Un editto di Teodosio II
nei Codici e negli Acta conciliorum
(a. 436)
Università di Napoli
“Parthenope”
Abstract
The comparison of the text of an edict of Theodosius
II kept intact in the Acta Conciliorum
Oecumenicorum (in Greek) and abbreviated in CTh. 16.5.66 (in Latin) allows
us to appreciate the technical capabilities of the imperial chancery and the
new legislative policy choices on faith (the edict was translated into Italian
in both versions).
Tra i materiali normativi
ufficialmente raccolti nel V secolo, il testo in CTh. 16.5.66 (poi in CI.
1.5.6) è quello estremo, in ordine cronologico, tra i provvedimenti d'argomento
religioso emanati dallo stesso codificatore. Si tratta di una constitutio del 436, datata nel Codice
all'anno prima, che negli Atti del concilio di Efeso dell'a. 431 si è
conservata integra sia in greco sia in latino e poi, da là, è stata resa in
francese dal domenicano André-Jean Festugière e in castigliano, sia pure per la
sola parte del dispositivo, dallo 'specialista' Ramón Teja; invece,
nell'abbreviata latina versio del
Teodosiano essa ha trovato, in anni non lontani, un secondo traduttore francese
nel compianto Jean Rougé[1].
Di tale legge ho già avuto modo di occuparmi, con
altri due documenti di Teodosio (degli anni 448 e 449), quali archetipi
procedurali dell'intera legislazione de
fide dell'epoca protobizantina[2]. Ciononostante, vale
senz'altro la pena di tornarvi nuovamente focalizzando l'attenzione solo sullo
specifico testo: guardare, cioè, non tanto alle disposizioni autoritative come
fatto in passato, ma fruttuosamente confrontare il dettato codificatorio con
quello originale più esteso e, giusto per questo, maggiormente significativo[3].
ACO 1.3.1.181.6-182.4: RESCRIPTUM LEGIS SACRAE CONTRA NESTORIUM IMPERATORES
CAESARES THEODOSIUS ET UALENTINIANUS UICTORES TRIUMPHATORES MAXIMI SEMPER
UENERABILES AUGUSTI
Debita a nobis piissimae religioni
cultura eos qui circa diuinitatem impie agunt, poenis puniri dignis et
nominibus eorum prauitati conuenientibus eos appellari uult, ut
exprobrationibus subditi aeternam contumeliam delictorum sustineat et neque
uiuentes extra supplicium neque morientes sine contumelia esse noscantur. Nestorio igitur monstruosae doctrinae
principe condemnato, superest unianimes eius et impietatis socios nomini
subicere uituperando, ne Chiristianorum utentes uocabulo eorum nomine
decorentur a quorum dogmate agentes impie recesserunt. propter haec sancimus ubique Nestorii
nefandae sectae communicatores Simonianos nominari (oportet enim eos qui in
diuinitatis auersione illorum imitantur impietatem, appellationem illi sortiri
consimilem, quemammodum Arriani lege diuinae memoriae Constantini Porphyriani
propter similitudinem impietatis Poephyrii nominantur, qui ueram religionem
temptans uerbi uirtute comprimere libros sibimet sceleratos, non eruditionis
commenta dereliquit) et ut nullus praesumat eiusdem Nestorii nefandi atque
sacrilegi impios libros de uenerabili orthodoxorum religione et contra dogmata episcoporum
Epheseni sancti concilii retinere aut legere aut transcribere, quos oportet
omni studio requisitos publice concremari (hoc enim modo omni impietate
radicitus amputata simplex et quae potest seduci facile multitudo nullum
erroris semen aliquando poterit inuenire) et neque memoriam ita perditorum
hominum in aliquo religionis colloquio aliter quam Simonis nomine nuncupari
neque domum eis aut agrum aut suburbanum aut quemlibet alium locum synodi causa
latenter aut aperte praeberi. tales
enim decernimus omni licentia synodi esse priuatos, cum omnibus palam sit quia
qui transgreditur hanc legem et Nestorium imitatur, rerum suarum confiscatione
multabitur.
Sublimis igitur et clarissima tua
potestas hanc constitutionem nostram ad notitiam uniuersorum prouincias
habitantium praeceptis sollemnibus peruenire procuret. hanc autem legem in Latina et
Graeca lingua posuimus, ut omnibus aperta sit atque nota[4].
(«La
venerazione che dobbiamo alla devotissima religione richiede che coloro che si
comportano empiamente verso la Divinità siano puniti con pene adeguate e siano
chiamati coi nomi che convengono alla loro perversità, in modo tale che,
oppressi dai biasimi, sopportino per sempre l'oltraggio dei loro delitti e non
siano al riparo né, viventi, dal castigo né, morti, dal disonore. Dunque,
poiché Nestorio, promotore del mostruoso insegnamento, è stato condannato,
resta da colpire con un nome biasimato coloro che condividono i suoi sentimenti
e sono associati alla sua empietà, in modo che, non abusando della denominazione
di Cristiani, non si adornino del nome di quelli dalla cui dottrina si sono
empiamente allontanati. Per questa
ragione stabiliamo che i membri dell'esecrabile setta di Nestorio, dovunque,
siano chiamati Simoniani (è opportuno, infatti, che coloro che nella loro
infedeltà alla Divinità imitano l'empietà di quelli [i Simoniani] siano
chiamati con un nome consimile, allo stesso modo in cui gli Ariani, grazie a
una legge di Costantino di divina memoria, sono chiamati Porfiriani per la
somiglianza della loro empietà con quella di Porfirio, che, avendo tentato di combattere la
vera religione col vigore dei discorsi, ha lasciato per sé dei libri scellerati
non memoriali di erudizione) e [stabiliamo] che nessuno osi possedere, leggere
o copiare gli empi libri del medesimo esecrabile e sacrilego Nestorio
riguardanti la venerabile religione ortodossa e contro i dogmi del santo
concilio Efesino dei vescovi, [e stabiliamo che] sia opportuno cercare questi
libri con ogni sollecitudine e bruciarli pubblicamente (in questo modo, invero,
tagliata alla radice ogni empietà, la folla ingenua e facilmente sviabile non
potrà infine trovare alcun fomite di errore), e ancora [stabiliamo che] in
tutti i discorsi religiosi non si faccia ricordo di questi uomini così corrotti
altro che col nome di Simone, e che non gli sia fornito per riunirsi,
segretamente o apertamente, né casa né terreno né podere suburbano né qualsiasi altro luogo.
Stabiliamo che tali soggetti siano privati d'ogni facoltà di riunirsi,
[e] sia notorio a tutti che colui che trasgredisce questa legge e che imita
Nestorio sarà multato con la confisca dei suoi beni.
La tua altissima e chiarissima autorità, dunque,
provvederà a che la nostra costituzione giunga a conoscenza di tutti gli
abitanti delle province grazie a [tuoi] ordini solenni. Abbiamo predisposto questa legge in latino e
in greco affinché sia accessibile e conosciuta da tutti»).
CTh. 16.5.66: [impp. theod(osius) et val(entini)anus] aa. leontio
p(raefecto) u(rbi). Damnato
portentuosae superstitionis auctore Nestorio nota congrui nominis eius inuratur
gregalibus, ne Christianorum appellatione abutantur: sed quemadmodum Arriani
lege divae memoriae Constantini ob similitudinem inpietatis Porfyriani a
Porfyrio nuncupantur, sic ubique participes nefariae sectae Nestorii Simoniani
vocentur, ut, cuius scelus sunt in deserendo deo imitati, eius vocabulum iure
videantur esse sortiti. Nec vero impios
libros nefandi et sacrilegi Nestorii adversus venerabilem orthodoxorum sectam
decretaque sanctissimi coetus antistitum Ephesi habiti scribtos habere aut
legere aut describere quisquam audeat: quos diligenti studio requiri ac publice
conburi decernimus. Ita ut nemo in
religionis disputatione alio quam supra dicto nomine faciat mentionem aut
quibusdam eorum habendi concilii gratia in aedibus aut villa aut suburbano suo
aut alio quolibet loco conventiculum clam aut aperte praebeat, quos omni
conventus celebrandi licentia privari statuimus, scientibus universis
violatorem huius legis publicatione bonorum esse coercendum. dat.
iii non. aug. constant(ino)poli d. n. theod(osio) a. xv et qui fuerit nuntiatus
conss.[5].
(«Una
volta condannato Nestorio, autore di una mostruosa eresia, colpisca i suoi
seguaci l'infamia del nome che essi meritano, cosicché non abusino della
definizione di Cristiani. Ma, così come per un'empietà dello stesso tipo gli
Ariani hanno ricevuto da una legge di Costantino di memoria divina il nome di
Porfiriani da Porfirio, ugualmente tutti i membri dell'empia setta di Nestorio
siano chiamati Simoniani perché, avendo imitato il crimine di Simone
abbandonando Dio, sembrano legittimamente ricevere tale denominazione. Inoltre
gli empi libri dell'esecrabile e sacrilego Nestorio contro la venerabile
dottrina degli ortodossi, e gli scritti contro i decreti della santissima
assemblea dei vescovi tenutasi a Efeso, nessuno ardisca possedere, leggere o
ricopiare: ordiniamo che, ricercati con accurato impegno, vengano bruciati
pubblicamente. In modo tale che nessuno faccia menzione di loro in una
discussione religiosa con un nome diverso da quello detto sopra, oppure renda
disponibile a qualcuno fra essi per tenere un'assemblea, di nascosto o
apertamente, un luogo di riunione in abitazioni o in una tenuta o in un podere
periferico o in qualsiasi altro posto. Stabiliamo che costoro siano privati
d'ogni libertà di tenere adunanza e che tutti sappiano che il violatore di
questa legge sarà punito con la confisca del patrimonio»).
La costituzione – una lex generalis, a dispetto
dell'intitolazione data negli ACO – in qualche maniera aveva l'intenzione di
chiudere, nella prospettiva strettamente operativa del potere civile,
l'esperienza del concilio efesino[6]: questo il senso sicuro
dell'accoglimento dei decreta dei
Padri, dell'affermazione della radicale condanna di Nestorio coi suoi figli
nella fede e con i suoi 'frutti' letterarii, dell'elenco di conseguenze sul
piano ordinamentale delle eventuali violazioni della legge stessa.
Anche se poi, come sappiamo, gli
Atti del concilio avrebbero trovato una sorta di definitiva conferma formale
più tardi, grazie a un provvedimento imperatorio del 448 [7], era appunto con questo
documento che la cancelleria aveva pensato di creare le condizioni di diritto
per eliminare ogni possibilità di espansione della nuova eterodossia. E
l'intervento appariva tanto più opportuno per la necessità di offrire alle
propaggini periferiche di governo un orientamento normativo chiaro onde poter
difendere, con strumenti giuridici concreti, il fragile accordo
teologico-ecclesiale raggiunto fra alessandrini e antiocheni nel 433, a valle
dei lavori del concilio, sulla base della cosiddetta Formula di unione[8].
Quello che dell'editto in
questione colpisce il giusromanista non è solo ciò che altrove ho già
compiutamente osservato, ovvero l'avvio di un modo nuovo, e da allora in avanti
assolutamente paradigmatico, di legiferare de
fide: in pratica, la scelta del concilio ecumenico della catholica ecclesia, invece dei singoli
vescovi per quanto autorevoli, quale unico ortodosso ancoraggio normativo[9]. Della legge, invero,
nell'esteso principium presente nella
versione non codificata, appare perspicua l'abilità cancelleresca di annodare
le disposizioni teodosiane date contro i nuovi eretici, e quindi la capacità di
ancorarle storicamente, autorevolmente, alla consolidata normazione
costantiniana emanata un secolo prima contro gli ariani/porfiriani[10].
Nel Codice del 438, invece,
sarebbe rimasto ben poco dell'elaborata e ragionata premessa politico-religiosa
posta originariamente innanzi allo stretto dispositivo; una grossa parte del
testo, cioè, sarebbe scomparsa lasciando spazio solo a precetti e sanzioni. I
codificatori, in buona sostanza, avrebbero utilmente mantenuto soltanto il
rapido richiamo alla legge antieterodossa di Costantino, obliterando pressoché
quasi del tutto, per brevitas, quel segmento che nelle intenzioni
teodosiane aveva voluto rappresentare la dichiarazione forte della specifica ratio normativa: l'affermazione
politica, cioè, dell'opportuna venerazione di Dio da parte del principe
religiosissimo e, di conseguenza, la pubblica conferma della convinzione di
rispettare il giusto adempimento del proprio dovere nel comminare agli eretici
sia un'opportuna formale infamia, sia una legittima e grave punizione[11].
Ancor più risalta, però, agli
occhi di chi professionalmente convive con i materiali legislativi
tardoantichi, quanto il dettato originale dell'editto esibiva in conclusione;
ivi era una breve proposizione con un paio di pragmatiche indicazioni, di
regola assenti nella succinta normazione codificata, funzionalmente utili alla
conoscenza universale delle nuove decisioni imperatorie antieterodosse:
ACO 1.1.3.68.27-31: ...ἡ μεγίστη τοίνυν καὶ περιφανής σου ἐξουσία ταύτην ἡμῶν τὴν διάταξιν εἰς γνῶσιν ἁπάντων τῶς τὰς ἐπαρχίας οἰκούντων
διατάγμασι
συνήτως ἐλθεῖν παρασκευάσει. τὸν νόμον δὲ
τοῦτον τῆι τε Ῥωμαίων τῆι τε Ἑλλήνων τεθείκαμεν γλώττηι, ὡς πᾶσιν σαφῆ καὶ γνώριμον εἶναι.
La legge, "posita sia in greco sia in latino perché
fosse nota e comprensibile a tutti", avrebbe dovuto trovare una capillare
diffusione grazie ai conseguenti e "adeguati" editti esplicativi di
quel praefectus Urbi ora immediato
destinatario di essa. A costui, agevolato nel suo lavoro dall'aver ricevuto una
stesura bilingue del testo, veniva dato l'ordine di rendere esecutiva la constitutio attraverso suoi autorevoli
interventi: gli si dava l'essenziale incarico di garantirne l'effettiva
conoscenza da parte dei sudditi non soltanto a Costantinopoli e nel relativo hinterland, ambito di naturale
competenza dello specifico funzionario, ma pure in tutte le altre province,
quelle lontane dalla capitale e magari già coinvolte dall'eresia[12].
Peraltro, e sempre nella
prospettiva di stretto interesse giuridico, sul dettato dell'editto pare
opportuno aggiungere ancora qualche altra notazione, e stavolta con preciso
riguardo al dispositivo prescrittivo e sanzionatorio seppure, come già prima,
sempre in relazione alle parole, usualmente ignote ai giusromanisti, preservate
nella sola stesura degli ACO.
È senz'altro vero, com'è
agevolmente verificabile leggendo anche solo qualcuno tra i numerosi testi del
titolo teodosiano De haereticis, che
il nostro documento vietava comportamenti più o meno simili a quelli già
interdetti, nell'arco lungo di un secolo, con le constitutiones dei precedenti legislatori[13]. Anche se in maniera
assai più sintetica rispetto al passato, con previsioni repressive meno
analitiche o minuziose di quelle registrate in molte delle leggi già esistenti[14], si tornava infatti a
prevenire una volta di più la discussione de
fide sia pubblica sia privata, inibendo a coloro che al legislatore non
apparivano neanche degni del nome di cristiani di riunirsi liberamente e in
qualsiasi luogo: coloro che avevano scelto "per empietà di separarsi dalla
vera dottrina ...avrebbero solo abusato nel definirsi cristiani", perciò
essi non avevano alcun diritto di fare gruppo o di frequentarsi, tanto meno di
riconoscersi in un corpo di testi scritti.
Al fondo, e cioè come fulcro
dell'intera costituzione, benché su una linea legislativa assolutamente
convenzionale nelle indicazioni precettive, rimaneva tuttavia la necessità –
questa davvero nuova nella pratica di governo tardoantica – di stroncare la
dissidenza nestoriana nei confronti dei "dogmi" del recente concilio
(...κατὰ τῶν δογμάτων τῆς Ἐφέσωι τῶν ἐπισκόπων...[15]): le
decisioni del consesso efesino, ufficialmente proclamate dal legislatore
coincidenti coi contenuti "della vera
religio degli ortodossi", non potevano affatto essere discusse
(contestate) né pubblicamente, né privatamente, né per iscritto.
Ebbene, a me, che con tutti
gli altri ovviamente traduco il describere presente nel testo teodosiano immaginando
un'occulta operazione di copiatura delle pagine dell'eresiarca[16], e dunque penso
all'ipotizzato rischio del diffondersi dell'eterodossia e, con esso, al
pericolo collegato alla forte contestazione anticonciliare, viene senz'altro di
riflettere sulla connessa ragionevole motivazione politica del legislatore,
contestualmente palesata a chiare lettere (ma poi non appresa dai Codici) e,
com'è probabile, tacitamente offerta come riflessione al burocratico
destinatario della legge: con la prevista intensa operazione di ricerca ed
eliminazione degli scritti vietati, "qualsiasi empietà sarebbe stata
estirpata alla radice, e l'ingenua multitudo,
troppo facilmente ingannabile, non avrebbe più potuto incorrere in alcun genere
di errore":
ACO
1.1.3.68.21 ss.: ...τούτωι γὰρ τῶι τρόπωι πάσης ἀσεβείας ῥιζόθεν ἐκκοπείσης τὸ ἁπλοῦν καὶ εὐαπάτητον πλῆθος
οὐδὲν πλάνης στέρμα εὑρεῖν ποτε δυνήσεται.
Sembra quasi di leggere – e
in tal senso questa constitutio corrobora
quella esemplarità normativa che altrove ho già descritto – una riflessione
pórta al suo prefetto del pretorio dal successore di Teodosio II poco più di
quindici anni dopo: anche stavolta si sarebbe trattato di prevenire gli errori
religiosi del popolo, pure in questa circostanza essi avrebbero potuto trovare
origine nei cattivi maestri, ancora una volta si sarebbe trattato di evitare,
col divieto di riunione e con l'ordine di distruzione di qualsiasi opera
eterodossa, la contestazione anticonciliare. È del 452, invero, un editto di
Marciano, pur esso integralmente presente solo negli ACO, volto a fermare il
diffondersi dell'eresia eutichiana (monofisita). Al termine del lungo
documento, dopo aver interdetto con la minaccia di pene gravissime ogni tipo di
incontro utile a dibattere de fide e
aver ordinato la combustione degli scripta
redatti contro il Credo calcedonese, il legislatore avrebbe appunto
brevemente 'confidato' al praefectus
praetorio Palladio le ragioni conclusive del proprio procedere normativo:
eliminando assemblee e scritti eterodossi, si sarebbero eliminati
definitivamente "sia il maestro dei peccati sia l’allievo"; si
sarebbe sottratto, cioè, all'insieme del popolo dei sudditi-fedeli "la
materia stessa dell’errore" (...ita
enim materia subtrahetur erroris, si peccatorum et doctor defuerit et auditor)[17].
E allora, piuttosto che
sostenere per questo provvedimento quasi la sola natura di complemento
dell'intera normazione ordinata nel titolo teodosiano De haereticis, una sorta di 'aggiornamento' contro l'ultimo
pericolo eterodosso, un intervento utilitaristicamente allineato «alla nuova
situazione maturata dopo il concilio di Efeso»[18], andrebbe valutata anche
la sua proiezione politica in avanti. Volendo leggere l'editto in maniera
equilibrata, e in specie la più completa ed evidente versione che è negli Atti conciliari,
non si può non apprezzare, da un lato, la coerenza di governo della cancelleria nello scegliere un insieme
perfettamente tradizionale di precetti e di sanzioni (in qualche misura
finanche mitigato rispetto a talune gravissime previsioni più antiche[19]), ma osservare, nello
stesso tempo, una sorta di atteggiamento politico-normativo parzialmente nuovo[20]: una tensione legislativa
'ulteriore' e manifesta sia grazie al ruolo testualmente centrale ora svolto
dal concilio e dai suoi deliberati, sia grazie alla conseguente e non celata
pacatezza delle ragioni poste dal principe alla base del proprio muoversi
autoritativo in tema di religione.
[1] Cfr. ACO, ed.
Schwartz, 1.1.3.68 (n. 111) in greco (l'editore colloca giustamente la legge al
436); 1.3.1.181 ss. (n.
68) in latino. Vedi A.-J. Festugière,
Ephèse et Chalcédoine. Actes des conciles,
Paris 1982, 416 ss.; R. Teja, La “tragedia” de Efeso (431): herejía y
poder en la antigüedad tardía, Santander 1995, 132 s. (ma vedi pure Id., La
invención de un hereje. Presión politica y violencia verbal contra Nestorio en
el Concilio Ecuménico de Éfeso, in F.A. Cuervo-Arango
[cur.], Religión, religiones, identidad,
identidades, minorías. Actas V
Simposio SECR Valencia 2002, Madrid 2003, 25 ss.); Les lois religieuses des empereurs romains de Constantin à Théodose II
(312-438), I. Code Théodosien XVI,
Texte latin Th. Mommsen-tr. J. Rougé-intr. et notes R. Delmaire avec F. Richard
et alii, Paris 2005, 336 ss. Sul sinodo del 431 la letteratura è largamente
nota oltre che agevolmente rintracciabile; l'apparatus, dunque, viene
qui ridotto all'essenziale: recenziore vedi Th.
Graumann, Theodosius
II and the politics of the first Council of Ephesus, in Ch. Kelly [cur.], Theodosius II.
Rethinking the Roman Empire in Late Antiquity, Cambridge 2013, 109 ss.
[2] Vedi E. Dovere, Legislazione e sinodo ecumenico a metà del V secolo, ora in Id., Medicina legum, III. Credo di Calcedonia e
legislazione d'urgenza, Bari 2013, n. 5.
[3] Negli ACO vi è pure la
pragmatica comminante la deportatio di Nestorio condannato a
Efeso, e il lungo editto prefettizio predisposto contro i Nestoriani: cfr.
rispett. 1.1.3.67 (n. 110) e 69 (n. 112) in greco; in latino 1.3.1.180 ss. (n.
67) e 182 ss.
[6] Fra i giusromanisti
vedi L. De Giovanni, Chiesa e stato nel Codice Teodosiano,
Napoli 1997 (rist. 4a ed.), 24 e 151 ss.
[7] Si tratta di CI.
1.1.3; vedi il mio Normazione teodosiana
«de fide» cit., con bibl. (ivi spec. G.
Barone Adesi, Intorno ad una
costituzione di Teodosio II, in Riv.
it. scienze giur. 18 [1974] 45 ss.).
[8] Ha riassunto bene il
contesto, salvo un fraintendimento onomastico, S.
Acerbi, Conflitti
politico-ecclesiastici in Oriente nella tarda antichità: il II Concilio di
Efeso (449), Madrid 2001, 60 ss. con bibl. (tra cui è assente, però, A.
de Halleux, L’accord
christologique de 433 entre Alexandrie et Antioche: un modèle de réconciliation
ecclésiale?, in G.R. Evans-M.
Gourgues [curr.], Communion et
réunion. Mélanges Tillard, Leuven 1995, 293 ss.). La Formula si può leggere
in M. Simonetti (cur.), Il Cristo, IV. Testi teologici e spirituali in lingua
greca dal IV al VII secolo, Milano 1986, 386; si veda comunque
l'analisi storico-teologica di A. Grillmeier,
Gesù il Cristo nella fede della chiesa,
I.II. Dall'età apostolica al concilio di
Calcedonia (451), tr. E. Norelli-S. Olivieri, Brescia 1982, 876 ss. e 897
ss.
[9] Vedi E. Dovere, Ius principale e catholica lex (secolo V), Napoli 19992, 236 ss.; adde S. Acerbi,
Eterodossia e coercitio imperiale nei Concili Ecumenici del V
secolo, in Gerión 24 (2006) 355
ss.
[10] Per questa, tra le
fonti, cfr. Socr. Hist. eccl., ed.
Hansen, 1.9.30 s.; vedi D.G. Hänel
(cur.), Corpus legum ab imperatoribus
Romanis ante Iustinianum latarum, Aalen 19652, 200; adde le indicazioni ora in Delmaire,
Les lois religieuses cit., 338 nota
1.
[13] Giusto in via
esemplificativa cfr., di Arcadio, CTh. 16.5.34.1 per l'obbligo della
soppressione degli scritti degli eretici, e CTh. 16.5.36.1 per il divieto
assoluto di riunione.
[14] Si pensi, per es.,
alla minuta differenziazione delle pene previste per domini, procuratori, amministratori o conduttori di luoghi privati
adibiti a sedi, anche occasionali, di riunioni eterodosse: cfr. CTh. 16.5.21;
34; 36; 40.
[16] Mi sarebbe piaciuto,
perché più efficace sul piano del divieto giuridicamente operativo, che con
l'interdire il 'describere' la
cancelleria avesse inteso vietare non tanto l'attività di trascrizione delle
opere di Nestorio quanto, piuttosto, l'ipotesi dell'impegno nel 'distribuire'
gli scritti vietati fra i membri della secta,
un segreto 'spartirsi' fra sodali gli scritti dell'eresiarca: un impiego di describo giuridicamente presente, del
resto, nella storiografia e nella trattatistica latina classica (Cicerone,
Livio, Tacito, ecc.), in specie in relazione a temi di ius publicum. Naturalmente, invece, a conferma della scelta dei
moderni traduttori, il describere presente
nei testi codificati della legge è reso all'interno del più esteso originale
accolto dagli ACO con l'incontrovertibile
μεταγράφω e transcribo: cfr. 1.1.3.68.20 (in latino 1.3.1.181.23); adde J.D. Mansi, Sacrorum
Conciliorum nova et amplissima collectio, 5, Florentiae 1762, coll.
413-414C-D.
[17] Cfr. ACO 2.1.3 n. 25
(122-124 [481-483]); 2.3.2 n. 108 (90-93 [349-352]); vd., con versio del testo greco, E. Dovere, Dissenso eutichiano e leggi repressive: aa. 452 e 455, ora in Id., Medicina legum III cit., n. 7,
spec. 239 ss.
[19] Basti guardare, per
es., all'estrema gravità della pena prevista per taluni eretici dal primo
Teodosio: cfr. CTh. 16.5.7.3.
[20] In argomento ha senso
ricordare come spesso si menzionino (l'ho fatto io così come è stato fatto da
altri: Dovere, Ius principale cit., 211 ss.; De Giovanni, Chiesa e stato cit., 22 ss.) le parole di Teodosio, proclamanti la
stretta connessione tra vera religio e
affari di stato, indirizzate ai vescovi per convocarli a Efeso per il 431 (cfr.
ACO 1.1.1.114-115); normalmente, invece, si trascura di rammentare il più
stringato pensiero, ma a quello perfettamente omogeneo, concentrato nel pragmaticum indirizzato al prefetto del
pretorio con cui l'imperatore avrebbe esiliato Nestorio nel 436, e che si
sarebbe chiuso con l'affermazione forte che, grazie all'esilio dell'eresiarca
lontano dalla capitale, "il rispetto della santissima fede avrebbe
dimorato senza danno nelle anime degli uomini e, appunto fondata sulla
religione, la felicità del ... regno sarebbe fiorita": cfr. ACO
1.1.3.67.26-28.