ANCORA SUL LAVORO PUBBLICO: VARIAZIONI
E MODULAZIONI SUL TEMA
Università
di Sassari
SOMMARIO: Prologo: dormienti, inetti,
nullafacenti, fannulloni e … corrotti.
– 1. La cornice di riferimento delle riforme del
lavoro pubblico. – 2. Gli
strumenti dell’azione pubblica tra politica e istituzioni. – 3. La dinamica tra
strumenti e politiche nella prospettiva costituzionale e sovranazionale. – 4. L’apertura
cognitiva del diritto del lavoro ad “altri saperi”.
– 5. La crisi di identità del diritto del lavoro…. – 6. …e la sua apertura alla
regolazione del lavoro pubblico. – Abstract.
Nel 1909:
«La burocrazia è ordine e continuità; così
che molti dei suoi difetti sono necessari per definizione ed inclusi nella sua
stessa essenza (…), ma ciò va studiato meglio in relazione alla trasformazione
dello Stato odierno, ove si nota una crescente industrializzazione delle sfere
autoritarie amministrative, e il concetto vecchio di imperium di diritto pubblico si tempera con elementi privatistici
(…) in un ordinamento sociale tendente a progredire occorrono forme meno
mandarinistiche, che sveglino i dormienti
dal dolce far nulla, che li abituino ad un senso vigile di responsabilità, che
li spingano a pensare ed interessarsi alla produttività del proprio lavoro.
Saranno i contratti a termine, saranno i tipi di cui qualche accenno si ha già
nella democrazia elvetica o americana? Il problema è pauroso di difficoltà ma
bisogna affrontarlo, e dir chiaro e tondo, a costo di dispiacere ai più, che
l’avvenire non è per organici e gli stati giuridici cristallizzati
nell’automatismo delle carriere e delle paghe, ma si cammina a innovazioni
intime dei diritti e degli obblighi di chi dà la sua opera allo Stato»[1].
Nel 1979:
«L’impiego di tecniche di amministrazione
adeguate alle attività da erogare costituisce il settore di maggior carenza
delle amministrazioni pubbliche. A questa carenza sono da imputare le immagini
popolari delle organizzazioni pubbliche, come composte, secondo i giudizi più
spinti in negativo, di inetti e di
fannulloni, e secondo quelli più in positivo, di tardigradi e di cultori di
formalismi.
Non possediamo ricerche sociologiche
intorno al modo con cui si sono formate le immagini popolari; troppo scarsi e
soprattutto frammentari gli accertamenti aziendalistici fatti da singole
amministrazioni, per sapere quale dei vari giudizi di immagine popolare sia più
rispondente, semplicistiche le indicazioni delle ragioni nella preparazione
eminentemente giuridica dei dirigenti, o nelle retribuzioni non incentivanti, e
nelle politicizzazioni indotte, o nelle distorsioni provocate da azioni
ultronee delle organizzazioni sindacali, anche se in fatto a tutte queste ragioni
non può essere negata esistenza e rilevanza. Secondo un’opinione diffusa tra i
cultori di scienze dell’organizzazione, la ragione prima risiederebbe nel fatto
che ai problemi di tecniche dell’amministrazione non si è pensato che assai
poco, o si è pensato senza metodicità o senza perseveranza, come sarebbe
mostrato da quei casi – talune amministrazioni militari, taluni uffici di
aziende autonome, taluni organi statali locali del centro nord, taluni comuni
medi, talune regioni del nord – nei quali per avere invece pensato si sono
costituite delle amministrazioni relativamente all’Italia efficienti.
A parte tali eccezioni, è constatazione
fattibile da ogni persona che le tecniche di amministrazione delle
amministrazioni pubbliche sono fortemente arretrate rispetto a quelle
dell’organizzazione privata. Ad iniziare dai servizi di connettivo (protocollo,
archivio, copia, spedizione, comunicazione), fino ai processi decisionali, i
tempi tecnici delle amministrazioni pubbliche sono in media tre volte più
lunghi di quelli privati, e i prodotti sono sempre scadenti. Ciò senza
considerare vicende di punta, come quelle relative all’adempimento delle
obbligazioni pecuniarie comuni, al pagamento di talune indennità, alle
liquidazioni di pensioni, e così via, per le quali, sulla pelle del cittadino,
si consentono alle amministrazioni pubbliche comportamenti che le leggi vietano
ad ogni privato. Talché il potere pubblico viene sovente a presentarsi come un
singolare malfattore legale, che permette a sé ciò che invece reprime nel
privato»[2].
Nel 2006:
«All’indomani delle elezioni il dibattito
politico italiano si concentra subito sul se e come ridurre la spesa pubblica
per far quadrare i conti dello Stato. In quel dibattito si inserisce la
proposta di prepensionare i dipendenti statali più anziani, assumendo un
giovane ogni tre licenziati: negli anni passati lo si è fatto nelle ferrovie e
nelle poste; nulla vieta di farlo anche nell’amministrazione statale. Sennonché
questa scelta avrebbe solo il pregio della semplicità di esecuzione, ma non
quello dell’efficienza – molti anziani sono difficilmente sostituibili – e
soprattutto non il pregio dell’equità; parrebbe che i primi a dover essere
licenziati siano semmai i molti che, deliberatamente prendono lo stipendio
senza far nulla. Mentre si discute di tagli dolorosi ai servizi pubblici e agli
investimenti necessari per lo sviluppo del Paese, mentre si nega per ragioni di
bilancio un trattamento decente a centinaia di migliaia di giovani precari che
lavorano per lo Stato in un regime di vero e proprio apartheid, perché nessuno propone di incominciare a tagliare
l’odiosa rendita parassitaria dei nullafacenti?
Il problema dello scarso rendimento di una
parte dei dipendenti è, in qualche misura, comune al settore pubblico e a
quello privato: è per lo più difficile distinguere se esso sia dovuto a difetto
del lavoratore, oppure a difetto dell’organizzazione aziendale, oppure ancora a
circostanze esterne. Ma vi sono alcuni casi in cui il difetto totale di impegno
personale e/o di competenza professionale è evidentissimo; in questi casi,
mentre nell’azienda privata il lavoratore presto o tardi viene licenziato, nel
settore pubblico ciò non avviene mai; col risultato che la nullafacenza totale
colposa – ma sovente addirittura dolosa, accompagnata dalla frode – di alcuni
impiegati pubblici è diventata un fenomeno di dimensioni ragguardevoli, ben
visibile anche dall’osservatore esterno»[3].
Nel 2009:
«Il giudice Borsellino era un dipendente
pubblico, il professor Biagi anche, così come gli uomini della scorta del
giudice Falcone. E questi sono gli eroi.
Enrico Fermi era un dipendente pubblico,
così come lo è la maestra di mio figlio, che ha fatto un lavoro importantissimo
e straordinario. E questi sono i campioni.
Anche l’impiegato che ha accumulato
centoventi giorni di assenza in un anno è un dipendente pubblico, così come lo
è quello che si fa timbrare il cartellino dal collega compiacente. E questi
sono i fannulloni.
Come possono convivere nelle
organizzazioni pubbliche persone tanto diverse? Semplicemente non possono.
A meno di produrre una crescente
disaffezione e una selezione avversa, ovvero la fuga dei talenti e delle
migliori capacità professionali dal settore pubblico.
Il che letto da un altro punto di vista,
garantisce brillanti carriere a molti mediocri, ovvero a persone che non si
sono mai misurate sulla capacità di garantire risultati e che, inevitabilmente,
hanno un bassissimo grado di legittimazione nei confronti dei loro
collaboratori.
Le organizzazioni virtuose quelle che
producono nel lungo periodo e con costanza risultati e motivazione, devono
essere credibili. Nelle amministrazioni pubbliche emerge invece, spesso, un
forte deficit di credibilità: nessuno
pensa veramente che vengano riconosciuti i meriti e le professionalità. Più
facile è la strada della raccomandazione, della vicinanza al potente di turno,
dell’opportunismo e dell’appiattimento delle responsabilità.
Questa è la rappresentazione delle
amministrazioni pubbliche che danno i media, questo è ciò che pensa la maggior parte
dei cittadini, ma soprattutto, e qui sta il vero problema, questo è ciò che
pensano la maggior parte dei dipendenti pubblici»[4].
Un quadro sinottico, questo, che rende evidente come i problemi
segnalati da Meuccio Ruini, l’allora direttore generale del Ministero dei
lavori pubblici[5],
segnalati ancora da Massimo Severo Giannini, ripresi tra i tanti da Pietro
Ichino, da Giovanni Valotti, nel primo decennio del duemila, denotino i medesimi
e numerosi “aspetti di criticità” del lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni: un continuum,
dunque, nel lungo processo che impegnerà il legislatore nella ricerca e
sperimentazione di nuovi modelli normativi.
Ma allargando lo sguardo e scontando l’assoluta mancanza di
valore propositivo nelle troppo ripetute, se pur vere, denunce della cattiva
condotta dei pubblici dipendenti, si può condividere l’indicazione di chi,
ancora nel 2012 [6],
nel constatare e deprecare la crescita esponenziale del fenomeno della
corruzione, recupera la forza espressiva del caustico giudizio di Benedetto
Croce, secondo il quale:
«non vi ha niente di più sciocco e noioso dei discorsi che si fanno, si
son sempre fatti e sempre si faranno col censurare l’andamento delle pubbliche
amministrazioni e notare negligenze, oziosità, falsità, imbrogli, ruberie,
viltà, per conchiudere che le cose vanno male, e anzi che il mondo peggiora e
corre alla rovina. Il presupposto di queste censure, chiamate a ragione
critiche facili, il presupposto da cui nasce la loro perpetuità, è la perfetta
amministrazione, in cui ciascuno adempia con intelligenza perfetta e perfetta
volontà il proprio dovere: cioè uno schema astratto che, come tale, non può
trovare rispondenza nella realtà».
Giudizio
dal quale, ammonisce tuttavia il filosofo, non si deve trarre
«la conseguenza del lasciar correre, che è quella di tutti gli inetti e
i cinici. La conseguenza è invece il dovere di un atteggiamento, non certo impaziente,
ma fermo e combattente».
Una rilettura del fenomeno
s’impone pertanto.
L’opzione di proporre un’ulteriore riflessione scaturisce dalla
convinzione che gli autorevoli approfondimenti della dottrina e i contributi
della giurisprudenza più recenti, ma non solo, debbano essere letti nella
cornice più ampia delineata dagli apporti delle diverse discipline che si
occupano e si sono occupate della materia.
Un percorso ricostruttivo per grandi tappe, dunque, assolutamente
essenziale: solo una traccia per accostarsi allo studio dell’impiego pubblico
come categoria concettuale che, sul piano giuridico, si deve tradurre
nell’inquadramento teorico del rapporto di lavoro alle dipendenze della
pubblica amministrazione.
Inquadramento teorico che, almeno a far data dai primi anni del
XX secolo, postula la necessità di una disciplina speciale per il pubblico
impiego che sia idonea a separare nettamente gli spazi reciproci tra politica e
amministrazione come garanzia dell’imparzialità dell’agire della pubblica
amministrazione per il tramite dei suoi burocrati[7].
Si è costruita così, in una prospettiva prettamente
gius-pubblicistica, la «gabbia ideologica» che come ha sottolineato Mario
Rusciano, «con il prestigioso contributo del giudice amministrativo», ha
esaltato il profilo ‘organico’ del rapporto di pubblico impiego, ponendo in
primo piano l’esercizio di potestà pubbliche da parte del dipendente e
lasciando in ombra, per lungo tempo, la prospettiva giuslavoristica[8].
Prospettiva questa che, decennio dopo decennio, ha faticato ad
imporsi, consolidandosi lungo il processo di
contrattualizzazione/privatizzazione degli anni ’90, all’esito del quale
l’organizzazione di lavoro delle pubbliche amministrazioni si palesa come il
luogo nel quale il pubblico dipendente non solo esplica l’attività lavorativa
ma dovrebbe sviluppare anche «la sua personalità di cittadino lavoratore»[9].
A queste prospettive si legano due filoni problematici che si
intrecciano, «uno dei quali riguarda propriamente lo statuto normativo del
rapporto di impiego, l’altro i caratteri dell’organizzazione del lavoro negli
apparati pubblici»[10].
Il tema si presenta davvero pauroso
di difficoltà. Difficoltà generate dalla densa e stratificata normativa
dettata negli anni dal legislatore; accentuate dal grande numero di discipline
coinvolte nello studio del ‘fenomeno’, tutte nel medesimo tempo fondamentali e
necessarie; esasperate dalla ‘lenta’ e a volte inesistente comunicazione fra
gli studiosi, prima, e fra questi e coloro che dovrebbero essere i fruitori del
complesso sistema normativo (politici, cittadini, e soprattutto i dipendenti
pubblici), poi.
La scelta della forma antologica che, nell’inserzione dei brani
assume talvolta un andamento rapsodico volutamente non sempre coerente sotto il
profilo cronologico, si rivela efficace al fine di superare, appunto, quella
barriera di incomunicabilità che, sebbene oggi assai meno di ieri, si può
riscontrare in talune analisi e ricostruzioni tra le diverse discipline che si
occupano della materia. Scelta che risponde alla convinzione che è un dono la capacità di dare forma sintetica
a idee diffuse, condivise o meno, che oggi possono aver perso di evidenza e che
quel dono restituisce vive come erano
nella percezione dei contemporanei, così da garantire i diversi livelli di
apprezzamento e di comprensione della complessità dei problemi, sottolineandone
la connessione tra la dimensione descrittiva e quella valutativa.
L’idea è, dunque, quella di raccogliere e suggerire spunti di
riflessione sulle questioni di fondo che il processo di
contrattualizzazione/privatizzazione del pubblico impiego pone al
giuslavorista, chiamato ormai da lustri a considerare la fattispecie tipica di
riferimento del diritto del lavoro inclusiva del rapporto di lavoro dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Questioni di fondo, strettamente correlate, che tradizionalmente
ineriscono, da un lato, l’incidenza della natura pubblica del datore di lavoro sul
regime contrattuale del rapporto di lavoro privatizzato, dall’altro,
l’incidenza dello scopo al quale è teleologicamente orientata l’attività della
pubblica amministrazione sull’ampiezza e sulla qualità del debito contrattuale
che assume il pubblico dipendente il quale, sebbene non sia più vincolato da un
rapporto organico all’amministrazione di appartenenza, è comunque il braccio
operativo della sua attività.
Fondamentale è anche la scelta di muovere nel percorso
ricostruttivo dalla consapevolezza che un pregiudizio
ontologico, relativo alla presunta diversa natura del rapporto di lavoro
alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e del rapporto di lavoro alle
dipendenze di un datore di lavoro privato, si insinua lungo l’intero cammino
della privatizzazione e ostacola la piena convergenza tra le due discipline.
Pregiudizio che pone la «necessità
autoritativa-pubblicistica come prius
rispetto all’interpretazione della – stessa – Costituzione, precludendo così in limine la visibilità di un intero
campo di valori, di principi, di conflitti, di modi e termini di una loro
risoluzione»[11].
Dal punto di vista storico-giuridico, sono note le vicende che
segnano il distacco della disciplina del rapporto di pubblico impiego dal
diritto comune del lavoro, al quale esso è riconducibile sino alla fine
dell’Ottocento: il rapporto di lavoro nasce dal contratto e ad esso si
applicano le norme del codice civile e, con atti negoziali, si svolge
l’esecuzione del rapporto, sotto l’egida della giurisdizione del giudice ordinario.
I cultori del diritto amministrativo, d’altra parte, non possono
non interessarsi di questo particolare rapporto di lavoro in quanto, sebbene
esso sia disciplinato dalle regole del diritto comune, è pur sempre lo
strumento imprescindibile attraverso il quale si assicura l’organizzazione e il
funzionamento della macchina amministrativa.
Ma, nei primi anni del ‘900, si affacciano importanti
cambiamenti, innanzitutto, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, istituita
nel 1889, come «corpo amministrativo specializzato per la soluzione di dispute
relative agli atti amministrativi», diventa giudice, affiancandosi al giudice
ordinario. La dottrina, dal canto suo, lavora alla «costruzione di un diritto
amministrativo speciale e distinto dal diritto comune».
Così la «pubblicizzazione
del diritto amministrativo», in quanto «fondato sull’autorità dello Stato e dei
poteri pubblici» che si esprime attraverso «atti unilaterali dotati di
imperatività», coinvolge il rapporto di impiego pubblico che si separa dal diritto
comune: il rapporto non nasce più dal contratto bensì da un atto di nomina
amministrativo e i suoi tipici istituti (promozioni, trasferimenti, sanzioni
disciplinari, destituzioni) sono regolati, appunto, da atti amministrativi
unilaterali. La giurisdizione è quella esclusiva del giudice amministrativo[12].
All’interno del rapporto così pubblicizzato resta percepibile
tuttavia una doppia anima: il profilo
organico e il profilo lavoristico,
con una netta prevalenza del primo sul secondo.
Sotto il primo profilo, infatti, si sottolinea l’immedesimazione,
organica del dipendente nella funzione che è chiamato a svolgere a garanzia del
soddisfacimento di un interesse pubblico.
Sotto il profilo lavoristico tuttavia non si nega che il
dipendente s’impegni a svolgere una prestazione di lavoro subordinato, il
rapporto di servizio.
E, i contributi dei tanti che con prospettive assai diverse hanno
analizzato la ratio che di volta in
volta ha ispirato gli interventi del legislatore, nella cornice di riferimento succintamente
descritta, costituiscono il back ground
del processo di privatizzazione degli anni ’90, che con fatica, e forse non del
tutto, ha superato il dualismo tra il rapporto organico e il rapporto di
servizio.
Così si conferma come, particolarmente in questa materia:
«il passato non sia mai divenuto tale e
riviva anzi nel presente»[13].
Intorno al medesimo nodo problematico, infatti, è nato, si è
sviluppato e ruota tutt’ora l’acceso dibattito che vede succedersi,
confrontarsi, contraddirsi molte tesi[14].
Poiché:
«(l)’ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni continua ad essere attraversato da
un riformismo inquieto e da pesanti interventi di revisione, o più
esplicitamente di contenimento della spesa. Nell’instancabile riscrittura
legislativa della disciplina dei rapporti individuali di lavoro e delle
relazioni collettive, diritto amministrativo e diritto del lavoro si contendono
il campo ormai da decenni, con le rispettive strumentazioni tecniche e i
peculiari apparati di principi fondamentali. La vicenda normativa che si è
sviluppata negli anni è passata attraverso fasi di netta contrapposizione; è
approdata a periodi confusi caratterizzati dal ritorno al passato nel segno
della ri-pubblicizzazione del sistema di regole; o ancora, ha sperimentato
arditi ibridismi e soluzioni giuridiche compromissorie che possono tenersi solo
nel perimetro di un diritto del lavoro “speciale” o “particolare”»[15].
Né sembra aver cambiato segno l’ultimo e importante intervento
organico sulla disciplina del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche
Amministrazioni: la riforma Brunetta.
La Riforma, non a caso identificata come “terza fase” del
processo di privatizzazione proprio per l’organicità dell’intervento, ha
lasciato evidentemente irrisolti molti problemi di fondo del lavoro pubblico,
aprendo spazi ad ulteriori interventi del legislatore: alcuni condizionati
dall’incalzare della crisi economica, altri tesi a rifinire o correggere alcune
linee guida tracciate nel provvedimento del 2009. Interventi che, aldilà degli
indiscutibili condizionamenti di matrice economica, sembrano riconducibili ad
un «vero ripensamento culturale»[16].
In questa prospettiva la Riforma del 2009 ha fornito un ulteriore
spunto di riflessione «sul rapporto tra diritto, lavoro e istituzioni
pubbliche»[17]:
essa, infatti, introduce nel governo delle istituzioni nuovi strumenti per
perseguire fini, o se si vuole politiche, che dovrebbero condurre ad una
razionalizzazione del sistema così che diventi capace di offrire servizi
efficienti.
Tali politiche, del resto, erano note fin dal processo di
privatizzazione degli anni ’90; processo che segna il passaggio «da uno Stato
produttore di atti e provvedimenti ad uno Stato erogatore di servizi pubblici»[18], come risposta alla
richiesta di tutela di fondamentali interessi ed esigenze collettive sino ad
allora sopiti.
La concreta gestione amministrativa si realizza, ora, secondo
piani e programmi che tengono conto delle priorità e pongono obiettivi precisi
per ciò che diventa possibile porre in essere la valutazione della stessa, non
in funzione dei singoli atti amministrativi, ma in modo autonomo come
fattispecie complessa e, per ciò che maggiormente rileva, secondo parametri che
sono in grado di allontanare «quell’elevato soggettivismo che impingeva il
giudizio di opportunità»[19].
«La nuova impostazione, infatti, essendo
incentrata su obiettivi prefissati, mezzi assegnati e risultati ottenuti, e,
dunque, rivolta “più ai fatti che non alle norme”, consente, attraverso il richiamo
a parametri quali la efficacia e l’economicità, ed anche l’efficienza
dell’apparato organizzativo, di svelare la reale capacità dell’amministrazione
di soddisfare quelle domande sociali preventivamente ritenute meritevoli di
tutela e fatte oggetto di ben precise politiche pubbliche.
Ciò si ricava agevolmente dal dettato
normativo che disegna un (sistema di) controllo volto a verificare la
consistenza del risultato raggiunto rispetto all’interesse pubblico concreto
(efficacia); la rispondenza del risultato all’obiettivo predefinito
(adeguatezza); la quantificazione delle risorse utilizzata commisurata a quelle
preventivate per raggiungere un certo risultato (economicità); la razionalità
delle scelte organizzative effettuate per la realizzazione dell’obiettivo
predefinito (efficienza)»[20].
«In tale contesto l’attenzione è stata
progressivamente spostata dall’organizzazione in senso statico al relativo
profilo dinamico, dall’atto all’attività, dal provvedimento al procedimento,
dall’autoritatività alla partecipazione, dalla legittimità formale al risultato
e, quindi, alla performance. In
particolare, si è assistito al superamento del tradizionale sistema dei
controlli preventivi di legittimità ad opera di uno più moderno incentrato sui
cc. dd. controlli di efficienza»[21].
In questa cornice, e in quella più ampia disegnata dalla serie di
iniziative in atto in alcuni Paesi dell’OCSE (Regno Unito, Francia, Spagna,
etc.), devono essere inscritti i diversi interventi legislativi che si
succedono con ritmi piuttosto intensi.
Iniziative che tendono a rafforzare la crescita della
produttività delle amministrazioni pubbliche e a consolidare la pratica di
rendicontazione nei confronti dei cittadini dei risultati raggiunti; tra i
punti di forza di queste iniziative, ad esempio, la programmazione finalizzata
ai bisogni dei cittadini e la relativa valutazione sulla base della
soddisfazione dagli stessi manifestata; il passaggio cioè dall’essere customer oriented alla customer satisfaction.
E anche la Riforma del 2009, pur non abbandonando la prospettiva,
predominante nel nostro ordinamento, della prevalenza dell’aspetto della
funzione amministrativa, considerata in sé e nei suoi rapporti con la funzione
politica del Governo, vorrebbe accentuare la valorizzazione della posizione del
privato cittadino e delle sue aspettative.
Prospettiva quest’ultima già presente nel diritto dell’Unione,
laddove nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, all’art. 41,
rubricato appunto «(d)iritto ad una buona amministrazione», si possono leggere
«una serie di precetti che toccano punti nevralgici del rapporto
individui-pubblica amministrazione»[22].
«La norma “(…) infatti statuisce regole
che attengono: alla sostanza delle decisioni amministrative (imparzialità ed
equità); al tempo dell’azione medesima (il termine ragionevole); alle modalità
di formazione delle decisioni (garanzia della partecipazione e diritto di
accesso al fascicolo); agli obblighi di giustificazione delle decisioni
medesime attraverso la motivazione; alla responsabilità della Comunità per
danni arrecati alle persone dallo svolgimento delle funzioni amministrative.
Ricostruire il rapporto tra singolo e
pubblica amministrazione collocandolo nel capo V dedicato alla cittadinanza e
farlo partire dalle pretese che il primo può vantare nei confronti della
seconda, come la Carta prevede, significa infatti affermare in modo
inequivocabile la centralità del primo (l’individuo) nei confronti della
seconda (la pubblica amministrazione) nel senso che è il contenuto delle sue pretese
a riverberarsi sulle modalità di svolgimento della funzione amministrativa e
non il contrario»[23].
Se è vero, dunque, che sulle ‘pretese’ dei cittadini deve essere
ormai modellata l’azione della pubblica amministrazione e questa azione, come
oggi si sottolinea, deve soddisfare i requisiti non solo dell’efficienza,
dell’efficacia e dell’economicità, ma anche quelli dell’etica e dell’equità, si
pone il problema di individuare i ‘nuovi’ strumenti, nel loro nesso con le
istituzioni, attraverso i quali tale azione può procedere per produrre un reale
e proficuo cambiamento.
Si rende preziosa, pertanto, la suggestione offerta dagli studi di
Douglas C. North il quale, con particolare riferimento al processo di
cambiamento economico, nella consapevolezza che non è diversa la dinamica dei
cambiamenti politici, sottolinea come non si possa coglierne il significato se
non considerando in una l’aspetto politico e sociale; e pone «la comprensione
dei complessi fattori che formano questo processo» quale «prerequisito
necessario»[24].
L’Autore ripercorrendo «determinati processi di decisione
economica», dalla teoria neoclassica, «paradigma economico predominante», che
postula la minimizzazione dei costi di transazione, approda alle ‘istituzioni’,
attori del sistema economico che stabiliscono le regole del ‘gioco’ e quindi
partecipano alla determinazione dei costi di transazione.
Proprio le istituzioni devono essere poste «al centro della
comprensione dei sistemi economici», nella convinzione, appunto, che «la chiave
del cambiamento evolutivo degli esseri umani – sia – l’intenzionalità degli
agenti». É, infatti, la sola comprensione del processo di cambiamento che può consentire di «elaborare ipotesi di cambiamento che, pur nei loro limiti,
potranno migliorare enormemente l’utilità delle teorie elaborate dalle scienze
sociali per affrontare i problemi dell’umanità»[25].
In quest’ampia cornice nella quale doverosamente si inscrive il
tema, pertanto, la complessità della materia è magistralmente riassunta nell’incipit della Prefazione di Sabino
Cassese alla riedizione dell’opera “Gli
strumenti per governare”.
«Le istituzioni, considerate di frequente come
una parte malleabile della società, modificabile in base alla volontà politica,
oppure come un mero involucro, a portata neutra, sono ritornate di attualità.
Non mi riferisco ai giuristi, che ne fanno l’oggetto principale dei propri
studi (ma troppo spesso prescindendo dal loro radicamento sociale), ma ai
cultori di altre discipline sociali, particolarmente l’economia e la sociologia
politica.
Le istituzioni sono divenute un concetto
centrale al fine di comprendere lo sviluppo economico. Buone istituzioni sono
la precondizione di tale sviluppo. Più dei fattori geografici, commerciali ed
economici, conta la qualità delle istituzioni. Se un Paese vuole assicurarsi lo
sviluppo economico, deve darsi istituzioni funzionanti. La diffusione di questi
convincimenti ha indotto a moltiplicare gli sforzi per individuare indicatori
di performance istituzionale: la Banca mondiale, per esempio, ha messo a punto
un “Worldwide Governance Indicators Projec”. Questa idea ha anche spinto a
promuovere la creazione di buone istituzioni, attraverso programmi di
assistenza tecnica: sono numerose le istituzioni sopranazionali e globali che
mettono a punto programmi di assistenza tecnica a singoli Paesi per
l’istituzione di un buon sistema giudiziario, di leggi anti-corruzione funzionanti,
di norme efficienti per la protezione dei diritti di proprietà e di regole
sulla responsabilità.
Questa riscoperta delle istituzioni ha
anche prodotto riflessioni teoriche di maggior momento, che sottolineano
“l’importanza delle istituzioni per la qualità dell’evoluzione dell’economia e
della società” (D.C. North). Le istituzioni, ovvero le regole fondamentali del
gioco, acquisiscono, in questa ottica, un ruolo essenziale, quali componenti
principali del punto di partenza che condiziona il processo di sviluppo (path dependance)»[26].
Un esempio della potenzialità espressiva del ruolo dei soggetti
istituzionali, in questo caso sovranazionali, inerisce il processo di
legittimazione, da parte del Fondo monetario internazionale, della Banca
mondiale, dell’OCSE, della Commissione europea, di quella concezione del
diritto del lavoro come disciplina tesa ormai a «governare il mercato del
lavoro e accrescere la competitività e l’efficienza dell’impresa», piuttosto
che a «governare il conflitto tra capitale e lavoro»[27].
Questi soggetti, infatti, di fronte all’innegabile evidenza del
problema, peraltro assai dibattuto, costituito all’interno del mercato del
lavoro dal «modello di protezione lavoristico tradizionale», sia sotto il
profilo dell’efficienza che dell’equità, hanno assunto «il limite di
effettività del diritto del lavoro (…) all’interno di uno specifico paradigma
esplicativo del funzionamento del mercato»[28].
L’esito complessivo della ‘narrazione’ del diritto del lavoro,
concepito in questi termini, è stata l’oggettivizzazione di «un’interpretazione
di portata limitata e soggetta a disputa (…) presentata come la spiegazione di quanto è accaduto e
sta accadendo». Tali istituzioni, dunque, sono e sono state in grado non
soltanto «di dettare l’agenda dell’azione politica, ma anche quella
dell’analisi scientifica»[29].
In questa temperie culturale, assume particolare importanza il
tema delle tecnologie di governo, con specifico riguardo agli strumenti
dell’azione pubblica e al loro modus
operandi; questi ultimi, in genere, vengono prospettati nella tradizionale
logica funzionalista, nei termini cioè di «semplici scelte tecniche», orientate
ai fini, riservando loro «un ambito secondario, marginale rispetto ad altre
variabili quali le istituzioni, gli interessi degli attori o le loro credenze»[30].
Gli studiosi suggeriscono, perciò, un nuovo approccio agli
strumenti dell’azione pubblica che tenga conto sia delle particolari
«dimensioni politiche degli strumenti», nella prospettiva delle ragioni che
giustificano la scelta di un dispositivo
piuttosto che di un altro, sia della loro funzione come «indicatori di
rottura nell’orientamento delle politiche»; approccio che consente di superare
la divisione tra politics e policies[31].
E, poiché tante sono le discipline coinvolte nello studio delle
istituzioni, l’osservazione del fenomeno deve considerare tutti i punti di
vista, ritenendosi oramai superato il dubbio se «il punto di vista interno al sistema giuridico si
intrecci, a vari livelli, con quello esterno
al sistema»[32].
Chiarificatrice in ordine all’equilibrato utilizzo dei due
diversi punti di vista è l’indicazione di un grande Maestro, Luigi Mengoni, che
porta ad esempio gli effetti prodotti sul sistema del diritto del lavoro dallo
strumento legge al quale si è fatto ricorso, nel periodo non a caso definito
della legislazione vincolistica (1960-1975), per garantire una tutela
particolarmente incisiva della posizione soggettiva del prestatore di lavoro,
in attuazione dei principi costituzionali.
Effetti che, di fronte alla crisi economica emersa alla fine di
quel periodo, lo ‘shock petrolifero del 1973’, si sono tradotti, a causa delle
eccessive rigidità delle tutele, in una condizione di disoccupazione di lunga
durata e, come alternativa, in un lavoro privo di qualunque tutela (lavoro
nero).
«Fortemente deviante dal diritto comune
dei contratti, la legislazione di questi anni muta definitivamente la posizione
sistematica del contratto di lavoro, che diventa oggetto di una autonoma disciplina
speciale, retta da propri criteri di politica del diritto e anche da principi
generali propri, alcuni dei quali di rango costituzionale. Corrispondentemente,
nel solco di un moto generale di rinnovamento della scienza giuridica in senso
antiformalistico (o meglio in senso contrario al formalismo puro, chiuso a
riferimenti extrasistematici ai fenomeni concreti della dinamica sociale), si
sviluppa, a partire dalla monografia di Gino Giugni sull’ordinamento
intersindacale – retrospettivamente più importante come manifesto metodologico
che per i risultati pratici –, una dottrina giuslavoristica indipendente dalla
scienza del diritto civile, anche se ciò non vuol dire priva di connessioni con
quest’ultima e affrancata dal bisogno di ricorso alle sue categorie
concettuali: una dottrina dogmaticamente più elastica, arricchita da aperture
al pensiero giuridico di altri paesi, specialmente dei paesi anglosassoni,
all’economia e alla sociologia del lavoro e integrata da apporti di sapere
empirico, ma sempre, nelle importanti monografie apparse in questo decennio,
metodologicamente controllata. Con quest’ultima espressione intendo la vigile
consapevolezza che il riferimento ai dati extratestuali (tipologicamente
rilevanti) risultanti dal contesto socio-economico è necessario
all’argomentazione giuridica per produrre significati normativi adeguati ai
casi da decidere, ma non può sostituire il controllo di integrabilità nel
sistema dogmatico della regola (concreta) di decisione ipotizzata, la quale
deve essere giustificata mediante il principio di universalizzazione, che è un
aspetto elementare del principio di giustizia»[33].
Astraendosi dalla particolare situazione contingente alla quale
si riferisce il Mengoni, nel brano proposto si può trovare una sicura conferma
della correttezza della prospettiva che pone in primo piano gli strumenti della
politica e non soltanto la politica stessa, nell’acquisita consapevolezza che
gli strumenti sono essenzialmente istituzioni ‘in senso ampio’, e cioè
«dispositivi, tecniche, organizzazioni, modi di operare, procedure» che,
seppure vengono utilizzati per porre in essere politiche, sono «capaci poi di
avere una vita autonoma»[34].
Diventa imprescindibile, pertanto, considerare gli intrecci tra
la politica e i suoi strumenti, nelle loro ‘infinite’ variabili, nella
consapevolezza che questi ultimi non sono ‘neutri’; essi sono invece fortemente
caratterizzati dalle politiche che li hanno prescelti, esprimendone i valori.
Nel tempo, tuttavia, gli strumenti generano «dinamiche proprie»,
danno origine ad «effetti specifici» che, svincolati dagli obiettivi delle
politiche, possono modificarne e distorcerne i fini[35].
Un esempio significativo che inerisce il tema specifico degli
strumenti tipici dell’agire delle pubbliche amministrazioni è quello del
passaggio, al quale si è già accennato, dai controlli preventivi ai controlli
di attività, dettato dall’esigenza di porre rimedio all’inefficienza dei primi.
«Questi, intervenendo prima della
decisione, - infatti - erano divenuti una forma di co-amministrazione, nella
quale il controllore collaborava nella decisione con il titolare del potere di
decisione. Per cui il controllo stesso si modificava, perdendo la sua natura,
essendo il titolare della funzione coinvolto nella decisione, di cui portava in
parte la responsabilità»[36].
Gli studi sulla scienza dell’amministrazione hanno messo in luce,
già da tempo, che la scelta di un determinato modello burocratico è sottoposta
al «reciproco condizionamento fra un certo assetto dell’amministrazione
pubblica, il quadro costituzionale di riferimento e l’‘ambiente’ o il sistema
politico e sociale nel quale l’amministrazione stessa si inserisce ed è
chiamata ad operare»[37].
«(L)’analisi che giuristi e storici sono
andati facendo, anche in senso “verticale”, dello sviluppo nel tempo delle
istituzioni amministrative in ordinamenti di più antica formazione, ha colto
con sempre maggiore attenzione il fatto che accanto a fattori di permanenza e
stabilità di tali istituzioni attraverso il variare delle vicende costituzionali,
politiche e sociali, sono presenti altresì notevoli elementi di variazione
collegati a quelle vicende. Sono stati soprattutto messi in evidenza i lenti,
ma costanti processi di sedimentazione di nuovi istituti che – pur
presentandosi all’inizio solo come parziali innovazioni o come singole modeste
deroghe che non intaccavano la logica del sistema originario – hanno finito poi
per moltiplicarsi modificando profondamente, da ultimo, lo stesso quadro
d’insieme della pubblica amministrazione sia nei suoi aspetti organizzativi che
nei suoi rapporti con gli altri poteri pubblici e con la stessa mutata realtà
sociale»[38].
E, nella prospettiva della dinamica tra strumenti e politiche,
ancora con le parole di Vittorio Bachelet, può farsi l’esempio della prassi amministrativa,
il cui rilievo giuridico non nega l’esistenza di un ‘ordinamento
amministrativo’ che può contrapporre la sua autonomia nei confronti
dell’ordinamento generale vigente[39].
«Infatti non si è affatto
escluso che lo stesso ordinamento generale possa prevedere (anzi non potrebbe
non farlo) ambiti discrezionali per l’attività della pubblica amministrazione e
persino – in casi particolari – deroghe su punti singoli esplicitamente
indicati a norme o principi vigenti nell’ordinamento generale; si disse allora
(e si conferma qui) che la vita concreta, il potere normativo esterno e interno
della pubblica amministrazione, la sua attività, il suo stesso concreto
strutturarsi negli uffici e nei reciproci rapporti fra di essi configurano
bensì una specie di sistema organizzato (…): ma non un sistema avente vigenza
autonoma o contrapponibile a quella dell’ordinamento generale, sibbene un
sistema che di quell’ordinamento è solo una parte, in esso si fonda, nelle sue
norme e nei suoi principi trova la regola fondamentale e inderogabile della
propria esistenza e attività; che può cioè non solo applicare ma anche
completare, integrare quelle norme e quei principi, ma mai disattenderle (salvo
esplicita deroga del costituente o – se consentito – del legislatore).
Tutto ciò premesso, resta da
vedere come, attraverso – gli strumenti giuridici (norme costituzionali, leggi,
regolamenti, concreta esperienza della prassi) si è andato definendo il quadro
delle nostre istituzioni amministrative»[40].
Dinamiche, queste, che si possono determinare negli ordinamenti
costituzionali dove è, comunque, la Costituzione «il luogo nel quale i fini della
società, presente e futura, vengono stabiliti»[41].
Vero è che la legge è deputata a dispiegare
«questi fini, a specificarli:
e a stabilirne di nuovi, non previsti dai costituenti, ma compatibili con i
fini che i costituenti hanno stabilito una volta per tutte. In questo modo le
generazioni successive a quella che si è data la Costituzione si affrancano, da
quella generazione: e quando ambiscono ad una libertà ancora maggiore, attivano
i meccanismi di revisione costituzionale.
I fini, come quelli degli individui,
sono concatenati in una sequenza in cui fini più vicini costituiscono mezzi
rispetto ad altri meno prossimi che a loro volta sono mezzi per il
raggiungimento di fini più lontani, e così via.
Questa relazione fini-mezzi e
la qualificazione di ciascun fine come mezzo rispetto ad altro fine sono già
evidenti nella Costituzione»[42].
Costituzione, quella italiana, che racchiude principi «la cui
portata è di per sé espansiva, cioè capace di applicarsi anche a realtà
fattuali, o tecniche, ulteriori rispetto a quelle cui guardava chi ha scritto
quei testi»[43].
Costituzione che:
«parla innanzitutto il
linguaggio della storia. Essa contiene e in qualche modo riassume i tratti di
una secolare evoluzione, in cui si condensano principi divenuti patrimonio
tendenzialmente universale e permanente. Diritti fondamentali, di libertà e
sociali, eguaglianza degli individui pur nella diversità delle situazioni e
delle funzioni, doveri di solidarietà, principio di legalità e garanzia,
attraverso apposite istituzioni, dell’applicazione delle leggi e
dell’osservanza dei diritti e dei doveri, cura degli interessi generali
affidata ad autorità di diverso livello territoriale, espressioni dirette o
indirette delle stesse collettività, sono gli elementi essenziali di questo “deposito”
storico, che connota in qualche modo la stessa identità della società politica
che noi chiamiamo “Stato” o, nel linguaggio della Costituzione, “Repubblica”.
A questa “identità” storica di
ordine generale si aggiungono e si sovrappongono, come sottolineature o come
specifici sviluppi o applicazioni, i tratti distintivi della storia italiana»[44].
E, la dinamica tra fine nella scelta politica e gli strumenti,
riferimento essenziale nel momento della scelta della forma di governo ma anche
nei momenti di cambiamento necessari per adeguare il sistema alle mutate
esigenze che nascono da nuove istanze sia a livello interno che esterno, o come
si detto, al susseguirsi delle generazioni, si rende particolarmente evidente,
ad esempio, nella disposizione dell’articolo 97, I c., della Costituzione, ove
si consideri la riserva di legge in essa contenuta solo come strumento per
garantire il fine pubblico dell’imparzialità e del buon andamento, al quale
deve dunque essere necessariamente improntata l’attività amministrativa di
organizzazione.
Passando dal piano dell’enunciazione dei principi costituzionali
al piano della loro realizzazione ad opera del legislatore, la relazione
fini-mezzi, nell’agire dell’amministrazione, è particolarmente evidente nella
nuova disciplina del pubblico impiego, espressa nel d. lgs. n. 165 del 2001.
Ne sono esempio l’articolo 4 e l’art. 16, I c., lett. b).
Dal combinato disposto delle due norme, infatti, si ricava una
progressione, per così dire discendente, secondo la quale il legislatore, tendendo alla realizzazione del fine pubblico
dell’imparzialità e del buon andamento, affida agli organi di governo il potere
di indirizzo politico amministrativo che, appunto, consente la predisposizione
degli obiettivi e dei programmi che devono essere realizzati (art. 4).
Ai dirigenti generali, secondo la disposizione contenuta
nell’art. 16, I c., lett. b), è demandato poi il compito dell’attuazione di
quegli obiettivi che «non sono altro che fini»; e i dirigenti generali, a loro
volta, traducendoli in progetti, che costituiscono anch’essi dei fini, ne
affidano l’attuazione agli altri dirigenti, precisando gli obiettivi loro
assegnati dagli organi di governo.
I fini indicati dal legislatore, così come descritti nella
progressione segnalata, dunque, si esplicano in termini di rapporto mezzi-fini
anche all’interno di ogni singola amministrazione[45].
Allora, se non è revocabile in dubbio, che l’organizzazione
amministrativa degli apparati, intesa sia come struttura che come attività,
deve perseguire i fini indicati dalla norma costituzionale (art. 97 Cost.),
questo può avvenire, ad esempio, secondo due modelli assai diversi tra loro:
uno analitico e l’altro sintetico,
«(n)el primo il fenomeno
organizzativo viene scomposto in una serie di unità elementari, ciascuna
definita dalla legge in termini di atto amministrativo, dotato di una specifica
regolamentazione quanto all’oggetto, al procedimento e al fine, e come tale
sindacabile tanto in sede di controllo che di giurisdizione; questo modello si
fonda sull’ipotesi che i caratteri che la Costituzione impone
all’organizzazione possano essere meglio garantiti da una loro pervasiva
presenza e incidenza in ogni momento rilevante del fenomeno e che il risultato
finale sia dato, per così dire, dalla somma delle conformità ai citati fini di
ogni singolo atto.
Nel secondo modello
l’ordinamento riferisce invece la valutazione dell’imparzialità e del buon
andamento a complessi di vicende, o a risultati, intermedi o finali, liberando
i singoli atti interni a ciascuna vicenda considerata dal carattere funzionale
(e da quel che ne consegue), e quindi assumendo come oggetto di valutazione non
più l’atto ma l’attività»[46].
Ma la cornice di riferimento, all’interno della quale si deve
condurre l’analisi delle ragioni del processo di riforma del pubblico impiego
che, scontando una notevole approssimazione, si possono definire
storico-giuridiche e socio-economiche deve necessariamente ampliarsi fino a
considerare, oltre i principi costituzionali, quelli sovranazionali, nella
prospettiva della globalization of law.
Processo che se generalmente viene inteso come:
«la formazione di un diverso
ordine giuridico, oltre lo Stato, prodotto dalla “fuga dallo Stato” (…) è, in
realtà, molto più complesso. Da un lato, in esso sono presenti due componenti:
l’internalizzazione del diritto internazionale e l’internazionalizzazione del
diritto interno (quindi non è vero che si forma un diritto esclusivamente
extrastatale). Dall’altro, oltre lo stato non si è andato formando un ordine giuridico
generale e unitario, ma un insieme di ordini giuridici»[47].
Diverse sono le branche del diritto che all’interno degli
ordinamenti degli Stati subiscono le pressioni esterne indotte da tale
cambiamento e a questa mutata situazione si devono adattare così il diritto
costituzionale come specificamente il diritto amministrativo e il diritto del
lavoro.
Diventa mutevole e si complica, dunque, infinitamente il quadro
dei principi che devono fungere, secondo una progressione discendente, da
criteri ordinatori per l’azione della pubblica amministrazione anche nel
momento della scelta degli strumenti giuridici, ad esempio la scelta fra quelli
autoritativi o quelli consensuali, che essa deve utilizzare per perseguire
l’interesse generale[48].
E, anche se il processo di globalizzazione non incide con la
medesima intensità nel diritto del lavoro del settore pubblico e del settore
privato:
«(l)a globalizzazione
economica costringe gli apparati statali a cambiare, a darsi strutture
amministrative più adeguate alle sfide che essa impone, determinando sul piano
sovranazionale e globale, convergenze funzionali tra i diversi sistemi statali
che interagiscono con le divergenze strutturali e istituzionali di ognuno di
essi, divergenze che continuano a permanere: di regole costituzionali, legali,
amministrative, di orientamenti culturali, di modelli di governance, ecc.
I processi di cambiamento
globali mettono, dunque, sotto tensione gli apparati di governo e le
burocrazie, si spingono sino a condizionare direttamente i metodi di gestione
delle risorse umane e le relazioni sindacali, sia nella amministrazione
centrale (riconducibile alle strutture statali), sia nei diversi settori del
pubblico impiego allargato.
Nei processi di cambiamento
degli apparati pubblici si evidenzia, così, in vitro, il fenomeno di
convergenza interattiva tra globalizzazione economica e giuridica che produce,
al contempo, divergenza negli strumenti e convergenza delle funzioni degli
stessi, giusta un’osservazione ormai costante nella comparazione tra istituti
giuridici»[49].
In questa visione più ampia emergono evidenti tensioni in
relazione al profilo fondamentale delle fonti, ovvero dei rapporti tra i
diversi livelli di produzione normativa che sono profondamente mutati,
inducendo un’incisiva modifica del concetto stesso di diritto dello Stato inteso nel suo significato «di un diritto
creato esclusivamente dallo Stato e posto esclusivamente al suo servizio»,
tutto incentrato sulla «sovranità della ‘persona’ statale».
«(Q)uesta nozione non è più
riconoscibile con la chiarezza di un tempo, come realtà politica operante.
Forze corrosive sono potentemente all’opera dalla fine del secolo scorso tanto
all’interno quanto all’esterno: il pluralismo politico e sociale interno, che
contesta l’idea stessa di sovranità e di soggezione; la formazione di centri di
potere alternativi e concorrenziali con lo Stato, operanti nel campo politico,
economico, culturale e dell’esperienza religiosa, spesso in dimensioni
totalmente indipendenti dal territorio statale; la progressiva
istituzionalizzazione, talora promossa dagli Stati stessi di ‘contesti’ che ne
integrano i poteri in dimensioni sovrastatali, con ciò sottraendoli alla
disponibilità degli Stati come singoli; perfino l’attribuzione ai singoli
individui di diritti che essi possono far valere contro gli Stati di
appartenenza, di fronte a giurisdizioni internazionali»[50].
Dagli
anni novanta si sviluppa l’idea di un ‘soft constitutionalism’ sovranazionale; un tipo di costituzionalismo
che, abbandonando l’idea di unitarietà e gerarchia fra i diversi ordinamenti,
tratteggia un «sistema di governo come una struttura post-moderna di ‘governo
reticolare’ (e dunque talvolta predilige il termine governance) e la
stessa forma giuridica come una forma ‘destrutturata e multiforme’.
Si
tratta di un modello di costituzionalismo cooperativo e non gerarchico, di una
‘integrazione intercostituzionale’, di una tutela multilivello che preveda però
soglie inderogabili di trattamento, presidiate da norme imperative e da
clausole di non regresso, che dovrebbero definire gli elementi di uniformità e
gli elementi di differenziazione dei diversi ordinamenti»[51].
Un soft
constitutionalism che, rigettando
l’idea che solo la politica e il mercato debbano forgiare i processi
materiali di allocazione e redistribuzione delle risorse, mantiene ferma la priorità del diritto
nella tutela dei valori di libertà, eguaglianza e solidarietà, già presenti
nelle costituzioni europee e nello stesso ordinamento europeo, e propone una
sequenza di principi comuni alla luce dei quali devono essere risolti gli
eventuali conflitti fra gli ordinamenti di differente livello[52].
Dunque l’emersione di quella particolare e ‘nuova fenomenologia
istituzionale’ che va sotto il nome di governance,
quale strumento capace di contribuire a «forgiare le regole giuridiche, e le
modalità della loro assunzione», indipendentemente dalla loro dimensione
nazionale o sovranazionale corrisponde alla ‘crisi’ della legge, intesa come
«pilastro essenziale del cosiddetto stato
di diritto» ma anche come «mezzo giuridico per eccellenza della democrazia
rappresentativa».
Sono, dunque, le strutture verticali di autorità ad essere messe
in discussione, e tra queste soprattutto la legge: nei confronti di questa,
infatti, i rapporti economici e la competitività inducono tensioni sempre
maggiori; e la tendenza è quella di dare soluzione agli innumerevoli problemi
mediante decisioni giudiziarie (governance
giudiziaria) o soluzioni pattizie (governance
contrattuale)[53],
considerate come strumenti flessibili ed efficaci, capaci di consentire
l’adeguamento del diritto ai continui mutamenti della realtà, appunto «in
antitesi con la rigidità delle leggi»[54].
Il rapporto reciproco e le tensioni tra le istituzioni, la
politica e i suoi strumenti, brevemente descritti, costituiscono indubbiamente,
come si è detto, anche la cornice di riferimento delle trasformazioni che hanno
interessato, negli stessi anni, il diritto del lavoro.
Oggetto della sua disciplina infatti, nell’accezione più ampia, è
il diritto al lavoro, ‘l’esponente di spicco’ dei diritti sociali, ‘terza
generazione dei diritti fondamentali’: ne condivide, dunque, l’‘essenza’: ed è
espressione di un interesse che può essere garantito «solo o in larga
prevalenza mediante comportamenti attivi dei poteri pubblici»[55].
Da questo punto di vista determinante è la trasformazione
inerente il rapporto tra la tenuta dei diritti sociali costituzionalmente
garantiti e l’obbligo di adeguamento dei diritti nazionali all’ordinamento
europeo, giacché
«le Costituzioni europee sono il punto di
sutura, e quindi di tensione, di un processo di disarticolazione dello Stato nazionale,
verso l’alto, ossia verso l’Unione, e verso il basso, ossia verso i governi
territoriali. Questa disarticolazione riguarda sia il ruolo economico sia
l’autorità normativa dello Stato, due funzioni cruciali nella prospettiva dei
diritti sociali, la cui protezione richiede tipicamente un’azione dello Stato
sia di tipo economico (prestazioni e intervento pubblico nell’economia) sia di
tipo normativo (iscrizione di diritti e obblighi nei rapporti interprivati). La
tensione costituzionale riguarda anche i valori: i principi costitutivi
dell’Unione europea evidenziano il rilievo centrale del mercato rispetto ai
diritti sociali, che invece nella nostra Costituzione non sono postergati alle
libertà economiche (diverso essendo il valore della ‘riserva’ del possibile e
del ragionevole, ossia il limite delle risorse finanziarie dello Stato come
misure di realizzazione dei diritti sociali»[56].
Le trasformazioni che si sono susseguite negli ultimi decenni,
dunque, hanno inciso nel profondo il diritto del lavoro, ‘capitolo
dell’ordinamento sociale’, nei termini indicati dal Neumann, capace più di
qualunque altro di fungere da ‘laboratorio politico-giuridico’ e, in quanto
tale, ‘strumento potentissimo’ nell’organizzazione materiale della società;
capace, in altri termini e sino ad ora, di istituire una «connessione o
corrispondenza (…) tra nomos, inteso
come posizione di regole astratte e generali, e ordinamento giuridico, comprendente il concreto ordinamento
politico e sociale della comunità». E appunto tale connessione sembra essersi
spezzata[57].
«Il legame del diritto del lavoro con la
politica è, peraltro, soltanto la punta più visibile di un’intersezione assai
più capillare – tanto a livello di elaborazione politico-scientifica a monte,
quanto nelle dinamiche interpretative a valle – fra il sapere giuridico e altri
saperi che si applicano agli stessi oggetti ai quali il discorso giuridico si
riferisce, o che da esso sono (come sfondo reale dei problemi giuridici)
presupposti; saperi, insomma, che insistono nel medesimo contesto del quale
anche il diritto del lavoro (con l’insieme dei materiali, normativi e puramente
discorsivi – come i commenti e le riflessioni dottrinali -, che lo compongono)
fa parte»[58].
Del resto, da tempo, il giuslavorista ha acquisito la consapevolezza
del fatto che se è vero che le scelte degli strumenti per governare il mercato
del lavoro, e al suo interno l’organizzazione di lavoro, sono legate a scelte
di politica del diritto, è anche vero che, da quando la crisi economica ha
assunto il carattere della strutturalità, secondo un trend in continua ascesa, al complicarsi della situazione è corrisposto un crescente impegno di studio e
approfondimento che ha mosso l’attenzione di molti dal diritto dell’economia
all’economia del diritto[59].
L’ineludibile confronto con
altri saperi tra i quali assumono una rilevanza particolare le c.d. scienze umane o sociali ha condotto il giuslavorista ad apprezzare i modelli
organizzativi suggeriti dalla disciplina dell’organizzazione aziendale quali
strumenti più congrui per assicurare l’ottimizzazione della produttività anche
nella Pubblica Amministrazione, riservando, ovviamente, una particolare
attenzione al contesto specifico nel quale devono essere applicati[60].
Assai più complesso e ricco di tensioni è il rapporto tra diritto
del lavoro ed economia: il processo di innovazione tecnologica e il fenomeno
della globalizzazione, infatti, nello scorcio del secolo scorso, come si è
detto, hanno accentuato «l’esposizione del diritto all’economia», incidendo
particolarmente la nostra disciplina[61].
Vero è che tradizionalmente, nell’angolo visuale del
giuslavorista, non viene negata la necessità di razionalizzare i processi
economici ma la si considera nella prospettiva della questione sociale, al fine
di prevenire situazioni di conflitto nella società; solo limitatamente tale
necessità è stata considerata in relazione alla disciplina delle condizioni
minime della concorrenza tra imprese.
Si prospetta, dunque,
«(u)n diverso accostamento (…)
leggendo le regole giuridiche del lavoro come un pezzo del diritto
dell’economia, del diritto della concorrenza e del diritto dei mercati: un
diritto che si presta ad essere letto non soltanto sotto il profilo
tradizionale (e pur sempre attuale) della tutela del c.d. contraente debole, ma
anche sotto quelli concorrenti della conservazione di livelli adeguati di
benessere sociale, della razionalizzazione del sistema produttivo secondo
modelli di comportamenti economici più avanzati, della regolamentazione delle
forme di concorrenza tra gli imprenditori, del miglioramento della qualità dei
processi di produzione di beni e servizi (…), così da assumere il carattere non
soltanto di “diritto distributivo di tutele e risorse” ma anche, nello stesso
tempo, di “diritto della produzione”.
Non, o non soltanto, un
diritto della persona, dunque, ma un diritto dell’economia che dà ordinamento
alla pratica mercantile (e a quella delle pubbliche amministrazioni),
indirizzandola e conformandola secondo obiettivi socialmente apprezzabili, e
verso modelli di competitività del sistema ispirati alla valorizzazione della
persona, della sicurezza, della professionalità individuale e collettiva, alla
riduzione dei bisogni, alla contrazione dei costi sociali (…)»[62].
Mutamento di prospettiva, questo, che avrebbe potuto innescare un
circuito virtuoso interrotto, invece, dal progredire incessante della crisi
economica globale che ha generato, nei diversi settori di intervento,
provvedimenti spesso alluvionali,
mirati a far fronte a contingenti situazioni di crisi a livello locale o
semplicemente a consentire i necessari adattamenti richiesti dal mutato
contesto sovranazionale.
Nell’assenza di una visione sistemica e di una programmazione
complessiva, la scelta delle tecniche e degli strumenti spesso non è stata
coerente né è stata accompagnata da azioni capaci di coinvolgere e motivare
tutti gli attori. Nel lungo periodo si è generato, dunque, un sistema di regole
stratificate di difficile interpretazione, applicazione e condivisione[63].
Ora, se non è revocabile in dubbio che la prospettiva giuridica
ben possa condividere le ragioni dell’efficienza economica:
«(t)uttavia, se l’economia chiede al
diritto di garantire un quadro normativo più adatto al raggiungimento di
obiettivi di efficacia/efficienza economica, viene quasi automatico rispondere
che il diritto – e quello del lavoro in particolare – promuove anzitutto
obiettivi di giustizia, rispetto ai quali l’obiettivo dell’efficienza economica
dovrebbe essere subordinato. In questa prospettiva il diritto del lavoro, assai
più del diritto civile, afferma la propria assiologia rispetto al discorso
economico in quanto attribuisce primaria importanza alla redistribuzione basata
sulla ricognizione di una diseguaglianza delle parti»i[64].
La ratio di tutela che
caratterizza il diritto del lavoro e che scaturisce dai principi
costituzionali, dunque, se da un lato segna limiti invalicabili al legislatore
che voglia riformare la disciplina dei rapporti di lavoro, dall’altro, postula
scelte orientate non solo, ma anche, al rispetto delle regole dettate dalle
contingenti condizioni economiche del Paese.
E allora, l’obiettivo non può essere se non quello di raggiungere
il giusto equilibrio nella continua dialettica tra l’«essere socio-economico
(l’insieme dei comportamenti tenuti dai soggetti nella loro obiettività
storica) e – il – dover essere giuridico (l’insieme delle norme di
comportamento rese effettive dalle rispettive sanzioni)»[65], ineludibile nella realtà
dei rapporti sociali, in specie nel rapporto di lavoro a ragione della formale
e sostanziale diseguaglianza delle parti.
Diseguaglianza nella quale si radica, appunto, il particolare
significato assiologico del diritto del lavoro.
Il rispetto di quell’essenza intoccabile e dei principi
costituzionali segna, pertanto, il limite invalicabile della discrezionalità
delle scelte politiche e dei conseguenti interventi del legislatore.
Questo non significa certo negare la necessità di un adeguamento
della disciplina; sono, al contrario, sotto gli occhi di tutti i profondi
mutamenti di ordine sociale, economico, antropologico e sul piano dei sistemi
produttivi che lo impongono.
Il diritto del lavoro, infatti, per mutuare una felice
espressione di Lyon Caen: «non si trova dietro di noi, ma è davanti a noi».
«Dietro di noi vi sono
profondi cambiamenti sociali che hanno mutato il quadro di riferimento del
diritto del lavoro. La sua struttura monolitica, pensata per una società che
non c’è più, è venuta meno. Il sogno di una piena occupazione è stato rimesso
nel cassetto proprio quando sembrava a portata di mano. Giugni ha parlato di
“una fase di vera e propria piena occupazione strutturale”. Quindi si sono
affacciate nuove forme di disoccupazione, a partire dagli anni ’70, e nuove
povertà, poi le migrazioni bibliche, provenienti dal sud e dall’est, che hanno
trovato impreparate molte delle nostre società.
Ma vi è di più. Abbiamo
assistito anche ad un profondo cambiamento antropologico che ha interessato
direttamente quella che chiamavamo classe operaia, uso questa espressione
mutuandola da Ernesto Balducci, che la riferiva all’evoluzione dei soggetti
della politica negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso (…).
Ed il mutamento non riguarda
solo la diversificazione tra i fortunati abitanti della cittadella, i
cosiddetti insiders, ed i nuovi paria
che stazionano nelle periferie del lavoro, gli outsiders, ma si incunea anche all’interno dello zoccolo duro dei
garantiti, epigoni di quella classe operaia che, in un fortunato contesto, ha guadagnato
i più alti livelli di garantismo legale ed ha affermato la centralità della
fonte contrattuale e dei suoi soggetti.
Il diritto del lavoro, dopo
tutto ciò, scivola sempre più sul piano inclinato della frammentazione dei tipi
e delle tutele, alcuni dei principi che hanno caratterizzato la sua storia
vacillano, come quello dell’inderogabilità, e la prospettiva di una sempre più
marcata neo-individualizzazione è una sirena che canta con voce suadente»[66].
Vacillano, dunque, quei valori non negoziabili, i diritti
fondamentali della persona, per i quali la nostra Carta costituzionale ha
previsto un ‘sistema di bilanciamento’ di ‘perenne attualità’ e quei principi
fondamentali contenuti nel titolo dedicato ai rapporti economici che,
‘opportunamente rivisitati’, devono guidare quella necessaria fase di
adeguamento dell’odierna realtà[67].
Essi devono, al contrario, essere calcolati «in prededuzione nella definizione del costo di una operazione
economico-produttiva»; non si può, infatti, condividere l’idea che il limite di
tali diritti sia costituito dalla tollerabilità del loro costo all’interno di
una società in un determinato momento storico[68].
Matura così la consapevolezza che la crisi di identità del
diritto del lavoro debba condurre a prospettarne un futuro nel segno di una
attenuazione dell’enfasi, posta tradizionalmente, sul suo essere un diritto diseguale: l’insieme delle
norme, cioè, poste a tutela del lavoratore subordinato, contraente debole, nei
confronti del datore di lavoro, nella visione, piuttosto angusta, del conflitto
interindividuale-collettivo.
E punto focale della riflessione dottrinale diviene, altresì, il
mutamento nella logica del sistema produttivo: il processo di scomposizione
dell’impresa e il connesso fenomeno della esternalizzazione di fasi o segmenti
di essa che fanno apparire fisiologici
aspetti, prima considerati patologici. Fenomeno, questo, «sintomatico del
passaggio dal fordismo – di cui è
icona la fabbrica verticalmente integrata – al post-fordismo caratterizzato dall’impresa a rete»[69].
Si rileva, pertanto, «l’appannarsi sul terreno sociale della
identità del lavoratore subordinato», come effetto della fine del fordismo, da
un lato, e «la progressiva ‘specializzazione’ degli statuti del lavoro
subordinato, che rende il diritto del lavoro sempre meno uniforme e
universale», dall’altro.
Un profondo ‘sommovimento di certezze’!
Sommovimento che consegue alla perdita dell’’immagine unitaria
della subordinazione’, in reciproca relazione con la pluralizzazione delle
tipologie normative del rapporto di lavoro che fa venir meno «la tensione verso
un sistema di garanzie uniformi e di applicazione universale»[70].
La risposta del legislatore, una risposta ‘politica’, per
riprendere il punto nodale del ‘rapporto tra politica e strumenti’, è stata,
dunque, una serie di interventi tesi alla ‘flessibilizzazione dell’apparato
garantistico’ ottenuta,
«attraverso formule di
decentramento o devoluzione normativa a sedi amministrative, sindacali o
tripartite; al superamento di tecniche di normazione astratta e generale in
favore di più duttili discipline del caso concreto; si pensi (…) al
moltiplicarsi dei criteri di integrazione e raccordo tra legge e contratto
collettivo; o all’alterazione, sia pure in guisa di eccezione, del tradizionale
principio di inderogabilità in peius tra fonti eteronome e fonti autonome.
Fenomeni questi, che, pur non intaccando il nucleo centrale e la fisionomia
tradizionale dell’ordinamento del lavoro, concorrono (…) a caratterizzarlo e
sono comunque sintomi di trasformazioni profonde»[71].
E, la dottrina, dal suo canto, di fronte a questa evidente
modificazione e frammentazione dei sistemi produttivi e di organizzazione del
lavoro, si interroga sulla tenuta dell’oggetto scientifico della disciplina,
considerata sino ad allora ‘statuto protettivo’ del solo lavoratore subordinato
ex art. 2094 c.c.[72].
Si è parlato a questo proposito di ‘dissesto del paradigma
originario’ del diritto del lavoro, con ciò volendo significare, appunto, il
lungo e travagliato processo di erosione del concetto tradizionale di
subordinazione che ha affaticato per lustri gli studiosi, dividendoli tra i
fautori della perdurante idoneità della fattispecie tipica ex art. 2094
c.c. a costituire l’oggetto stesso della disciplina lavoristica e coloro che,
invece, hanno posto in dubbio la sua tenuta sino a negarne l’attuale funzione[73].
Del resto, secondo
un’intuizione lontana nel tempo ma non per questo meno attuale, «il processo
genetico della nozione di subordinazione ha condotto a risultati che,
apparentemente acquisiti, richiedono invece pur sempre un’opera di verifica dei
presupposti e dei fini in presenza e in vista dei quali essi sono stati
raggiunti»[74].
Prospettiva questa senz’altro
condivisibile che richiede l’ulteriore precisazione che la crisi della nozione
di subordinazione, e il dibattito che si è sviluppato intorno a questo tema,
corre lungo la direttrice che la pone in alternativa alla nozione di autonomia
ricavabile in negativo dall’art. 2222 c.c., e dunque non tocca il diverso
profilo dell’apertura del diritto del lavoro alla regolazione del lavoro
pubblico.
Ciò che rileva a questo fine è raccogliere gli esiti di quel
dibattito relativo allo «slittamento tra il diritto del lavoro e il suo
oggetto» o, detto in altri termini, alla ‘sfasatura’ tra il sistema di
protezione e le forme reali di lavoro che, però, non può essere imputata
esclusivamente alla crisi della nozione dogmatica di subordinazione, bensì alla
consapevolezza che la differenza tra le garanzie accordate non può più
considerarsi «razionalmente fondata su fattori di distinzione condivisi»[75].
Sotto un profilo ‘propriamente teorico-speculativo’, sembra,
allora, particolarmente proficua, la prospettazione di una vis expansiva del diritto del lavoro subordinato oltre la
subordinazione, «escogitando tutele parallele e financo coincidenti», sino alla
sollecitazione che «il diritto del lavoro debba – pena il ridursi progressivo
del proprio oggetto – appropriarsi del lavoro autonomo»[76].
La necessità di determinare nuovi modelli, che siano idonei a
regolare gli attuali fenomeni di trasformazione dei processi produttivi, e
soprattutto l’esigenza di rimodulare le tutele connesse alle diverse forme di
lavoro e alle categorie qualificatorie del diritto del lavoro, è stata così
autorevolmente segnalata e dibattuta ben oltre la contrapposizione tra i due
tipi di lavoro, subordinato e autonomo, della quale peraltro si pone in dubbio
la motivazione obiettiva e la rispondenza ad una esigenza logica, storica e
ontologica.
Si propone in alternativa una lettura delle norme costituzionali
sul lavoro che conduca ad affermare che sono i ‘lavori’ e, dunque, il lavoro in
tutte le sue forme e applicazioni, secondo il principio sancito dall’articolo
35, che il legislatore costituente ha voluto indicare per il raggiungimento del
progresso materiale della società[77].
Si auspica così l’introduzione di un regime protettivo ‘globale e
dinamico’, in contrapposizione a quello allora attuale ‘protettivo ingessato’,
«che (…) contribuisce a riprodurre un mercato del lavoro
schizofrenico fra insiders e outsiders, secondo linee divisorie di
età, genere, territorio, lo Statuto dei lavori intende fornire una risposta,
tributaria alla suggestione del lavoro sans
phrase e tradotta nella figura suggestiva di una “concentricità delle
(fattispecie e delle) tutele”. L’esistenza di una pluralità di cerchi che
insistono con raggi diversi sullo stesso centro rende visivamente percepibile
una politica del diritto garantista, ma anche relativamente flessibile:
garantista perché costruita sull’idea-forza del lavoro personale sempre e
comunque meritevole di una tutela individuale e, se possibile, collettiva, tale
da assicurare una copertura crescente dal cerchio più esterno (il lavoro senza
aggettivi) a quello più interno (il lavoro subordinato); flessibile, perché
realizzata tramite una graduazione di quella stessa tutela, idonea a
sdrammatizzare la mobilità da cerchio a cerchio.
Niente da dire, una bella immagine per una bella politica del
diritto. Essa, però, riesce “artificiosa” perché fornisce l’impressione che lo
Statuto dei lavori sia costruito su un crescente arricchimento della dote
garantista prevista per il lavoro senza aggettivi, mentre la realtà è
tutt’affatto diversa, perché è di fatto articolato su un progressivo
depauperamento della dote protettiva prevista per il lavoro subordinato dal
regime esistente»[78].
L’idea complessiva che si può trarre dal dibattito, cui si è
brevemente accennato, è comunque quella che le diverse prospettazioni alle
quali si è fatto riferimento denotino la comune esigenza di ridefinire l’ambito
di applicazione del diritto del lavoro.
Esigenza necessitata, inoltre, dal profondo cambiamento indotto
da quel ‘progetto di società europea’ del quale fanno parte gli ordinamenti
nazionali, con ciò assumendo l’obbligo di armonizzare le proprie categorie
concettuali alla normativa comunitaria nella sua continua evoluzione.
Nel caso specifico dell’Italia, tuttavia, si pone il problema di
non facile soluzione del contemperamento tra il rispetto di quell’obbligo e il
rispetto dei principi della nostra Carta costituzionale. Si è già sottolineato,
infatti, che il diritto al lavoro è enunciato come principio fondamentale, non
solo in forma esplicita nell’articolo 4, ma implicitamente nelle disposizioni
degli articoli 1, 2 e 3, e diffusamente nel titolo III intitolato ai rapporti
economici (artt. 35-41, 46)[79].
Dal riconoscimento del diritto al lavoro come diritto
costituzionale, ancora, solo per fare un cenno, proprio per ‘il tipo di Stato’
al quale i nostri padri costituenti hanno voluto dar vita, già Costantino
Mortati faceva discendere il corollario che
«il promovimento delle condizioni per soddisfarlo corrisponde ad
un vero e proprio obbligo giuridico dello Stato, da adempiere con l’osservanza
delle norme tecniche che rendono idonei al fine i mezzi da impiegare e con il
gradualismo consigliato dall’opportunità politica, ma il cui adempimento non
può essere sospeso se non per eventi di forza maggiore»[80].
Certo lo scenario entro il quale si svolgeva quel dibattito è
profondamente mutato e sempre più il processo d’integrazione europea, pur nei
limiti del principio di sussidiarietà, influenza la scelta delle politiche e
dei mezzi per soddisfarle, ma tale scelta deve comunque salvaguardare quel
nucleo essenziale di valori che nella nostra Costituzione affermano e
promuovono la solidarietà sociale.
La sanzione del diritto al lavoro, perciò, sottrae «alla
discrezionalità legislativa e politica dei poteri costituzionali, se non il
come, certo il se della concretizzazione delle condizioni che lo rendono effettivo»[81].
Dunque, se è vero, come afferma D’Antona, che nel ‘progetto di
società europea’ il diritto al lavoro resta ancorato al “nesso tra crescita e
occupazione”, è anche vero che:
«(i)l diritto al lavoro perde anche qualcosa, rispetto ai densi
riferimenti storici che lo connotano, e il qualcosa è il forte orientamento
all’‘avere’ (alla stabilità, all’uniformità). Anche il lavoro, ossia il posto,
con le garanzie di stabilità, cosa che si può esprimere anche in termini di property in job, con il corredo di
identità di status legata alla
qualifica, sono derivazioni storiche del diritto al lavoro che tuttavia
sopravanzano il nucleo essenziale e attuale della tutela costituzionale, anche
perché rimandano a un modello di impresa e di organizzazione del lavoro,
rigida, uniforme, durevole, che tende al declino. Il diritto al lavoro, sia
come ‘pretesa a’ sia come ‘diritto di’, sembra spostare il suo baricentro, pur
condensando la sua valenza assiologica e prescrittiva, sull’‘essere’ ossia
sulla persona. Quando si parla di impiegabilità, quando si sottolinea
l’irrinunciabilità di una tutela che assicuri a chi cerca, o cerca di
conservare, il lavoro, uguali punti di partenza ma non di arrivo; quando si
indica nelle strategie di sostegno del lavoratore nel mercato del lavoro il
meglio che l’approccio micro-economico può fare in aree di alta disoccupazione
(fermo restando che senza sviluppo non si creano posti di lavoro); quando
infine si denuncia il carattere risarcitorio del nostro welfare e l’assenza o
quasi di forme di sostegno del reddito universali e orientate a favorire la
riallocazione nel lavoro, e non invece l’autoesclusione a carico dello Stato
delle sole categorie che godono di ammortizzatori sociali; altro non si fa che
‘prendere sul serio il diritto al lavoro’ come garanzia costituzionale della
‘persona sociale’, aggiornandola però come garanzia dell’essere anziché
dell’avere»[82].
A ragione, dunque, in questa tormentata fase di riflessione,
afferma magistralmente il Perulli:
«(i)l pensiero di Massimo
D’Antona costituisce probabilmente la più alta e lucida rappresentazione delle
forme normative che, in un quadro riordinato di identità e differenze, delineano
le grandi direttrici di tendenza dell’epistemologia giuslavoristica nello
scenario sociale e tecnologico del postfordismo. La chiarezza della sua
dottrina è sintesi di un’analisi profonda, che, abbracciando e oltrepassando il
campo di tutte le scienze sociali, guarda all’evoluzione delle istituzioni
giuridiche come “parte della cultura e come fattore costitutivo, e non mero
prodotto, dell’esperienza umana di un’epoca”; ed è proprio tale consapevolezza
‘antropologica’ che consente a D’Antona di applicare in apicibus il metodo giuridico postpositivista, recuperando al
dominio della razionalità ordinamentale la componente politica del diritto:
intesa quest’ultima come tensione valoriale e pulsione extrastatuale fondata su
qualche sostanza ideale – irriducibile quindi alla mera Razionalisierung sociale – che costituisce l’aspetto maggiormente
significativo e rilevante sia dell’elaborazione concettuale che della
produzione normativa giuslavoristica»[83].
E, una sorta di processo di scomposizione analogo a quello, in
estrema sintesi, delineato si manifesta anche nel settore pubblico, indotto
dalla «ridefinizione del perimetro
dell’amministrazione» come risposta all’ampliamento dei compiti delle
amministrazioni pubbliche:
«nuove prestazioni e nuovi
servizi nel campo dei servizi alle persone, del territorio e dell’ambiente,
dell’intervento e della regolazione dell’economia (un secolo fa, per esempio,
esulavano totalmente dalla sfera delle competenze delle istituzioni pubbliche
attività come la tutela dell’ambiente, lo smaltimento dei rifiuti, la lotta
all’inquinamento dell’aria e dell’acqua, o alla congestione del traffico
urbano). Ai nuovi compiti e ai nuovi servizi si è fatto fronte anche avviando
processi di esternalizzazione, e dunque trasferendo funzioni e servizi dalla
mano pubblica a soggetti privati o del terzo settore o settore non-profit; ma l’amministrazione
pubblica deve in tal caso attrezzarsi per svolgere funzioni diverse, ma non
meno importanti di quelle dell’erogazione diretta di prestazioni e servizi,
deve attrezzarsi per regolare e monitorare le attività e i servizi
esternalizzati, e per garantire che siano rispettati i diritti costituzionali
dei cittadini, a partire dall’universalità dell’accesso ai servizi»[84].
Ed è proprio negli anni, caratterizzati dall’esigenza di
costruire «una teoria del lavoro come ‘istituto giuridico’ decontestualizzato
dalle partizioni tramandate e candidato a subentrare al nucleo originario nei
suoi rapporti con la pluralità di forme differenziate situate nei diversi
contesti del facere funzionalmente
coordinato»[85],
cade lo storico steccato tra lavoro privato e lavoro pubblico[86].
Si apre così il varco ad una filosofia comune del lavoro
dipendente, tra le riserve di una parte della dottrina e l’impegno, assunto
come ‘ineludibile’ per il giuslavorista da altra dottrina, a costruirne le
fondamenta sul presupposto che:
«(i) rapporti di lavoro
pubblico costituiscono varianti normative di quella medesima relazione sociale
che nel privato veste i panni di un contratto tipico; l’autonomia scientifica
del diritto del lavoro non è una nicchia di specialità nell’alveo dei diritti
dei contratti. Se il lavoro subordinato tende a modellarsi, per effetto della
crescente importanza delle burocrazie pubbliche e dei servizi, secondo moduli
divergenti dalla figura del contratto di lavoro, non si potranno chiudere gli
occhi di fronte alla complicazione dell’oggetto della materia.
In quelle riserve coglierei
piuttosto un implicito monito: a non trascurare il rischio, immanente
nell’ottica giuslavorista, di una visione parziale dei problemi del lavoro
negli apparati pubblici, concentrata, per usare un’immagine cara a Sabino
Cassese, molto sul profilo dei mezzi e poco su quello dei fini dell’azione
amministrativa. Il monito vale, in particolar modo, per chi si accinge a
rivisitare il tema della ‘diversità’ dell’impiego pubblico, tema nel quale da
sempre (…) – come si è già sottolineato - si intrecciano due filoni
problematici, uno dei quali riguarda propriamente lo statuto normativo del
rapporto di impiego, l’altro i caratteri dell’organizzazione di lavoro negli
apparati pubblici»[87].
Per converso un rischio, anch’esso ‘immanente’ nella prospettiva
del giuslavorista, è quello di ‘impadronirsi’ del processo di privatizzazione
del pubblico impiego, relegando in secondo piano il significato proprio e
unificante degli interventi legislativi, tesi piuttosto a riformare l’apparato
complessivo del sistema amministrativo.
In altri termini, il rischio che i giuslavoristi diventino
‘inconsapevoli alleati’ di una inversione di prospettiva giacché «i problemi
del personale seguono e non precedono quelli della struttura, organizzazione e
funzionamento delle amministrazioni»[88].
Ora, se non è revocabile in dubbio che la ‘materia’, oggetto
d’intervento, ha costituito storicamente campo di elezione della riflessione
degli amministrativisti, sembra difficile comprendere il perdurare dell’idea di
quella pretesa separatezza tra le ‘categorie concettuali’ proprie del diritto
amministrativo e quelle proprie del diritto del lavoro, se non considerandolo
come effetto della «scarsa comunicazione tra le due discipline».
Mentre tra i giuslavoristi, infatti, si tende a valorizzare il
dato oggettivo della ‘evoluzione del diritto positivo’ che dovrebbe decretare
il superamento ‘dei paradigmi analitici pubblicistici’, gli amministrativisti
tendono a considerare i primi «dei parvenus,
sprovvisti della tradizione dogmatica di cui si sono ammantati»[89].
Ecco che diventa imprescindibile recuperare il significato della
rete dei rapporti tra politica, fini e strumenti, di cui si è detto.
In questa prospettiva va letta la scelta del legislatore di ricorrere
alle disposizioni del codice civile e alle leggi sul rapporto di lavoro
subordinato nell’impresa per disciplinare i rapporti di lavoro dei dipendenti
pubblici: solo uno degli strumenti, peraltro distorto nei suoi fini, per
garantire l’efficienza delle pubbliche amministrazioni all’interno di un
disegno complessivo di riorganizzazione di queste ultime, ancora in atto.
Il suo presupposto è:
«la riscoperta del diritto privato come
mezzo ‘neutro’, cioè spendibile a prescindere dal fine ultimo perseguito,
privato o pubblico che sia; tale, quindi, da poter essere utilizzato in base ad
un giudizio compara ‘neutro’ rispetto al fine ultimo – dell’attività nel suo
complesso – controllabile secondo tecniche pubblicistiche, non al fine
immediato dell’atto, affidato al giudizio del suo attore e sindacabile secondo
le tecniche privatistiche»[90].
‘Riscoperta’ resa possibile dalla rilettura dell’articolo 97
Cost., suggerita dalla Corte Costituzionale, secondo la quale i principi del
buon andamento e dell’imparzialità possono essere garantiti indifferentemente
da un regime pubblicistico o privatistico, «dipendendo tutto da un confronto
mezzo-fine rimesso al giudizio discrezionale del legislatore»[91].
E così finalmente, «dopo circa un secolo di ‘norme di
organizzazione’ ispirate alla logica burocratica, il legislatore degli anni ’90
vara un intervento legislativo edificato su ‘norme di organizzazione’ ispirate veramente alla logica
dell’organizzazione»[92], sebbene i risultati
sperati non siano stati raggiunti per le molteplici ragioni alle quali si è
fatto riferimento.
Si può comunque affermare che gli esiti negativi segnalati
trovano la loro causa efficiente nella mancata individuazione della corretta
‘chiave di lettura’ che avrebbe dovuto informare il cambiamento, aprendo ai
presupposti teorici che hanno mosso la riforma verso la progettazione di
un’organizzazione del lavoro pubblico moderna, basata sul contratto di lavoro.
Questa ‘chiave di lettura’, suggerita da Mario Rusciano, avrebbe
dovuto consentire il definitivo superamento della pregiudiziale convinzione che
l’applicazione della disciplina lavoristica sbilanci la tutela dell’ordinamento
in favore dei dipendenti a discapito degli interessi dell’amministrazione.
Si è resa così evidente la «compatibilità
fra il diritto del lavoro e l’interesse generale che pervade la prestazione di
lavoro nelle pubbliche amministrazioni», nella considerazione che il diritto
del lavoro, già da tempo[93],
«è incentrato sul contratto di lavoro
inteso quale duttile schema giuridico, in cui trovano tutela così gli interessi
del lavoratore come le esigenze dell’organizzazione, secondo un equilibrio
storicamente mutevole e variamente graduabile. Perciò il diritto del lavoro –
in una visione moderna e completa – potrebbe essere definito come insieme di
regole per la gestione delle risorse umane nelle organizzazioni produttive.
Ecco perché la sua applicazione al pubblico impiego presuppone che al centro di
ogni operazione interpretativa venga posta la logica dell’‘organizzazione’. E
questo, per il pubblico impiego, costituisce un vero ‘salto’ culturale o (…) il
passaggio da un pianeta a un altro»[94].
L’idea è stata quella di raccogliere, per poi suggerire,
attraverso una selezione di brani di diversi Autori, spunti di riflessione
sulle questioni di fondo che il processo di
contrattualizzazione/privatizzazione del pubblico impiego pone al
giuslavorista, chiamato da tempo a considerare la fattispecie tipica di
riferimento del diritto del lavoro inclusiva del rapporto di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Tali questioni, strettamente
correlate, ineriscono, da un lato, l’incidenza della natura pubblica del datore
di lavoro sul regime contrattuale del rapporto di lavoro privatizzato,
dall’altro, l’incidenza del “vincolo di scopo” sull’ampiezza e sulla qualità
dell’obbligazione dedotta in contratto dal pubblico dipendente.
This study gathers the contributions of several
academics with the view of offering a critical approach to fundamental issues
relating to the process of contractualization/privatization of public sector
employment law, as frequently tackled by labour lawyers in trying to address
the notion of employment contract in a comprehensive way. These issues, all
closely connected, relate to the public status of the employer vis a vis the (privatized)
employment contract and to the impact of the peculiar public purpose in setting
out the boundaries and characteristics of the relevant employment obligation.
[Per la pubblicazione degli
articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] M.
RUINI, Nel mondo della burocrazia: le tre
fasi di Travet, in Critica sociale,
XIX, 1909.
[2] M.S.
GIANNINI, Rapporto sui principali
problemi della amministrazione dello Stato, trasmesso alle Camere dal Ministro
per la funzione pubblica (Massimo Severo Giannini), il 16 novembre 1979, 5-6.
[3] P.
ICHINO, I nullafacenti, Perché e come reagire alla più grave
ingiustizia della nostra amministrazione pubblica, Milano, Mondadori, 2006,
3-4.
[6] F. PATRONI GRIFFI, La riforma del settore pubblico, testo
delle prolusioni all’inaugurazione del Master in Scienza dell’amministrazione
organizzato dalle università La Sapienza e Luiss - Roma, 23 novembre 2012- e
all’inaugurazione dell’anno accademico della SPISA- Bologna, 24 novembre 2012),
in www.funzionepubblica.gov.it, dove l’A. altresì, richiamando le Allegorie
del Lorenzetti, contrappone il buon governo al mal governo e prosegue: «il tema
del buon governo ci conduce inevitabilmente a quello dell’etica pubblica, che non
può andare disgiunta, ancorché ne resti distinta, dall’etica individuale,
perché – come ammonisce Russell – “moralità civica e moralità personale sono
ugualmente necessari”. Se ci è consentito ricorrere a un’immagine – come
suggerisce Francesco Forte nel recensire un libro di Ernesto Rossi sul
buongoverno secondo Einaudi – si può quindi parlare di una “nozione
architettonica in senso ampio del buon governo, come architettura della casa,
del podere e della città, nelle sue parti private e pubbliche, in cui ciascuno
è signore”».
[7] Sul
punto A. POLICE, Le risorse umane, in
Diritto Amministrativo (a cura di) G.
SCOCA, Torino, Giappichelli Editore, 2014, 458 ss.; S. BATTINI, Il principio di separazione fra politica e
amministrazione in Italia: un bilancio, in RTDP, 2012, passim. Per
una nitida immagine della storia giuridico-amministrativa e politico-sociale
dell’amministrazione italiana nel periodo che va dal 1861 al 1993: G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana
(1861-1993), Bologna, Società editrice il Mulino, 1996.
[8] Così
M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, Società editrice il Mulino,
1978, 16 ss.
[10] M.
D’ANTONA, La prospettiva del diritto del
lavoro, in B. CARUSO e S. SCIARRA (cura di), Opere, vol. IV, Scritti sul
pubblico impiego e sulla pubblica amministrazione, Milano, Giuffrè Editore,
2000, 3.
[11] A.
ORSI BATTAGLINI, Fonti normative e regime
giuridico del rapporto d’impiego con enti pubblici, in DLRI, 1993, 461-462, dove l’A. osserva che il «pregiudizio
ontologico» ha indotto «una lettura dell’art. 97 Cost. che non solo ha
presentato tale norma come dato centrale ed esclusivo di qualificazione del
problema, ma che ha fatto in essa confusamente (e talvolta addirittura
inconsapevolmente) affluire significati diversi, non necessariamente
coessenziali, sì da presentarla come porta di ingresso e di legittimazione
dell’intera tradizione preesistente».
[12] Per
una breve ma efficace sintesi: M. D’ALBERTI, Mario Rusciano e il pubblico impiego,
in Il contributo di Mario Rusciano all’evoluzione
teorica del diritto del lavoro. Lavoro
pubblico, rappresentanza sindacale,
contratto collettivo, diritto di sciopero, Studi in onore,
Torino, G. Giappichelli Editore, 2013, 43 ss.; sul punto di particolare
interesse la ricostruzione di U. CARABELLI, La
riforma del lavoro pubblico: alcune sequenze fotografiche, in Scritti in onore di Edoardo Ghera, t. I,
Bari, Cacucci Editore, 2008, 187 ss.
[14] Pietra
miliare nella prospettiva giuslavoristica, ma non solo, il volume di M.
RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia,
cit.; l’opera viene definita
“saggio”, S. CASSESE, Dall’impiego
pubblico al lavoro con le pubbliche amministrazioni: la grande illusione?,
in Il contributo di Mario Rusciano
all’evoluzione teorica del diritto del lavoro, cit., 38 ss., dove Cassese osserva che essa «si colloca in quel
filone di pensiero che va da Tocqueville a Dicey, a Giannini, che critica la
specialità del diritto amministrativo, inteso come diritto privilegiato,
dominato dagli strumenti dell’autorità, di cui si è circondata la pubblica
amministrazione per un lungo periodo della sua storia, motivandoli con la
necessaria superiorità dell’interesse pubblico». Sul tema nella sterminata
letteratura oltre alla recente sintesi di G. MELIS, La pubblica amministrazione: una riforma mancata, in GDA, 2012, 101 ss.; ID., La burocrazia,
Bologna, il Mulino, 2003, riedizione dello scritto del 1998; ID., Storia
dell’amministrazione italiana (1861-1993), cit.; M. CAMMELLI La pubblica
amministrazione, Bologna, il Mulino, 2004. Per affrontare la storia della
nostra amministrazione pubblica nell’ampia prospettiva delle vicende economiche
dell’Italia negli stessi anni: V. ZAMAGNI, Dalla
periferia al centro, La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1990),
Bologna, Società editrice il Mulino, 1990.
[15] L.
MONTUSCHI, A proposito di mitologie nel
riformismo del lavoro pubblico, in Il
contributo di Mario Rusciano all’evoluzione teorica del diritto del lavoro,
cit., 50; sulla diversa concezione
del rapporto di lavoro nel diritto del lavoro del settore privato e del diritto
amministrativo, nel quale esso è «considerato e disciplinato come elemento
strutturale dell’organizzazione, per cui la disciplina dei suoi contenuti fa
tutt’uno con la disciplina dell’organizzazione e dell’attività amministrative»,
in generale: F. LISO, La privatizzazione
dei rapporti di lavoro, in Il lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Commentario, dir. da F. CARINCI e M. D’ANTONA, t. I, Milano,
Giuffrè Editore, 2000, 192-193.
[16] L.
MONTUSCHI, A proposito di mitologie nel
riformismo del lavoro pubblico, cit.,
53. Dove l’A. riassume alcuni passaggi fondamentali del legislatore successivi
alla riforma del 2009: «si va dal bricolage
extravagante del c.d. Collegato al lavoro (l. 4 novembre 2010 n. 183)
all’azione più incisiva sul personale delle pubbliche amministrazioni
attraverso la c.d. spending review
(cfr. spec. artt. 2 e 14, d. l. 6 luglio 2012 n. 95, conv. in l. 7 agosto 2012
n. 135), sino alla riforma della disciplina del mercato del lavoro (l. 28
giugno 2012 n. 92), le cui disposizioni costituiscono “principi e criteri” per
la regolamentazione dei rapporti di lavoro pubblico (cfr. art. 1, co. 7).
L’intesa raggiunta in sede di conferenza Unificata Stato-Regioni e Provincie
Autonome nel maggio 2012 ha passato in rassegna numerose criticità emerse
nell’attuazione della Riforma Brunetta e definito gli obiettivi di massima ai
quali dovrà ispirarsi una futura iniziativa legislativa destinata a realizzare
il necessario allineamento del settore pubblico al nuovo quadro normativo che
s’è coagulato negli ultimi anni». E il cammino del nostro legislatore non si è
fermato qui, così ad esempio, tra gli ultimi interventi il d. l. n. 101/2013
conv. dalla l. n. 125/2013 sulla riduzione della spesa per gli incarichi, sul
lavoro flessibile, sul reclutamento “ordinario, sul diritto allo scorrimento
delle graduatorie, etc., definito «testo impegnativo, assai corposo e
soprattutto di difficile lettura» da A. TAMPIERI, Prime osservazioni sulla legge 30 ottobre 2013, n. 125, in LPA, 2013, 737 ss.
[17] B.
CARUSO, Gli esiti regolativi della
“Riforma Brunetta” (come cambia il diritto del lavoro nelle pubbliche
amministrazioni), in LPA, 2010,
236.
[18] Così
R. GALLI, Corso di diritto amministrativo,
V ed., vol. I, Padova, CEDAM, 2011, 153-158. Per una sintetica e nel contempo
esaustiva ricostruzione del processo di cambiamento del sistema organizzativo
v. ex multis P. TANDA, Controlli amministrativi e modelli di
governance della Pubblica Amministrazione,
Torino, Giappichelli, 2012, 9, il quale sottolinea il superamento del
tradizionale sistema dei controlli preventivi di legittimità essenzialmente
diretto, secondo una logica improntata al «principio della statualità
dell’interesse pubblico» e «alla centralità teorica del provvedimento
amministrativo», a proteggere l’unitarietà dell’apparato statale e della
organizzazione gerarchica dell’amministrazione dell’epoca, facendo ricorso alla
verifica sulla mera legittimità formale dell’atto singolo; verifica destinata
«a concludersi, a sua volta, con un altro provvedimento diretto esclusivamente
ad impedire l’efficacia dell’atto controllato», (10-11) della pubblica
amministrazione in quegli anni; S. BATTINI e B. CIMINO, La valutazione della performance nella riforma Brunetta, in Ideologia
e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, L. ZOPPOLI, (a cura di),
Napoli, Editoriale Scientifica, 2009, 255 ss.; D. D’ORSOGNA, Contributo allo studio dell’operazione
amministrativa, Napoli, Editoriale Scientifica, 2005, 135-152, dove l’A.
analizza le ragioni del passaggio dalla «costruzione dell’amministrazione “per
atti” intorno alla quale si è per lungo tempo rassodato lo studio del fenomeno
amministrativo (…) all’affermarsi di un nuovo modo di concepire
l’amministrazione, efficacemente sintetizzato nella formula “amministrazione di
risultato”».
[21] Così
P. TANDA, op. cit., 10 ss.; dove l’A. sottolinea che le nuove forme di controllo
prevedono misure correttive non più di tipo autoritativo – sanzionatorio bensì
collaborativo – correttivo, «le quali di norma portano, a conclusione della
fase della conoscenza e della valutazione dell’attività svolta,
all’elaborazione di una relazione il cui contenuto negativo comporta
l’attivazione di meccanismi di autocorrezione ma anche di responsabilità dei
soggetti coinvolti nell’esercizio dell’attività controllata».
[22] A.
ZITO, Il “diritto ad una buona
amministrazione” nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e
nell’ordinamento interno, in RIDPCom.,
2002, 430-431.
[23] Ancora
A. ZITO, op. loc. cit.; dove l’A.,
sottolinea «come il processo di integrazione europeo con la connessa formazione
del relativo ordinamento giuridico e con la connessa nascita del fenomeno della
coamministrazione sia stato fattore che, forse più di altri, ha concorso a
determinare i cambiamenti (a livello normativo ma anche a livello di
orientamenti giurisprudenziali) più significativi che si sono avuti nel nostro
sistema amministrativo perlomeno dall’entrata in vigore della Costituzione
repubblicana» e segnala «la centralità e la rilevanza che, dal punto di vista
amministrativo, rivestono le iniziative che si registrano nella dimensione
comunitaria e dunque la necessità di analizzare le medesime, quand’anche si
versi ancora in una fase propositiva, con estrema attenzione» (426). Sul punto
G. DELLA CANANEA, Il rinvio ai principi
dell’ordinamento comunitario, commento sub
art. 1, legge 7 agosto 1990, n. 241, in Codice
dell’azione amministrativa, M.A. SANDULLI (a cura di), Le fonti del diritto italiano, Milano, Giuffrè Editore, 2011,
107-108, dove l’A. afferma che la norma «si estende - in virtù dell’art. 51 –
anche ai poteri pubblici nazionali, ai quali spetti dare attuazione al diritto
dell’Unione», traendo la conclusione che il diritto alla buona amministrazione
non è decifrato esclusivamente nei medesimi termini del principio di
efficienza, ma piuttosto che esso «dia nerbo alla pretesa individuale a che
l’attività amministrativa si concluda entro un termine ragionevole»; per ciò
che, non è sufficiente che il termine venga stabilito, ed è necessario che esso
consenta «la spedita conclusione del procedimento. Verrebbe meno, altrimenti,
l’effetto utile di un diritto originale, che, oltre a concorrere con altri a
dare sostanza alla cittadinanza dell’Unione europea, spetta ad ogni persona».
Sul tema ex multis: S. CASSESE, Il diritto alla buona amministrazione,
in www.irpa.eu; F.G. SCOCA, Amministrazione
pubblica e diritto amministrativo nella giurisprudenza della Corte
Costituzionale, in DAmm., 2012,
43 ss.; C. COLAPIETRO, Una rilettura in
chiave personalistica delle amministrazioni e delle dirigenze pubbliche. Spunti
di riflessione, in LPA, 2012, 474
ss.; D. IMMORDINO, I principi di «buona
amministrazione nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico», in RAmm., 2011, 505 ss.; G. DELLA CANANEA, Al di là dei confini statuali, Principi generali del diritto pubblico
globale, Bologna, il Mulino, 2009, 91 ss.; M.A. SANDULLI, Buona Amministrazione e Costituzione europea,
in Processo costituente europeo e diritti
fondamentali, (a cura di) A. CELOTTO, Torino, G. Giappichelli Editore,
2004, 77 ss. Sul tema della buona amministrazione nella prospettiva del
giuslavorista: C. SPINELLI, Buona
amministrazione, efficienza organizzativa e produttività del lavoro: poteri e
responsabilità del dirigente pubblico, in LPA, 2009, 985 ss.; G. NICOSIA, Il
polimorfismo delle dirigenze pubbliche e la “buona” amministrazione, in WP
C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 81/2008.
[24] D.C.
NORTH, Capire il processo di cambiamento
economico, Bologna, il Mulino, 2006.
[26] S.
CASSESE, Prefazione, in Gli strumenti per governare, P.
LASCOUMES e P. LE GALES, (a cura di), Milano, Bruno Mondadori, 2009, IX, ID., Eclissi
o rinascita del diritto?, in Fine del
diritto?, (a cura di) P. ROSSI, Bologna, Società editrice il Mulino, 2009,
29 ss.
[27] M.
BARBERA, Trasformazioni della figura del
datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in La figura del datore di lavoro articolazione
e trasformazioni. In ricordo di
Massimo D’Antona, dieci anni dopo, AIDLASS, Atti del Congresso nazionale di
diritto del lavoro, Catania, 21-23 maggio 2001, Milano, Giuffrè Editore, 2010,
12-13, dove l’A. inserisce tali notazioni nell’analisi delle trasformazioni
alle quali è stata soggetta nel tempo la figura del datore di lavoro,
soprattutto come conseguenza dei «processi di frammentazione e
esternalizzazione del ciclo produttivo» (disarticolazione spaziale interna) e
delle pressioni «che le libertà economiche esercitano sul diritto del lavoro
nel processo di integrazione dei mercati» (disarticolazione spaziale esterna),
16-17.
[29] Sempre
M. BARBERA, op. loc. cit., dove l’A.
avvisa che «nel discorso neo-liberale, l’impresa, da unità del mercato, diventa
espressione di una particolare visione
del mercato, vale a dire del mercato inteso come modalità di governance complessiva, che ingloba gli
interessi complessivi del datore di lavoro e del lavoratore».
[30] P.
LASCOUMES e P. LE GALES, Introduzione,
L’azione pubblica attraverso i suoi strumenti, in Gli strumenti per governare, P. LASCOUMES e P. GALLES, (a cura di),
cit., 1, ai quali altresì si rimanda
per l’ampia bibliografia degli studi sul tema.
[31] IBIDEM.
[32] R. DEL
PUNTA, Diritto del lavoro, II ed.,
Milano, Giuffrè, 2008, 97; per l’osservazione del forte coinvolgimento delle
‘culture specialistiche’ nell’‘eterna riforma’ del lavoro pubblico v. altresì
L. ZOPPOLI, Introduzione, La riforma del lavoro pubblico dalla “deregulation” alla
“meritocrazia”: quale continuità?, in Ideologia
e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, cit., 4.
[33] L.
MENGONI, Il contratto individuale di
lavoro, in GDLRI, 2000, 188-191,
il quale osserva che in risposta alla crisi economica il legislatore intervenne
con «provvedimenti in controtendenza rispetto alla politica legislativa degli
anni precedenti, che attenuarono le rigidità garantistiche dell’impiego della
manodopera (…) tenendone ferma però l’inderogabilità da parte dell’autonomia
individuale e delegando piuttosto poteri di deroga all’autonomia collettiva».
[35] P.
LASCOUMES e P. LE GALES, Introduzione,
L’azione pubblica attraverso i suoi strumenti, cit., 4 ss.
[37] V.
BACHELET, Evoluzione del ruolo e delle
strutture della pubblica amministrazione, in Scritti giuridici, I, L’amministrazione
pubblica, Milano, Dott. A. Giuffrè Editore, 1981, 419 ss.
[39] V.
BACHELET, Profili giuridici
dell’organizzazione amministrativa, Strutture
tradizionali e tendenze nuove, cit.,
194.
[41] G.
CORSO, Il principio di legalità,
commento sub art. 1, legge 7 agosto
1990, n. 241, in Codice dell’azione
amministrativa, M.A. SANDULLI (a cura di), Le fonti del diritto italiano, Milano, Giuffrè Editore, 2011, 4 ss.
[42] Ancora
G. CORSO, Il principio di legalità,
commento sub art. 1, legge 7 agosto
1990, n. 241, in Codice dell’azione
amministrativa, cit., dove l’A. fa
l’esempio della cultura che «costituisce una componente o una condizione
essenziale per il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2).
L’istruzione è un mezzo per acquisire la cultura; per un giovane capace e
meritevole, privo di mezzi, una borsa di studio rappresenta a sua volta un
mezzo per accedere ai gradi più alti degli studi (art. 34). Il finanziamento
delle borse di studio viene procurato dai pubblici poteri attingendo ai tributi
(art. 53), i quali costituiscono mezzi per quel fine intermedio (la borsa di
studio) che è nello stesso tempo mezzo per accedere agli studi universitari i
quali a loro volta consentono di conseguire il fine ulteriore della cultura che
è a sua volta mezzo per il pieno sviluppo della persona umana».
[43] V.
ONIDA, La Costituzione, II e agg.,
Bologna, il Mulino, 2007, 42-45, tuttavia, osserva l’Autore, per ciò che qui
sembra importante mettere in rilievo, «sarebbe del tutto erroneo vedere nella
Costituzione un prodotto prevalentemente nazionale, tanto meno autarchico»,
infatti i principi enunciati sono «quelli degli Stati democratici europei» e
spesso le formule adottate sono «mutuate da queste esperienze costituzionali, e
a loro volta sono riprese da Costituzioni più recenti».
[46] A.
ORSI BATTAGLINI, op. cit., 470 ss.,
dove l’A. prende in considerazione l’esempio del concorso e afferma che «è
evidente come questo fondamentale strumento sia inteso a garantire,
nell’interesse della pubblica amministrazione (…), la scelta dei migliori (buon
andamento) e una scelta non inficiata da preferenze di tipo non
tecnico-professionale (imparzialità): ma la valutazione circa il raggiungimento
di tali fini attraverso lo strumento medesimo può essere riferita, in base a
scelte complessive di opportunità del legislatore, tanto rispetto alla
legittimità di ogni singola procedura di assunzione, quanto rispetto
all’attività di reclutamento svolta, in un certo periodo di tempo, da una
determinata amministrazione; o ancora, tale valutazione può essere indotta da
risultati “sostanziali” dell’attività di quest’ultima». Può darsi, in altri
termini, che impiegati singolarmente assunti con ineccepibili procedure
lavorino in modo inefficiente; mentre può accadere che un reclutamento meno
rigorosamente controllato dia luogo a risultati positivi. Sul tema più di
recente v. D. D’ORSOGNA, Contributo
all’operazione amministrativa, cit.;
M. IMMORDINO, Certezza del diritto e
amministrazione di risultato, in M. IMMORDINO,
A. POLICE, Principio di legalità e amministrazione
di risultati, Torino, 2004.
[48] Sul
punto, in merito all’alternativa tra strumento autoritativo e strumento
negoziale nell’azione amministrativa, con particolare riferimento al significato
del principio di equità ex art. 41, I
c., della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che dovrebbe
pilotare la scelta, v. A. ZITO, op. cit.,
434 ss.
[49] B.
CARUSO, op. cit., 237-239 dove l’A.
sottolinea che «l’unitarietà regolativa statale
risente in maggior misura di fattori di ‘differenziazione regolativa
infranazionale’». Con particolare riferimento ai modelli di governance nel diritto del lavoro: L.
MARIUCCI, La crisi della governance nel diritto del lavoro, in DPC, 2011, 131 ss.; G.G. BALANDI,
Governance e diritto del lavoro, in idem, 115 ss.
[50] G.
ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino,
Einaudi, 1992, 6-7. Sul punto B. CARUSO, op.
cit., 236-240, il quale segnala, nella prospettiva europea, la resistenza
che manifestano «i diritti amministrativi e il diritto del lavoro applicato al
pubblico impiego (…) settori della regolazione – questi - dove ancora gli Stati
mantengono ferma la bussola della sovranità», pur dovendosi gioco forza
confrontare «con la pluralità accentuata delle fonti e degli strumenti di
regolazione»; L. HINNA, La direzione del
personale nelle pubbliche amministrazioni, Milano, Ipsoa, 2007, con
particolare riferimento ai condizionamenti che i fenomeni descritti esercitano
sui metodi di gestione delle risorse umane e delle relazioni sindacali nelle
amministrazioni dello Stato; A. ZOPPINI (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti giuridici, Bari, Laterza, 2004.
[51] M.
BARBERA, Diritti sociali e crisi del
costituzionalismo europeo, in http://csdle.lex.unict.it, 5 e 7.
[52] Sempre M. BARBERA, Diritti sociali e crisi del
costituzionalismo europeo, cit.,
7, dove l’A. specifica che tale via è stata imboccata per affrontare quel
«disorientamento provocato nei giuslavoristi da quello che è stato definito
come il “cambiamento di paradigma” della politica sociale europea,
cambiamento che si manifestava non solo nel mutamento delle politiche stesse
(che assumevano tratti marcatamente liberisti), ma anche nelle tecniche giuridiche
di regolazione adottate». Tecniche che si erano manifestate come
«un’alternativa all’armonizzazione funzionalista o coesiva alla quale era stato
a lungo associato il processo di integrazione comunitario, basato sull’adozione
di standard minimi uniformi e su
norme di carattere vincolante. Il nuovo approccio si caratterizzava per il
ricorso a norme procedurali e a orientamenti generali applicabili in modo
variabile, piuttosto che a norme sostanziali, dettagliate e poco flessibili».
[53] M.R.
FERRARESE, La governance tra politica e diritto, Bologna, il
Mulino, 2010; v. altresì V. FERRARI, Diritto
che cambia e diritto che svanisce, in Fine
del diritto?, cit., 37 ss.; per
completare un primo quadro d’insieme: G. DELLA CANANEA, Al di là dei confini statuali, cit.,
dove l’A. analizza tra l’altro la genesi e la struttura dei principi generali
del diritto pubblico globale, interrogandosi sul significato e il rilievo che
gli stessi possono avere come ‘categoria ordinante’, 153 ss.
[55] U.
ROMAGNOLI, Dal lavoro ai lavori, in Scritti in onore di Giuseppe Federico
Mancini, vol. I, Diritto del lavoro,
Milano, Giuffrè Editore, 1998, 510 ss., dove l’A. osserva lo iato tra la scarsa
incisività della sanzione dei diritti sociali nell’ordinamento europeo e la
‘perentorietà’ della nostra Costituzione nel riconoscere ‘a tutti i cittadini’
il diritto al lavoro e nell’imporre come dovere della Repubblica la promozione
delle condizioni che lo rendano effettivo (art. 4, I c.). Precisa, tuttavia,
l’A. che, non potendosi fondare su tale disposizione una «pretesa giuridica
immediatamente azionabile dai singoli all’ottenimento di un posto di lavoro
(…), il contenuto della promessa è indefinibile, il promittente è
inafferrabile».
[56] M.
D’ANTONA, Il diritto al lavoro nella
Costituzione e nell’ordinamento comunitario, in B. CARUSO e S. SCIARRA
(cura di), Opere, vol. I, cit.
[57] V.
PASSINO DETTORI, “Il diritto ad essere
utili”: spunti di riflessione sul lavoro nel settore non profit, in DL, 2005, I, 311-312.
[59] Per
un’efficace sintesi dei complessi rapporti fra economia e diritto del lavoro v.
R. DEL PUNTA, op. loc. cit.; dove
peraltro l’A. introduce al dibattito sui rapporti tra diritto del lavoro e
scienze sociali. Per un primo approccio secondo il metodo analitico di law and economics alla materia
giuslavoristica: P. ICHINO, Lezioni di diritto
del lavoro, Un approccio di labour
law and economics, Milano, Giuffrè, 2004; v. altresì ID., Il contratto di lavoro, in Trattato di diritto
civile e commerciale, diretto da A. CICU e F. MESSINEO, e continuato da L.
MENGONI, Milano, Giuffrè, 2000.
[60] All’‘apertura’
del giurista a questo piano d’indagine, per converso, dovrebbe corrispondere
una prospettiva dell’aziendalista che si coniughi con l’attenzione alla
normativa di riferimento così da raggiungere quella visione sistemica che sola
può consentire di realizzare gli obiettivi che l’organizzazione, qualunque essa
sia, si prefigge. Sul punto R. MERCURIO e V. ESPOSITO, La valutazione delle strutture: il punto di vista dello studioso di
organizzazione, in L. ZOPPOLI (a cura di), Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, cit., 232 ss. i quali tracciano un
inquadramento teorico dell’evoluzione del pensiero organizzativo contemporaneo
sul tema dell’organizzazione della pubblica amministrazione, in raffronto con
le caratteristiche essenziali del modello introdotto dal legislatore del 2009;
P. TANDA, op. cit., 14 ss., il quale
assegna particolare rilievo agli strumenti di programmazione e controllo.
[61] M.
BARBERA, Trasformazioni della figura del
datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, cit., 6, dove l’A. sottolinea che le due
grandi trasformazioni citate hanno inoltre fatto si che i ‘tempi del mercato
s’impongano ai modelli di relazioni contrattuali, l’impresa perda la sua
struttura monolitica, gli spazi entro cui si muovono i soggetti del mercato del
lavoro vengano ridefiniti.
[62] F.
SCARPELLI, La formazione del giurista del
lavoro tra paternalismo delle tutele, autonomia delle parti sociali, politica
del diritto, in Studi in onore di
Edoardo Ghera, vol. II, cit.,
1133-1134, dove l’A. afferma che ‘il segno della disciplina lavoristica’,
compiutamente espresso nella formula della ineludibile implicazione della persona del lavoratore nell’esecuzione della
prestazione di lavoro, può ben restare ‘impregiudicato’; e anzi «essere
(doverosamente) assunto come segno caratterizzante della regolazione dei
comportamenti economici». Sul punto U. ROMAGNOLI, Dal lavoro ai lavori, cit.,
512, il quale, partendo dall’osservazione che non esiste un nesso diretto tra
‘i cicli di sviluppo economico’ e l’incremento della ‘capacità occupazionale
dell’apparato produttivo’ avverte del rischio di un contrasto tra diritto al
lavoro e diritti di chi ha già il lavoro, dal quale deriverebbe
un’accentuazione della ‘complementarietà’ tra il diritto del lavoro e il
sistema economico.
[64] A.
PERULLI, Efficacia e diritto del lavoro,
in Studi in onore di Edoardo Ghera,
vol. II, cit., 893-894.
[65] P.
ICHINO, Il dialogo tra economia e diritto
del lavoro, in Lezioni di diritto del
lavoro, cit., 2 ss. L’Autore
specifica, poi, che «(d)iverso dal dover
essere che è ‘posto’ mediante la norma è anche l’essere degli effetti prodotti dalla norma, che come tale in larga
parte si presta a costituire oggetto dei modelli teorici e delle misurazioni
empiriche degli economisti. Si parla in proposito di ‘analisi economica del
diritto’: è questo il versante economico del nuovo comparto accademico che va
sotto il nome di law and economics. L’altro versante del law and economics, quello giuridico, che
possiamo indicare col termine ‘uso giuridico dell’analisi economica’, consiste
nell’utilizzazione dei risultati delle indagini dell’economista da parte del
giurista per lo svolgimento del suo compito peculiare, cioè per
l’interpretazione e l’applicazione della norma, (…)».
[66] G.
LOY, Una Repubblica fondata sul lavoro,
in L’attualità dei principi fondamentali
della Costituzione in materia di lavoro, E. GHERA e A. PACE (a cura di),
Napoli, Iovene Editore, 2009, 4-5. Per una breve e impareggiabile descrizione
della “lunga traiettoria” del diritto del lavoro, G. GIUGNI, Il diritto del lavoro: ieri, oggi e domani,
in Scritti in onore di Giuseppe Federico
Mancini, vol. I, Diritto del lavoro,
cit., 287 ss., dove il maestro sottolineava
che la prospettiva dell’innovazione o modernizzazione «è ancora lontana
dall’apparire adeguatamente sviluppata, e sembra più ricca di suggestioni che
non di ipotesi di cambiamento organico. Questo, infatti, al momento attuale
consiste nel tentativo di bilanciare il sistema di garanzie, che per sua natura
è vincolistico, con le leggi di mercato. In economie dominate dal mercato non
solo sul piano delle ideologie o del ‘pensiero unico’, ma della fattibilità
istituzionale, il campo di azione aperto ai prossimi anni se non decenni è
ampio e occorrerà un tempo lungo prima che venga percorso e sperimentato. Sarà
la politica dei ‘piccoli passi’ quella a dominare il campo. Ma il passo
decisivo sarà determinato, oggi come ieri, dalle grandi trasformazioni in corso
sul terreno delle grandi strutture socio-economiche che precederanno
l’evoluzione di queste ultime. Quel ‘tempo lungo’ è arrivato, ma non è certo
quella dei ‘piccoli passi’ la politica prescelta oggi dal nostro legislatore».
[67] G.
PROSPERETTI, Dall’art 3 agli artt. 35 ss.
della Costituzione, in L’attualità
dei principi fondamentali della Costituzione in materia di lavoro, cit., 79 ss.
[68] U.
CARABELLI, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su
contratto di lavoro e post-taylorismo, in GDLRI, 2004, 4, dove l’A. prosegue: «(s)i può affermare che in
realtà sono state assai frequenti – ed anzi lo stanno diventando sempre di più
– le ipotesi in cui ci si è resi disponibili ad accettare, o addirittura a
sostenere, che le ragioni di tutela del lavoratore, maturate dopo l’emanazione
della Costituzione a rafforzamento della sua posizione di contraente debole e
di cittadino sottoprotetto, possano essere sacrificate non soltanto in nome
dell’interesse collettivo all’occupazione – il quale, a saldo del ventennale
dominio del garantismo collettivo, si può dire essere stato nel complesso
riconosciuto, sia pure con critiche talora anche fondate, come interesse
meritevole di prevalere su quello meramente individuale di tipo economico/occupazionale
– bensì ormai anche in nome della pura logica della modernizzazione del sistema
produttivo. Quest’ultima in vero viene considerata inarrestabile e ineluttabile
giustiziera delle inefficienze e diseconomie prodotte dalla normativa lavoristica,
in una fase di complessiva ridefinizione delle dimensioni spazio/temporali
dell’attività produttiva, che mette in crisi tutte le certezze, anche giuridico
- regolative, del passato. Ciò se non altro in funzione della salvaguardia del
sistema economico-produttivo nel suo complesso, la cui efficienza costituisce
un interesse generale, anche per i suoi riflessi occupazionali».
[69] Sul
punto A. PERULLI, Tecniche di tutela nei
fenomeni di esternalizzazione, in ADL,
2003, 473-474, l’A., il quale osserva il fenomeno nel 2003, sottolinea che: il
diritto del lavoro, dunque, «tende (…) a rivedere i propri orientamenti, senza
peraltro obliterare l’esigenza di predisporre forme di tutela dei lavoratori
coinvolti nelle nuove forme di scomposizione e smaterializzazione
dell’impresa».
[70] M.
D’ANTONA, I mutamenti del diritto del
lavoro ed il problema della subordinazione, in Opere, B. CARUSO e S. SCIARRA (a cura di), vol. III, cit., 1208-1209.
[71] M.
D’ANTONA, Presentazione, in M.
D’ANTONA, R. DE LUCA TAMAJO, L. FERRARO, L. VENTURA (a cura di), Il diritto del lavoro negli anni 80,
Napoli, ESI, 1988, XI-XXI.
[72] E’
interessante notare come sia diverso l’approccio al problema della
individuazione della fattispecie lavoro subordinato da parte della dottrina
rispetto a quello della giurisprudenza, infatti, come da tempo ha segnalato il
Persiani mentre la dottrina «si prefigge prevalentemente di individuare, alla
stregua delle valutazioni accolte dall’ordinamento giuridico, quale sia la figura
tipica del lavoro subordinato», i giudici «si preoccupano di stabilire a posteriori, e attraverso una
valutazione dei fatti, se sussistano o no le ragioni che giustificano
l’applicazione della disciplina dettata per la figura tipica», e in questo «seguono
un procedimento logico che è diverso e, per certi aspetti, più complesso di
quello seguito dalla dottrina». E ciò si giustifica per l’ovvia ragione che «i
giudici non si preoccupano di individuare concetti astratti né di formulare
criteri, ma solo di risolvere i casi concreti»: M. PERSIANI, Riflessioni sulla giurisprudenza in tema di
individuazione della fattispecie lavoro subordinato, in Studi in onore di F. Santoro Passarelli,
vol. V, Napoli, Jovene, 1972, 868-872.
[73] Per
una analisi dei termini del dibattito v. M. ROCCELLA, Lavoro autonomo e
lavoro subordinato, oggi, in WP
C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona". IT - 65/2008; M. PERSIANI, Individuazione
delle nuove tipologie tra subordinazione e autonomia, in ADL, 2005, 1 ss.
[74] L. SPAGNUOLO VIGORITA, Subordinazione
e diritto del lavoro. Problemi
storico critici, Pompei, 1967, 8. Sul punto ancora M. ROCCELLA, op. ult.
cit., 36, il quale sottolinea che «non ha mai dominato incontrastata il
campo ‘un'unica nozione di subordinazione’», «essendo da tempo state prospettate
(...) altre ipotesi ricostruttive della nozione di lavoro subordinato»; e «non
è forse un caso che esse siano state riproposte, con il conforto dell’avallo
della Corte costituzionale, a partire dalla metà degli anni novanta (ovvero nel
bel mezzo della ripresa del dibattito sulla distinzione fra subordinazione e
autonomia)».
[75]
M. D’ANTONA, op. ult. cit., 249 e 251-252. Per una retrospettiva sul
tema che abbraccia il periodo dall’ordinamento dello stato liberale fino agli
anni 2000: L. MENGONI, Il contratto
individuale di lavoro, cit., dove
l’A. osserva che «(l)a diversificazione dei trattamenti all’interno dell’area
della subordinazione si è presto rivelata un aspetto del problema, di
dimensioni più ampie, connesso alla perdita di tenuta del concetto di
subordinazione non tanto come criterio logico di distinzione tra lavoro
subordinato e lavoro autonomo, quanto come criterio pratico discriminante tra
lavoro protetto e lavoro non protetto. Prestazioni di lavoro integrate in
attività di impresa in guise diverse dalla definizione dell’art. 2094 si
manifestano con crescente multiformità non soltanto nell’area del lavoro
subordinato, entro la quale, almeno le più diffuse, sono già oggetto di
specifiche discipline di legge e di contratto collettivo (lavoro a tempo
determinato, lavoro a domicilio, lavoro sportivo, lavoro a tempo parziale,
contratto di formazione e lavoro, lavoro temporaneo tramite agenzia, rapporti
di lavoro con organizzazioni senza scopo di lucro), ma anche nell’area del
lavoro autonomo dilatando la categoria dei rapporti un tempo detti di
parasubordinazione, ora di lavoro coordinato. Negli anni ’90 è la varietà dei
modi di impiego di lavoro, anche al di là della subordinazione, il punto focale
del diritto del lavoro».
[76] A.
PERULLI, Subordinazione e autonomia,
in Il Lavoro subordinato, F. CARINCI
(a cura di), t. II, Il rapporto
individuale di lavoro: costituzione e svolgimento, coord. da A. PERULLI, in
Trattato di diritto privato, dir. da
M. BESSONE, vol. XXIV, Torino, G. Giappichelli Editore, 2007, cit., 48-49, al quale si rimanda per la
ricostruzione delle varie tesi della dottrina sin dalle origini del dibattito e
sulla bipartizione tra contratto di lavoro subordinato e contratto di lavoro autonomo
come tratto comune negli ordinamenti europei, sia di civil che di common law,
e nel diritto comunitario, 34 ss. Per una sintesi più recente del dibattito
sulla detipicizzazione della subordinazione, v. per tutti R. PESSI, Fattispecie ed effetti nel diritto del
lavoro, in Trattato di diritto del
lavoro, dir. da M. PERSIANI e F. CARINCI, vol. IV, Contratto di lavoro e organizzazione, t. I, Contratto e rapporto di lavoro, M. MARTONE (a cura di), Padova,
CEDAM, 2012, 49 ss.; M. MARTONE, La
subordinazione, una categoria del novecento, idem, 3-47, ai quali si rimanda per l’ampia bibliografia.
[77] M. PERSIANI, Autonomia,
subordinazione e coordinamento nei recenti modelli di collaborazione lavorativa,
in Contratto e lavoro subordinato, Il diritto privato alle soglie del
2000, Padova, CEDAM, 2000,
105-106; e già R. DE LUCA TAMAJO, R. FLAMMIA, M. PERSIANI, La crisi della
nozione di subordinazione e della sua idoneità selettiva dei trattamenti
garantistici. Prime proposte per un approccio sistematico in una prospettiva di
valorizzazione di un tertium genus:
il lavoro coordinato, in LI, 1997, XV, 15-16, 75 ss.; U. ROMAGNOLI, Dal lavoro ai lavori, cit., 513 ss.; M. PERSIANI, Individuazione
delle nuove tipologie tra subordinazione e autonomia, cit., 1-25, sul superamento della dicotomia codicistica v. G. PROIA, Rapporti di lavoro e tipo
(considerazioni critiche),
Milano, Giuffrè, 1997, e ID., Verso uno Statuto dei lavori?, in ADL,
2006, XII, 61 ss.; A. PERULLI, Lavori atipici e parasubordinazione tra
diritto europeo e situazione italiana, in RGL, 2006, I, 731 ss.; sul dibattito fondamentale M. ROCCELLA, Lavoro
autonomo e lavoro subordinato, oggi, cit.
[78] F.
CARINCI, Una svolta fra ideologia e
tecnica: continuità e discontinuità nel diritto del lavoro di inizio secolo,
in Studi in Onore di Giorgio Ghezzi,
vol. I, Padova, CEDAM, 2005, 424-425, il quale, con specifico riferimento alla
proposta, tra le tante presentate, dello Statuto dei lavori di Tiziano Treu
nella versione del 25 marzo 1998, premettendo che lo Statuto dei lavori sembra
esserne consapevole, e ne pone in evidenza alcune criticità, sottolineando che
«la ‘concentricità’ comporta tanto una ‘moltiplicazione’ quanto una
‘graduazione’ delle fattispecie e delle tutele». La prima, da un lato, genera
una ‘maggiore rigidità normativa’ che richiede necessariamente l’intervento
della contrattazione collettiva e, dall’altro, una ‘incertezza attuativa’ per
fronteggiare la quale si propone l’istituto della certificazione. Attraverso la
‘graduazione’ delle tutele, poi, la ‘concentricità’, determinando «una scala
così ripida da risultare impercorribile in discesa e in salita», finisce per
affievolire la tutela garantita dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Nel
saggio, al quale si rimanda, l’A. ripercorre altresì le travagliate vicende
storico-politico-legislative di quegli anni fino ad arrivare alla legge delega
n. 30/2003 che conduce all’emanazione del d. lgs. n. 276/2003, più noto come
legge Biagi, un «testo fortemente centralistico e regolativo perché, nel
contesto di un ricorso sistematico al rinvio, il primato assoluto resta, nella
gerarchia delle fonti, a quelle statali, cioè alla legge nazionale, e, nella
gerarchia dei protagonisti, al Ministero del lavoro; regolativo, perché
nell’ambito di un uso a tutto campo del privato, l’effetto prioritario risulta
costituito da un eccesso di regime di soggetti, rapporti, istituti»(427-428).
[79] Per
una ricostruzione delle interpretazioni dottrinali e del fondamentale apporto
della Corte Costituzionale sul diritto al lavoro nel più ampio contesto dei
diritti sociali e della cooperazione interstatuale si rimanda a V. PASSINO
DETTORI, op. cit., 309 ss. e
all’ampia bibliografia ivi indicata. Più di recente tra i tanti v. i contributi
raccolti nel volume: L’attualità dei
principi fondamentali della Costituzione in materia di lavoro, cit.
[80] Così
Costantino Mortati citato da R. NANIA, Riflessioni
sulla <<Costituzione economica>> in Italia: il
<<lavoro>> come <<fondamento>>, come
<<diritto>>, come <<dovere>>, in L’attualità dei principi fondamentali della
Costituzione in materia di lavoro, cit.,
71-72.
[81] M.
D’ANTONA, Il diritto al lavoro nella
Costituzione e nell’ordinamento comunitario, cit., 274-275.
[82] IBIDEM.
[84] F.
BASSANINI, Potere politico e dirigenze
amministrative. Riflessioni sull’esperienza italiana dell’ultimo decennio,
in www.bassanini.eu, 6-7.
[86] Sul
punto ex multis V. FERRANTE, Direzione e gerarchia nell’impresa (e nel
lavoro pubblico privatizzato), Art.
2086, in Il Codice Civile, Commentario, fondato da P. SCHESINGER e
diretto da P. BUSNELLI, Milano, Giuffrè Editore, 2012, 103, il quale sottolinea
i limiti della «ricostruzione in termini esclusivamente di diritto pubblico»
che ha caratterizzato, sin dalle origini, il dibattito intorno alla
configurazione giuridica del rapporto di pubblico impiego e l’attuale importanza
di tale dibattito ai fini della comprensione dei passaggi segnati dagli
interventi più recenti del legislatore. In particolare l’A. osserva che la
riforma del 2009, col decreto n. 150/2009, sembra «rivitalizzare l’impostazione
autoritativa del rapporto, richiamando in vita concetti e nozioni che
sembravano oramai definitivamente travolti dalla riforma dell’inizio degli anni
’90».
[87] M.
D’ANTONA, La prospettiva del diritto del
lavoro, in Opere, B. CARUSO e S.
SCIARRA (a cura di), vol. IV, Scritti sul
pubblico impiego e sulla pubblica amministrazione, cit., 3. A distanza di lustri per la “constatazione” e l’‘auspicio’
che il processo di cambiamento delle pubbliche amministrazioni «è stato, è, e
dovrà essere oggetto privilegiato delle riflessioni dei giuslavoristi
italiani»: B. CARUSO, op. cit., 236.
[88] Ancora
M. D’ANTONA, op. ult. cit., 4; sulla
questione: F. CARINCI, Le fonti della disciplina del lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Commentario, dir. da F. CARINCI e M.
D’ANTONA, t. I, cit., LXXIV-LXXV, e,
osserva l’A. «sarebbe comprensibile che un giuslavorista cedesse alla
tentazione di ricostruire la privatizzazione come una vicenda auto conclusa e
autosufficiente, se non isolata, scorporata dal contesto istituzionale e
normativo, facendone una riforma a sé, tutta e solo figlia di una sua storia
interna che si dipana con una intrinseca continuità e coerenza dalla
legislazione settoriale del decennio ’70 alla legge quadro del 1983, dalla
legge delega n. 421/1992 alla successiva n. 59/1997. Comprensibile ma non
giustificabile qui, dove la vicenda merita di essere inquadrata in quella riforma globale della pubblica
amministrazione, avviata con la svolta degli anni ’90, a partire da due grandi
leggi quali la n. 142 del 1990 sulle autonomie locali e la n. 241 del 1990 sul
procedimento amministrativo e l’accesso ai documenti pubblici».
[89] A.
RICCARDI, L’organizzazione del lavoro
nell’amministrazione pubblica. Interessi,
tecniche regolative, tutele, vol. I – Profili
sostanziali, Bari, Cacucci Editore, 2011, 26.
[90] F.
CARINCI, Diritto privato e diritto del
lavoro: uno sguardo dal ponte, in Il
Lavoro subordinato, F. CARINCI (a cura di), t. I, Il diritto sindacale, coord. da G. PROIA, in Trattato di diritto privato, dir. da M. BESSONE, vol. XXIV, Torino,
G. Giappichelli Editore, 2007, CVI.
[92] Per
una approfondita analisi sulle scelte politiche e sugli aspetti tecnici della
prima riforma degli anni ’90 v. M. RUSCIANO, Introduzione, in L’impiego
pubblico nel diritto del lavoro, M. RUSCIANO e L. ZOPPOLI (a cura di),
Torino, Giappichelli Editore, 1993, XXI. Su questa linea di pensiero v. C.
ROMEO, La contrattazione collettiva nel
settore pubblico tra controlli e ottimizzazione della produttività del lavoro,
in www.economia.unical.it/avvisi/ROMEO_030611.pdf, il quale afferma che la privatizzazione non è stata pensata
per offrire maggiori tutele ai pubblici dipendenti, bensì «in chiave meramente
strumentale, cioè rivolta ad assicurare la progressiva aziendalizzazione delle
pp. aa. e ottimizzare sempre di più il rendimento del lavoro prestato».”
[93] Ancora
M. RUSCIANO, op. ult. cit., XXVI,
dove l’A. sottolinea che la causa dell’«incontro tra diritto del lavoro e
pubblico impiego non è solo una conseguenza delle caratteristiche che
storicamente la legislazione lavoristica è andata assumendo». L’incontro è
frutto, tra l’altro, del profondo cambiamento della concezione del lavoro
all’interno degli apparati pubblici, dell’acquisita consapevolezza della
distinzione tra funzione pubblica e prestazione di lavoro, dell’esigenza di
contenimento del costo del lavoro, e via dicendo.