Scritto sulle epigrafi: premessa per una
ricerca su malattie, cause di morte e medici in età imperiale romana
Università di Sassari
[Lecture presentata nel Convegno Condizioni di vita, alimentazione, salute e
malatie degli uomini del passato. L’approccio bioarcheologico tra storia,
paleopatologia, antropologia fisica e scienze mediche” (Sassari, Aula
Magna dell’Università, 11 ottobre 2014), in occasione
dell’inaugurazione del “Centro Studi antropologici,
paleopatologici, storici dei popoli della Sardegna e del Mediterraneo”
dell’Università di Sassari]
SOMMARIO: Introduzione. – 1. L’agonia. – 2. La traslatio
cadaveris. – 3. Le malattie e la loro
eziologia. – 4. Malattie: la malaria. – 5. Le
malattie provocate da una maledizione. – 6. Povertà
e malattia. – 7. Strutture di
assistenza. – 8. I medici. – 9. La profilassi. – 10. I
Carmina epigrafici. – 11. Le acque termali. – 12. I
medici in età paleocristiana. – 13. Cachet
di oculisti, colliri, pomate, balsami, e altri prodotti curativi. –
14. La bioetica. – 15. Medicina, religione e magia. – 16 Le cause di morte nelle iscrizioni. – 17. Il parto. – 18. Iconografia.
– 19. Prospettive della ricerca.
Il tema
che propongo oggi in occasione della nascita del Centro studi antropologici,
paleo patologici, storici dei popoli della Sardegna e del Mediterraneo è
davvero inusuale: riservandomi un approfondimento nel testo definitivo, vorrei
tentare di leggere in estrema sintesi le scritture antiche, di ricostruire le
parole incise sulla pietra, partendo da quelle epigrafi che ci conservano in
particolare una serie di notizie, spesso frammentarie, sulle malattie, sulle
cause di morte e sui medici in età imperiale romana. Il testo non
pretende di esaurire una documentazione ampia, complessa e fin qui poco
studiata, ma si propone di fornire solo alcuni esempi particolarmente
significativi.
Il
tema può essere solo accennato nelle sue linee essenziali, per indicare piste
di ricerca che riescano a partire dalle caratteristiche dell’epigrafia
sacra e funeraria nel mondo antico. A differenza delle iscrizioni funerarie
moderne, gli epitafi latini conservano le più svariate informazioni
sulla vita e sulla morte dei defunti, sulla salute, sulle malattie, sulle cause
del decesso, sul dolore dei parenti sopravvissuti, sulla durata della vita,
sull’agonia, come ad Olbia per l’epitafio cristiano di Valeria Nispenini di dolcissima memoria,
ricordata dal marito Pribatio e dal
figlio Balentinus, morta a 55 anni
nel corso del IV secolo, compianta anche per le sofferenze di una morte che
è arrivata implacabile dopo 13 lunghi giorni di agonia, doluit dies XIII. Così a Roma Probina, vissuta 17 anni, 100 soli
giorni con il marito, ammalata per 45 giorni, aegrotavit dies XXXXV prima
di riposare in pace (ICUR I 3903 = CLE 1339 = ILCV 3330).
Il
tema della terribile durata dell’agonia dei moribondi, particolarmente
rilevante in Sardegna, è stato studiato recentemente anche con riguardo
alle competenze del dio Viduus,
venerato ai margini del municipio di Karales. In passato Paola Ruggeri ha
affrontato l'iscrizione di Sanluri che nomina una divinità poco nota,
legata al rapporto coi morti e richiamata da Varrone a proposito delle arcaiche
formule degli Indigitamenta. Si
tratta di Viduus, al quale un liberto
del municipio di Cagliari, C. Iulius
Felicio si rivolge grato, ponendo una dedica in occasione dell'ampliamento
dell'area sacra del dio (CIL X 7844).
Siamo di fronte a un unicum epigrafico,
che documenta nell'isola il culto riservato a un dio il cui compito, in base a
quanto scrivono Varrone, Tertulliano e Cipriano, era quello di presiedere al
distacco dell'anima dal corpo, cioè al momento terminale (nel senso di terminus latino) che segna la frontiera
tra la vita e la morte, rendendo più breve e meno dolorosa l'agonia del
malato: per Tertulliano Viduus
è il dio qui anima corpore viduet,
quem intra muros cludi non permittendo
damnastis. Dunque un dio che, per quanto Cipiriano considerasse feralis et funebris, era benefico e
salutare, sentito come amico dei moribondi, anche se il suo culto non poteva
esser praticato se non all’esterno, addirittura ai margini della
città, comunque extra muros. Emergono
da queste poche righe del nostro testo aspetti misteriosi di tradizioni
religiose e competenze che in Sardegna sono documentate dall’inizio
dell’età imperiale ma che si estendono nel tempo fino
all’età medioevale. Al momento del passaggio del paganesimo al
cristianesimo, religione e magia si fondono, come nella vicenda del governatore
della Sardegna sotto Valentiniano e Valente nel IV secolo d.C., Flavio
Massimino, e del suo amico sardo, capace di evocare le anime dei morti e trarre
presagi dagli spiriti: per Ammiano hominem
Sardum … eliciendi animulas noxias et praesagia sollicitare larvarum
perquam gnarum (Mastino, Pinna 2006).
Del resto il tema della durata dell'agonia in Sardegna è in qualche
modo riassunto dalla vicenda che Polibio attribuisce a Timeo sull'uccisione dei
vecchi settantenni nel corso del III secolo a.C. in età cartaginese e
che prosegue sul piano strettamente etnografico già giù fino a Sas Accabadoras della leggenda sarda
fino al pieno Ottocento.
L’attenzione per
il momento in cui l’anima ritorna alla quiete del sepolcro è ben
documentata in Sardegna e nell’impero romano: si ricordi la Securitas, il desiderio di proteggere le
ossa dopo la cremazione, che ritorna a Karales nell’ipogeo dei Vinii, nella necropoli di Tuvixeddu
collocata fuori le mura. Con l’avvento del cristianesimo, conosciamo le
maledizioni che colpiscono i violatori della tomba (la sorte di Giuda
traditore, la lebra di Giezi servo del profeta Eliseo ecc.): il corpo deve
riposare nella tomba, protetto dalla croce, che a Trapani è definita speranza dei Cristiani, rovina del Diavolo,
resurrezione dei Cristiani, cacciata dei demoni, arma invincibile, vita per
quelli che credono, invece morte per quelli che non credono. E ciò fino
al momento in cui il corpo si riunirà con l’anima nel giorno del
giudizio universale, nel dies tremendus
iudicii, nel dies ultimus, nel dies novissimus, quando sarà possibile che grazie alla potenza
di Cristo la carne riesca vivere di nuovo e il defunto possa godere la gioia
dell’ultima luce: Christi ope
rursus sua vivere carne et gaudia lucis nobae ipso dominante videre (nell’iscrizione
del diacono Silbius a Olmedo, CIL X 7972).
Sullo
sfondo rimangono le specifiche caratteristiche della medicina in età
antica, spesso confusa con i culti religiosi salutari, il culto di
Esculapio-Asclepio, in Sardegna Merre; il culto del Sardus Pater; il culto
delle Ninfe salutari come a Forum Traiani oppure di Hygia. Sempre a contatto
con la magia, in rapporto a invincibili maledizioni come sulle defixiones o a competenze tradizionali,
spesso solo immaginate ed improbabili. I medici appartenevano ad uno strato
sociale basso ed erano il più delle volte considerati i colpevoli finali
della scomparsa del paziente. In altri casi, come per Antonio Musa, il medico
di Augusto, i medici erano apprezzati e ricompensati: per Musa fu espressa la
generale gratitudine della repubblica per aver salvato il principe da una
pericolosa malattia, collocando una statua presso quella di Esculapio: statuam aere conlato iuxta signum Aesculapii
statuerunt. Allo stesso modo il militare M. Ulpius Honoratus riconosce onestamente il successo
dell’opera di L. Iulius Helicus,
medicus, qui curam mei diligenter egit secundum deos, e scioglie un voto a
Esculapio e Hygia a Roma, ILS 2194. Ancora a Roma al Testaccio sappiamo che
fu un collegium salutar(iorum) a
costruire un tempio Aesculapio et Saluti
Aug(ustae), ILS 3840. Ma dove i medici erano impotenti, assenti o incapaci,
interviene la Bona Dea che riusciva a
far guarire il paziente disperato, come a Roma per il servo pubblico Felice,
conduttore di asini per conto del collegio de pontefici, che aveva sciolto il
voto Bonae deae agresti .. ob luminibus
restitutis, derelictus a medicis, post menses decem beneficio domiaes medicinis
sanatus per eam (ILS 3513). Del
resto gli stessi medici riconoscono i benefici della pratica religiosa, come i
medici torinesi costituiti nel collegio intestato ad Esculapio e Hygia, subito
dopo la morte del divo Traiano (ILS
Sappiamo
di morti improvvise avvenute lontano dalla propria patria, che imponevano la translatio cadaveris, un tema che ha
molti riflessi, in rapporto al rituale funerario, inumazione o incinerazione.
Si pensi alle tombe mausoleo o ai cenotafi, come quello del marinaio Fintone
morto in marre ma ricordato con un cenotafio sulla spiaggia di Caprera,
ricordato dal poeta Leonida di Taranto. Un’epigrafe trovata presso i
resti della Colonia Aurelia Augusta Pia Canosa e presentata nel 1966 da Erminio
Paoletta scritta in lingua greca recita: «Mia patria Mira, e traggo i
natali dalla Licia. Essendo mercante d'arte, venni a causa della morte
dell'infelice fratello Zosimo, che qui posi a ricordo per i mortali; non
così infatti crebbe Nireo (il più bello dei Greci a Troia) nella
bella Smirne, non i Dioscuri, i figli di Leda presso la vorticosa corrente
dell'Europa. Pose Ametisto, fratello di Zosimo». Ametisto accorre a
Canosa per rendere le estreme onoranze al fratello Zosimo, scomparso lontano da
Mira in Licia: anch'egli forse era stato un mercante d'arte nella Canosa del II
secolo d.C.
Il
tema è quello della morte improvvisa e della sepoltura lontano dalla
patria: il v(ir) s(pectabilis) Pascalis,
onorato dalla comunità cittadina della colonia di Turrris Libisonis per
i suoi meriti, è definitivamente sepolto in terra straniera, dunque
nell’isola lontana da Roma, tra persone sconosciute: hic iace[t] peregrina morte raptus (AE 2002,
In
epoca pagana, la traslazione doveva essere autorizzata dai pontifices, dall’imperatore, da un governatore. E’ il
caso delle ossa del liberto imperiale M.
Ulpius Phaedimo, morto a Selinunte il 12 agosto 117, il cui corpo fu
trasferito a Roma nel 130: reliquiae
traiectae eius ex permissu collegii pontific(um) piaculo facto (ILS 1792). Allo stesso modo le spoglie
del liberto imperiale M. Ulpius Hermia
furono trasferite a Roma dalla Dacia: cuius
reliquiae ex indulgentia Aug(usti) n(ostri) Romam (ex Dacia) latae sunt (ILS 1593). Il corpo del diciottenne
cavaliere L. Vetidius Maternus Vetidianus
fu traslato da Cartagine a Roma grazie all’autorizzazione del
governatore : permissu praesidis a
Khartagine de studio relatis reliquis (ILS
Altre malattie ci sono note dal racconto fatto
sull’epitafio dal defunto in prima persona: così ad Iulium
Carnicum per Laet[i]lius C(ai) [f(ilius) G]a[ll]us, che ricorda le febbri altissime
provocate da un’infezione: regrediens
incidi febribus acris at pres[s]us graviter [a]misi cu[m] flore i[u]vent[a]m (CIL V 8652 (p 1095) = CLE 00629). A Tarragona il giovane
auriga Eutyches muore a 22 anni ancora a causa di una febbre violenta
contro la quale i medici sono apparsi impotenti: ussere ardentes intus mea viscera morbi, vincere quos medicae non
potuere manus (CIL II 4314 (p
973) = CLE 1279 = ILS 5299 = AE 1972, 283). In altri casi a raccontare la morte della persona
cara è un parente che è sopravvissuto, come a Roma per Ephesia Rufria, ma[ter et coniux bona],
qua[e mala periit febri] quam medici praeter e[xspectatum adduxerant] solamen (CIL VI, 25580 (p 3532) = CLE 00094).
Ad Auzia in Mauretania Cesariense i genitori piangono i due
bambini Clemens e Vincentia strappati alla vita da una
malattia contagiosa nel fiore degli anni. Il termine pestis difficilmente allude a una vera epidemia: pestis acerba abstulit hos pueros (CIL VIII 9048 = CLE 1610). Allo stesso modo un trentenne a Cartagine è stato
strappato da una pestilenza: eripuit
pestis (CIL
VIII, 25008 = ILTun 1002).
Così ad Ostia l’accusa di chi sopravvive è nei confronti
della pestis dira (CIL XIV 632 [p. 482] = CLE 845).
Frequente
anche il termine lues, da tradurre
lue, peste, contagio, epidemia, più genericamente flagello o
calamità, come a Bedaium nel Norico, con un epitafio che ricorda Iulius Victor e altri cinque defunti, qui per luem vitam functi sunt,
scomparsi tutti assieme nell’anno 184 d.C., Mamertino et Rufo co(n)s(ulibus) (CIL III 5567 (p. 2328, 201) = AE
2008, 1018). Altre volte il patrono esprime il compianto per l’infelice
dolcissima alumna, come a Parma per Xanthippe sive Iaia, che l’infuocata
malattia ha reso febbricitante: lues ignita torret (CIL XI 1118 (p. 1251) = CLE 98).
Incerta è la natura del morbo che ha
colpito M. Cornelius Optatus ad
Anticaria in Betica, ancipiti morbo
recreatus votum a(nimo) s(olvit) (CIL
II 746 = 2036).
A Cordova il centurione T(itus)
Acclenus T(iti) f(ilius) Qui(rina) e sua moglie morbo excruciati morte obierunt (CIL II 287 = 2215 [p. 886] =
ILS 8477 = AE 2002, 167). A Cirta
i mala fata hanno strappato al marito
l’amata Ca[eli]a C(ai) Audasi
fil(ia) R[ufa], [infesto mod]o quam dolu[i morbo es]se per[emptam] (CIL VIII 7255 = 19454 = ILAlg. II,1 830 = CLE 560). A Melta in Moesia inferior la defunta maledice i saeva e impia fata, ricordando il
crudelis thalamos post mor[bi accessum] (ILBulg 248 = AE 2009, 1201).
Cristiano è il carmen
urbano per Alexander, tormentato da
gravi malattie ora rinato in Cristo con l’aiuto del martire: [gravibus m]orbis iactatus tempore [longo]
redd[i]tus est v[itae mar]tyris auxil[io] (ICUR- IX 24312 = ILCV
1990).
Non raramente le iscrizioni citano le malattie che hanno portato
alla morte, prima tra tutte in Sardegna la malaria, attestata nelle fonti
già da epoca repubblicana. In questa sede baserà ricordare il Bellum Sardum combattuto da Ampsicora
contro i Romani dopo la battaglia di Canne: Tito Livio ricorda che una
ambasceria dei principes sardi,
dunque espressione sicuramente delle principali città sardo-puniche
(escluse le antiche colonie fenicie, forse parzialmente rimaste fedeli ai Romani)
e di alcuni popoli della Sardegna interna, si recò a Cartagine,
chiedendo un appoggio militare alla rivolta che serpeggiava ovunque
nell’isola, dove i Romani avevano poche truppe (una legione) e dove il
governatore Q. Mucio Scevola si era ammalato alla fine della primavera ed era
invalido, apparentemente a causa della malaria: Livio ci propone un sintetico
quadro clinico, un morbo lungo e noioso ma non pericoloso (non tam in periculosum quam lagum morbum implicitum),
specificandone l’eziologia (gravitate
caeli aquarumque advenientem exceptum). Chi aveva preso l’iniziativa
della triplice alleanza tra Sardi Pelliti, Sardi delle città costiere
attorno a Cornus e Cartaginesi era stato proprio Hampsicora, battuto nel
Quattro
secoli dopo, propter adversam corporis
valitudinem forse per il ripetersi di febbri malariche, l'imperatore
Filippo l'Arabo scioglie dal giuramento e dal servizio militare nell'anno 246
il giovane M(arcus) Aurelius Mucianus originario
della Moesia inferiore, vigile a Roma della Coh(ors) II vig(ilum) Philippiana che aveva svolto un servizio
militare in Sardegna: un nuovo diploma recentemente acquistato dal Museo di Mainz
contiene durante l'età di Filippo l'Arabo un riferimento alla Sardinia, nell'ambito di una serie di
missioni speciali fuori dalla capitale, probabilmente in compagnia di altri
colleghi. Le date di soggiorno in Sardegna (28 maggio-15 agosto 245) rimandano
ad un particolare periodo dell'anno, che sembra coincidere con la mietitura e
la raccolta di frumento da spedire da Olbia verso Pisa (ulteriore destinazione
di Muciano l'anno successivo), proprio nella stagione in cui nella grande isola
mediterranea la malaria colpiva gli stranieri, in un modo però forse
meno aggressivo di quando non si introdurrà in età medioevale il
temibile Plasmodium falciparum. Ci
sono del resto molti elementi per interrogarsi sui misteriosi contenuti degli
incarichi affidati a Muciano nel corso della sua breve e sfortunata carriera,
che a causa della malattia si conclude con il grado di soldato semplice proprio
come era iniziata: quest'unica attestazione della presenza di un vigile e di un
rappresentante della guarnigione urbana nell'isola può forse aver avuto
più di una ragione.
Le
malattie che colpiscono i pazienti sono citate nelle iscrizioni per ragioni
diverse e spesso vengono spiegate di malati o dai parenti del defunto con
l’invidia, la maledizione, il malocchio di persone ostili, nemici
personali o avversari. Un capitolo complesso e di difficile comprensione
è rappresentato dalle tabellae
defixionum, che in questa sede richiamerei solo cursivamentemente, come
quando si augura un nemico nel nome di Proserpina e Plutone la febris
quartana tertiana cottidiana a Roma (CIL I 2520, p. 967). Oppure anche (sulla
Via Appia): patiatur febris, frigus
tortionis palloris sudores obbripilationis meridianas interdianas serotinas
nocturnas (CIL VI 33899 = AE 2004, 201).
Alla stessa categoria sembra appartenere lo
pseudo-epitafio dedicato a Carmona in Betica in vita Dis M(anibus) feris, invocati perché colpiscano
violentemente una Luxsia figlia di Antestius: caput cor co(n)s[i]li<u>(m) valetudine(m) vita(m) membra omnia
accedat morb<u>(s) cotid(i)e (AE
2010, 108).
Ad Augusta Treverorum il defiggente invoca l’intervento della dea, la domina Iside, per provocare un profluvium, probabilmente una emorragia
o una dissenteria, a danno di un odiato liberto, un Tib. Claudius Germanus, della nazione dei Treviri: profluvium mittas et quidquid in bonis habet
in morbum megarum, espressione intesa ora da Daniela Urbanova nel senso di
un augurio inquietante: «tutto ciò che ha di sano venga colpito da
una malattia inguaribile», senza escludere una diretta allusione
all’epilessia (Kropp-2008, 4,1,3/16). Il dio al quale si chiede la malattia o la morte
verrà premiato con un sacrificio, come a Treviri per Hostilla, quae mihi fraudem fecit, se verrà tormentata a morte (si tu consumpseris) (CIL XIII 11340, V2 = Kropp-2008). Allo
stesso modo il lato B della celebre tavoletta urbana con la defixio contro Plotio è stato
interpretato recentemente dalla Urbanova «che [Plotio] muoia male,
perisca male e crepi. Lo passi, lo consegni, affinché non possa vedere,
scorgere, guardare la luce del mondo – cioè affinché non
possa vivere» (CIL I,2 2520). A
Bath in Britannia nel IV secolo ci è conservata una “preghiera di
giustizia” contro un ladro, …ut
mentes suas perda(at) et oculos suos in fano ubi destinat (Tomlin 1988), da
tradurre. «che il ladro perda la ragione e la vista nel tempio dove
risiede la dea». L’augurio più frequente che si rivolge ai
defissi è quello di perdere le mani, i piedi, tutte le membra, la vista.
Particolamente elaborata la defixio urbana che invoca Dite,
Proserpina, il cane infernale tricipite, le larve, le furie, altri dei inferi,
perché la vendetta riguardi tutte le membra della nemica Caecilia Prima: Orcini tricipites vos
exedit[is] iocinera pulmones cor cum venis viscera membra medullas eius
diripiatis dilaceretis lumina eius . … peruratis lumina stomachum cor
eius pulmones adipes cetera membra omnia illius, peruratis; ossum frangant
medullas exedint iocinera pulmones dirimant vosque Ossufragae inferae tradatis
illam; … eripias somnum , soporem obicias illae amentiam dolares stupores
malam frontem usque donec pereat intereat extabescat (AE 2010, 109). Con la
conclusione già citata: febres cotidianas
tertianas quatarnas usque dum animam eius Caeciliae Primae eripiatis.
A Pompei c’è ripetuta la
preghiera: Or(o)
te aegrotes (CIL IV 2960), oppure Aegrota
/ Aegrota / Aegrota (CIL IV
4507). Numerose altre defixiones
augurano che il corpo dell’avversario possa decomporsi presto: N(umerius) Vei Bareca tabescas a Pompei
in età repubblicana (CIL IV 75
= CIL I 1644c = ILLRP 1141); Quis (h){e}ic
[ulla(?)s]cr[ipser]it [t]abe[scat] n[eque] nominetur (CIL IV 7521); oppure a
Capua: Cn(aeum) Numidium Astragalum
v(oveo?) il(l)ius(?) vita(m) valetudin(em) qua<e>stum ipsu(m)q(ue) uti
tabescat morbu [ac(?)] C(aius) Sextiu(s) tabe/[scat] ma(n)do rogo (CIL X 3824). Passano i secoli e
l’uso si mantiene anche tra i cristiani: Agnella teneatur ardeat de{s}tabescat usque ad infernum semper (AE 1941, 138, Roma). In Corsica a
Mariana ci si augura la vendetta contro C.
Statius, ut male contabescat usque dum
morie[t]ur (AE 1982, 448).
L’óstrakon di Neapolis
in Sardegna (un frammento di parete d’anfora), probabilmente del III
secolo d.C., contiene una formula magica, su un testo di quattro linee, in cui
l’estensore chiede a una divinità, Marsuas, che Decimo
Ostilio Donato diventi misero, muto e sordo: «O Marsuas di Neapolis,
rendi misero, muto e sordo Decimo Ostilio Donato, per quanto tu possa
rispondere all’uomo» (AE 2007,
690).
Bisogna
infine tener presente le tante iscrizioni che attribuiscono una morte
improvvisa alla malvagità di un mago: eripuit me saga manus crudelis ubique, cum manet in terris et nocit
arte sua (a Verona, ILS 8522). Sceleratissimi servi infando latrocinio
nomina ordinis decurioum defixa monumentis (ILS 3001).
Il
tema del rapporto tra povertà e malattia viene tracciato nel recente
volume, che ho presentato a Palermo a Villa Wittaker, Poveri ammalati e ammalati poveri, Dinamiche socio-economiche, trasformazioni culturali e misure
assistenziali nell'Occidente romano in età tardoantica, a cura di
Rosalia Marino, Concetta Molé, Antonino Pinzone, con la collaborazione
di Margherita Cassia.
Sarebbe
utile stabilire, almeno indicativamente, se nell'immaginario collettivo degli
antichi la povertà sia collegata con la malattia o alla rovescia con la
salute. E' un fatto che i poveri erano più esposti a pestilenze,
malaria, polmonite soprattutto se contratta da una donna in gravidanza,
tubercolosi, tetano. Le cause principali spesso derivavano da topi, cani
rabbiosi e altri animali che si aggiravano liberamente nelle città, per
le strade e per le case, con tutto il bagaglio di infezioni che potevano
portarsi appresso e trasmettere all'uomo (quali la leptospirosi e la
salmonellosi), aggravate dal sovraffollamento e dalla mancanza di servizi
igienici adeguati, l'utilizzo di latrine pubbliche e di acqua infetta. Le donne
dei ceti superiori avevano invece a disposizione domus o ville luminose e
arieggiate, oltre a schiavi e liberti che evitavano loro le più malsane
incombenze.
Eppure
il corpo del povero, ed è Valerio Neri (La rappresentazione del corpo del povero fra salute e malattia) a spiegarcelo,
assurge ad emblema di salute, secondo un filone della letteratura filosofica,
etica e medica che percorre la cultura antica (da Antistene e Socrate) sino ad
arrivare alla tarda antichità e ai Padri della chiesa, in quanto il
povero conduce un vita secondo natura (katà
phusin); del resto in Occidente Agostino descrive la salute come patrimonium pauperis. La salute del
povero è frutto della sobrietà nel regime alimentare ed è
corroborata dall'attività fisica. Al povero sano viene contrapposta la rappresentazione
del ricco, crapulone e lussurioso che spesso contrae malattie come la podagra, dovute alla sua avidità
alimentare.
La
rappresentazione del povero malato, così come si ritrova sistematizzata
negli scritti dei Padri della Chiesa, gli conferisce una sorta di status privilegiato sotto il profilo
etico: in particolare è ritenuto esemplare il pauper verecundus, caduto in miseria rispetto ad una pregressa
condizione sociale elevata. Riprovazione sociale si riversa al contrario sul mendicus, valido fisicamente, che non si
impegna in alcuna attività e preferisce raccogliere in giro le
oblazioni. Per Salviano di Marsiglia il termine mendicus conserva una simbologia negativa secondo l'accezione
pagana e viene utilizzato ad indicare l'individuo privo di qualunque
capacità di riscattarsi a livello economico e di incidere nel contesto
sociale. Si tratterebbe dell'articolazione più bassa all'interno della paupertas, se il mendicus aveva veramente un ruolo addirittura inferiore a quello
del pauper e dell’egens.
Osserviamo
l'affermarsi a livello epigrafico del parallelismo lessicale tra pauperes e peregrini: per la Sardegna ancora nella prima metà del IV
secolo attestato piuttosto il parallelismo peregrini-inopes, come si ricava dall'iscrizione
di Matera, auxilium peregrinorum saepe quem censuit vulnus; e poco oltre: quem matrum aut inopum decernerat ipse parentem, proveniente dalla
Basilica di San Gavino a Porto Torres (AE
2002, 632 = 2003, 689). A Tharros pauperum mandatis serviens è
Karissimus di AE 1982, 430. Ancora a Porto Torres Flavia Cyriace rem suam [pauperibus] / linquit
(AE 1994, 796).
Le
iscrizioni documentano come il cristianesimo e le istituzioni ecclesiastiche seppero
creare una formidabile rete di assistenza per il soccorso e la cura dei poveri
ammalati. Sul modello dell'Oriente anche l'Occidente latino fu in grado di
sviluppare strutture per l'accoglienza e il ricovero dei poveri che si
trasformarono in ospedali per ammalati. Arnaldo Marcone e Isabella Andorlini (Salute, malattia e prassi ospedaliera
nell'Egitto tardoantico) ricostruiscono analiticamente il quadro in cui si
articolavano le diverse strutture ospedaliere nell'Egitto tardo-antico: dai nosokomeia (ospedali), agli xenodocheia (luoghi di accoglienza) sino
ai lochomeia (residenze per
donne/maternità o ad esempio i lebbrosari (kelyphokomeia). Il lessico per designare i luoghi di cura
dell'Oriente greco fu importato con una certa semplificazione in Occidente: qui
fu xenodocheion il termine
generalmente usato per designare la struttura ospedaliera. Andrebbero
riesaminati in questo senso il lessico epigrafico e i formulari cristiani nei
quali spesso ci si imbatte in espressioni, talvolta superficialmente ritenute
convenzionali e retoriche, come inopum
refugium, peregrinorum auxilium oppure
fautor che potrebbero piuttosto far
riferimento alla presenza di xenodocheia.
in Sardegna, a Olbia, a Tharros e a Turris Libisonis. L'espressione auxilium peregrinorum ricorre più
volte in Sardegna in iscrizioni del IV e V secolo che contengono concetti
riferiti alla classe sociale dei ricchi possessores;
esse sembrano conservare a giudizio di Letizia Pani Ermini un emblematico
elemento di continuità l'immagine del ricco proprietario, uomo di grande
integrità morale, padre degli orfani, rifugio dei poveri, aiuto dei
pellegrini: ad Olbia il cristiano Secundus,
è esaltato come magnae
integritatis vir bonus, pater
orfanorum, inopum refugium, peregrinorum fautor, religiosissimus adque exercitatissimus totius sinceritatis
disciplin(ae) (CIL X 7995); a
Tharros si ricorda in un'epoca che per il De Rossi il IV secolo, ma che per il
Duval appena più tarda, Karissimus,
amicorum omnium pr(a)estator bonus, pauperum mandatis serviens (AE 1982, 430). A Turris Libisonis Matera è esaltata dal vulgus di fine IV secolo come auxilium peregrtinorum (AE 2002, 632 = 2003, 689, vd. AE
1994, 796). Del resto
dall'epistolario di Gregorio Magno sappiamo che proprio a Turris Libisonis il
vescovo Mariniano, arrivando fino all'esarca d'Africa, aveva dovuto difendere
contro il dux Theodorus i poveri
della sua Chiesa, in tutti i modi vessati e afflitti da svariate usure: civitatis suae pauperes omnino vexari et
commodalibus affligi dispendiis.
Il
naturale contraltare della figura del povero ammalato è rappresentato
dalla figura del medico e si può tentare di analizzare la relazione
interna al triangolo ippocratico, medico-malato-malattia, ossia il nesso
inscindibile tra paziente, medico curante e l'interazione tra questi due
soggetti che incide sul decorso della malattia e sugli effetti della terapia.
Sottesa costantemente a questa problematica la dicotomia tra la fides e l’avaritia del medicus che
viene alternativamente considerato disinteressato e amico oppure avido,
incompetente e preoccupato solo dal tornaconto economico.
Tutto
ciò in una prospettiva diacronica che prende le mosse dall'evergetismo
di stampo ellenistico di Cesare e Augusto e a cui fa da sfondo la differente
sensibilità culturale al giuramento ippocratico e al suo valore etico da
parte del medico, delle istituzioni imperiali e delle istituzioni
ecclesiastiche. Come non pensare del resto ancor oggi all'universalità
del modello ippocratico che si traduce nelle società occidentali odierne
nello scontro tra il diritto alla cura di alto livello per tutti nelle forme
principalmente della sanità pubblica e il privilegio della cura
specialistica per i pochi che ne hanno la possibilità?
Le
iscrizioni cristiane esaltano quei medici che hanno dato gratuitamente la
propria opera per assistere i pazienti, come il diacono (levita) Dionysius, artis honestae functus et officio quod
medicina dedit, huius docta manus famae dulcedine capta dispexit pretii sordida
lucra sequi saepe salutis opus pietatis munere iuvit dum refovet tenues dextera
larga viros obtulit aegrotis venientibus omnia gratis (ICUR VII 18661 = CLE 1414 = ILCV 1233).
Numerosi sono i medici citati nelle iscrizioni, come a Lione il
medico cristiano Felice, che sconsolato si accusa della colpa di non esser
riuscito a trovare una cura per la propria malattia, lui che si era tanto
impegnato per alleviare il dolore di tanti malati: vita dicata mihi hic ars medicina fuit,
aegros multorum potui relevare dolores, morbum non potui vincere ab arte meum (CIL XIII
2414 = ILCV 612).
I
medici possono essere schiavi, come Agathopus
medic(us) servus (ILS 1514),
liberti (come C. Hostius C.l. Pamphilus
medicus che conosciamo per aver comprato una tomba per se, la moglie, i liberti, i posteri: haec est domus aeterna, hic est fundus, heis sunt horti, hoc est
monumentum nostrum, ILS 8341;
oppure come Q. Caecilius Caeciliae Crassi
l. Hilarus medicus, ILS 9433),
liberti imperiali (T. Aelius Aminias,
Aug. lib., medicus auricularius, ILS 7810).
Sono tutti esempi urbani. Conosciamo odontoiatri (auricularii), oculisti (M.
Fulvius Icarus Pontuficiensis medicus ocularius, ILS 7808 Aguilar de la
Frontera; M. Latinus M. l. medicus
ocularius ILS 7807, Bologna; M.
Geminius M.l. Felix medicus ocularius a compitu aliario, ILS
Infine
i medici militari, come tra i pretoriani a Roma Ti. Claudius Iulianus medicus clinicus cohortis IIII
praerotiae (ILS 2093) oppure Sex. Titius
Alexander medicus cohortis V praetoriae che dedica un’ara Asclepio et Saluti commilitonum (ILS 2092). Oppure al servizio di una
legione, di un’ala oppure di una coorte ausiliaria (ILS 2542).
Tutti
possedevano un armamentario di ferri chirurgici e libri, come quelli
rappresentati per definire la professione sulla stele funeraria di P. Aelius Pius Curtianus medicus amicus
benemeritus a Preneste (ILS 7788).
I
medici partecipano a iniziative evergetiche a favore della comunità:
così ad Ostia D. Caecilius
D(eciorum duorum) l(ibertus) Nicia medicus assieme ad altri mag(istri) Vici è impegnato a
ricostruire un compitum, una cappella
collocata in un crocicchio, a sue spese realizza il muro a secco e una delle
colonne, maceriem et columnam (ILS 5395). Spesso sono riuniti in collegia come a Benevento (ILS 6507), scholae medicorum con propri edifici (ILS
Non
mancano i medici veterinari, come ad es. L.
Crassicius, Gaiae libertus Herma, medicus
veterinarius nelle Venezie (ILS
7815), oppure il C. Marius di
un’epigrafe urbana, medicus
equarius et venator (ILS 7813);
ancora un Ap. Quintius
Ap. l. Nicephor(us) medicus iumentarius nell’agro pontino (ILS 7483), oppure il Secundinus
mulomedicus, che ha costruito la propria domus aeterna sulla via Appia (ILS
7814).
La
documentazione epigrafica relativa alla professione medica è abbondante
ed è stata studiata da Bernard Remy, che conosce per la sola Gallia
almeno 24 casi, compresa a Lione una medica
donna (CIL XIII 2019). Un caso
analogo di donna medico è noto a Emerita in Lusitania (CIL II 497). A Costantinopoli troviamo
l'equivalente in greco di iatrìne.
Ci sono medici pubblici, pagati dalla città, come quello di Cordova, un medicus c(olonorum) c(oloniae) P(atriciae) .
In
generale la menzione dei medici è collegata ai vota per la salute di un paziente. In Lucania, tra Atina e Volcei,
conosciamo uno schiavo originario di Tralles in Caria, medico personale di Quintus Manneius, originario di Volcei,
che rendendogli la libertà gli attribuisce il nome di L. Manneius Quinti medicus, nel senso di
Quinti libertus; a ricordare il
medico è la compagna Maxsuma
Sadria. La particolarità è rappresentata dal fatto che si
tratta di un fusikòs oinodotes, di
un medico che curava le malattie semplicemente con il vino. L'iscrizione è in latino ma la professione di medico
enologo è in greco (CIL X 388
= ILS 7791). Plinio il vecchio
ricorda che la terapia che si realizza attraverso il vino era stata suggerita
da Asclepiade di Prusa, che l'aveva esercitata all'inizio del I secolo a.C. e
che era considerato come il fondatore di una nuova scuola, alla quale
apparteneva certamente il nostro medico alla fine dello stesso secolo (vedi
Plinio 7, 37, 124).
Irma
Bitto (Medici, malattie e cause di morte
nei CLE bcheleriani) ha recentemente studiato gli epitafi metrici dei Carmina Latina Epigraphica che,
affiancati alle testimonianze letterarie, forniscono uno strumento per
ricostruire un quadro coerente dello sviluppo della pratica medica in epoca
altoimperiale e cristiana. Alcuni Carmina
funerari risultano destinati esplicitamente ai medici, spesso ricordati con
espressioni elogiative, altri ai pazienti sottoposti, a volte con poco
successo, alle loro cure, i cui parenti, dedicatari degli epitafi, denunciano
casi di vera e propria malasanità. Per il periodo imperiale a cui si fa
riferimento, la condizione sociale dei medici era prevalentemente servile o
libertina (come si trae dall'onomastica grecanica e più in generale
orientale), e tali figure professionali spesso specializzate (ad es. ocularii, auricolarii, chirurghi) venivano impiegate come medici pubblici nei
vari corpi militari, anche presso la flotta, nelle comunità cittadine,
al sevizio della collettività delle scuole di gladiatori, delle fazioni
del circo, oltre che medici operanti a vario titolo presso le domus private, o presso i personaggi della
domus imperale. Il generale clima di
restaurazione postaugusteo, se si esclude la parentesi neroniana, credo abbia
innestato una polemica a livello politico ed intellettuale basata sull'esigenza
di trovare una sintesi autonoma, di tipo tradizionale, rispetto al modus operandi del medico legato al
contesto greco-orientale, di cui si sottolinea l'avidità ed ecco a
questo proposito la stigmatizzazione di Plinio sui Graeci medici e le disposizioni di Domiziano in calce all'editto di
Vespasiano, esposto a Pergamo, copia di quello pubblicato nel tempio di Giove
Capitolino, nelle quali si condanna l’avaritia
medicum et praeceptorum e si commina come pena la perdita dell’immunitas. Del resto occorre prendere
atto che l'apporto che definiamo riferibile alla grecità d'Occidente ha
avuto tali rilevanza e ruolo nel lungo percorso di formazione di una tradizione
più spiccatamente occidentale che non può essere negato, come ben
ha sottolineato Antonino Pinzone a proposito della Sicilia, terra di tradizioni
mediche antichissime, se è vero che uno dei primi indirizzi nella storia
dell'arte medica fu proprio quello siciliano, che ebbe il suo fondatore in Empedocle di Agrigento,
ricordato dalle fonti per il miracoloso risanamento igienico di Selinunte e
Agrigento, messo in atto grazie alle sue conoscenze scientifiche; e in Acrone
di Agrigento, Pausania di Gela e altri suoi continuatori (Malattia e rimedi nella Sicilia romana bizantina, tra certezze e
dilemmi).
L'apporto
della tradizione medica greco-orientale, incarnato nella prassi da medici
provenienti da aree geografiche di impronta culturale greca, ionica e
anatolica, viene ascritto in un certo senso da Margherita Cassia ad un
macrocosmo culturale caratterizzato da un respiro internazionale, rispetto al
quale in epoca tardo-antica, con l'affermarsi del cristianesimo si contrappone
l'universo chiuso delle circoscrizioni ecclesiastiche, il localistico
microcosmo delle anime purganti e dei poveri ammalati descritto negli
edificanti racconti gregoriani (Saggezza
straniera un medico orientale nell'Italia tardo-antica). Partendo dal caso
del medico Diodotus, originario di
Tyana in Cappadocia probabilmente uno iatraliptes,
attivo sul finire del III secolo d.C. nell'area delle Aquae Ceretanae e del suo alumnus
Charinus, noti da un'iscrizione rinvenuta nel
Del
resto dalla Sardegna viene un esempio della riqualificazione in epoca cristiana
di stazioni termali, legate al culto delle antiche divinità pagane,
quello delle Aquae Ypsitanae (Forum Traiani, odierna Fordongianus), votate
ad Esculapio e alle Ninfe salutari, sulla sponda sinistra del fiume Tirso, al
confine con la Barbaria sarda. Un
esempio emblematico del nuovo corso è offerto ancora una volta dal dio
Esculapio, ringraziato da un Lucio Cornelio Sylla, a scioglimento di un voto,
in un'iscrizione incisa su una piccola ara proveniente dalle antiche Aquae Ypsitanae (Fordongianus); da qui
deriva il falso recentemente segnalato dal Nucleo tutela del patrimonio
dell’Arma dei Carabinieri (ELSard.
B 130). Nella dedica, che risalirebbe all'età sillana, il dio guaritore
è ormai l'Aesculapius romano,
non più assimilato ad Asclepio e ad Eshmun Merre. Nella storia del
famoso complesso termale attivo già in età tardo repubblicana e
dell'edificio di culto ad esso annesso, nell'area delle sorgenti di Caddas,
sulla sponda sinistra del Tirso, può leggersi in filigrana il percorso
di una progressiva appropriazione politico-culturale che attraversa anche il
fenomeno religioso, esprimendosi pienamente nel corso dell'epoca imperiale:
oltre alla dedica di età sillana, Aesculapius
compare in associazione alle Nymphae Augustae in un'iscrizione di età
imperiale (ILSard. I 186, vd 187; CIL X 7859-7860). La devozione nei
confronti della divinità salutifera si radicò nella Sardegna
romana tra il I ed il II secolo d.C. e ne abbiamo due attestazioni epigrafiche
provenienti da Carales, la capitale della provincia, dove il culto di Esculapio
pare essere collegato a quello imperiale. Entrambi i personaggi menzionati
nelle due iscrizioni sono infatti sacerdoti di tale culto, l'uno con il ruolo
di magister Augustalium (Lucius Iulius Mario) (CIL X 7552),
l'altra come flaminica perpetua (CIL X 7604); vi è poi da
aggiungere che il dio nella dedica effettuata dal magister porta l'appellativo di Augusto (Aesculapius Augustus).
A
Fordongianus sono numerosi i casi di ex voto, uno dei quali ricorda il procurator metallorum et preaediorum
ammalato documentato a Forum Traiani nell’età di Caracalla e Geta
(AE 1998, 671). Su un modesto colle
trachitico, presso il suburbio meridionale, una struttura ipogeica, sottostante
la chiesa medioevale del XII secolo di San Lussorio di Fordongianus, stata
identificata come la depositio del
martire Luxurius: appare chiaro che
dovettero esservi flussi di pellegrinaggio verso la tomba del martire,
collegati probabilmente ad una eventuale sosta ristoratrice presso le antiche
sorgenti termominerali delle Aquae
Ypsitanae, dove era fiorito in età classica il santuario delle Ninfe
salutari e di Esculapio (ELSard. B
130).
La
prospettiva si modifica parzialmente proprio per la tarda antichità
cristiana; resta a far da sottofondo il motivo non banale della condanna della
venalità del medico e il disinteresse che egli deve mostrare nei
confronti del compenso straordinario, soprattutto quando la sua opera venga
prestata nei confronti di tenuiores e
al contempo si assiste alla nascita di un servizio sanitario pubblico per Roma,
istituito da Valentiniano I (a. 368) e alla creazione nella città del
primo ospedale, patrocinato da Fabiola, nobildonna convertitasi al
cristianesimo (a. 380). Come dire che almeno per Roma, pubblico e privato
creano una sinergia di elementi in grado di concorrere ad una modernizzazione
della struttura sanitaria e al diritto alla cura per i ceti economicamente
più deboli. Mela Albana fa rivivere questo processo di trasformazione:
Valentiniano I si conferma come l'imperatore dell'innovazione, articolando
l'organizzazione sanitaria di Roma attraverso l'assunzione di 14 archiatri, tante
quante erano le regiones urbane, che
si andarono ad aggiungere ai tre specialisti già preposti alla zona del Portus (per gli impiegati del porto),
allo stabilimento di Xystus (per gli
atleti) e alle Vestali, per un totale di 17 specialisti, la cui attività
doveva essere improntata a principi di soccorso in favore dei tenuiores, gli indigenti. La
costituzione (CTh, 13, 3, 8) con cui
si istituiva il nuovo servizio sanitario risulta chiarissima in questo senso: Archiatri honeste obsequi tenuioribus malint
quam turpiter servire divitibus. Viene richiamata la responsabilità
del medico che in quanto fruitore di compensi imperiali deve essere al servizio
della collettività e in particolare delle fasce meno agiate senza
pretendere da privati alcuna retribuzione. Scrive infatti l'autrice: La legge
di Valentiniano sembra espressione di una morale squisitamente laica fondata su
una solida base giuridica vale a dire sul principio che alla percezione di una
retribuzione deve corrispondere la prestazione di un servizio stabilito.
In
realtà a ben guardare, secondo Gaetano Arena (Il potere di guarire L'attività medica fra politica e cultura
nella Tarda Antichità), i precedenti del programma di Valentiniano I
sono da ricercarsi nell'azione politica, tenacemente perseguita da Giuliano.
Dobbiamo mettere a confronto la figura di due archiatri originari della
Pisidia, distanti cronologicamente e in parte culturalmente, L. Gellius Maximus, archiatra di
Caracalla e probabilmente insegnante o ricercatore presso il Museo di
Alessandria e C. Calpurnius Collega
Macedo, retore, filosofo, archiatra (fedele?) nella teoria e nella pratica
ai precetti di Ippocrate nell'età di Giuliano. I due archiatri vengono
presi quasi a simbolo di un cambiamento ideologico: Gellio Massimo, ancora
legato alla sola visione utilitaristica della professione medica, pare
considerarla come uno strumento di ascesa sociale per se per il proprio figlio,
si pone quasi come nume tutelare di un paziente privilegiato come l'imperatore
e dei suoi parenti stretti. D'altro canto Collega
Macedo, forte di una formazione che aveva privilegiato non soltanto il
sapere medico ma anche la retorica e la filosofia, probabilmente di
orientamento neoplatonico, sembra incarnare lo spirito della politica di
Giuliano: l'archiatra si pone come filantropo, privilegia l'aspetto umanitario,
dedicandosi indistintamente alla cura di quanti abbiano bisogno del suo sapere
e della sua tecnica. Del resto, Giuliano vuole individuare nella medicina una
terza via culturale, alternativa sia alla sofistica pagana, sia alla
santità cristiana : in lui la tradizione medica classica vista in
discontinuità col cristianesimo, diviene strumento culturale di uno
scontro di mentalità. Una proposta perdente che rivelerebbe la
fragilità del programma di Giuliano.
Anche
Teodorico ed Atalarico, re dei Goti tra la fine del V e la prima metà
del VI secolo, si impegnano a varare una riforma della politica sanitaria a
beneficio dei sudditi, conferendo visibilità e prestigio ai medici,
esaltando l’ars medica,
favorendo il risanamento ambientale attraverso bonifiche delle aree paludose e
valorizzando le terapie naturali (terme, passeggiate al sole, clima montano),
le erbe ed alcuni alimenti come il latte. Lucietta di Paola (Naturalis siquidem
cura est aegris dare laetitiam: medici
malattie, cure naturali e terapie mediche nella testimonianza di alcuni autori
tardo-antichi) analizza un gruppo di Variae
e delle Institutiones di
Cassiodoro, il testo epigrafico CIL X
6950, alcune lettere di Ennodio, indirizzate al medico Elpidio e alcuni passi
della sua Vita Epiphanii e
dell’Eucharisticum de vita sua,
l'epistolario di Avito per seguire il percorso teorico attraverso il quale tali
autori ridefiniscono la figura del medico in rapporto alla sua
professionalità e al suo ruolo nel sociale. L'intento è quello di
far emergere negli scritti di questi autori gli elementi, rimasti sino ad ora
in ombra, riferibili alla medicina del tempo e ai suoi operatori. Particolarmente
interessante si rivela la Varia cassiodorea
(6,19) relativa alla formula comitis
archiatrorum, che ben definisce il modello di medico che Cassiodoro ha in
mente: il medico deve essere tenuto ad un forte senso di responsabilità
nei confronti del paziente perché peccare
in hominis salutem rappresenta un crimen
homicidii. Secondo Marina Usala (Deontologia
medica in Cassiodoro) proprio nella formula
comitis archiatrorum sarebbero ravvisabili elementi di una medicina
pubblica reinterpretata in chiave cristiana; Cassiodoro avrebbe avviato un
processo di rimodulazione deontologica alla professione medica alla luce della
morale cristiana.
Gli oculisti
utilizzavano dei vasi per conservare i loro colliri, preparati secondo ricette
conosciute ampiamente nei trattati medici: ci restano i tappi con forma
prismatica in pietra, larghi qualche centimetro, che portano delle scritte su
uno o più lati, per ricordare il contenuto del vaso. Un primo inventario
in particolare dei signacula medicum
oculariorum è stato proposto dal Dessau in ILS 8734-872, con molti tipi di colliri, come quello mixtum adatto per ogni sorta di malattia
tranne le infiammazioni oculari, secondo la ricetta di Q. Albius Vitalio in Gallia, che riprende il collyrium che Celso chiamava memgménon;
oppure quello melinum acre ad pulver(em)
et caligine, analogo a quello fatto col miele e studiato da Galeno; o i remedia contra initia glaucomatum et suffusionum noti già a Plinio
il vecchio, realizzati con erbe (ILS
8734). Tre cachet di oculista trovati a Porolissum in Dacia AE 1982 837 ricordano tre differenti
colliri realizzati dal medico Publio Cornelio Colono: chelidonium opobalsam(atum), un balsamo realizzato con succo di
celidonia ad caligines, per
combattere la cecità, prodotto effettivamente usato secondo Plinio per
curare le infiammazioni agli occhi (anche a Vertillum
Lingonum, col citato medico Q. Albius
Vitalio, ILS 8734 e a Metz per Q. Valerius Sextus, ILS 8742); un
secondo collirio credo realizzato con l'aceto studiato per trattare la
secchezza della pupilla, dioxus ad
aspri(tudines) et genas callos(as) e un terzo collirio era un vero e
proprio balsamo che affrontava i primi sintomi di una cataratta, diaspor(sicum) opobalsam(atum) ad
clari(tatem), ove la claritas è
ovviamente la vista perfetta. Ad Apulum in Dacia il medico T. Attius Divixtus usava un prodotto specifico orientale contro le
infiammazioni agli occhi, diazmyrnes post
imp(etum) lip(pitudinis) e altri prodotti su ricetta asiatica o libanese (ILS 8736; prodotti analoghi venivano
offerti ai pazienti ad Este in Italia, ILS
8738).
In Britannia conosciamo i contenitori di Biggleswade (CIL XIII, 10021,186 = RIB-2-4, 2446,2), con i nomi dei medici
e dei rimedi (pomate, balsami, colliri, prodotti colorati), da loro studiati
per combattere reumatismi, l’oscuramento della vista, l’oftalmia
causata forse dal tracoma o da altre infiammazioni agli occhi (lippitudo) oppure in positivo per garantire
una vista più acuta o più genericamente per curare mali diversi e
sovrapposti: Il medico C(aius) Val(erius)
Amandum proponeva un dioxum ad
reumatic(a) oppure uno stactum ad
cal(iginem). Il suo collega C(aius)
Val(erius) Valentnus un diaglauc(ium) post imp(etum) lip(pitudinis)
oppure un mixtum ad cl(aritatem), un diox(um), stac(tum), diaglauc(ium),
mixt(um).
In Germania Superiore conosciamo una serie di documenti relativi
a preparati suggeriti dai medici per curare le più diverse malattie:
così nel municipio di Arae Flaviae il medico Honestus Latinus per guarire acidità, vecchie cicatrici,
tracoma e piaghe suppurate, partendo dall’insegnamento di Dioscoride (AE 1917/18, 86): dialepid(os) ad aspritudine(s), diamisus ad veter(es) cicatri(ces),
dial(i)banum ad impet(um) lippit(udinis), diagesam(ias) ad suppurat(iones) (per
le s(uppurationes) vd. anche l’amimetum prodotto da C. Titius Balbinus in Arvernia, ILS 8740; per le cicatrices e le aspritudines,
vd. anche l’euodes di L. Valerius Latinus in Britanna, ILS 874,dove si cita anche un apalocrocodes ad diatesi), a Seppois le
Haut da parte del medico di origine orientale Euelpistus (CAG-68, p 284
= EDCS-54600025), a Mogontiacum da
parte del medico Q. Carminius
Quintilianus: dialep(idos) crocodes
ad asprit(udinem), penicille ad omne(m) lipp(itudinem) ex ov(o) (CIL XIII 10021,32). A Epamanduodurum da
parte del medico C. Claudius Immunis
: diapsor(icum) opo(balsamatum) ad
claritat(es), penicil/le ad impet(um) lippit(udinis) ex ovo, coeno[n] ad aspr(itudines)
et claritates , diasmyrnes post imp(etum) lipp(itudinis) ex ovo (CIL XIII 10021, 44 = ILS 8737, vd. 8736) oppure da parte del
medico M. Urbicus Sanctus: amethyst(inum) delac(rimatorium)
del(enitorim?), melin(um) delacr(imatorium), per lippit(udo), aspritudo e
cic{h}atr(ices) (CIL XIII,
10021,202). A
Cesseys sur Tille per C. Claudius Prinus
e C. Iulius Libycus: terentianu(m) croc(odes) ad asprit(udines)
et cic(atrices); diasmyrnes post impet(um) lippitud(inis), turinum [ad]
suppurat(iones) oculor(um), diacholes ad suppur(ationes) et vete(res)
cicatr(ices) (CIL XIII 10021,50).
A Bavai tra i Nervi il medico L. Antonius Epitetus preparava un dialepidos ad diathehesis, un collirio
calmante, soprattutto un diamisyos ad
c(icatrices), un collirio adatto per Marcello empirico ad eliminare le
irritazioni oculari e a ridurre la lacrimazione (ILS 8735; analoghi prodotti in ILS
8739, Voucluse). Simili preparati sono quelli del medico M. Lupius Merca a Cenabum
in Lugdunensis (AE 2005, 1044), di L.
Pompeius Nigrinus ad Alluy (CIL
XIII 10021, 153): (h)arpas/ton ad
recent(em) lippitu/dine(m) od(i)ent(em) die(m) ex ovo; fo{o}s ad lipp(itudinem)
ex ovo. Per passare alla Belgica, si possono richiamare i prodotti di M. Claudius Martinus e M. Filonianus a Durocortorum (CIL XIII 10021, 46) e di Q. Iun(ius) Taurus a Nasium (CIL XIII 10021, 114): isochrys(um) ad scabrit(ias) et clar(itatem)
op(obalsamatum); diasmyrn(es) post impet(um) lippit(udinis). Ancora in
Belgica, vd. il medico C. Manucius Iunius
a Divodorum : diar(hodon) ad
l(ippitudinem), col(lyrium) ad clar(itatem) anodyn(um), on(guentum) aur(eum) ad
o(culos) (CIL XIII 10021, 132).
Tra i Remi, vd. M. Valerius Sedulus (CILXIII 10021, 190): penicille ad omne(m) lipp(itudinem) ex ovo,
diasmyrn(es) post imp(etum) lip(pitudinis) ex o(vo), euodes ad asprit(udines)
et cica(trices) vet(eres), diamisus croco(des) ad aspr(itudines) ve(teres). A
Rugles conosciamo un collyrium fos post
impet(um), un diapsoricum
delacrimator(ium), un Dicentetum post
impetum, un Dielaeum len(e) ad siccam
lipp(itudinem), con l’istruzione: redu<p>licare
ex sputo in ang(u)lo / f<o>ntan(a)e (CIL XIII 10021,211).Vd. anche CIL
XIII 10021,55 e 71 (località incerta). Insomma, i medici arrivavano
a praticare la professione dopo aver acquisito conoscenze e competenze che
erano simili in tutto l’impero romano.
Ciò
che colpisce è l'estrema attualità di alcuni temi legati
già in epoca antica e tardo-antica al dibattito sul valore etico che deve
improntare la ricerca e sul freno da porre ad una sperimentazione che
travalichi allora come oggi gli ideali di humanitas.
Gli attuali dibattiti sulla bioetica e anche le inquietanti notizie sui
traffici di organi e la sperimentazione criminale su minori in
difficoltà sembrano avere una singolare corrispondenza in alcune
pratiche di vivisezione, realizzate nell'Egitto tolemaico, con finalità
scientifiche, dai medici Erofilo, Erasistrato e Eudemo e nella dissezione dei
cadaveri di bambini esposti cui fa riferimento Galeno nei Procedimenti anatomici. Il profondo articolo di Gabriele Marasco su
Le conoscenze anatomiche nella ricerca e
nell'insegnamento sotto l'impero romano conduce nel cuore della
contrapposizione tra medicina dogmatica ed empirica, con la prima apertamente
schierata a favore dell'utilità della vivisezione dal momento che la
morte di pochi criminali avrebbe potuto salvare molti innocenti e la seconda
recisamente contraria in nome degli ideali di humanitas e che condannava la crudeltà del medico
inutilmente assassino, insistendo sul destino crudele delle povere vittime. Il
legame con l'attualità diventa ancor più perspicuo se si riflette
sulle radici della conoscenze scientifiche in campo medico-anatomico, laddove
Galeno afferma l'utilità del ricorso alla dissezione del corpo della
scimmia per via della sua somiglianza all'uomo: quasi si tratti di
un'intuizione antesignana dell'evoluzionismo; e per converso pare andarsi
affermando, già in antico, una qualche forma di sensibilità
sociale nei confronti della dissezione e vivisezione su animali che porta lo
stesso Galeno a richiedere l'assenso preventivo degli spettatori ad esperimenti
pubblici in tal senso. Un recente caso di cronaca, avvenuto a Pavia tre anni
fa, che forse alcuni di voi ricorderanno, dove una donna si sottopose a
fecondazione assistita dando alla luce due gemellini dal cui cordone ombelicale
furono tratte cellule staminali che dovevano servire a salvare la vita del
bimbo più grande, affetto da talassemia, richiama poi alcune suggestioni
di fondo presenti nel caso proposto da una declamazione latina dello Pseudo
Quinto, cui fa riferimento Marasco, nella quale si pone la fattispecie di due
gemellini ammalati, uno dei quali viene sacrificato dal medico, dietro il
consenso paterno, per poterne esaminare gli organi interni al fine di salvare
l'altro. La ricerca e la sperimentazione nel campo della medicina giustificano
da una parte l'utilizzo della tecnica al fine di creare artificialmente vite
che servano, almeno nelle intenzioni, allo scopo di salvarne altre e dall'altra
possono alleviare l'istintivo orrore di una vita soppressa in favore di
un'altra? Naturalmente non ho una risposta a questi quesiti.
Il
dato di fatto che emerge quello di un filo rosso che lega culturalmente il
passato e il presente delle società occidentali in rapporto alla
riflessione etica e bioetica in materia di ricerca, di sperimentazione, di
progressi, in taluni casi, più o meno avventuristici della medicina. Nel
tardo-antico dell'Occidente accanto al filone della medicina ufficiale, del
sapere medico che poggia le sue basi nell'elaborazione scientifica, etica,
filosofica della medicina di epoca classica nel solco del quale si inseriscono
i medici e gli archiatri formatisi presso scuole di medicina e su testi di solido
impianto scientifico, perdura quello della medicina popolare, dei remedia empirici, della magia e
dell'irrazionale.
Accanto
alla figura del malato si affianca in maniera imprescindibile, non solo quella
del medico, ma anche del mago e poi, in ambito cristiano, dell'esorcista e del
santo taumaturgo, scrive Sergio Giannobile (Malanni
fisici e malanni spirituali nelle iscrizioni magiche tardoantiche) che
porge alla nostra attenzione un quadro assai esaustivo di iscrizioni magiche su
supporti di vario tipo (laminette in oro, argento, bronzo, o metalli più
vili come il piombo, gemme, filatteri) per contrastare patologie come il mal di
testa, l'infiammazione della gola, le coliche, la podagra come pure per compiere
esorcismi in grado di scacciare le entità demoniache.
Del
resto lo stesso Liber de medicamentiis di
Marcello Empirico del principio del V secolo, come ben sottolinea Daniela Motta
(Ab agrestibus et plebeis remedia: terapie
mediche e riti magici in Marcello Empirico) si muove sul crinale tra
medicina ufficiale e medicina popolare: i fortuita
atque simplicia remedia ricavati ab
agrestibus et plebeis, i rimedi dei pauperes
e dei rustici hanno
validità dal punto di vista scientifico, secondo Empirico, in quanto
testati dalla sperimentazione.
Anche
il contributo di Lia Marino (Patologie
tra etica e politica in Ammiano Marcellino) credo che in parte restituisca
la sensazione di questa convivenza del piano del razionale e dell'irrazionale:
Ammiano scrive la Marino vuole riscattare il ruolo del medico sulla base di
suggestioni culturali di antica risalenza. L'autrice altresì sottolinea
con efficacia che nella deriva che logorava i puntelli ideologici su cui
poggiava l'impero, sembra far capolino un sottile gioco di sponda tra
l'esigenza di conferire dignità all'esercizio della medicina e
l'affidamento a pratiche popolari e all’illicita divinatio seguita anche da alcuni imperatori, come
Giuliano esperto di vaticini.
Adda
Gunnella (La mort au quotidien dans le
monde romain, a cura di F. Hinard) ha studiato le iscrizioni che illustrano
le cause dei decessi, distinguendo le morti accidentali (annegamenti, cadute,
incidenti di lavoro ecc.) e morti avvenute per mano altrui come omicidi o
uccisioni di civili in rapporto a disordini, guerre, assalti di ladroni; a
questa seconda categoria, che definiremo di “male morti”, di morti
brutali, appartenevano anche le morti attribuite ad avvelenamenti o più
in generale a sortilegi e opere di magia e addirittura le morti avvenute
durante i parti, che in qualche modo minacciavano la continuità di una
famiglia o di un gruppo sociale.
Tra
le morti più drammatiche, non solo per la sorte delle vittime, ma anche per
l'impatto sui vivi, vi sono quelle attribuite ai sortilegi, alla magia e al
veleno, che richiedevano competenze ben documentate in età imperiale in
Sardegna: un veneficium vero o
presunto era punito già in età repubblicana dalla lex Cornelia de sicariis et veneficiis,
che colpiva la fabbricazione, la somministrazione e la vendita di sostanze
venefiche.
In
questo quadro molte iscrizioni contengono accuse contro i medici, del resto
già formulate nelle opere di Plauto, Petronio o Marziale.
L'infausto
risultato di terapie, ritenute fatali per la sorte del paziente, viene
menzionato in numerosi epitafi nei quali, accanto alle consuete parole di
cordoglio dei familiari, vengono formulate gravi accuse nei confronti dei
medici, indicati apertamente come responsabili del decesso dell'amato.
Così
un liberto imperiale P. Aelius Peculiaris
non esita a denunciare le colpe dei medici per la scomparsa improvvisa
– mors subita – a poco
più di 27 anni, dell'amato alumnus
Euhelpistus, quem medici secarunt et occiderunti (CIL VI 373367 = ILS
9441).
In un
carmen urbano il defunto vuole far
conoscere al passante l'infausto esito di un intervento chirurgico, che gli ha
causato la morte (CIL VI 30112): semanimis iacui, medici male membra secarunt
corpori.
Ucciso
da un medico, precisus a medico, tmethìs upò iatrou
è il bimbo cristiano ricordato in un testo bilingue da Nicomedia fatto
incidere dal padre afflitto (CIL III
14188).
Per culpa curantium è deceduta a soli
28 anni l'amata moglie, mentre il marito era assente dalla Pannonia (CIL III 3355).
Ephesia Rufria è ricordata dal
marito a Roma per esser deceduta a causa dell'ignoranza dei medici:
“morì per una febbre maligna che le provocarono i medici e
oltrepassò le loro previsioni”, se anche non si trattò di
un fatto criminale, perché la febbre non fu curata forse dolosamente: qu[ae mala periit febri], quam medici
praeter e[xpectatum adduxerant] (CIL
VI 25580).
L'ignoranza
dei medici è evidente a tutti anche perché sono i primi che non
riescono a porre rimedio alle loro stesse malattie: così Alexander morto per una ferita al
ginocchio, volnus genoris (CIL VI 9604), o come l'africano Marcellus bruciato dalla febbre, valida febre crematus (CIL VIII 11347). Oppure C. Plinius Valerianus medicus, morto a
22 anni, ricordato dai genitori a Como (ILS
7787).
Del
resto i medici sono in grado di blandire, di consolare, non di curare davvero:
offrono solamen e animi consolatio, non medicine efficaci:
Medici illum perdiderunt, immo magis
malus fatus; medicus enim nihil aliud est quam animi consolatio, secondo
Petronio 42.
Il
giudizio negativo sulla professione medica è esteso, ma non
generalizzato. Eutyches, un auriga di
Tarragona in Spagna riflette serenamente sulla propria sorte, sentendo arrivare
la morte a 22 anni di età: le sue viscere sono state bruciate da un
morbo nascosto, contro il quale nulla hanno potuto i medici di buona
volontà: ussere artentes intus mea
viscera morbi, vincere quos medicae non potuere manus (CIL II 4314).
Il
parto era un momento molto pericoloso per le donne nell'antichità e per
i loro figli, perché avveniva spesso in condizioni igieniche precarie e
senza l'adeguata assistenza ad esempio per nascite premature, parti podalici,
setticemie puerperali. Un'epigrafe di età imperiale rinvenuta in Croazia
CIL III 2267 ricorda così il
dramma vissuto da una giovane schiava dalmata, Candida morta a 30 anni:
<<Ella soffrì crudelmente per quattro giorni nel tentativo di
partorire, ma non partorì e così lasciò la vita. Quae est cruciata ut pariret diebus IIII et
non peperit et ista vita functa. La ricorda Giusto, il suo compagno di vita
e schiavo assieme a lei>>.
Plinio
il giovane ci riferisce delle due sorelle Helvidiae,
appartenenti a una gens senatoria,
morte entrambe di parto alla fine del I secolo d.C. Dopo aver messo al mondo
una bambina viva e sana ciascuna. Tutto questo era conseguenza del fatto che se
i medici avevano a disposizione ben pochi mezzi e medicinali inefficaci, per
cui potevano tutt'al più alleviare il dolore ma non estirpare il male,
ancor meno potevano farlo le pure numerose ostetriche o mammane alle quali le
donne romane ricorrevano anche per gli aborti procurati, altra frequentissima
causa di morte.
Su un
sarcofago ritrovato a Pompei è scolpita una donna che posa una benda su
uno scheletro appoggiato a terra: secondo Laura Montanini la benda o la corona
mortuaria erano un omaggio al defunto che, in quanto tale, aveva partecipato e
vinto l'agone della vita e insieme un invito a prender parte al banchetto
funebre che si svolgeva presso la tomba: la Nike alata simbolo della vittoria
si ritrova spesso rappresentata su stele o tumuli in n atto di offrire queste
insegne a uomini o donne.
Credo
ci si possa limitare a questa esemplificazione: ho fornito solo pochi esempi di
un repertorio quanto mai vasto e articolato. Il mondo antico ci parla ancora
oggi e noi ci proponiamo di rileggere le parole incise sulle pietre con
l'obiettivo di ritrovare una storia che ancora ci appartiene nel profondo.