.,
93 ss. e 111 ss., e ntt. 171 e 173 per la letteratura inerente alla
collocazione cronologica dell’ad
edictum paolino rispetto a quello ulpianeo.
[87] Per la cui riconducibilità a contractus depongono – ma solo per
epoca severiana – Papin. 7 resp.
D. 33.10.9.2, itp.; Ulp. 30 ad ed. D.
13.7.24 pr., itp.; Ulp. 2 disp. D. 15.1.36, itp.; Mod. 2 diff. Coll. 10.2.2; Mod. 4 resp. D. 13.7.39, itp.: su questi
frammenti rinvio al I capitolo di «Fiduciam
contrahere», cit., dedicato esclusivamente a questa problematica.
[88] A riscontro cfr. Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.1.4 e D. 2.14.7.3; Ulp.
26 ad ed. D. 12.1.9.4; Ulp. 45 ad ed. D. 50.17.34, oltre ovviamente Gai
3.88-90.
[89] Con specifico riferimento al pensiero
di Ulpiano può farsi riferimento ad Ulp. 29 ad ed. D. 14.6.9.2; Ulp. 76 ad
ed. D. 44.4.4.4; Ulp. 26 ad ed.
D. 12.1.9.4. Ma in generale, sulla riconducibilità del mutuo a contractus cfr. V. Giuffrè, voce Mutuo (storia), in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, 429 e 434 s.
[90] Che non è contraddetta,
evidentemente, dall’estensione della stipulatio
ai peregrini mediante il ricorso a verba diversi da spondere (Gai 3.93), né il fatto che la mutui datio si costituisca per tramite della traditio, che è negozio di ius gentium (Gai. 2 rer. cott.
D. 41.1.9.3) come lo sono i nomina
arcaria (Gai 131-132). Su questi aspetti cfr. quanto dico in «Fiduciam contrahere», cit.,
140 ss. Per altro verso, diversamente da quanto ritiene A. Burdese, Il contratto romano, cit., 105, Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7.3 non mostra che la stipulatio sia considerata dal giurista come sottesa da iuris gentium conventio: al di là
dei tagli – innegabili – operati dai Compilatori, il discorso è
imperniato sulla meritevolezza della funzione, e prosegue quello avviato in
tema di suna@llagma,
per poi pervenire al problema della nuda
pactio (fr. 7.4). Ne consegue che l’esemplificazione era introdotta
per differenziare, con ogni probabilità, la funzione non meritevole
dalla funzione assente, senza alcuna specifica incidenza sulla qualificazione
della conventio. Il ricorso
all’esempio della stipulatio,
d’altronde, doveva forse avere – nella più ampia
architettura della trattazione – un significato espositivo rafforzativo,
analogo a quello desumibile dal fr. 1.3: in altri termini, la figura non si
integra, per cui non v’è stipulatio,
né in difetto strutturale di consensus,
né in presenza di una conventio
non meritevole, e ciò addirittura al di là – questo
è il punto comune ai due cenni – del formalismo procedimentale,
vale a dire il verbis fieri, che ne
connota la genesi.
[91] Cfr. – è appena il caso di
indicare i testi – Gai 3.88-89: e ciò, comunque, a meno di
considerare del tutto inaffidabile l’esposizione di Gaio, come fa C.A. Cannata, La nozione, cit., 44 ss., in particolare 47 (dove si parla dei commentarii come del «prodotto di
uno sforzo didattico mal concepito di un giurista mediocre»); Id., Labeone, cit., 57 (dove si denunziano «elucubrazioni pseudo-sistematiche
a fini didattici»); e comunque di considerare atecniche, ma –
almeno a mio avviso – senza una ragione decisiva in tal senso, le
espressioni in cui, nelle fonti, sono qualificate come ‘contractus’ figure riconducibili
all’antico agere labeoniano
(cfr. ancora C.A. Cannata, La nozione, cit., 45, nt. 54).
[92] Secondo A. Mantello, Le
‘classi nominali’, cit., 255, «il ventaglio delle ipotesi
resta abbastanza ampio», e tale mi pare destinato comunque a rimanere:
sia consentito, al riguardo, un rinvio a «Fiduciam
contrahere», cit., 66 e nt. 47.
[93] Cfr. sul punto C.A. Cannata, Qualche considerazione sui ‘nomina transscripticia’, in
Studi per G. Nicosia, II, Milano,
2007, 208 ss., e R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit.,
124 e nt. 202.
[94] Sicché non trovo convincente
neppure la posizione di A. Schiavone,
La scrittura, cit., 144 ss., tendente
al sincretismo sulla base di una rilevanza trasversale, nel III secolo, della iuris gentium conventio.
[95] Mod.
2 reg. D. 44.7.52.1: Re obligamur, cum res ipsa intercedit. Il testo, a mio avviso, semplicemente
compendia un’idea classica, sicché non vedo ragioni significative
per dubitarne, specie nella prospettiva di M. Talamanca,
‘Una verborum obligatio’ e
‘obligatio re et verbis contracta’, in Iura, L, 1999, 97, secondo il quale il passo sarebbe
«praticamente inintellegibile, stante l’assoluta ambiguità
della frase ‘cum res ipsa
intercedit’, che può riferirsi tanto alla struttura del
contratto quanto all’oggetto del medesimo»: per me l’intercedere è l’interporsi della
res ipsa – che chiude ad un secondo livello
la sequenza procedimentale formativa dell’atto, per la cui
vincolatività il solo consensus
formato non è sufficiente – tra la conventio e l’obbligazione, nella prospettiva di un re fieri non limitato – come nella
più antica configurazione dell’agere
re e del re contrahere in senso
stretto – alla sola attribuzione dominicale. C.A. Cannata, voce Obbligazioni
nel diritto romano, medievale e moderno, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., XII, Torino, 1995, 424, pensa
all’intervento di un glossatore (ed ora Id.,
Materiali, II, cit., 92 ss., dove
l’Autore tende a limitare l’affidabilità del testo al solo
fr. 52 pr.), e vede nel passo il modello per la configurazione contemporanea
del contratto reale, costituito con l’attribuzione di mera
disponibilità materiale: in realtà, però, nella
prospettiva del fr. 52.1 l’obbligazione sorge ‘dalla cosa in
sé’, sicché semmai l’espressione è
significativa dell’ambivalenza del momento determinante per la nascita
dell’obbligazione, percepito come interposizione a livello tanto di naturalis possessio (come nei contratti
di comodato e di deposito) quanto di attribuzione dominicale (come nel mutuo e
nella fiducia). Per un verso, dunque,
Modestino ampliava la stretta nozione del re
obligari quiritario, accostando all’attribuzione dominicale
l’attribuzione possessoria (di naturalis
possessio) che connota comodato, deposito e pegno; per altro verso,
l’attuale nozione di contratto reale sconta l’eccessiva
centralità riconosciuta al principio consensualistico, che quasi di
necessità impone alla dottrina civilistica una sorta di
‘avversione’ all’idea della presenza, nel sistema, di figure
di consegna implicante trasferimento. Sicché, al riguardo, io credo che nell’attuale
dogmatica dei contratti reali meriti di essere recuperata la tesi –
adoperata da G. Oppo, Adempimento e liberalità, Milano,
1947 (rist.: Napoli, 1979), 408 ss. (ma cfr. anche a p. 394 s. e 399 s.) per
configurare l’adempimento di obbligazioni naturali sulla scorta di G. Andreoli, Contributo alla teoria dell’adempimento, Padova, 1937, 82, e
di A. von Tuhr, Der Allgemeine Teil des Deutschen
Bürgerlichen Rechts, II.1, München und Leipzig, 1914, 149 s.
– che considera più ampiamente la realità come spostamento
patrimoniale, quale che sia, costitutivo di fattispecie: profilo che, a mio
avviso, giustifica con evidenza, ad esempio, tanto il significato del dato
normativo confluito nell’art. 1814 cod. civ., e quindi la realità
(per consegna attributiva della proprietà delle cose fungibili) del
mutuo, quanto quello cristallizzatosi nell’art. 1803, e quindi la
realità (per consegna attributiva di detenzione qualificata) del
comodato. È, a mio parere, in questa ambivalenza dell’intercessio ipsae rei che il fr. 52.1
può considerarsi alla base dell’attuale dogmatica del contratto
reale: o, meglio, di quella che dovrebbe recuperarsi alla luce della dottrina
degli Autori da ultimo ricordati.
[97] Mod. 2 reg. D. 44.7.52 pr.: Obligamur aut re aut verbis [aut simul utroque] <aut litteris> aut consensu aut lege aut iure honorario aut necessitate [aut ex peccato]. (1) Re obligamur, cum res ipsa intercedit.
(2) Verbis, cum praecedit interrogatio et
sequitur congruens responsio. (3) [Re
et verbis pariter obligamur, cum et res interrogationi intercedit,
consentientes in aliquam rem]. (4) <Consensu obligamur>
[Ex consensu obligari] necessario ex voluntate nostra [videmur]. (5) Lege obligamur, < ? > [cum obtemperantes legibus aliquid secundum praeceptum
legis aut contra facimus]. (6) Iure
honorario obligamur < ? > [ex his, quae edicto perpetuo vel magistratu
fieri praecipiuntur vel fieri prohibentur]. (7) Necessitate <obligamur
… ?> [obligantur, quibus non
licet aliud facere quam quod praeceptum est: quod evenit in necessario herede].
(8) [Ex peccato obligamur, cum in facto
quaestionis summa constitit]. (9) Etiam
nudus consensus sufficit obligationi, quamvis verbis hoc exprimi possit. (10) Sed
et nutu solo pleraque consistunt. Rispetto alla ricostruzione di C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 92-103, ed allo status quaestionis ivi delineato, considero frutto di alterazione
– per inserimento, segnatamente, in luogo dell’obligari litteris – il riferimento all’obligatio re et verbis, sia nel fr. 52 pr.,
sia nel fr. 52.3. Invece, i fr. 52.1 e 52.4 secondo me semplicemente
compendiano un’idea classica: con ogni probabilità è
realmente di Modestino l’uso del verbo intercedere per spiegare l’obligatio re, uso tenuto presente dal parafraste che aveva inserito
meccanismo (e commento) dell’obligatio
re et verbis. Concordo con il Cannata, quindi, sull’alterazione del
fr. 52 pr. (e del commento, nel fr. 52.8) per quanto concerne l’obligatio ex peccato: Modestino
rifiutava, in quanto sentita dogmaticamente impraticabile, anche se non priva
di utilità sul piano di una semplice esposizione didattica, la
possibilità di distinguere tra obligatio
ex contractu ed obligatio ex delicto.
Il lege obligari, di cui abbiamo
perso in sostanza il commento, doveva riguardare per il giurista ipotesi
riconducibili tanto a tutela penale (si pensi ad esempio a furtum e damnum iniuria datum)
quanto a tutela reipersecutoria (penso alla tutela,
che riposa su dati normativi repubblicani, come chiariva Tit. Ulp. 11.3);
analoga prospettiva sottende il iure
honorario obligari (si pensi alle tutele avverso dolus malus e quod metus
causa, e quindi ai quasi delitti giustinianei, quali tutele penali
pretorie; od ai recepta, quali tutele
reipersecutorie pretorie). Il necessitate
obligari resta questione aperta (su cui si è soffermato in
particolare Th. Mayer-Maly, ‘Obligamur necessitate’, in ZSS, LXXXIII, 1966, 47 ss.; Id., Topik der ‘necessitas’, in Études offertes à J. Macqueron, Aix-en-Provence,
1970, 477 ss.); ma è molto difficile che sia davvero riconducibile alla
posizione patrimoniale dell’heres
necessarius: il nesso è più linguistico che dogmatico, ove si
consideri che pur sempre obligatio a
persona heredis incipere non potest, sicché la trasmissione di
un’obligatio sarebbe paradossalmente
reinterpretata come suo fattore produttivo. Se il riferimento all’heres necessarius maschera – come
non appare a priori assurdo –
un originario discorso su obligationes riferibili
a servi, non escluderei che Modestino
parlasse di necessitate obligari, in
via residuale, per la naturalis obligatio:
ove, cioè, il vincolo astrattamente producibile dai fattori già
individuati (re, verbis, litteris, consensu, lege, iure honorario) non
possa sorgere per la condizione soggettiva di una delle parti, si dovrà
nondimeno ritenere sussistente un’obligatio
prodotta dalla necessitas.
Ciò potrebbe contribuire a spiegare la scelta espositiva della
definizione di obligatio contenuta in
I. 3.13 pr., dove appunto si legge non già ‘actione’, ma ‘necessitate’ adstringimur, così da coprire
non solo la civilis, ma anche la naturalis obligatio (sia consentito, in
merito, un rinvio a R. Fercia, Le obbligazioni naturali, in Trattato delle obbligazioni diretto da
L. Garofalo e M. Talamanca, I.3, Obbligazioni
naturali e obbligazioni senza prestazione, Padova, 2010, 216 ss., in
particolare 218 s.). Infine, i fr. 52.9-10 sono probabilmente classici: il
giurista, dopo aver individuato i fattori di produzione del vincolo, ed aver
considerato in via residuale anche la necessitas
del debitore naturale, doveva soffermarsi a chiarire la distanza teorica e
pratica tra due ipotesi tendenzialmente analoghe, l’obligatio verbis e l’obligatio
consensu, individuandone la distanza nel sufficere del nudus consensus
– che può esprimersi anche con un semplice cenno – nel
secondo caso. Al di là delle alterazioni testuali dovute a verosimili
glossemi rientrati nel testo, forse nel travaglio della didattica postclassica,
emerge bene a mio parere il rifiuto di Modestino da un lato di utilizzare la
struttura bilaterale della conventio
come ‘comune denominatore’ delle obligationes protette in via reipersecutoria (come faceva Gaio,
proiettando la funzione reipersecutoria della tutela sulla categoria
descrittiva dell’obligatio ex
contractu) e, dall’altra, di creare una divisio tra obbligazioni ‘contrattuali’ ed obbligazioni
‘extracontrattuali’.
[98] Nel senso che la tutela in rem è inesprimibile tanto per
le figure di contratto reale imperniato su trasferimento (come mutuo e fiducia), quanto per i contratti reali
del ius gentium, non foss’altro
perché il possessore, ovvero il legittimato passivo in petitorio,
è comunque in questi casi il dominus
(cfr. C.A. Cannata, Corso di istituzioni di diritto romano,
I, Torino, 2001, 421 ss.): di qui – accanto all’emersione della
tutela per tramite dei iudicia contraria,
che attenua l’unilateralità dell’effetto dell’atto
– uno dei presupposti per l’osmosi tra il condicere e la tutela contrattuale, verso la quale tende a
trasfigurare ogni qual volta la fonte dell’obligatio re abbia struttura bilaterale. Nondimeno, secondo C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 89, ciò «non crea alcuna analogia
fra un contratto di deposito e un mutuo». Dal mio punto di vista,
evidenzierei semmai come l’esperienza della ‘Severerzeit’
tenda ad ampliare la nozione originaria del re
contrahere – accostando al trasferimento l’acquisto della naturalis possessio – forse
riprendendo un filo interrotto: mi riferisco al riconoscimento della condictio, per ragioni equitative (cfr.
C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 56) anche
nell’ipotesi del furtum,
nonostante il ladro non acquisti, evidentemente, la proprietà sulla
refurtiva.
[99] In adesione alla posizione di C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 103 ss. Ritengo, ad ogni modo, che il parafraste
avesse piena consapevolezza dogmatica della distanza tra l’obbligazione
‘contrattuale’, ovvero protetta da tutela reipersecutoria, e
obbligazione ‘extracontrattuale’, protetta da tutela penale:
diversamente da quanto ritiene il Cannata (op.
cit., 111 s.) il re consistere
dell’unum genus dell’obligatio ex maleficio non è una
rivisitazione ‘intellettualoide’ del re contrahere, ma il segno della consapevolezza della distanza
teorica tra le due categorie considerate (ed allo stesso tempo, forse, una sorta
di ‘ponte’ tra i due
estremi dell’originaria divisio
gaiana). Dicendo in Gai. 3 aur. D.
44.7.4 che l’obbligazione extracontrattuale re consistit, ovvero – il che è però forse
frutto di glossemi successivi – id
est ex ipso maleficio, egli afferma che essa sorge ‘dalla
materialità’ del misfatto, sicché il ladro è
obbligato ‘dalla cosa rubata’, come il danneggiante ‘dalla
cosa danneggiata’. Per l’iniuria,
la materialità va intesa nella prospettiva storica della sua genesi,
correlata alla materialità delle ipotesi considerate nel noto passo di
Paul. l. sing. et tit. de iniuriis
Coll. 2.5.5: il che denota appunto la consapevolezza dell’irrilevanza, in
questo contesto, della nozione di (in)adempimento. In quest’ordine di
idee, le ipotesi di obligatio quasi ex
maleficio (Gai. 3 aur. D.
44.7.5.4-6) sono accomunate dall’attenuazione della materialità
– il re consistere – del
misfatto, sia nel caso della sentenza resa per
imprudentiam, sia nei casi della responsabilità per fatto altrui,
dove ad essere ‘proprie’
obbligato re, nel senso precisato,
è solo l’autore del fatto.
[101] G. Romano,
Nota sulla tutela del contraente evitto
nell’ambito dei c.d. contratti innominati. Il caso
dell’‘actio auctoritatis’, in Diritto @ Storia, IX, 2010, § 1. Non riesco, in sostanza, a
vedere la questione neppure a livello di problema, che secondo me i prudentes non si ponevano in ragione
delle finalità di tutela prese in considerazione.
[102] Su questo giurista, cfr. le belle
pagine di C.A. Cannata, Lo splendido autunno delle due scuole,
in Pacte convention contrat. Mélanges en l’honneur du
Professeur B. Schmidlin, ed. par A. Dufour, I. Rens, R.
Meyer-Pritzl et B. Winiger, Bâle et Francfort-sur-le-Main, 1998, 441 ss.
[103] Gai 3.141 e Paul. 33 ad ed. D. 18.1.1. Sul punto cfr. F. Sitzia, voce Permuta (dir. rom.), in Enc.
dir., XXXIII, Milano, 1983, 107 ss.; ma la dissensio potrebbe risultare forse meno netta di quanto normalmente
si ritenga a seguire l’esegesi di G. Nicosia,
Celio Sabino e le dispute su
‘permutatio’ ed ‘emptio venditio’, in Iura, LXII, 2014, 17 ss.
[105] Non mi pare che Pomp. 18 ad Q. Muc. D. 40.7.29.1 consenta di
desumere indizi sufficienti per un’adesione di Aristone alla tesi
sabiniana, con la conseguente possibilità di ravvisare nella
testimonianza di Paul. D. 19.4.1.2 un’evoluzione nel pensiero del
giurista, come ipotizza C. Pelloso,
‘Do ut des’ e ‘do ut
facias’. Archetipi labeoniani e tutele contrattuali nella giurisprudenza
romana tra primo e secondo secolo d..C., in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area
contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011, 114 ss. e 120 ss.: il
tratto ‘lex duodecim tabularum
emptionis verbo omnem alienationem complexa vide(re)tur’ va
riferito, infatti, almeno a mio parere, alla dichiarazione di acquisto nella mancipatio (Gai 1.119; sul punto cfr.
esattamente P. Huvelin, Études
sur le ‘furtum’ dans le très ancien droit romain, I, Les
sources, Paris, 1915, 518 e ntt. 5 e 6), sicché l’interpretazione
di Aristone non sembra fondarsi su un’assimilazione della permuta alla
compravendita, ma sul particolare significato dell’antico emere, ancora vitale nel formulario
dell’atto formale adoperato ai suoi tempi (cfr. E. Stolfi, Il modello delle scuole in Pomponio e Gaio, in SDHI, LXIII, 1997, 43 ss., in particolare 46 e nt. 216, che
evidenzia la recuperabilità della norma decemvirale tramite Tit. Ulp.
2.4).
[106] Per la correzione dell’inscriptio, cfr. O. Lenel, ‘Palingenesia iuris civilis’, I, Lipsiae, 1889, 1034,
nt. 2; ne segue la congettura anche C.A. Cannata,
Labeone, cit., 76 e nt. 115.
[107] E. Sciandrello,
Studi sul contratto estimatorio e sulla
permuta nel diritto romano, Trento, 2011, 280.
[110] Cfr. chiaramente F. Gallo, Eredità di giuristi romani, cit., 57; A. Schiavone, La scrittura, cit., 147; M. Talamanca,
‘Conventio’, cit., 212 e
nt. 176; ma mi pare implicita communis
opinio in dottrina: cfr. N. Donadio,
L’idea, cit., 51 ss.
[111] Seguo ancora nei suoi assunti di fondo,
e nella terminologia, L. Garofalo,
Gratuità, cit., 50 s.
[112] Per questa prospettiva, che merita di
essere ulteriormente percorsa, cfr. ancora L. Garofalo,
Gratuità, cit., 66 ss., 74 ss.
[113] Mi pare convincente, in linea di
principio, la proposta esegetica che tende a distinguere tra causa in senso funzionale, e suna@llagma (cfr. T. dalla Massara, Alle
origini, cit., 127 ss. e 134 ss.; Id.,
Sul ‘responsum’ di Aristone in
D. 2.14.7.2 (Ulp. 4 ‘ad ed.’): l’elaborazione del concetto di
causa del contratto, in Le dottrine
del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova,
2006, 303 ss. e 309 ss., seguito da J. Paricio,
Contrato, cit., 63 s.; per la
più recente messa a fuoco, Id.,
Come nasce un’idea: la causa del
contratto, in LR, II, 2013, 364
ss. e 370 ss.; cfr. anche A. Burdese,
Il contratto romano, cit., 106);
nondimeno, a me pare che il suna@llagma sia comunque irriducibile alla datio (criticamente cfr. anche C.A. Cannata, Labeone,
cit., 66 ss., in particolare 70 ss.), che dal mio punto di vista rileva sul
piano della disciplina formativa, vale a dire del fieri della fattispecie. Dunque il subesse causa, che secondo me va ascritto alla rimeditazione di
Ulpiano della proposta di Aristone, ben può identificarsi – ed il
problema si sposta nell’individuazione degli apporti dei singoli giuristi
alla questione – con uno scambio, ma non solo (si pensi, ad esempio, alla
meritevolezza delle convenzioni atipiche unilaterali per epoca severiana, dove
peraltro si recuperavano spunti labeoniani): in questo senso, il suna@llagma è una figura di causa. Più precisamente, nella
casistica che è alla base del discorso di Aristone e Mauriciano tenuta
presente da Ulpiano, il subesse causa
si concreta appunto in uno ‘scambio’ (cfr. C.A. Cannata, Contratto, cit., 209 s.), prima ancora che in uno ‘scopo’ (R. Santoro, La causa delle convenzioni atipiche, ora in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A.
Burdese, Padova, 2006, 224 ss.), percepito come assetto generatore dell’obligatio civilis, con conseguente
proiezione della datio sul piano
– come dicevo – procedimentale, indice esterno di
giuridicità della convenzione comunque causalmente giustificata. Il che
esclude, fra l’altro, che nella continuità tra Labeone ed Aristone
risieda un certo qual fraintendimento della prospettiva indicata dal giurista
augusteo, come suggerisce F. Gallo,
Eredità di Labeone, cit., 154
ss.
[114] Senza peraltro giungere all’estremo
di considerare di per sé sola sufficiente «la perfetta ‘datio ut’ convenuta dalle parti
quale elemento strutturale del negozio, la quale sola avrebbe implicato,
generando il rapporto sinallagmatico, il competere
al primo dans dell’actio per l’adempimento della
controprestazione»: è quanto, al riguardo, suggerisce C. Pelloso, ‘Do ut des’, cit., 145 ss. (147 per la citazione
testuale), così da configurare una «radicale
‘a-contrattualità’ dei nova
negotia aristoniani» (ivi, 141). In quest’ordine di idee, in
fin dei conti riconducibile alle varianti di una medesima configurazione
concettuale pur sempre facente capo ad Accursio – e dunque all’idea
della datio come vestimentum della convenzione, come si legge nella gl. causa in l. iurisgentium conventiones,
§ sed cum nulla, ff. de pactis (D. 2.14.7.4), che per il lemma ‘causa’ chiariva appunto id
est datio, vel factum quod vestiet pactionem – cfr. anche M. Sargenti, Svolgimento, cit., 24 ss.; L. Zhang,
Contratti innominati nel diritto romano.
Impostazioni di Labeone e di Aristone, Milano, 2007, 167 ss., in
particolare 221 ss.; A. Guzmán
Brito, Causa del contrato y causa
de la obligación en la dogmática de los juristas romanos,
medievales y modernos y en la codificación europea y americana, in Roma e America. Diritto romano comune,
XII, 2001, 200 s.
[115] Cfr. R. Knütel, La causa,
cit., 142; A. Giffard, L’‘actio civilis incerti’
et le synallagma (D. 2.14.7), ora in Études
de droit romain, Paris, 1972, 197; B. Biondi,
Contratto, cit., 90 s.
[116] Per le ragioni indicate da C.A. Cannata, Recensione a E. Sciandrello,
Studi sul contratto estimatorio e sulla
permuta nel diritto romano, Trento, 2011, in Iura, LX, 2012, 343 s.; di recente, cfr. nella medesima prospettiva
T. dalla Massara, La causa del contratto nel pensiero di
Aristone: della necessità di un concetto, in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area
contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011, 201; G. MacCormack, Contractual Theory and the Innominate Contracts, in SDHI, LI, 1985, 131 ss.
[119] G. Benedetti,
Dal contratto, cit., 113; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 9a
ed., Napoli, 1996 [rist.: 2002], 136 s.; sul punto cfr. anche V. Roppo, Il contratto, in Trattato di
diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2001, 200. Non
v’è un abisso, in fin dei conti, tra la datio ob rem romana ed il negozio di attuazione ex art. 1327 cod. civ. di cui discute
l’attuale dottrina civilistica: da questo punto di vista la sinapsi con
il modello romano si coglie forse più facilmente, pur non potendosi
comunque identificare i due meccanismi procedimentali, l’uno strumentale
alla semplificazione della disciplina formativa, l’altro semmai a
suggellare una convenzione che, per determinare il vincolo, abbisogna di un
segno esterno di giuridicità. Può qui ulteriormente rilevarsi
come la realità del negozio di attuazione non faccia diventare
‘contratto reale’ la figura che si perfezioni con il meccanismo di
cui all’art. 1327 cod. civ., esattamente come non può considerarsi
obligatio re contracta la figura
innominata romana, per la quale può parlarsi unicamente di un re fieri.
[120] Non è dunque questo,
specificamente, il testo che contiene l’opinione alla quale si
relazionava Aristone, come normalmente si ritiene: cfr., da ultimo, C.A. Cannata, Labeone, cit., 36 ss.; d’altro canto, gli esempi addotti
nella prima parte di D. 2.14.7.2 non coincidono con il caso esaminato in D.
12.4.16, sicché sul punto mi discosto ulteriormente da quanto scrive
C.A. Cannata, op. cit., 89.
[122] Contrariamente a quanto, di recente,
ritiene L. Zhang, Osservazioni sulla distinzione tra la
compravendita e la permuta nel ‘ius controversum’ tra i Sabiniani e
i Proculiani, in ‘Fides’
‘Humanitas’ ‘Ius’, Studii in onore di L. Labruna,
VIII, a cura di C. Cascione e C.M. Doria, Napoli, 2007, 6056 ss., in
particolare 6057 e nt. 12, 6059, leggendo ‘proportione’ in luogo di ‘pro portione’ in adesione a V. Scialoja, La L. 16.
Dig. de cond. causa data 12.4 e l’obbligo di trasferire la
proprietà nella vendita romana, ora in Studi giuridici, II, Roma, 1934, 255 ss.; analogamente Id., Contratti, cit., 180 e nt. 41 (ma cfr. anche V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano. Corso di lezioni svolto
nell’Università di Roma. Anni 1951-1953, 2a ed., Napoli, 1954,
132). A mio avviso la lettura del Mommsen è, peraltro, preferibile: leggere
nel frammento lo schema della proporzione geometrica rispetto a quello
dell’analogia sottende in un certo qual modo l’idea della lectio difficilior.
[123] Uno spunto in questo senso mi pare sia
suggerito da J. Kranjc, Die
‘actio praescriptis verbis’ als Formelaufbauproblem, in ZSS,
CVI, 1989, 453 (ma senza un’indagine direttamente riferibile a D.
12.4.16), e da C.A. Cannata, Labeone, cit., 38 e 41 ss.
[124] Cfr. per tutti, sul punto, M. Talamanca, voce Vendita (dir. rom.), in Enc.
dir., XLVI, Milano, 1993, 380 ss.
[125] Sul punto, cfr. esattamente M. Talamanca, voce Vendita, cit., 382 ss. e nt. 823. In sostanza, altro è
ritenere integrata l’obbligazione di dar seguito, inter cives, alla mancipatio,
intesa come obbligazione di dare facere – realizzare il rito
dell’alienazione secondo il modello formale quiritario – ex fide bona; altro è ritenere
sussistente il dovere di rem accipientis
facere per tramite di quella mancipatio,
con conseguente inadempimento per l’ipotesi del difetto di legittimazione
a disporre: per questa ragione – in particolare alla luce di Ulp. 34 ad Sab. D. 18.1.25.1: Qui vendidit necesse non habet fundum
emptoris facere, ut cogitur qui fundum stipulanti spopondit – la prospettiva in testo diverge da
quella di recente prospettata da G. Guida,
La tutela del compratore in caso di
evizione fra garanzia e responsabilità. Soluzioni giurisprudenziali
romane e problemi teorici attuali, Napoli, 2013, 45 ss.
[126] Come nel ragionamento di Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.1-2: Et si quidem pecuniam dem, ut rem accipiam,
emptio et venditio est: sin autem rem do, ut rem accipiam, quia non placet
permutationem rerum emptionem esse, dubium non est nasci civilem obligationem, <
? > in qua actione id veniet, non ut
reddas quod acceperis, sed ut damneris mihi, quanti interest mea illud de quo
convenit accipere: vel si meum recipere velim, repetatur quod datum est, quasi
ob rem datum re non secuta. < ? >
sed si scyphos tibi dedi, ut Stichum mihi dares, periculo meo Stichus erit ac
tu dumtaxat culpam praestare debes. explicitus est articulus ille do ut des.
(2) At cum do ut facias, si tale sit
factum, quod locari solet, puta ut tabulam pingas, pecunia data locatio erit,
sicut superiore casu emptio: si rem <do>, non erit locatio, sed nascetur vel civilis
actio in hoc quod mea interest vel ad repetendum condictio. quod si tale est
factum, quod locari non possit, puta ut servum manumittas, sive certum tempus
adiectum est, intra quod manumittatur idque, cum potuisset manumitti, vivo
servo transierit, sive finitum non fuit et tantum temporis consumptum sit, ut
potuerit debueritque manumitti, condici ei potest vel praescriptis verbis agi:
quod his quae diximus convenit. sed si dedi tibi servum, ut servum tuum
manumitteres, et manumisisti et is quem dedi evictus est, si sciens dedi, de
dolo in me dandam actionem Iulianus scribit, si ignorans, in factum [civilem]. Sul fr. 5.1 cfr. oltre, §
14; sul fr. 5.2, cfr. oltre, § 11. Interessa qui solo rilevare come la datio pecuniae, nei contesti in cui
l’id quod actum est consenta di
ravvisare una conventio riconducibile
a figura contrattuale tipica, non possa considerarsi alla stregua di un ob rem datum, risultando piuttosto
esecutiva dell’obbligazione di pagare il prezzo (fr. 5.1) o la mercede
nella locazione (fr. 5.2). Si rileverà, inoltre, come la tecnica di
qualificazione ‘pro portione’
della fattispecie, alla base del ragionamento di Celso, sia riscontrabile anche
nel fr. 5.1 delle Quaestiones di
Paolo: se il pecuniam dare sta
all’emptio come il rem accipere sta alla venditio, allora il pecuniam dare non è datio
‘ob rem’, ma solutio pretii.
[127] Un interessante spunto in questa
direzione è colto da F. Gallo,
‘Agere praescriptis verbis’
ed editto alla luce di testimonianze celsine, in Labeo, XLIV, 1998, 17 ss., in particolare 24. Evidenzierei,
d’altronde, come la difficoltà di ammettere una figura di
‘vendita reale’ – non già nel senso di obligatio re contracta, ma di figura
contrattuale che ‘re fit’:
quanto, secondo A. Schiavone, Studi sulle logiche dei giuristi romani.
‘Nova negotia’ e ‘transactio’ da Labeone a Ulpiano,
Napoli, 1971, 152, induceva il giurista a negare la configurabilità
della figura nominata – finisca per connotare, a più ampio raggio,
anche alcuni spunti ricostruttivi contemporanei: secondo Cass. 26 gennaio 1996,
n. 611, in Foro it., 1997, I, 1247,
infatti, «mentre si riconosce che, prevedendo la legge un contratto
reale, le parti possano in luogo di esso elaborare, con effetti minori, un
corrispondente contratto consensuale atipico (è questo il fenomeno che
la dottrina chiama ‘progressiva erosione’ del modello del contratto
reale), è invece da escludere che, essendo dalla legge previsto, per un
certo assetto negoziale, il meccanismo regolatore della consensualità,
vera e propria ‘via maestra’ nella produzione degli effetti
giuridici, le parti possano ad esso derogare, creando un modello reale
atipico». Sul punto, cfr. l’interessante analisi di C. Mancini, La realità come scelta ‘atipica’, in Riv. dir. comm., 1999, I, 387 ss., in
particolare 445 ss., nonché G. D’Amico,
La categoria dei c.d. contratti reali
atipici, in Rass. dir. civ.,
1984, II, 349 ss.
[128] È questa la posizione di S.A. Cristaldi, Il contenuto dell’obbligazione del venditore nel pensiero dei
giuristi dell’età imperiale, Milano, 2007, 112 ss., in
particolare 115 ss.; nondimeno – e per tacere del fatto che sarebbe
davvero strano che Celso non abbia inteso discutere di un profilo tanto
significativo, soffermandosi su altri aspetti della questione – la datio pecuniae è senza dubbio una
datio ob rem, vale a dire una traditio ex iusta causa: l’accordo
sullo scopo pratico del pecuniam tradere
non poteva non implicare, con l’individuazione, l’esatta
determinazione di un vero e proprio prezzo, tanto è vero che Celso
esclude, nel proprio ragionamento, la praticabilità dell’opzione
proculiana per la regola del periculum
emptoris (cfr., esattamente, le considerazioni di M. Scognamiglio, Note su sinallagma condizionale e ‘periculum rei venditae’
in diritto romano, in La compravendita
e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano, II, a cura
di L. Garofalo, Padova, 2007, 205). A ragionare nell’ottica di Cristaldi,
la datio sarebbe sine causa né si porrebbe il problema della condictio ob rem dati re non secuta,
quanto semmai – ove non si ritenga che Celso seguisse l’opzione
isolata di Iul. 13 dig. D. 41.1.36
– quello di una condictio sine causa (cfr. fondamentalmente Ulp. 18 disp. D. 12.1.18). E tuttavia,
l’esatta attuazione sia della datio
pecuniae, sia della datio servi
avrebbe implicato la stabilità definitiva dei risultati attributivi: il
problema che il giurista si pone consegue al fatto che l’accipiens non procede a servum dare, sicché egli valuta
se sussista un’obligatio civilis in
tal senso oppure no; nondimeno, orientandosi per questa seconda soluzione,
Celso non esclude affatto, per il caso dell’attuazione
‘fisiologica’ dello scambio, la stabilizzazione delle attribuzioni,
che sarebbe a monte preclusa ove si ritenesse inconfigurabile la iusta causa della traditio pecuniae.
[129] gl. proclivior
in l. dedi tibi (secunda), ff. de condictione causa data, causa non secuta (D.
12.4.16): id est ut sit do ut des et hoc
probat tribus rationibus, ut subijcit: sed videtur venditio, cum ex una parte est
pecunia, ex alia species: ut infra de prescriptis verbis naturalis §
i. [D. 19.5.5.1] que est contra. Solutio:
hic fuit data pecunia in specie, ut infra de legatis i. plane § ii [D.
30.34.4], quod potuit fieri: ibi vero in
quantitate secundum Iohannem. Vel dic secundum Azonem idem etiam si in
quantitate in casu huius legis; nam quia appositum fuit pactum de dando Sticho
id est de transferenda proprietate Stichi: quod est contra naturam venditionis,
dicitur esse innominatus contractus. Est enim dare accipientis facere, ut I. de actionibus
§ sic itaque [I. 4.6.14] quod venditor facere non tenetur ut infra de
actionibus empti et venditi ex empto in prin. [D. 19.1.11.2]. Su questa famosa testimonianza, cfr. R. Volante, Il sistema contrattuale del diritto comune classico. Struttura dei
patti e individuazione del tipo. Glossatori e Ultramontani, Milano,
2001, 278 e nt. 31, ma amplius 195 ss. nonché, per il
problema del rapporto con la permuta, 266 ss.; M. Talamanca, voce Vendita,
cit., 380 s., criticamente sulla possibilità di recupero della posizione
assunta da Bassiano. Mi sia consentito di rinviare, inoltre, a quanto rilevo in
«Quia vendidit, dare
promisit», Cagliari, 2009, 22, nt. 25 e 24, nt. 27, nel discostarmi
dalla lettura di S.A. Cristaldi, Il contenuto, cit., passim ed in particolare 110 s.: continuo a negare senz’altro
qualsiasi ipotetica equivalenza tra ‘rem
praestare’ e ‘rem
accipientis facere’, anche alla luce della ancor più recente
analisi di G. Guida, La tutela, cit., 38 ss. e 57 ss.; anche
se, francamente, non riesco a vedere in queste proposte esegetiche (che
entrambe si dichiarano debitrici dei lavori di Letizia Vacca, con specifica
attenzione a quelli raccolti in Vendita e
trasferimento della proprietà nella prospettiva storico-comparatistica.
Materiali per un corso di diritto romano,
a cura di L. Vacca, Torino, 1997, ovvero Annotazioni
in tema di vendita e trasferimento della proprietà, ivi, 127 ss.; Sulla responsabilità ‘ex
empto’ del venditore nel caso di evizione secondo la giurisprudenza tardo-classica,
ivi, p. 193 ss., in particolare 214 s.; Ancora
sull’estenione dell’ambito di applicazione dell’‘actio
empti’, ivi, 221 ss., in particolare 254 s.; La garanzia per evizione e le obbligazioni del venditore nel sistema
romano e nel sistema del codice civile italiano, ivi, 266 ss., in
particolare 284) una distanza davvero significativa rispetto
all’impostazione tradizionale, che non mi pare affatto contraddetta (mi
limito, dunque, ancora ad un rinvio a quanto scrivo in «Quia vendidit, dare promisit», cit., 22, nt. 25).
Quanto, infine, al problema posto da Paul. D. 19.5.5.1 (si quidem pecuniam dem, ut rem accipiam, emptio et venditio est: sin
autem rem <do>, ut rem accipiam, quia non placet
permutationem rerum emptionem esse, dubium non est nasci civilem obligationem),
ribadisco (cfr. ancora ivi, 24, nt. 27) che il giurista non confronta
l’obbligazione del venditore con quella del permutante che abbia ottenuto
la proprietà in esito alla prima datio,
ma semmai distingue l’obbligazione di dare
pecuniam da quella di dare rem
dal punto di vista dell’autonomia concettuale delle due figure (contra, S.A. Cristaldi, Il contenuto,
cit., 110 s.): in definitiva, accipere
rem vale qui, per Paolo, a descrivere genericamente tanto il (risultato
del) possessionem tradere del
venditore, quanto il (risultato del) dare
cui è tenuto il permutante che abbia ottenuto la proprietà della res a seguito della datio posta in essere dalla controparte, laddove il dato realmente
rilevante consiste nel distinguere tra pecunia
e res, e quindi tra chi sia emptor e chi non possa essere
così qualificato, non integrandosi con la permuta la figura nominata
dell’emptio venditio (per tutti
F. Sitzia, voce Permuta, cit., passim, in particolare 108 e 113).
[131] Cfr. M. Scognamiglio, Note,
cit., 205. Se, dunque, Celso risolve, nella prima delle tre rationes che i Maestri medievali
riconoscevano nella l. dedi tibi, un
problema di rischio, è evidente che il giurista non negava affatto
l’esistenza di una funzione di scambio: scambio che, peraltro, si rivela
economicamente equivalente a quello proprio dell’emere vendere, da cui le parti si discostano arbitrariamente sia
sul piano procedimentale sia sul piano funzionale.
[134] Cels. 8 dig. D. 19.5.2: Nam cum
deficiant vulgaria atque usitata actionum nomina, praescriptis verbis agendum
est. Al riguardo, ogni tentativo esegetico sarebbe congetturale; nondimeno,
è plausibile che «nell’originario contesto dell’opera
celsina, la motivazione che ora leggiamo in D. 19.5.2 doveva essere finalizzata
… più che ad un generale ed astratto riconoscimento delle
convenzioni atipiche, ad una ben precisa direttiva di ermeneutica
edittale» (così P. Cerami,
‘Vulgaria actionum nomina’ ed
‘agere praescriptis verbis’, in Iura, XXXIII, 1982, 123, e 126 s.; in questa lettura, peraltro, non
si individua una specifica ragione, che vada al di là del
«più giusto ed efficace riequilibrio degli interessi»).
[135] Cels. 8 dig. [de aestimato] 72 Lenel, in O. Lenel, ‘Palingenesia
iuris civilis’, I, cit., 139. Dubita della congettura di Lenel E. Sciandrello, Studi, cit., 121, nt. 122; ma se nel l. VIII dei Digesta celsini si discuteva di
compravendita, locazione ed aestimatum,
è probabile che la precisazione sul punto sia realmente da riferirsi,
più che a questa figura, ad un discorso più generale inerente ad
essa.
[136] Pomp. 11 ad Sab. D. 13.6.13.2: Si
libero homini, qui mihi bona fide serviebat, quasi servo rem commodavero,
videamus, an habeam commodati actionem. < ? > nam et Celsus filius aiebat, si iussissem eum aliquid facere, vel mandati
cum eo vel praescriptis verbis experiri me posse: idem ergo et in commodato
erit dicendum. nec obstat, quod non hac mente cum eo, qui liber bona fide nobis
serviret, contraheremus quasi eum obligatum habituri: plerumque enim id
accidit, ut extra id quod ageretur tacita obligatio nascatur, veluti cum per
errorem indebitum solvendi causa datur. Sul passo cfr. E. Stolfi, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, II, Contesti e pensiero, Milano, 2001, 228
ss., per il recupero celsino da parte di Pomponio. A seguire l’esegesi di
A. Burdese, Su alcune testimonianze celsine, in Mélanges en l’honneur de C.A. Cannata, edités
par R. Ruedin, Bâle-Genève-Munich, 1999, 6 ss., in particolare 11,
e di C.A. Cannata, Das faktische Vertragsverhältnis oder
die ewige Wiederkunft des Gleichen, in SDHI,
LIII, 1987, 303 s. (ed ora Id., Labeone, cit., 38 e nt. 13), il praescriptis verbis experiri celsino
potrebbe correlarsi ad una convenzione onerosa, mediante la quale
l’incaricato avrebbe ottenuto un’utilità diversa dal danaro,
irriducibile al mandato ed alla locazione, ma a queste affine. In effetti, la
duplice prospettazione ascritta a Celso – vel mandati … vel praescriptis verbis – ben può
riferirsi agli sviluppi della quaestio
quasi certamente perduta: a seconda dell’id quod actum est, si può esperire o l’actio mandati, evidentemente per il facere iubere patrimonialmente neutro
per l’incaricato, o l’actio
praescriptis verbis, per il caso in cui non lo sia. Non credo, peraltro,
che possa indurre a questa lettura la constatata irrilevanza
dell’ignoranza bilaterale dello status
libertatis del bona fide serviens
al momento della conclusione della convenzione (su cui insistono, invece, P. Cerami, ‘Vulgaria actionum nomina’, cit., 131, e F. Gallo, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 16): semmai, essa
rileva nel senso che la convenzione tra il dominus
ed il servus ‘apparenti’
non può risultare a priori
percepibile come un’arbitraria opzione dell’autonomia privata come
nel caso di Cels. D. 12.4.16. Seguendo
la più recente ricostruzione dell’Autore, che si legge in Materiali, II, cit., 147 ss. e 182 ss.,
il Cannata individua nel pensiero celsino riportato da Pomponio
l’archetipo – come tale percepito da Voet e Vinnen – della
costruzione delle figure che generano l’obligatio quasi ex contractu tenuta presente in Gai. 3 aur. D. 44.7.5 pr.-3, ed in I. 3.27:
nondimeno, il tratto ‘nec obstat -
habituri’ non significa che non è d’ostacolo il fatto
che ‘non concluderemmo’ un contratto con il liber homo bona fide serviens con la mens di obbligarlo, ma piuttosto che non è d’ostacolo
l’eventualità di aver concluso un contratto con quest’ultimo
‘senza’ la mens di
obbligarlo: ciò, a mio avviso, rivela che il giurista escludeva
semplicemente l’errore ostativo in
persona, ritenendo dunque conclusa una convenzione; l’esempio
dell’indebitum presenta, di
conseguenza, un comune denominatore con la fattispecie esaminata non
riconducibile ad una prospettiva dogmatica, e va limitato alla circostanza che
l’obligatio sorge tacita al di fuori dell’agere delle parti. D’altronde, il
discorso di J. Voet, Commentarius ad Pandectas, super D. 44.7.5 (che leggo in C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 192 s.), e di A. Vinnen, In Quattuor
libros Institutionum Imperialium Commentarius Academicus et Forensis, super I. 3.28 [I. 3.27 pr.] (che leggo
nell’op. ult. loc. cit., 194
ss.), insiste solamente sulla parte finale (cioè quella relativa
all’indebito) di D. 13.6.13.2.
[137] Né dunque considero
«disorientante la divergenza di orientamenti» ravvisata da T. dalla Massara, Alle origini, cit., 236, tra D. 12.4.16 e D. 19.5.2, proprio
perché il giurista non esprimeva orientamenti divergenti.
[138] Così, testualmente, A. Burdese, I contratti innominati, cit., 80; cfr. anche Id., Su alcune testimonianze, cit., 12 s.
[139] Mi riferisco all’esegesi di D.
19.5.2 suggerita da P. Cerami, ‘Vulgaria actionum nomina’,
cit., 122 s., e da F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 155
ss., nonché, più di recente – specie per i punti di
connessione con la tesi del Cerami,
che mi sembrano prevalere su quelli di dissenso, incidenti più che altro
sulla possibilità che a far da sfondo all’approccio celsino fosse
già intervenuta o meno la ‘codificazione’ dell’editto
pretorio – da F. Gallo, ‘Agere praescriptis verbis’,
cit., 16 s.; cfr. anche T. dalla Massara,
Alle origini, cit., 233 ss., in
particolare 240 s. e G. Melillo, ‘Contrahere’, cit., 211 ss.,
in particolare 217.
[140] Sul punto cfr. analogamente A. Mantello, I dubbi di Aristone, Ancona, 1990, 83 ss., 119 ss. e 122 ss. (ed in
particolare 123 s.; l’opera è oggi ripubblicata in ‘Variae’, I, Lecce, 2014,
229 ss.), nonché più di recente Id.,
Le ‘classi nominali’,
cit., 258 s.
[141] Uno spunto in questa direzione è
esattamente suggerito da C.A. Cannata,
Der Vertrag, cit., 67.
[142] Dovendosi ritenere superata quella che
P. De Francisci, Suna@llagma. Storia e dottrina dei
cosiddetti contratti innominati, I, Pavia, 1913, 32, considerava la ‘seconda teoria
canonica’ – cronologicamente successiva alla prima dottrina, che
nella seconda metà dell’Ottocento professava la classicità
dell’actio praescriptis verbis –
dei contratti innominati, secondo la quale – ed in particolare nella
prospettiva di P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, 10a ed.,
rist. dell’ed. Roma, 1934, a cura di G. Bonfante e G. Crifò, con
una prefazione di E. Albertario e una nota di G. Crifò, Milano, 1987,
404 – il riconoscimento e la tutela delle figure sine nomine sarebbe stata al centro di uno
‘Schulenstreit’ tra Sabiniani (per i quali la tutela sarebbe
sistematicamente in factum) e
Proculiani (per i quali la tutela sarebbe quella in ius concepta, riconducibile all’actio civilis incerti), seppur non – e sul punto non posso
che rinviare alla discussione in testo, ed in particolare a quella del prossimo
§ 10 – nella logica indicata dallo stesso P. De Francisci, op. cit.,
39, che finiva per considerare frutto di alterazioni giustinianee i riferimenti
all’actio praescriptis verbis,
all’actio civilis incerti ed
all’actio civilis in factum.
Per una sintesi delle grandi linee di tendenza della dottrina più
risalente, ad ogni modo, rinvio a F. Sitzia,
voce Permuta, cit., 110 ss.;
ripropone oggi una distanza scientifica tra posizione proculiana e posizione
sabiniana F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 206
ss., nella prospettiva del «filone consensualistico», percorso in
particolare, secondo questo Autore, dalla scuola proculiana; ma a me pare
– con G. Pugliese, Istituzioni, cit., 528; Id., Lezione, cit., 27 ss.; e, soprattutto, A. Schiavone, Studi,
cit., 125 ss. – che l’unica reale possibilità
d’individuare una divergenza di vedute – più che uno
‘Schulenstreit’ – tra Sabiniani e Proculiani si percepisca
nella verosimile recezione dell’insegnamento pediano da parte dei
Sabiniani, «i quali furono costretti a restringere la loro ampia nozione
di contractus, escludendone
più o meno esplicitamente gli atti leciti produttivi di obbligazione non
comprendenti un accordo delle parti» (G. Pugliese, Istituzioni,
cit., 528): il che non è eccessivamente distante dalla posizione del
Gallo; tuttavia, sul rapporto tra le due scuole, oltre non andrei.
[146] Diversamente C. Pelloso, ‘Do ut des’,
cit., 109 s. e nt. 42, ritiene che la tutela praescriptis verbis fosse «molto probabilmente lo strumento
‘processuale’ generalmente proposto dai proculiani per sopperire
all’assenza di tutela edittale per i tipi negoziali permutativi».
[147] Di «colloquio costruttivo»
parla S. Tondo, Note, cit., 454. Io penso ad una
corrispondenza epistolare, come ipotizzava W. Kunkel,
Herkunft und soziale Stellung der
römischen Juristen, 2a ed., Graz-Wien-Köln, 1967, 320 e nt. 668;
sul punto cfr. anche C.A. Cannata,
Lo splendido autunno, cit., 441.
[148] Uno spunto in questa direzione è
nella riflessione di F. Gallo, Ai primordi del passaggio dalla
sinallagmaticità dal piano delle obbligazioni a quello delle prestazioni,
ora in Le dottrine del contratto nella
giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 170; Id., ‘Synallagma’, II, cit., 119 s.; mi pare, comunque, non
condivisibile la correzione al testo di D. 2.14.7.2 (ivi, 163 ss.): la proposta
di sostituzione del termine ‘actionem’
a ‘obligationem’ –
seguita anche da R. Santoro, La causa, cit., 224 ss. – consegue
alla mancata percezione, in dottrina, del valore formativo della datio.
[149] Pur con innegabili punti di contatto,
questa prospettiva non mi pare coincidente con quella suggerita da P. Gröschler, Auf den Spuren des Synallagma. Überlegungen zu D. 2.14.7.2 und D.
50.16.19, in Antike - Recht -
Geschichte. Symposion zu Ehren von P.E. Pieler, Frankfurt am Main, 2009, 51
ss.: secondo questa lettura, Labeone configurerebbe il suna@llagma come ‘Gegenseitigkeit der
Leistungen’, muovendo dall’idea, propria del pensiero greco, che vi
riconosce una
‘Zweckverfügung’; Aristone, muovendosi nel campo delle
convenzioni sine nomine,
recupererebbe l’idea della ‘Zweckverfügung’, incentrata
sull’esecuzione della prestazione.
[151] Il che mi pare ben evidenziato, in
particolare, da B. Albanese, ‘Agere’, ‘gerere’ e
‘contrahere’ in D. 50,16,19. Congetture su una definizione di
Labeone, in SDHI, XXXVIII, 1972,
240; e, più ampiamente per la reciprocità dei vincoli, ivi, 245
s.
[152] M. Talamanca,
Istituzioni, cit., 558; analogamente,
direi, C.A. Cannata, Labeone, cit., 51 ss., ed in particolare
55. L’adesione a questa ricostruzione mi porta lontano da quella di R. Santoro, Il contratto, cit., 150 ss., in particolare 152 s., che esclude di
leggere il pensiero di Labeone sotto il profilo della bilateralità delle
azioni come delle obbligazioni, in quanto suna@llagma e ultro
citroque obligatio devono semmai interpretarsi come atto obbligatorio
consensuale (ivi, 283 ss.): ed in questo consisterebbe la continuità tra
Labeone ed Aristone; allo stesso modo, peraltro, mi pare poco plausibile anche
la lettura di chi, come G. Melillo,
‘Contrahere’, cit., 155
ss., in particolare 170 s., polarizza la definitio
sull’obligatio intesa nei
termini latissimi di rapporti vincolati. Ancora diversamente, cfr. quindi F. Gallo, Ai primordi, cit., 72; Id.,
‘Synallagma’, II, cit.,
90 ss. in particolare 102, seguito da T. dalla
Massara, Ancora sul valore del
richiamo al ‘synallagma’ in Labeone e in Aristone, in Studi in onore di R. Martini, I, Milano,
2008, 849 s., secondo il quale «la sinallagmaticità di Aristone
... fa riferimento a un rapporto tra prestazioni anziché tra
obbligazioni». Ma in realtà – come mi propongo di chiarire
in testo – la chiave di lettura della datio
è la disciplina formativa della fattispecie, laddove il suna@llagma rappresenta lo scambio – cfr.
anche Gy. Diósdi, Contract
in Roman Law. From the Twelve Tables to the Glossators, Budapest, 1981, 90
– che anima il significato pratico della conventio; significato pratico che Ulpiano generalizza nel
più ampio subesse causa.
[153] M.
Talamanca, La tipicità dei
contratti romani fra ‘conventio’ e ‘stipulatio’ fino a
Labeone, in ‘Contractus’
e ‘pactum’. Tipicità e libertà negoziale
nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del Convegno di diritto romano e
della presentazione della nuova riproduzione della ‘littera Florentina’,
Copanello, 1-4 giugno 1988, a cura di F. Milazzo, Napoli, 1988, 99.
[154] M.
Talamanca, La tipicità,
cit., 99; analogamente, ma più marcatamente verso il riconoscimento del
rapporto tra autonomia privata e costruzione di figure atipiche, A. Schiavone, Studi, cit., 98 ss.; F. Gallo,
‘Synallagma’, I, cit.,
223 ss.; A. Burdese, I contratti innominati, cit., 73 ss.; J.
Paricio, Contrato, cit., 51 ss.
[156] Non è distante da questa ricostruzione,
in fin dei conti, quella di G. MacCormack,
Contractual Theory, cit., passim, ed in particolare 138 s. e 151
s.
[157] Cfr., a riscontro, Pomp. 22 ad Sab. D. 19.5.16.1: Permisisti mihi, ut sererem in fundo tuo et
fructus tollerem: sevi nec pateris me fructus tollere. nullam iuris civilis
actionem esse Aristo ait: an in factum dari debeat, deliberari posse: sed erit
de dolo. Sul punto cfr., esattamente, J. Paricio,
Contrato, cit., 65 s.; R. Knütel, La causa, cit., 136; G. MacCormack,
Contractual Theory, cit., 140 s.:
rispetto al frammento considerato nel fr. 16 pr. qui manca la
bilateralità funzionale, sicché il discorso di E. Stolfi, Studi, II, cit., 232 ss. in ordine alla connessione tra i fr. 16
pr. e 16.1 non mi trova concorde. La bilateralità – che,
nell’ottica di D. 2.14.7.2, andrebbe riferita alla programmazione di
obbligazioni interdipendenti – non può ravvisarsi, come propone L.
Zhang, Contratti, cit., 185 s.,
nella possibilità – che comunque non mi pare prospettata
neppure implicitamente – per il dominus
fundi di acquistare la proprietà dei vegetali seminati, e
«raccogliere eventualmente dei frutti maturi».
[159] Cfr. ad esempio Ulp. 32 ad ed. D. 19.5.20, pr. e 2, dove si reinterpretano
spunti di Labeone; nonché Ulp. 29 ad
Sab. D. 13.6.10.1 ed Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17.1-2. Su questi problemi, con
specifica attenzione a D. 19.5.20.2, D. 13.6.10.1 e D. 19.5.17.2, cfr. R. Fercia, La responsabilità per fatto di ausiliari nel diritto romano,
Padova, 2008, 249 ss. e 258 ss. Secondo E. Sciandrello,
Studi, cit., 185 ss., nello schema
aristoniano non rientrerebbe neppure l’aestimatum: il che è corretto ove si ritenga dimostrato che
la datio non implichi trasferimento.
[160] Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.3: Quod si faciam ut des et posteaquam feci,
cessas dare, nulla erit civilis actio, et ideo de dolo dabitur. (4) Sed si facio ut facias, haec species
tractatus plures recipit. nam si pacti sumus, ut tu a meo debitore Carthagine exigas,
ego a tuo Romae, vel ut tu in meo, ego in tuo solo aedificem, et ego aedificavi
et tu cessas, in priorem speciem mandatum quodammodo intervenisse videtur, sine
quo exigi pecunia alieno nomine non potest: quamvis enim et impendia sequantur,
tamen mutuum officium praestamus et potest mandatum ex pacto etiam naturam suam
excedere (possum enim tibi mandare, ut et custodiam mihi praestes et non plus
impendas in exigendo quam decem): et si eandem quantitatem impenderemus, nulla
dubitatio est. sin autem alter fecit, ut et hic mandatum intervenisse videatur,
quasi refundamus invicem impensas: neque enim de re tua tibi mando. sed tutius
erit et in insulis fabricandis et in debitoribus exigendis praescriptis verbis
dari actionem, quae actio similis erit mandati actioni, quemadmodum in
superioribus casibus locationi et emptioni. Al riguardo, non escluderei che nel fr. 5.3 il problema
del ‘facio ut des’ fosse
preso in considerazione in termini più ampi di quanto ci è
pervenuto: il taglio parrebbe aver risparmiato quanto doveva essere correlabile
– alla luce del complessivo andamento di D. 19.5.5 e del progetto
espositivo indicato nel fr. 5 pr., che sembra avere come perno la condictio, esaminata peraltro dal punto
di vista dei suoi rapporti con altre figure di tutela: cfr. oltre, § 14
– al cuore della prospettiva ricostruttiva del giurista, ovvero la
(im)possibilità (quale ne sia la ragione, sulla quale non è
possibile qui soffermarci: nelle fonti abbiamo traccia, con riferimento all’assunzione
del vincolo di facere, della sola condictio liberationis: cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 613) di condicere
il risultato patrimoniale di un ‘facere
ob rem’, che porta ad ammettere in via residuale l’actio de dolo. In questo quadro, quanto
si legge nel fr. 5.4, relativo alla tutela dell’interesse positivo nel
caso del ‘facio ut facias’,
doveva essere configurabile allo stesso modo nel caso del ‘facio ut des’. Del resto, se
Ulpiano, in D. 2.14.7.2, approvava la critica di Mauriciano a Giuliano per
l’ipotesi del ‘do ut facias’
eseguito esattamente solo dal punto di vista del facere, con conseguente esperibilità della civilis incerti actio, sarebbe singolare
che Paolo la negasse nel caso del ‘facio
ut des’. Escluderei, in ogni caso, che il riferimento all’actio de dolo nel fr. 5.3 costituisca (cfr., in termini
esattamente critici, M. Talamanca,
op. cit., 556) una possibile
generalizzazione (od anche solamente condivisione) della soluzione giulianea
ricordata nel fr. 5.2. In sostanza, al di là dei tagli (evidenti ed
innegabili) operati su questi passi delle Quaestiones
paoline, mi pare che emerga un quadro tendenzialmente coerente, nel senso che
l’azione con significato pratico risolutorio è la condictio quando ricorrano le dationes ob rem (‘do ut des’, ‘do ut facias’ nel linguaggio che
connota il Digesto), oppure l’actio
de dolo quando ricorra l’intervenuta prestazione di un facere, per la quale è sentita
impraticabile la via del condicere;
mentre per la tutela dell’interesse positivo sembra trasversalmente
esperibile per le quattro ipotesi, nonostante la significativa
problematicità della questione nel caso del ‘facio ut’ (in ragione dell’oscillazione delle
fattispecie tra locazione e mandato nominati in insulis fabricandis et in debitoribus exigendis) che emerge dal
complessivo andamento del fr. 5.4, l’actio
praescriptis verbis. Oltre gli esempi addotti da Paolo nel fr. 5.4,
riterrei ricorrere questa ipotesi nella soluzione ulpianea del ‘comodato
reciproco’ (Ulp. 28 ad ed. D.
19.5.17.3), in cui le due dationes
attributive di naturalis possessio
rappresentano un ‘facio ut facias’.
In questo quadro, riconoscerei al totius
ob rem dati tractatus paolino una coerenza più significativa di
quella prospettata da C.A. Cannata,
Labeone, cit., 96 ss. e 99 s.,
trovando tuttora in linea di principio persuasiva – con qualche riserva,
in particolare, sull’actio de dolo nel
fr. 5.3, che a mio parere è data in via residuale semplicemente per
l’impossibiltà di condicere
– la lettura di G. Grosso, Il sistema, cit., 164 ss.
[161] Al riguardo, va osservato come la
tutela praescriptis verbis, al di
fuori dell’esperienza strettamente labeoniana e dopo la riflessione
aristoniana, non sia (più) stata riconosciuta per convenzioni sine nomine non correlate
all’esecuzione della prima prestazione, come invece ipotizza C.A. Cannata, Labeone, cit., 74 ss. (ma non diversamente già Id., Contratto, cit., 208 ss.), che peraltro fa due soli esempi, a mio
avviso non persuasivi. In Ulp. 42 ad Sab.
D. 19.5.15, infatti, l’indicare
è il facere che perfeziona la
figura contrattuale (si tratta di un indico
ut certum aliquid des): la conventio
non è nuda nel senso che vi
è un subesse causa, ma la
tutela è concessa solamente in ragione dell’intervenuto indicare; in Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17.3 è irrilevante
il profilo durativo del programma negoziale, essendo sufficiente per
l’integrazione della fattispecie l’esecuzione del (solo)
‘primo’ comodato: per dirla con Labeone, unuscuiusque enim contractus initium spectandum et causam (mi
avvalgo, evidentemente, dell’espressione conservata da Ulp. 31 ad ed. D. 17.1.8 pr.).
[163] M.
Sargenti, ‘Actio civilis in
factum’ e ‘actio praescriptis verbis’: ancora una riflessione,
in ‘Iuris vincula’. Studi in
onore di M. Talamanca, VII, Napoli, 2001, 237 ss., in particolare 276 ss.,
e ciò specie ove, a priori, si
neghi continuità scientifica agli spunti labeoniani correlati alla definitio conservata da D. 50.16.19 ed
alla possibilità di agere praescriptis
verbis (Id., Labeone: la nascita dell’idea di
contratto nel pensiero giuridico romano, in Iura, XXXVIII, 1987, 53 ss. e 62 ss.); al riguardo, per
un’efficace critica, cfr. F. Gallo,
‘Synallagma’, II, cit.,
10 ss. L’idea non è nuova in dottrina: si pensi, in particolare,
alla tesi dei ‘contratti pretori’ professata da P. Voci, La dottrina, cit., 231 ss., secondo il quale la tutela delle figure
innominate, per diritto classico, sarebbe ancorata ad una costruzione formulare
in factum (sul punto, criticamente,
cfr. F. Sitzia, voce Permuta, cit., 112 e nt. 44).
[165] Cfr. i plurimi contributi di A. Burdese, Sul riconoscimento civile dei c.d. contratti innominati, in Iura, XXXVI, 1985, 23 e 27; Id., Osservazioni in tema di c.d. contratti innominati, in Estudios en homenaje al profesor J. Iglesias,
I, Madrid, 1988, 127 ss. e 137 ss.; Id.,
Sul concetto, cit., 131 ss.; Id., Recenti prospettive, cit., 215; Id.,
I contratti innominati, cit., 73 s. e 77; ed i plurimi contributi,
nella medesima direzione, di M. Talamanca,
Contratto, cit., 61 s.; Id., La tipicità, cit., 100 ss.; Id., Istituzioni,
cit., 557; Id., Note su Ulp. 11 ‘ad ed’. D.
4.3.9.3. Contributo alla storia dei c.d. contratti innominati, in Scritti in onore di E. Fazzalari, I, Introduzione alla giurisprudenza, diritto
privato, diritto pubblico, Milano, 1993, 207 e nt. 34 e 235; Id., Pubblicazioni pervenute alla Direzione, in BIDR, XCII-XCIII, 1989-1990 [ma pubbl. 1993], 733 ss.; cfr. quindi,
più di recente, E. Stolfi,
Studi, II, cit., 212 ss., in
particolare 221 e nt. 344; M. Artner,
‘Agere praescriptis verbis’.
Atypische Geschäftshinalte und klassisches Formularverfahren, Berlin,
2002, 71 ss. e 108 s.; L. Zhang, Contratti, cit., 165 ss. e 221 ss.; E. Sciandrello, Studi, cit., 363 ss., su cui si vedano le considerazioni di C.A. Cannata, Recensione a E. Sciandrello,
op. cit., cit., 342 ss. Per F. Gallo, Contratto, cit., 28 s. sarebbe di stretto diritto la formula dell’azione indicata da Aristone,
di buona fede quella proposta da Mauriciano, a scioglimento del dubbio
precedentemente palesato in Id., ‘Synallagma’, II, cit., 116
s., ed in particolare 118; D. Mantovani,
Le formule del processo privato romano.
Per la didattica delle Istituzioni di diritto romano, 2a ed., Padova, 1999,
50 e nt. 107, 58 e nt. 164, prospetta la ricostruzione che fa capo alla
dottrina professata
fondamentalmente dal Burdese e dal Talamanca, pur rilevando – a p.
59, nt. 164 – la problematicità della distinzione fondata su
azione incerti di stretto diritto, ed
azione pure incerti di buona fede,
alla luce dell’interferenza dimostrata da Lex Rubr. c. 20, lin. 26-27 e 36 (in FIRA, I, 2a ed., 169 ss.), dove è traccia di un oportere ex f(ide) b(ona) nella conceptio verborum di un’actio
incerti ex stipulatu (cfr. Id., op. cit., 50 e nt. 109). Il che si spiega bene, del resto, a
seguire B. Schmidlin, Il consensualismo, cit., 106 ss. (nonché
Id., Das Nominatprinzip und seine Erweiterung durch die ‘actio
praescriptis verbis’. Zum aktionenrechtlichem Aufbau der
römischen Konsensualverträge, in ZSS, CXXIV, 2007,
66 ss. e 73 ss.): il modello da cui, ‘per addizione’, si sviluppa
l’intentio con la clausola di
buona fede va ricercato nell’actio
incerti ex stipulatu. Sul punto, ad ogni modo, cfr. la recente indagine di
G. Gulina, ‘Stipulatio’ e ‘fides bona’. Il fondamento
della pretesa dedotta con la formula fittizia del capitolo XX della ‘lex
Rubria de Gallia Cisalpina’, in Studi
in onore di R. Martini, II, Milano, 2009, 371 ss.
[166] Cfr. ancora A. Burdese, I contratti
innominati, cit., 82; su questa medesima posizione cfr. quindi, da ultimo,
T. dalla Massara, La causa, cit., 184.
[168] Con questa espressione M. Talamanca, La tipicità, cit., 102, optava per l’opposta
ricostruzione.
[169] C.A. Cannata,
Contratto e causa nel diritto romano,
ora in Le dottrine del contratto nella
giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 200 ss. e nt. 14
di p. 202, seguito da L. Garofalo,
Contratto, cit., 350, nt. 33;
più ampiamente, ora, C.A. Cannata,
L’‘actio in factum
civilis’, in Iura, LVII,
2008-2009, 9 ss., in particolare 15 ss.; ma precedentemente si veda già
M. Kaser, ‘Oportere’ und ‘ius civile’, in ZSS, LXXXIII, 1966, 37 ss., la sintesi
in Id., Das römische Privatrecht, I, 2a ed., München, 1971, 582
s., nonché le ulteriori riflessioni in Id.,‘Ius honorarium’, cit., 95
ss., in particolare 99. Per l’idea di una pluralità di espressioni
comunque riducibili ad un’unica tutela dell’interesse positivo,
cfr. infine anche G. Grosso, Il sistema, cit, 164. Più di
recente, ma solo con riferimento alla configurazione del rapporto tra praescriptio e demonstratio, cfr. P. Gröschler,
‘Actiones in factum’. Eine Untersuchung zur
Klage-Neuschöpfung im nichtvertraglichen Bereich, Berlin, 2002, 19
s.
[170] B. Schmidlin, Il consensualismo, cit., 114 ss., in particolare 127 s. e nt. 57; Id., Das Nominatprinzip, cit., 79 ss. e 83 ss.; Id., La fonction de la
‘demonstratio’ dans les actions de bonne foi, in Studi in onore di C. Sanfilippo, V,
Milano, 1984, 723 s.
[171] Espressione, questa, che sul piano
tecnico si stabilizza con riferimento diretto ad ‘actio’, e non ad un più generico ‘agere’, con Pomponio, come rileva
A. Burdese, I contratti innominati, cit., 82.
[172] Che si riscontra, come noto, in Papin.
8 quaest. D. 19.1.1.1-2 (dovendosi
ritenere alterato Paul. 5 quaest. D.
19.5.5.2, come vedremo oltre, § 11) e che appare problematicamente
riferibile tanto al linguaggio di Labeone, quanto a quello di Papiniano: sul
punto, cfr. M. Talamanca, La tipicità, cit., 100 e nt. 250;
non condivido, sul punto, i sospetti al testo di A. Burdese, I contratti
innominati, cit., 75, e Sul concetto,
cit., 134, e penso, con C.A. Cannata,
Contratto, cit., 200, che
l’espressione ‘actio civilis
in factum’ possa attribuirsi a Labeone.
[173] Penso, in particolare, a Nerat. 1 resp. D. 19.5.6; Papin. 11 resp. D. 19.5.9; Pomp. 22 ad Sab. D. 19.5.16 pr., su cui oltre in
testo.
[174] Cfr. Ulp. 11 ad ed. D. 4.4.16.2; Ulp. 18 ad
Sab. D. 7.5.5.1; Pomp. 22 ad Sab.
D. 12.6.22.1; Marci. 3 reg. D.
12.6.40.1; Iul. 8 dig. D. 12.7.3;
Ulp. 38 ad ed. D. 13.1.12.2; Paul. 3 ad Sab. D. 19.1.5.1; Paul. 5 ad Sab. D. 19.1.8 pr.; Iul. 16 dig. D. 23.3.46 pr.; Iul. 39 dig. D. 30.60; Iul. 60 dig. D. 39.5.2.3; Iul. 49 dig. D. 43.26.19.2; Paul. 31 ad ed. D. 46.2.12.
[175] Cfr. Papin. 27 quaest. D. 22.1.4 pr. e Pomp. 22 ad Sab. D. 19.5.16 pr.; Pomp. 6 ad
Sab. D. 34.3.8.6.
[176] Per il rapporto tra incerti agere (genus formulare) e condictio
incerti (species), penso
soprattutto a Iul. 60 dig. D.
39.5.2.3-4; per il rapporto tra incerti
agere ed actio praescriptis verbis,
a Papin. 27 quaest. D. 19.5.8. Per la
specificazione dell’incerti agere rispetto
al titolo sostanziale della pretesa, cfr. Papin. 27 quaest. D. 22.1.4 pr. e Pomp. 6 ad
Sab. D. 34.3.8.6.
[177] Si pensi a Lab. 6 post. a Iav. epit. D. 16.3.33 e Iul. 60 dig. D. 39.5.2.4, in cui l’incerti agere va contestualizzato nella condictio incerti; a Papin. 17 quaest.
D. 7.5.8, Marcell. 7 dig. D.
23.3.59.1, Ulp. 5 disp. D. 30.75.4,
Paul. 3 ad Sab. D. 33.2.1, relative
alla tutela testamentaria; Ulp. 47 ad Sab.
D. 2.5.3, Ulp. 31 ad ed. D. 4.8.27.7
e Papin. 11 resp. D. 45.1.121 pr.,
relativi alla tutela ex stipulatu.
[178] R. Santoro,
Aspetti formulari della tutela delle
convenzioni atipiche, in Le teorie
contrattualistiche romane nella storiografia contemporanea, a cura di N.
Bellocci, Napoli, 1991, 85 ss. L’indagine s’incentra, in
particolare, su costituzioni imperiali del III secolo, e – sul piano
della riflessione dei prudentes
– su Papin. 4 resp. D.
23.4.26.3 (dove, peraltro, mi sembra difficile intravedere l’actio praescriptis verbis),
nonché sul nesso, sul piano delle scelte formulari, con le figure di actio utilis via via concesse per la
tutela di area aquiliana e per la superficie: la prospettiva che emerge, in
sostanza, mi pare colga spunti importanti per la configurazione della questione
a muovere, in particolare, dall’epoca severiana. Anticipa all’epoca
adrianea la sussunzione dell’agere
praescriptis verbis «nella prospettiva dell’actio utilis» F. Gallo, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 12.
[180] Mi pare, peraltro, che l’unico indice
realmente probante per ragionare in questa direzione sia un rescriptum di Severo Alessandro, Imp. Alex.
A. Pomponiis C. 2.4.6.1: Verum si fides placitis praestita non est,
in id quod interest diversam partem recte convenietis: aut enim, si stipulatio
conventioni subdita est, ex stipulatu actio competit, aut, si omissa verborum
obligatio est, utilis actio, quae praescriptis verbis rem gestam demonstrat,
danda est (a. 230). Sul punto, cfr. R. Santoro,
Aspetti, cit., 93 ss.
[182] L’espressione ‘id est praescriptis verbis’
ricorre sei volte nel Corpus iuris, e
sistematicamente ha l’aria di un glossema: a volta inutile, in quanto a
mio parere meramente esplicativo della rapporto tra genus formulare e sua species,
dato che appare sostanzialmente scontato il riferimento a quella specifica
configurazione formulare (Diocl. et Max. AA. et CC. Augustinae C. 8.53.9, a.
293; Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7.2; Ulp.
42 ad Sab. D. 19.5.15; Gai. 10 ad ed. prov. D. 19.5.22), a volte nocivo
in quanto erroneamente omologante (Ulp. 30 ad
Sab. D. 19.5.13.1 e Iul. 49 dig.
D. 43.26.19.2, sui quali cfr. oltre, nel prossimo § 13). Sul punto, cfr.
peraltro le considerazioni di P. Gröschler,
‘Actiones in factum’,
cit., 41.
[183] Ulp. 71 ad ed. D. 43.26.2.2: Et
naturalem habet in se aequitatem, namque precarium revocare volenti competit:
est enim natura aequum tamdiu te liberalitate mea uti, quamdiu ego velim, et ut
possim revocare, cum mutavero voluntatem. itaque cum quid precario rogatum est,
non solum hoc interdicto uti possumus, sed etiam praescriptis verbis actione,
quae ex bona fide oritur (cfr. oltre, § 13). Si noterà, del resto, il medesimo atteggiamento del
giurista in Ulp. 32 ad ed. D. 19.3.1
pr.: Actio de aestimato proponitur
tollendae dubitationis gratia: fuit enim magis dubitatum, cum res aestimata
vendenda datur, utrum ex vendito sit actio propter aestimationem, an ex locato,
quasi rem vendendam locasse videor, an ex conducto, quasi operas conduxissem,
an mandati. melius itaque visum est hanc actionem proponi: quotiens enim de
nomine contractus alicuius ambigeretur, conveniret tamen aliquam actionem dari,
dandam [aestimatoriam] praescriptis verbis actionem: est enim
negotium civile gestum et quidem bona fide. quare omnia et hic locum habent,
quae in bonae fidei iudiciis diximus. Sul passo, cfr. esattamente C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 21 ss., anche
per l’emendazione testuale; per l’ammissibilità della
clausola di buona fede in questo caso, cfr. anche E. Sciandrello, Studi,
cit., 147 s.
[184] «Le due ‘eleganti
citazioni’» – vale a dire quella di Pedio nel fr. 1.3, e
quella di Aristone nel fr. 7.2 – «si corrispondono anche
nell’importanza riconosciuta loro da Ulpiano: si potrebbe dire che con esse
si esprimono i principi fondamentali che fanno da sfondo alla ricostruzione del
fenomeno contrattuale delineata entro il libro 4 ad edictum»: così T. dalla
Massara, Sul
‘responsum’, cit., 290. In effetti, l’eleganza trova un
comune denominatore nel ‘Geschichtsverständnis’ dei prudentes: elegante è il
recupero, da parte di Pedio, della genesi stessa del concetto di obligatio, rapportabile alla
legislazione decemvirale, come effetto di un atto consensuale, la sponsio; elegante è il recupero,
da parte di Aristone, di quella esigenza, essenzialmente quiritaria, di un
indice formale di giuridicità dell’atto, quella proprietas di gaiana memoria che connota
la disciplina formativa della fattispecie contrattuale innominata.
[185] Per un’ipotesi di conceptio verborum cfr. C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 24.
[186] Mi discosto, dunque, dall’esegesi
di A. Burdese, I contratti innominati, cit., 80, e di
L. Zhang, Contratti, cit., 212, nt. 35.
[187] Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17.3: Si, cum unum
bovem haberem et vicinus unum, placuerit inter nos, ut per denos dies ego ei et
ille mihi bovem commodaremus, ut opus faceret, et apud alterum bos periit,
commodati non competit actio, quia non fuit gratuitum commodatum, verum
praescriptis verbis agendum est.
[188] Sul punto cfr. l’indagine di F. Procchi, «Si quis negotiandi causa emisset quod aedificium…».
Prime considerazioni su intenti negoziali e speculazione edilizia nel
principato, in Labeo, XLVII,
2001, 411 ss.
[189] Concordo dunque, su questi punti, con
F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 58 ss. e con A. Schiavone, Studi, cit., 145 ss.; contra,
A. Burdese, Il contratto romano, cit., 99 s.
[190] Diversamente, invece, F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 59, che – sempre muovendo
dal problema della duplicità di formulae
qui criticata – identifica la tutela con l’azione praescriptis verbis labeoniana,
escludendo quella di stretto diritto aristoniana. Il nesso forte tra le
soluzioni dei due giuristi traianei (Aristone, in D. 2.14.7.2, e Nerazio, in D.
19.5.6) non può, peraltro, alla luce di quanto rilevato nel precedente
§ 8, considerarsi in antitesi con l’impostazione di Cels. D.
12.4.16, come ritiene J. Paricio,
Celso contra Neracio, in Festschrift für R. Knütel zum 70. Geburtstag, herausgegeben von
H. Altmeppen, I. Reichard, M.J. Schermaier in Verbindung mit W. Ernst, U.
Manthe, R. Zimmermann, Heidelberg, 2009, 849 ss., in particolare 851 ss.
[193] Anche in questo caso mi discosto
dall’esegesi di A. Burdese,
I contratti innominati, cit., 82.
[195] Così C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 44. Diversamente,
pur con evidenti perplessità, A. Burdese,
I contratti innominati, cit., 83,
seguito da L. Zhang, Contratti, cit., 217 s.
[197] Anche di recente ritenuta genuina: cfr.
U. Babusiaux, Papinians ‘Quaestiones’. Zur rhetorischen Methode eines
spätklassischen Juristen, München, 2011, 193; M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 217 e nt. 210.
[198] Comunque perno della fattispecie
contrattuale: cfr. G. MacCormack,
Contractual Theory, cit., 144.
[199] Diversamente, per tutti questi casi
trattati da Papiniano, A. Burdese,
I contratti innominati, cit., 83; lo
segue L. Zhang, Contratti, cit., 216 e nt. 149.
[200] Impp. Diocl. et Max. AA et CC Protogeni
C. 4.64.6: Rebus certa lege traditis, si huic
non pareatur, praescriptis verbis incertam civilem dandam actionem iuris
auctoritas demonstrat (s.d.), su cui cfr. in particolare C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 47 s.
[202] D. Mantovani,
Le formule, cit., 50, nt. 107; amplius, sul problema del ricorso al condicere con questa funzione
processuale, C.A. Cannata, Materiali per un corso di fondamenti del
diritto europeo, I, Torino, 2005, 94 ss.
[204] È in questi termini che si
sviluppa la critica di C.A. Cannata,
L’‘actio in factum
civilis’, cit., 32 ss., in particolare 34 e 40, ad A. Burdese, Sul concetto, cit., 136 ss.
[205] Ipotizzata da A. Burdese, I contratti innominati, cit., 75, e – ultima indicazione in
ordine di tempo – sostanzialmente ribadita nella Prefazione del curatore a Le
dottrine, cit., 13 (e quindi Id.,
Panoramica sul contratto nelle dottrine
della giurisprudenza romana, in ‘Fides’
‘Humanitas’ ‘Ius’, Studii in onore di L. Labruna,
I, a cura di C. Cascione e C.M. Doria, Napoli, 2007, 576 s); criticata da R. Santoro, Aspetti, cit., 83 ss., in particolare 122 ss., che invece pensa
– nella medesima prospettiva indicata da W. Selb, Formeln mit
Unbestimmter ‘intentio iuris’. Studien zum Formelnaufbau, I,
Wien-Köln-Graz, 1974, 21 ss. – ad un’unica figura di tutela
con intentio in ius concepta:
l’actio praescriptis verbis altro
non sarebbe se non un’actio utilis,
il che, se vogliamo, è intrinsecamente plausibile sul piano,
generalissimo, dell’ermeneutica e delle tecniche edittali;
l’Autore, peraltro, non prende posizione in ordine alla presenza della
clausola di buona fede (R. Santoro,
op. cit., 85), che comunque sembra
data per assente (R. Santoro, op. cit., 86). Nella medesima
prospettiva indicata da Selb e da Santoro si colloca quindi l’indagine di
J. Kranjc, Die ‘actio praescriptis verbis’, cit., 434 ss., in
particolare 447 ss.
[206] E. Stolfi,
Studi, cit., 212 s. e nt. 314, A. Burdese, I contratti innominati, cit., 82; Id.,
Sul riconoscimento, cit., 19 ss.; pur
con qualche perplessità, J. Kranjc,
Die ‘actio praescriptis
verbis’, cit., 456 s.
[208] Il che mi pare agevolmente ricavabile
dalle fonti: cfr. Iul. 8 dig. D.
12.7.3, Iul. 16 dig. D. 23.3.46 pr.,
Iul. 39 dig. D. 30.60, Iul. 49 dig. D. 43.26.19.2, Iul. 60 dig. D. 39.5.2.3-4, ed appunto Ulp.
13.1.12.2., in cui è riferito pensiero di Giuliano; Ulp. 11 ad ed. D. 4.4.16.2 e Paul. 3 ad Sab. D. 19.1.5.1, in cui è
riferito pensiero di Pomponio in tema di condictio
(E. Stolfi, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, Trasmissione e fonti, Napoli, 2002, 516
ss.; Id., Studi, II, cit., 142 e nt. 31), e quindi Pomp. 22 ad Sab. D. 12.6.22.1; per epoca
severiana, Ulp. 18 ad ed. D. 7.5.5.1;
Marci. 3 reg. D. 12.6.40.1; Paul. 5 ad Sab. D. 19.1.8 pr.; Paul. 31 ad ed. D. 46.2.12.
[209] «L’usucapione
classica» – scrive M. Talamanca,
Istituzioni, cit., 421 s. –
«sanava un vizio dell’atto mediante il quale era stato ottenuto il
possesso della cosa, atto che avrebbe dovuto portare all’acquisto della
proprietà, ma i cui effetti non si erano prodotti, perché mancava
la legittimazione di chi disponeva della cosa stessa (acquisto a non domino), o perché il
trasferimento non era stato effettuato nella forma dovuta (traditio di res mancipi)».
[211] P. Lambrini,
‘Actio de dolo malo’ e
accordi privi di tutela contrattuale, in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area
contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011, 237 ss., in particolare
239 e 242; un poco diversamente, C. Pelloso,
‘Do ut des’, cit., 147 e
nt. 110, con altra letteratura; T. dalla
Massara, Alle origini, cit.,
105 e nt. 34; contra, a mio avviso
esattamente, C.A. Cannata, Labeone, cit., 72 s.
[215] Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.3: Quod
si faciam ut des et posteaquam feci, cessas dare, nulla erit civilis actio, et
ideo de dolo dabitur.
[216] Che, sul piano pratico, corrisponde
all’interesse positivo: diversamente, cfr. C. Pelloso, ‘Do ut
des’, cit., 159 ss., in particolare 172. Sul problema formulare, cfr.
M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, 2a
ed., München, 1996, 317, con altra letteratura.
[217] M.F. Cursi,
L’eredità
dell’‘actio de dolo’ e il problema del danno meramente
patrimoniale, Napoli, 2008, 88. È questa la ragione della correzione
al testo (dove, peraltro, sarei più propenso ad ascrivere ad un glossema
pregiustinianeo la rilevata alterazione): non ritengo, al riguardo, che possa
argomentarsi dall’espressione dare
actionem, ove si consideri che la stessa è senza dubbio
trasversalmente riferibile sia all’actio
in factum pretoria senza demonstratio
e con intentio al si paret - si non paret, sia all’actio praescriptis verbis, in quanto
entrambi i rimedi presuppongono un intervento manipolativo pretorio (cfr. a
riscontro, ma gli esempi si potrebbero moltiplicare, il dari actionem di Paul. 5 quaest.
D. 19.5.5.4, od il danda est di Imp.
Alex. A. Pomponiis C. 2.4.6.1, a. 230).
[218] M.F. Cursi,
L’eredità, cit., 90. Non
mi pare, dunque, che il problema della sussidiarietà possa porsi nei
termini ipotizzati da G. Romano, Nota, cit., § 6, né da C.A. Cannata, Labeone, cit., 83.
[219] Che la condictio ob rem dati re non secuta offrisse un rimedio per quanto
concerne sia la regola di rischio contrattuale, sia l’interesse negativo
in caso di inadempimento, risulta già da Cels. D. 12.4.16, dove il
rimedio restitutorio per la mors servi
è dato in ragione di una ben precisa opzione in tema di rischio
contrattuale, mentre negli altri casi (altruità del servus; correlato rifiuto di ob
evictionem promittere) è dato in funzione di ‘risoluzione per
inadempimento’. Questa prospettiva – che, per adoperare una
categoria moderna, sembra rispecchiare per certi versi la nostra attuale
distinzione tra ‘risoluzione per impossibilità sopravvenuta’
e ‘risoluzione per inadempimento imputabile’, trasportata sul piano
del colore funzionale di un rimedio restitutorio – appare a mio avviso
affinarsi per epoca severiana: nell’ipotesi del do (pecuniam, come in
Papin. 2 quaest. D. 19.5.7) ut manumittas, la nostra condictio viene correlata alla fuga del servus da manomettere oppure alla sua
morte da Ulp. 2 disp. D. 12.4.5.3-4: Sed si accepit pecuniam ut servum manumittat
isque fugerit prius quam manumittatur, videndum, an condici possit quod
accepit. et si quidem distracturus erat hunc servum et propter hoc non
distraxit, quod acceperat ut manumittat non oportet ei condici: plane cavebit,
ut, si in potestatem suam pervenerit servus, restituat id quod accepit eo
minus, quo vilior servus factus est propter fugam. plane si adhuc eum manumitti
velit is qui dedit, ille vero manumittere nolit propter fugam offensus, totum
quod accepit restituere eum oportet. sed si eligat is, qui decem dedit, ipsum
servum consequi, necesse est aut ipsum ei dari aut quod dedit restitui. quod si
distracturus non erat eum, oportet id quod accepit restitui, nisi forte
diligentius eum habiturus esset, si non accepisset ut manumitteret: tunc enim
non est aequum eum et servo et toto pretio carere. (4) Sed ubi accepit, ut manumitteret, deinde servus decessit, si quidem
moram fecit manumissioni, consequens est, ut dicamus refundere eum quod
accepit: quod si moram non fecit, sed cum profectus esset ad praesidem vel apud
quem manumittere posset, servus in itinere decesserit, verius est, si quidem
distracturus erat vel quo ipse usurus, oportere dici nihil eum refundere
debere. enimvero si nihil eorum facturus, ipsi adhuc servum obisse: decederet
enim et si non accepisset ut manumitteret: nisi forte profectio manumissionis
gratia morti causam praebuit, ut vel a latronibus sit interfectus, vel ruina in
stabulo oppressus, vel vehiculo obtritus, vel alio quo modo, quo non periret,
nisi manumissionis causa proficisceretur. Nel fr. 4.3 Ulpiano delinea i
presupposti, a seconda delle circostanze di fatto ipoteticamente configurabili,
del rimedio restitutorio nel caso della inimputabilità della fuga servi, e dunque come regola di
rischio in base alla quale allocare il pregiudizio patrimoniale che ne
consegue; nel fr. 4.4, per la mors servi,
egli delinea i confini, all’interno del condicere, di quel che, sul piano teorico, rappresenta il
discrimine tra regola di responsabilità (sub specie di quello che per noi sarebbe un inadempimento
imputabile suscettibile di determinare la risoluzione) e regola di rischio (sub specie di quello che per noi sarebbe
l’impossibilità sopravvenuta suscettibile di determinare la
risoluzione), così da
colorare la funzione pratica del condicere.
Un analogo atteggiamento emerge in Ulp. 26 ad
ed. D. 12.4.3.3, dove peraltro il presupposto per la condictio in funzione ‘risolutoria’ si correla alla
rilevanza del dies: Quid si ita dedi, ut intra certum tempus
manumittas? si nondum tempus praeteriit, inhibenda erit repetitio, nisi
paeniteat: quod si praeteriit, condici poterit. sed si Stichus decesserit, an
repeti quod datum est possit? Proculus ait, si post id temporis decesserit, quo
manumitti potuit, repetitionem esse, si minus, cessare.
[220] In questo concorso di tutele, che vede,
per epoca classica matura, la condictio
ob rem dati re non secuta alternarsi all’actio praescriptis verbis, può forse trovarsi – ma si
tratta di uno spunto che impone una più ampia indagine sulle vie per le
quali il diritto europeo ha progressivamente configurato il rapporto tra domanda
di risoluzione e domanda di adempimento – una chiave di lettura della
«scelta» che l’art. 1453, comma 1, cod. civ. offre al
contraente, il quale può «chiedere l’adempimento o la
risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del
danno». La legittimazione è data, in linea di principio, al
‘contraente’, abbia o non abbia eseguito la propria prestazione
(cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., 954; R. Sacco, I rimedi sinallagmatici, in R. Sacco
- G. De Nova, Il contratto, 3a
ed., Torino, 2004, 624): ma, alla luce della prospettiva emergente dalle fonti
romane, viene da chiedersi se non la si debba riconoscere, piuttosto, al
«contraente fedele» (l’espressione è di A. Luminoso, I rimedi generali contro l’inadempimento del contratto, in A. Luminoso - U. Carnevali - M. Costanza,
Risoluzione per inadempimento, I.1,
in Commentario del Codice Civile
Scialoja-Branca a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1990, 17): uno spunto
normativo per ragionare in senso ‘aristoniano’, del resto, si
rinviene nell’art. 2932, comma 2, cod. civ., secondo cui la tutela
costitutiva, ove si controverta in tema di contratti con effetto reale ex art. 1376, non può essere
concessa se la parte che ha proposto la domanda «non esegue la sua
prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione
non sia ancora esigibile».
[221] C.A. Cannata,
Sul problema della responsabilità
nel diritto privato romano, Catania, 1996, 93.
[222] Basti pensare
all’interconnessione di questioni sia di rischio sia di
responsabilità sottostanti al condicere
discusso da Ulp. 2 disp. D. 12.4.5.4,
poco sopra riportato. In questa prospettiva, non noto alcunché di
singolare nell’argomentazione di Ulpiano: la sua prospettiva euristica,
nel fr. 5.4, è quella di individuare lo spettro operazionale della condictio ob rem dati re non secuta, ed
è solo per questo che si tace dell’actio praescriptis verbis, la quale resta senza dubbio
l’altro rimedio esperibile.
[223] In ragione della condemnatio al quanti ea res
est: cfr. esattamente M. Talamanca,
Istituzioni, cit., 555 s.; sul
problema formulare, cfr. M. Kaser - K.
Hackl, Das römische
Zivilprozessrecht, cit., 317.
[225] Sarebbe dunque plausibile, anche se a
mio parere indimostrabile, la congettura testuale proposta da C.A. Cannata, Labeone, cit., 83 e nt. 130.
[227] «Omologa» per T. dalla Massara, Alle origini, cit., 235 (ed analogamente L. Zhang, Contratti,
cit., 180 ss., e J. Paricio, Contrato, cit., 60); identica per P. Collinet, L’invention du contrat innommé: le responsum d'Ariston
(Dig. 2, 14, 7, 2) et la question de Celsus (Dig. 12, 4, 16), in Mnemosyna Pappulias, unter der Aegide
der Archivs für griechische Rechtsgeschichte der Akademie Athen,
herausgegeben von P.G. Vallindas, Athen, 1934, 97.
[228] Cfr. M. Talamanca, La
tipicità, cit., 86 s.; più di recente, C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 9 ss., che
legge nel nomen conservato dal
Digesto un riferimento classico alla formula
(ivi, 13 s.).
[229] Cfr. Iul. 8 dig. D. 12.7.3, Iul. 16 dig.
D. 23.3.46 pr., Iul. 39 dig. D.
30.60, Iul. 60 dig. D. 39.5.2.3-4.
[230] Sul punto, per la genuinità
della condictio incerti e
l’origine institicia del tratto ‘id est praescriptis verbis’, cfr. P. Biavaschi, Ricerche sul
‘precarium’, Milano, 2006, 139 ss.
[231] Considero, infatti, ascrivibile a lemma
sabiniano il riferimento all’impossibilità di esperire contro il
precarista una civilis actio che
figura in Ulp. 29 ad Sab. D.
47.2.14.11: Is qui precario servum
rogaverat subrepto eo potest quaeri an habeat furti actionem. et cum non est
contra eum civilis actio (quia simile donato precarium est) ideoque et interdictum
necessarium visum est, non habebit furti actionem. plane post interdictum
redditum puto eum etiam [culpam]
<custodiam?> praestare et ideo et furti agere posse,
ed in Paul. 13 ad Sab. D. 43.26.14: Interdictum de precariis merito introductum
est, quia nulla eo nomine iuris civilis actio esset: magis enim ad donationes
et beneficii causam, quam ad negotii contracti spectat precarii condicio.
Sul passo di Ulpiano cfr. esattamente P. Biavaschi,
Ricerche, cit., 315, nt. 109, ed amplius 314 ss. per lo status quaestionis. Per Ulpiano, del
resto, il precario è simile non già al donatum, ma al comodato (Ulp. 1 inst.
D. 43.16.1.3), il che contribuisce a pensare che nella prima parte del passo
circoli pensiero di Sabino. La chiusa – ascrivibile ad un nucleo di
pensiero di Ulpiano – rimane comunque problematica per via della
connessione tra culpam praestare (per
di più post interdictum redditum)
e legittimazione attiva all’actio
furti del precarista, ove si consideri che, come noto, la legittimazione
del non dominus dovrebbe correlarsi
alla responsabilità per custodia.
Il passo di Paolo, a questo punto, esprime sostanzialmente i medesimi concetti
provenienti dalla medesima fonte – vale a dire Sabino – che
ritroviamo nella prima parte di quello di Ulpiano: sicché
l’ipotesi che esso riporti «una digressione di ordine
storico» (P. Biavaschi, op. cit., 288) va solo ripensata nel
senso che Paolo riporti, esattamente come Ulpiano, pensiero sabiniano. In
questo quadro, non convince la lettura di P. Zamorani,
‘Precario habere’,
Milano, 1969, 201 ss., condizionata dalla prospettiva che ascrive Ulp. D.
43.26.2.2, Iul. D. 43.26.19.2, Paul. D. 43.26.14 e Ulp. D. 47.2.14.11 a fattura
compilatoria.
[232] P. Cerami,
Il comodato, in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al profesor J.L. Murga Gener,
Madrid, 1994, 311.
[234] Cfr. P. Biavaschi, Ricerche,
cit., 317 s., pur senza dover ipotizzare, a mio parere, ad una «via
subordinata» per l’esperimento dell’actio. In questa stessa logica, del resto, mi pare il giurista si
muova nel ricordare una soluzione di Viviano per una fattispecie analoga in
Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17 pr.: Si gratuitam tibi habitationem dedero, an
commodati agere possim? et Vivianus ait posse: sed est tutius praescriptis
verbis agere. Sulla
posizione di Viviano, e sulla problematicità che essa implicava in epoca
severiana, implicita nell’opzione di praescriptis
verbis agere, cfr. C. Russo Ruggeri,
Viviano giurista minore?, Milano,
1997, 136 ss., in particolare 139 e nt. 171.
[236] Parrebbe, del resto, superata anche la
posizione di Sabino ricordata da Gai 3.141, su cui cfr. F. Sitzia, voce Permuta, cit., 108.
[237] Secondo M. Talamanca, La
‘societas’. Corso di lezioni di diritto romano, edizione
postuma a cura di L. Garofalo con note di F. Sitzia e C.A. Cannata, Padova,
2012, 110, «la struttura del negozio prevale, in questo caso, per quanto
attiene all’identificazione della fattispecie contrattuale, sulla
funzione economico-sociale dello stesso»; cfr. quindi Id., voce Società , cit., 823 e nt. 100.
[238] Non crea problemi la chiusa, in cui si
fa il caso della creazione di un condominio in conseguenza
dell’assunzione dell’obbligazione di pati aedificare: si configura, cioè, una communio ex societate – come
quella che emerge in Ulp. 31 ad ed.
D. 17.2.52.10 – che come tale non ha valore formativo della fattispecie
contrattuale (cfr. M. Talamanca, La ‘societas’, cit., 111).
[239] Uno spunto per ragionare in questo
senso, seppur in una differente prospettiva ricostruttiva, mi viene dalle
considerazioni di F. Wieacker,
‘Societas’. Hausgemeinschaft und Erwerbsgesellschaft. Untersuchungen zur Geschichte des
römischen Gesellschaftsrechts, I, Weimar, 1936, 315, nonché Id., Das Gesellschaftverhältnis
des klassischen Rechts, in ZSS, LXIX, 1952, 324 s.: sul problema
della distinzione tra societas e
figure di scambio, cfr. M. Talamanca,
voce Società, cit., 821 e nt.
75, 823 e nt. 97.
[242] Cfr. da ultimo, in merito, S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 246 ss.; nonché la fondamentale
analisi di V. Arangio-Ruiz, Il mandato in diritto romano. Corso di
lezioni svolto nell’Università di Roma, anno 1948-1949,
Napoli, 1949, 188 ss., in particolare 192.
[243] A. Burdese,
I contratti innominati, cit., 82; J. Kranjc, Die ‘actio praescriptis verbis’, cit., 456 s.; E. Stolfi, Studi, II, cit., 212 s.
[244] «Prima di Pomponio» –
scrive E. Stolfi, Studi, II, cit., 212, nt. 314 –
«il ricorso all’agere
(mai actio) praescriptis verbis è espressamente attestato … solo
per Labeone …, Celso …, Giuliano … e Gaio»,
considerando, per Giuliano, anche Afr. D. 19.5.24; ma, proprio per Giuliano, in
D. 43.26.19.2 e D. 19.5.13.1 il sintagma ‘id est praescriptis verbis’ è frutto, come si è
detto, di un glossema esplicativo; ed in D. 19.5.24 finirebbe appunto per
correlarsi ad actio.
D’altronde, seppur sulla base di quella semplice suggestione che deriva
dalla scelta compilatoria di intersecare le parole di Papin. 8 quaest. D. 19.5.1.2 con quelle di Iul. 8
dig. D. 19.5.3, neppure va escluso
che Giuliano non ricorresse affatto alla terminologia ‘praescriptis verbis’, dato che il
tratto ‘in quam necesse est
confugere’ va correlato, nella frase che risulta da questo
‘centone giuridico’, alla in
factum civilis actio del fr. 1.2: ovvero l’espressione che O. Lenel, ‘Palingenesia iuris civilis’, I, cit., 358 e nt. 1,
congetturava nella ricostruzione di Iul. 14 dig.
[de aestimato] 238 Lenel; e ciò tanto più
ove si consideri che, come rileva A. Mantello,
Le ‘classi nominali’,
cit., 265 ss., la prospettiva giulianea parrebbe legarsi più al dato
‘sostanzialistico’ delle contractus
appellationes che al dato ‘processualistico’ su cui insistono,
nella catena di frammenti 1 pr.-3 di D. 19.5, Celso e Papiniano.
[245] Diversamente cfr. F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit.,176 ss., in particolare 198 s.:
in D. 19.5.24, l’espressione ‘praescriptis
verbis’ sarebbe genuina (mentre non lo sarebbe in D. 19.5.13.1 ed in
D. 43.26.19.2). In buona sostanza, Giuliano non avrebbe considerato figura
contrattuale il ‘do ut facias’
(D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2, nonché D. 19.5.13.1, dove si discute di una
convenzione che il Gallo considera commutativa, e segnatamente un ‘do ut facias’, in una logica a mio
parere non condivisibile), mentre in D. 19.5.24 vi sarebbe una fattispecie
contrattuale irriducibile appunto al ‘do
ut facias’, ed integrante un’«ipotesi di
bilateralità oggettiva eventuale» (ivi, p. 201).
[246] In termini assai drastici, cfr. C.A. Cannata, Labeone, cit., 93, 96, 99; più prudente A. Burdese, I contratti innominati, cit., 79.
[247] Per la quale non può dirsi, in
astratto ed a priori, che mostri con
evidenza una netta cesura tra lo schema di Aristone ed il pensiero di Giuliano,
come invece ritiene F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 179;
e ciò anche in considerazione del fatto che nulla dimostra con sicurezza
che Giuliano consentisse la tutela praescriptis
verbis sulla base di un criterio di prossimità (F. Gallo, op. cit., 183 ss. e 216, nt. 29).
[248] Sviluppo qui uno spunto già
emerso in dottrina (cfr. per tutti A. Burdese,
Sul riconoscimento, cit., 51 s.; A. Schiavone, Studi, cit., 161, nt. 243; C.A. Maschi,
Il diritto romano nella prospettiva
storica della giurisprudenza classica, Milano, 1957, 214) che correlava
l’actio in factum di Paul. D.
19.4.1.1 all’actio in factum giulianea
di Ulp. D. 2.14.7.2.
[251] Nel senso che una permutatio inter cives deve risolversi nell’acquisto del dominium ex iure Quiritium,
foss’anche per intervenuta usucapio,
che è comunque modo di acquisto iure
civili; nei rapporti con i peregrini,
deve ritenersi sistematicamente sufficiente la traditio, che – quale istituto del ius gentium – faceva acquistare a questi ultimi la
proprietà iuris peregrini. Mi
pare, infatti, che si pongano per la permutatio,
al riguardo, gli stessi problemi che sorgono per la compravendita: e dubito
anch’io, con M. Talamanca, Istituzioni, cit., 587, che la
configurazione dell’obbligazione del venditore di possessionem tradere debba di necessità ricondursi
all’impossibilità, per i peregrini
sforniti di ius commercii, di
ricorrere agli atti formali di alienazione quiritari. La struttura della
compravendita consensuale è, semmai, frutto di un’esigenza di
semplificazione; vendita e permuta, sottese da iuris gentium conventiones, impongono rispettivamente di rem praestare, e di rem dare ex fide bona in modo da assicurare l’acquisto della
proprietà secondo l’ordinamento giuridico proprio della civitas dell’accipiens.
[252] Diversamente, E. Sciandrello, Studi, cit., 285 s., ritiene necessario il trasferimento che, con
nostra opzione dogmatica, può dirsi derivativo: ma, nel modo di pensare
dei Romani, riterrei – tanto più ove si consideri che Aristone
valutava la permuta come vicina alla
compravendita – che fosse sufficiente l’acquisto anche a non domino per usucapione, od in
conseguenza di atto traslativo inidoneo, stante la tutela Publiciana, e senza che ciò contraddica l’essenza del re fieri della figura. Distinguerei,
dunque, nettamente tra difetto di legittimazione a disporre ed intervenuta evictio: la posizione pediana,
probabilmente, era rimasta isolata.
[253] C. Giachi,
Studi, cit., 541, ed amplius 539 ss. per l’ipotesi che
Pedio, di fronte al problema del rapporto tra vendita e permuta, sia stato il
primo giurista – muovendo dalla prospettiva emergente da Ulp. D.2.14.1.3
– «a isolare tutti gli elementi indispensabili – la conventio e l’autonomia
contrattuale della permuta reale – per comporre questo quadro».
[256] «Ove si agisse con un iudicium bonae fidei» –
osserva M. Talamanca, Istituzioni, cit., 516 – «le
obbligazioni di dare (come
l’obbligazione del compratore e del conduttore a trasferire la
proprietà della somma di denaro che costituiva il prezzo od il canone di
affitto …) mantenevano – nelle linee essenziali – le loro
caratteristiche sostanziali, ma venivano valutate in base alla fides bona». In sostanza,
l’adempimento della civilis
obligatio del permutante avviene pro
soluto esattamente come pro soluto
avviene l’adempimento, da parte dell’emptor, dell’obbligazione – interna all’oportere ex fide bona – di pagare
il prezzo (cfr. C.A. Cannata, Corso, I, cit., 308 ss., in particolare
312).
[259] La tutela per l’adempimento,
infatti, «poteva essere intentata soltanto se una delle parti avesse
già adempiuto»: M. Talamanca,
Istituzioni, cit., 556.
[260] Secondo E. Sciandrello, Studi,
cit., 288 ss. e 296 ss., la tutela in
factum per il fatto evizionale incide sulla prima datio (a non domino)
quando sia stata esattamente eseguita la seconda, con conseguente produzione di
effetti obbligatori; ed il contesto sarebbe correlabile alla posizione di
Giuliano (D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2). Nondimeno, osserverei che, a ragionare in
questi termini, la tutela dovrebbe essere non già in factum, ma in ius concepta,
nella forma dell’actio praescriptis
verbis.
[262] Dissento, dunque, su un punto
dall’esegesi di F. Sitzia,
voce Permuta, cit., 112, secondo il
quale «se l’obbligazione nasce nella permuta soltanto nel momento
in cui uno dei soggetti ha eseguito la sua prestazione di dare, cioè di
trasferire la proprietà, non si avrà permuta nell’ipotesi
di traditio di cosa altrui in quanto
non vi è stato alcun trasferimento di proprietà»: questa
è, a mio parere, la posizione della fine del I secolo, superata
successivamente con il recupero della posizione di Giuliano, che prevale in
epoca severiana per quanto concerne la permutatio.
[263] Diversamente, secondo F. Sitzia, voce Permuta, cit., 113, «non sarà necessario attendere che
si verifichi l’evento dell’evizione, dal momento che la parte che
ha trasmesso una cosa altrui sarà comunque inadempiente».
[264] Pervengo, quindi, ma per diversa via e
comunque muovendo da una diversa lettura di D. 19.4.1.1, ad una soluzione solo
apparentemente coincidente con quella suggerita da E. Sciandrello, Studi,
cit., 288 s. e 296 s., il quale, tuttavia, ritenendo che nel fr. 1.1 l’evictio possa riferirsi alla prima datio, ma successivamente
all’esatta attuazione della seconda, parla di tutela pretoria pur
riconoscendo la genesi dell’obbligazione. In realtà,
l’evizione dell’ob rem datum preclude
a monte l’integrazione della fattispecie, sicché la convenzione
rimane in una sfera acontrattuale
presidiata unicamente in via onoraria alla stregua di un mero fatto.
[266] V’insiste, invece, C.A. Cannata, Labeone, cit., 81; più convincentemente Id., L’‘actio in factum civilis’, cit., 48.
[268] Così, esattamente, C.A. Cannata, Labeone, cit., 76. Nel discorso di Paolo, ad ogni modo, l’ob rem datum è considerato,
rispetto alle sue quattro species (do tibi ut des, aut do ut facias, aut facio
ut des, aut facio ut facias), come categoria sovraordinata suscettibile di
comprendere anche il factum: il che,
più che indizio di rimaneggiamento, connota forse l’intervenuta
equiparazione del facere ‘ob rem’ al dare ‘ob rem’,
nel senso che l’intervenuta acquisizione del risultato patrimoniale del facere è idoneo, come il dare, a vincolare la controparte ad una civilis obligatio.
[269] Paul. 5 quaest. D. 19.5.5 pr.: Naturalis
meus filius servit tibi et tuus filius mihi: convenit inter nos, ut et tu meum
manumitteres et ego tuum: ego manumisi, tu non manumisisti: qua actione mihi
teneris, quaesitum est. in hac quaestione totius ob rem dati tractatus inspici
potest. qui in his competit speciebus: aut enim do tibi ut des, aut do ut
facias, aut facio ut des, aut facio ut facias: in quibus quaeritur, quae
obligatio nascatur. Il totius ob rem
dati tractatus contenuto nei fr. 5.1-5.4, in cui si esaminano in quattro articuli le quattro species della datio ob rem,
è strumentale a risolvere la quaestio
proposita, come si legge nel fr. 5.5: Si
ergo haec sunt, ubi de faciendo ab utroque convenit, et in proposita quaestione
idem dici potest et necessario sequitur, ut eius fiat condemnatio, quanti
interest mea servum habere quem manumisi. an deducendum erit, quod libertum
habeo? sed hoc non potest aestimari. Ne consegue che Ego, nei confronti di
Tu, può esperire l’actio
praescriptis verbis, vale a dire la stessa tutela indicata nel fr. 5.4 in insulis fabricandis ed in debitoribus exigendis. Noterei solo
come, per quest’ultima soluzione, si rivelino in una certa misura
inadeguate le nostre categorie concettuali dell’interesse
‘negativo’ e ‘positivo’: con un’autoproiezione
condizionata dalla nostra configurazione dell’«interesse, anche non
patrimoniale, del creditore» consacrata nel verbum legis di cui all’art. 1174 cod. civ., ci saremmo
magari attesi che il giurista indicasse come parametro della valutazione
l’interesse, evidentemente non patrimoniale, del pater alla manumissio del
proprio naturalis filius: un
interesse che, peraltro, non può entrare nella stima della condemnatio, esattamente come –
riterrei – non è data in sede aquiliana alcuna aestimatio per il liberum corpus, né più in generale per l’affectio o l’utilitas singulorum (sicché il passo esprime in fin dei
conti la stessa logica sottesa da Paul. 2 ad
Plaut. D. 9.2.33 pr., in cui si esamina appunto, in chiave aquiliana,
l’occisio del naturalis filius). E quindi, la condanna
è parametrata all’unico dato patrimonialmente valutabile nel caso
di specie, precisandosi altresì come non possa stimarsi, al riguardo e
nella medesima logica, l’avere un liberto.
[270] Cfr., in senso esattamente critico, M. Talamanca, Istituzioni, cit., 556: l’actio
de dolo era data da Giuliano nei confronti del dante causa consapevole del
proprio difetto di legittimazione a disporre, sicché a priori non pare plausibile che Paolo
estendesse in via generale questa forma di tutela.
[271] D’altro canto, il progetto
espositivo di Paolo – incidente non già su ‘figure
contrattuali’, ma sulla pluralità di prospettive interpretative
che connotano gli aspetti l’ob rem
datum, in modo da chiarire quae
obligatio nascatur (fr. 5 pr.) – visto alla luce del complessivo
andamento dell’intero discorso confluito in D. 19.5.5 induce a ritenere
che al centro del tractatus vi
fossero essenzialmente i presupposti di esperibilità della condictio, esaminata peraltro non
già in termini ‘atomistici’, ma semmai nei suoi rapporti con
altre figure di tutela, tra le quali principalmente quella per
l’interesse positivo, vale a dire l’actio praescriptis verbis: il risultato del taglio del fr. 5.3
avrebbe, a questo punto, solo limitato l’originaria esposizione ad un
profilo inerente alla questione centrale, ovvero l’esperibilità in
via residuale dell’actio de dolo non
essendo consentita la condictio di un
facere; il che, dunque, non implica
l’esclusione della tutela praescriptis
verbis. Infatti, vale – a mio parere – anche in questo caso,
seppur solo nei suoi assunti di fondo, la prospettiva esegetica della Cursi,
secondo la quale «la fluidità delle tutele residuali consente di
sfumare anche la rigidità del criterio di sussidiarietà
dell’azione di dolo: il principio vale infatti soltanto rispetto agli
strumenti tipici di cui l’azione di dolo completa le lacune legate
naturalmente alla tipicità del sistema» (M.F. Cursi, L’eredità, cit., 88; dissento, nondimeno,
dall’ipotesi secondo la quale in D. 19.5.5.3 Paolo avrebbe generalizzato
la soluzione di Giuliano ricordata nel fr. 5.2). Qui l’azione è
sussidiaria rispetto alla condictio,
rimedio edittale consolidato, senza che al riguardo venga in rilievo l’actio praescriptis verbis, che tale non
può considerarsi neppure per epoca severiana, non essendo – con
tutta evidenza – uno strumento edittale tipico.
[272] F. Sitzia,
voce Permuta, cit., 113.
D’altronde, avrei difficoltà a pensare ad una tutela in ius concepta, come l’actio praescriptis verbis, nel momento
in cui – a seguire lo spunto pediano in Paul. D. 19.4.1.3 – la
fattispecie non si sia integrata in senso civilistico.
[273] Vedrei la stessa soluzione – la
tutela praescriptis verbis –
per l’ipotesi della contestualità delle due dationes, una delle quali determini il fatto evizionale: in questo
caso, l’elemento formativo – l’initium – è dato comunque dalla datio proveniente a domino,
contestuale – e quindi rilevante in chiave formativa – a quella
proveniente a non domino. Val la pena
di evidenziare come la ‘contestualità’ dello scambio debba
intendersi in senso non già puramente cronologico, ma giuridico, ovvero,
nella prospettiva di uno ‘scambio a contanti’ (basti pensare al
modello dell’originaria mancipatio
causale arcaica); la ‘contestualita’ va allora esclusa quando sia
possibile giuridicamente isolare una datio
(ob rem appunto) strumentale a
vincolare la controparte ad una seconda datio
corrispettiva.
[274] L’esecuzione della prima datio nella consapevolezza del difetto
di legittimazione a disporre varrebbe, con ogni probabilità, ad
escludere la sussistenza della causa
solvendi in occasione della seconda, che presuppone la buona fede
bilaterale nell’addivenire all’accordo solutorio: sul punto,
sarebbe allora vitale la distinzione tra atto di disposizione a non domino dell’ignorans ed atto di disposizione del sciens prospettata da Giuliano e
ricordata da Paul. D. 19.5.5.2.
[275] In ragione della configurazione della
pretesa, irriducibile tanto a rimedio restitutorio quanto a tutela ex poenali causa: sul punto cfr. M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht,
cit., 317. Non può non osservarsi, d’altro canto, come se da un
lato l’attore perda il vantaggio dell’intentio di buona fede – che implica una valutazione ad ampio
spettro dell’atto e del rapporto –, dall’altro la deduzione
del factum imponga pur sempre al
convenuto che non si limiti alla sua negazione di proporre le proprie difese
mediante la richiesta di exceptiones.