Testatina-Tradizione2013

 

 

Vinci-foto-1Massimiliano Vinci

Università di Roma Tor Vergata

 

La tutela del possessore per i ‘miglioramenti’ sulla res evitta: il criterio di applicazione della retentio nel pensiero di Africano (D. 39.2.44.1)*

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SOMMARIO: 1. Afr. 9 quaest. [L.111] D. 39.2.44.1: la retentio è concessa se il titolo del terzo è fondato su un rapporto non negoziale (missio in possessionem ex secundo decreto emanato a seguito della mancata prestazione della cautio damni infecti); altrimenti, in caso di compravendita del bene vincolato, il compratore soccombe nei confronti del creditore e deve agire per evizione contro il venditore, suo dante causa. – 2. Il creditore pignoratizio non può essere considerato legittimato passivo alla dazione di garanti (satisdatio) in relazione alla prestazione della cautio damni infecti a suo tempo non prestata dal proprietario all’attuale missus in possessionem: quando, infatti, il primo agisce con l’actio (quasi) Serviana contro quest’ultimo, l’aedes non è più pericolante, perché già restaurata. – 3. L’interpretazione dell’espressione inhibendam persecutionem, sotto il profilo della paralisi dell’azione reale del creditore, ne permette la riconduzione nell’ambito della retentio accordata al terzo possessore. – 4. Il quesito, sulla possibilità di estensione della retentio anche al compratore della res pignorata, lascia trasparire la valutazione di quello strumento più sotto il profilo funzionale che sotto quello strutturale. ‑ 5. La risposta negativa, circa la ‘parallela’ opponibilità della retentio al venditore della res vincolata, è fondata sull’elemento di volontarietà (sua voluntate negotium gerat) della compravendita che impedisce alla ritenzione di spiegare i suoi effetti paralizzanti nei confronti della pretesa reale del terzo. ‑ [Appendice]. La ‘giustificazione‘ di Paul. 5 quaest. [L.1327] D. 19.1.45.1 privilegia l’esperibilità della retentio sulla res, oggetto di evizione, per il rimborso dei ‘miglioramenti’ su di essa compiuti dal possessore, rispetto al ricorso all’actio empti in funzione di garanzia. ‑ 6. Breve nota conclusiva. – Abstract.

 

 

1. – Afr. 9 quaest. [L.111] D. 39.2.44.1: la retentio è concessa se il titolo del terzo è fondato su un rapporto non negoziale (missio in possessionem ex secundo decreto emanato a seguito della mancata prestazione della cautio damni infecti); altrimenti, in caso di compravendita del bene vincolato, il compratore soccombe nei confronti del creditore e deve agire per evizione contro il venditore, suo dante causa

 

Nel quadro di un’articolata analisi circa i rapporti tra ricorso al pretore per l’emanazione del decreto derivante dalla mancata prestazione della cautio damni infecti, immissione del richiedente nel possesso dell’immobile pericolante e ricadute giuridiche dal suo crollo[1], Africano[2] passa a valutare le relazioni intercorrenti tra creditore pignoratizio e terzo immesso nel possesso damni infecti causa da un lato e tra quest’ultimo ed il venditore di un bene pignorato dall’altro.

 

Afr. 9 quaest. [L.111] D. 39.2.44.1 Damni infecti nomine in possessionem missus possidendo [dominium] <usu>cepit, deinde creditor eas aedes pignori sibi obligatas persequi vult. non sine ratione dicetur, nisi impensas, quas in refectionem fecerim, mihi praestare sit paratus, inihibendam adversus me persecutionem. cur ergo non emptori quoque id tribuendum est, si forte quis insulam pigneratam emerit? non recte haec inter se comparabuntur, quando is qui emit sua voluntate negotium gerat ideoque diligentius a venditore sibi cavere et possit et debeat: quod non aeque et de eo, cui damni infecti non promittatur dici potest.

 

Dal punto di vista formale, non si mette qui in discussione l’intervento dei compilatori che avrebbero sostituito il richiamo alla possessio ad usucapionem (attraverso la concessione dell’in bonis habere) con il diretto rinvio all’acquisto del dominium[3]. Il resto del passo, pur essendo stato fortemente attaccato dalla critica interpolazionistica, si rivela sostanzialmente genuino[4]. Il ‘salto’ sintattico tra la terza persona della prima frase (cepit; vult) e l’alternanza tra prima e terza (fecerim; paratus sit) di quella successiva[5] potrebbe essere, al limite, interpretato come un ‘taglio’ operato dai giustinianei per legare l’enunciazione della parte ‘in fatto’ (impersonale) della questione, con quella ‘in diritto’ (prima e terza singolare)[6]. Il contenuto del testo non sembra, in ogni caso, risentirne ed il valore dommatico del parallelismo/opposizione tra le due fattispecie presentate rimane invariato[7].

La linea logico-giuridica del passo si articola su un primo livello, nel quale viene presentata la fattispecie (damni infecti – vult [v., infra § 2 ]) e prospettata una ‘soluzione’ (non sine – persecutionem [v., infra, § 3]), cui segue un secondo livello nel quale si avanza – attraverso un interrogativo espresso in forma negativa (cur ergo non ‑ emerit? [v., infra § 4]) – la proposta dell’applicazione estensiva della medesima ‘soluzione’ anche ad una fattispecie differente dalla prima; nella parte conclusiva (non recte – fine [v., infra § 5 ]) infine, si nega la possibilità di operare una comparazione per equivalenza (non aeque) fra le due, giustificando il diniego attraverso l’affermazione della presenza di un elemento (sua voluntate) nella seconda fattispecie che, invece, risulta assente nella prima[8].

Se questa è, sebbene sinteticamente, la sequenza argomentativa del passo, il suo nucleo centrale consiste nella enfatizzazione della diversità degli strumenti di tutela accordati al terzo (rispettivamente possessore ad usucapionem e compratore) rispetto al verificarsi della medesima aggressione rivolta contro il bene del quale egli dispone: vale a dire, l’esercizio dell’azione reale del creditore pignoratizio, finalizzato alla successiva alienazione della cosa, in vista del soddisfacimento dell’obbligazione garantita e rimasta inadempiuta.

 

 

2. – Il creditore pignoratizio non può essere considerato legittimato passivo alla dazione di garanti (satisdatio) in relazione alla prestazione della cautio damni infecti a suo tempo non prestata dal proprietario all’attuale missus in possessionem: quando, infatti, il primo agisce con l’actio (quasi) Serviana contro quest’ultimo, l’aedes non è più pericolante, perché già restaurata

 

Questa vicenda va, poi, calata nella concreta dinamica di un rapporto sorto – e che trova il suo sviluppo – nel contesto della cautio damni infecti, all’interno del quale i tre soggetti (debitore principale, creditore pignoratizio e terzo immesso nel possesso dell’immobile) si trovano ad interagire.

Si deve allora immaginare una situazione in cui il terzo minacciato dal crollo dell’edificio, dopo aver inutilmente richiesto al dominus la prestazione della cautio e avendo ormai acquistato la proprietà dell’immobile attraverso il decorrere dell’usucapione perché possessore ex secundo decreto, si veda convenuto – in quanto la cosa è presso di sé – con l’actio (quasi) Serviana dal creditore del precedente proprietario, in rapporto ad un debito da quest’ultimo contratto e garantito dal pegno sulla aedes[9]. Alla possibilità di aggressione della cosa che, proprio perché fondata su un’azione reale[10], risulta essere ‘impermeabile’ rispetto al titolo in base al quale il terzo possiede la res, si ‘giustappone’, però, la richiesta di rimborso delle spese effettuate.

Su questo ‘snodo’ concettuale si innesta, facendo leva sulla cesura formale alla quale sopra si faceva riferimento, il problema della legittimazione passiva del creditore pignoratizio alla prestazione cautio damni infecti e le (eventuali) conseguenze, nei suoi confronti, della mancata prestazione della garanzia. Naturalmente, il tema assume qui rilevanza nei limitati risvolti che possano, se del caso, coinvolgere le ragioni della difesa del terzo possessore contro lo stesso creditore pignoratizio.

Su quest’ultimo, infatti, incombe il dovere di satisdare, qualora il dominus non adempia alla sua repromissio[11]; se il creditore, poi, non concede la satisdatio: «(…) è tolta espressamente la persecutio dei (…) [suoi] diritti. La perdita di questi, nel campo del diritto onorario, è assoluta e definitiva dopo il iussum possidendi»[12]. Il pretore, cioè, denegherebbe l’azione del creditore contro il possessore della cosa perché il primo non avrebbe prestato la cautio al secondo: il diritto reale, dunque, pur rimanendo integro ed immutato dal punto di vista sostanziale, verrebbe però svuotato di ogni valenza pratica iure honorario, in virtù dell’impedimento processuale al suo esercizio. Questo fenomeno sarebbe rispecchiato dal nostro passo dove, anche in forza di quella cesura sopra indicata, sarebbe stato originariamente «spiegato» il meccanismo sopra descritto, tanto più che, la stessa l. 44.1 apparirebbe «scorretta» nella sua parte finale[13].

In base a questo ragionamento, dunque, si è dedotto – con una fin troppo rigida consequenzialità – che l’espressione inhibendam persecutionem fosse il risultato del diniego (potenziale) di prestare la satisdatio da parte del creditore pignoratizio. La garanzia per il caso di crollo dell’immobile, cioè, non sarebbe stata richiesta a quest’ultimo subito dopo aver accertato il rifiuto del proprietario, perché il terzo non avrebbe avuto, ad esempio, neppure conoscenza dell’esistenza di un soggetto titolare di un simile diritto reale sull’immobile; «e allora, tenuto conto che il creditore non fu posto a suo tempo dinanzi all’alternativa ‘o cauzione o perdita in pratica del diritto’, che per ciò ha avuto luogo la missio e il missus è stato costretto dalla mancata cautio a sostenere delle spese di refectio, che se il creditore fosse stato posto dinanzi alla suddetta alternativa avrebbe dovuto o prestar la cautio e reficere lui a sue spese o rimetterci in pratica il suo diritto, si provvede a riprodurre quella alternativa ora che il creditore si fa avanti, modificandola però in rapporto ai fatti nel frattempo intervenuti (missio, e refectio da parte del missus). Si dice dunque al creditore, con piena logica: avresti dovuto scegliere fra perdita del diritto e cautio damni infecti (con refectio a tue spese); scegli ora fra la perdita del diritto e il risarcimento al missus di quelle spese di refectio cui la mancata cautio l’ha costretto»[14].

La, pur articolata ricostruzione, però, non si dimostra coerente rispetto al verosimile (nel senso di più ‘probabile’ e ‘normale’) svolgimento dei fatti e sembra perdere di vista, ad avviso di chi scrive, la finalità primaria della stipulatio pretoria rappresentata dalla cautio damni infecti: quella, cioè, della garanzia in rapporto ad un danno non ancora verificatosi, ma solo potenziale. È, dunque, opportuno (anche se si rischia di apparire banali) rilevare che, proprio sulla base di quel rilievo che poggia l’alternativa concessa al proprietario e che sostanzia nella scelta tra prestazione della cautio ovvero nella perdita della possessio della aedes[15]. Il dominus non è, quindi, assolutamente costretto a reficere l’immobile; conseguentemente, egli si accollerà, però, le conseguenze dell’eventuale crollo, dato che attiene alla sua valutazione discrezionale preferire la prestazione della cautio (vale a dire, subire una condanna futura e incerta) oppure il restauro dell’edificio (vale a dire, affrontare immediatamente una spesa). Il dovere di restaurare l’immobile non lo ha neanche colui che è immesso nel possesso che può – ma, non necessariamente, deve – procedere alla sua messa in sicurezza. In questo senso, si pronuncia esplicitamente anche Ulpiano che contraddice la diversa opinione di altri giuristi non specificamente indicati: Ulp. 53 ad ed. [L.1278] D. 39.2.15.30 Si quis damni infecti in possessionem missus sit, fulcire eum et reficere insulam debere sunt qui putent [eamque] <eumque Kr.> culpam praestare exemplo eius qui pignore accepit. sed alio iure utimur: cum enim ob hoc tantum missus sit, ut vice cautionis in possessione sit, nihil ei imputari si non refecerit. Altro è, dunque, rifiutarsi di prestare la cautio, altro è preferire prestarla piuttosto che reficere immediatamente l’aedes.

Nel nostro caso, dunque, l’iter temporale della vicenda sembra essere quello della immissione del terzo nel possesso dell’immobile e del contemporaneo (e facoltativo) suo restauro; costui allora non «è stato costretto dalla mancata cautio a sostenere le spese della refectio» ma vi si è sottoposto volontariamente, contando di divenire egli dominus dell’immobile, in virtù del trascorrere del tempo dell’usucapione (accogliendo la proposta di emendazione del testo, sopra segnalata). La refectio potrebbe essere considerata, allora, come un’attività svolta nel proprio interesse, sia per il vantaggio immediato di impedire il danno (ad un altro edificio di sua proprietà, che si deve presumere collocato nelle immediate vicinanze di quello pericolante) derivante dall’eventuale crollo dell’immobile del quale era stato immesso nel possesso, sia per il suo valore di ‘miglioramento’ del quale il missus stesso avrebbe appieno beneficiato una volta divenuto proprietario e, naturalmente, beneficiandone fin dal momento della sua immissione nel possesso, poiché gli consente, quantomeno, di goderne in una condizione di ripristinata sicurezza.

Al di là, comunque, di queste riflessioni, rimane in ogni caso altamente probabile la circostanza che né il missus sapesse dell’esistenza del creditore pignoratizio al momento della richiesta della cautio al dominus né che, viceversa, il creditore fosse a conoscenza della stesso procedimento ‘cautelare’ e della sostituzione, nel possesso dell’immobile, del proprio debitore con un terzo[16]: d’altra parte, è fin troppo ovvio che, per il creditore pignoratizio, proprio in forza dello ius in rem del quale gode, sia indifferente la posizione soggettiva di colui che possiede la cosa vincolata in pegno. In considerazione di questa situazione di reciproca ‘estraneità’, va valutato l’esercizio dell’actio (quasi) Serviana del creditore nei confronti del missus e la ‘reazione’ di quest’ultimo.

Ciò che, infatti, non sembra essere emerso con sufficiente chiarezza dalle riflessioni che la dottrina ha sin qui compiuto (delle quali, sia pure per excerpta, si è sopra riferito) è un dato di fatto, parere di chi scrive, innegabile: al creditore pignoratizio, del passo qui esaminato, non può (neppure in ipotesi) essere richiesta la cautio damni infecti[17]. E questo non per particolari interpretazioni delle specifiche posizioni soggettive rispetto alle quali essa si sarebbe dovuta (gradualmente) richiedere, ma per una banale constatazione di fatto: il creditore ‘interviene’ nella vicenda dopo il restauro dell’immobile; quando, cioè, per definizione, manca il requisito del pericolo del crollo[18]. Il missus, quindi, non avrebbe potuto richiedere la concessione di una garanzia per un danno che non avrebbe più potuto, neppure in ipotesi, verificarsi né, tantomeno, il pretore l’avrebbe imposta[19].

Le osservazioni alle quali si è fatto sopra riferimento – che forniscono alla spossessamento una duplice motivazione: argomentando dalla mancata concessione della cautio o dal rifiuto del «risarcimento» delle spese (al di là dei problemi posti dallo ‘scarto’ temporale, che si intenderebbe colmare attraverso la proiezione all’indietro di un’alternativa che sarebbe sorta in un momento differente da quello al quale il passo farebbe riferimento) – danno, però, per scontato che il presupposto del pericolo del crollo dell’edificio permanga invariato sia nell’uno che nell’altro caso, quando al contrario, in quest’ultimo, esso manca completamente, perché l’edificio stesso è, ormai, messo in sicurezza[20].

 

 

3. – L’interpretazione dell’espressione inhibendam persecutionem, sotto il profilo della paralisi dell’azione reale del creditore, ne permette la riconduzione nell’ambito della retentio accordata al terzo possessore

 

Appurata, dunque, la situazione concreta nella quale la vicenda si colloca, sembra allora ricevere maggior luce la questione circa il valore della riflessione del giurista introdotta dall’espressione non sine ratione.

Il ‘contenuto minimo’ di essa consiste, indiscutibilmente, nella esplicita sottoposizione della ‘possibilità’ (lasciando, per ora, volutamente imprecisata la portata di una simile affermazione) per creditore di conseguire «il risultato utile che si vuole raggiungere portando a compimento il processo»[21], non altrimenti che rimborsando al missus le spese da lui già compiute per la refectio.

Non è, dunque, più questione di prestazione della cautio; al creditore che cerca di aggredire un immobile ormai restaurato, il missus oppone l’unica ragione di ‘resistenza’ avverso l’esercizio dell’azione reale: e, cioè, il rimborso per le spese sostenute[22]. Se è innegabile, infatti, la soccombenza di quest’ultimo di fronte all’actio (quasi) Serviana quale diretta conseguenza della natura in rem[23] dell’azione, è altrettanto incontestabile, però, la situazione di iniquità che verrebbe a crearsi qualora egli dovesse senz’altro abbandonare immediatamente il possesso dell’immobile a favore del creditore procedente.

Non va, poi, passata sotto silenzio la circostanza che l’avvenuto restauro comporta, di per sé, l’accrescimento delle possibilità di una vendita economicamente fruttuosa dell’immobile, nel senso che, fermi restando naturalmente l’ammontare del credito garantito ed il dovere di restituzione del superfluum, la concreta possibilità di soddisfarlo attraverso l’esercizio dello ius vendendi sia di gran lunga maggiore di quanto lo fosse al momento in cui è sorta la garanzia reale, proprio per l’ovvia riflessione, per cui un immobile restaurato è comunque più ‘appetibile’ sul mercato di un rudere pericolante. Ecco, allora, che – sebbene indirettamente – anche sotto questo profilo, l’avvenuto ‘miglioramento’ (dal momento che non si vedono ostacoli a sussumere anche le spese per la refectio sotto quell’ampia categoria) dell’edificio pignorato va ad incidere sulla posizione del creditore procedente.

Ed, inoltre, neppure sarebbe astrattamente possibile, nel caso di specie, pensare ad una separazione ‘materiale’ dei ‘miglioramenti’ apportati dal missus e, da questo, far derivare le conseguenze della «starre Regel» della ‘tripartizione’ delle impensae[24]. Piuttosto, si potrebbe accedere alla moderna concezione di una parte della civilistica italiana nei limiti, naturalmente, in cui essa possa essere utilizzata con la ristretta finalità di indice descrittivo della fattispecie qui analizzata; in particolare, appare condivisibile la posizione per cui: «i ‘miglioramenti’ del bene sono intesi abitualmente in senso restrittivo, e consistono in mutamenti di carattere fisico che aumentano il valore dell’immobile senza assumere una propria autonoma individualità: si fanno gli esempi (…) della riparazione di un edificio. Nessun sistema giuridico al mondo è in grado di escludere questi ‘miglioramenti’ dal vincolo pignoratizio o dall’espropriazione, in quanto non si tratta di entità autonome (…)»[25].

Sebbene su altro piano rispetto alle considerazioni sopra svolte, non va, però, passato sotto silenzio almeno un dubbio di tipo interpretativo, dipendente dal valore da attribuire al sintagma inhibendam persecutionem che, proprio per la sua laconicità, ha permesso letture di segno differente rispetto a quella sinora che sta emergendo da queste pagine.

La discussione origina dalla proposta di emendazione del testo che vorrebbe sostituire, proprio a quel sintagma, l’espressione <doli exceptione summovebitur>[26]. La ragione sottostante è puramente giuridico-deduttiva (essendo priva di qualsiasi appiglio formale derivante dalla critica textus) e la capacità ‘suggestiva’ da essa indotta è ben riconosciuta anche da chi l’ha combattuta[27]. L’intervento, cioè, avrebbe la funzione di rendere esplicito – nei verba stessi della l. – il meccanismo di ‘resistenza’ del convenuto possessore, che sottoporrebbe, per mezzo dell’eccezione di dolo sollevata contro l’actio (quasi) Serviana, il rilascio dell’immobile al pagamento delle spese della refectio.

Gli argomenti proposti per rigettare una (pur) così fortemente invasiva proposta tendono a ravvisare nelle fonti un impiego della locuzione inhibere assimilabile a quella di denegare[28], giungendo a concludere che «(…) non è che il convenuto possa subordinare il rilascio della res etc., come nelle ipotesi di autentica ritenzione (…) ma l’attore addirittura non ha azione ‘nisiparatus’. Il pagamento delle spese non ha bisogno d’esser richiesto dal convenuto; deve essere súbito e senz’altro offerto dall’attore, perché esso costituisce il fondamento, la base, il presupposto stesso del suo diritto e della sua azione. Egli ha l’uno e l’altra proprio e solo in quanto offra le spese»[29].

Alla linea interpretativa appena riportata, però, può essere rimproverata una eccessiva dose di rigidità che, facendo leva sul presunto valore ‘preclusivo-assoluto’ del sintagma inhibere persecutionem, finisce per proiettare su di esso il significato tecnico di denegatio che, non necessariamente, gli è proprio.

In senso contrario, infatti, depongono almeno due paragrafi di un frammento – inserito nella stessa sedes di quello qui analizzato – che, impiegando (in senso proprio) il verbo denegare, sembrerebbero attestarne un (ampio) margine di diversità con l’inihibere prima richiamato; questo, tanto più se si pone anche attenzione alla non secondaria circostanza per cui l’oggetto, vale a dire il termine persecutio, rimane invariato in entrambe le ricorrenze.

Il primo è Ulp. 53 ad ed. [L.1278] D. 39.2.15.24 Si qua sint iura debita his, qui potuerunt de damno infecto satisdare, deneganda erit eorum persecutio adversus eum, qui in possessionem missus est: et ita Labeo probat; e, ancor più significativamente, il successivo § 25 [L. ibidem] Item quaeritur in pigneraticio creditore, an pignoris persecutio denegetur, qui iussus sit possidere. Et magis est, ut, si neque debitor repromisit, neque creditor satisdedit, pignoris persecutio denegetur. quod et in fructuario recte Celsus scribit. Tutti e due i passi si occupano degli effetti della mancata prestazione della cautio rispetto ai diritti vantati dal legittimato passivo di quest’ultima nei confronti del terzo, che ‑ proprio in ragione di quel rifiuto ‑ è stato immesso nel possesso dell’immobile.

In particolare, nel § 25, la quaestio verte proprio sulla possibilità di denegare la persecutio del pignus al creditore che agisca contro il terzo possessore; in caso di mancata prestazione della satisdatio, l’effetto della missio in possessionem ex secundo decreto risulterebbe gravemente punitiva per il creditore stesso, comportando, infatti, la perdita dei diritti che «(…) nel campo del sistema onorario, è assoluta e definitiva dopo il iussum possidendi»[30]. Non si obietti che, nel nostro brano, proprio perché si è dimostrato che non avrebbe potuto aver luogo la richiesta della cautio, anche la discussione sugli effetti della denegatio non sarebbe rilevante; all’opposto, la scelta terminologica è indicativa della volontà di distinguere la situazione ‘preclusiva’ della denegatio rispetto ad una prospettiva, empirica ed operante sul piano degli effetti, dell’inihibitio della persecutio del diritto. Chiarendo: se l’effetto della denegatio è la perdita del diritto sul piano del diritto onorario – perdita intesa come risultato immediato della (definitiva) ‘sanzione’ processuale comminata dal pretore per non aver prestato la satisdatio – lo stesso non può dirsi per la più ‘elastica’ e ‘sfumata’ inhibitio che potrebbe essere intesa come una paralisi ‘potenziale’ della persecutio. Non, dunque, la sua denegazione tout-court, ma la minaccia (intesa come doverosa conseguenza, v. l’impiego del gerundivo[31]) della sanzione, condizionata dal rimborso delle spese.

A questo si possono aggiungere le riflessioni che la dottrina - che, da ultima, si è specificamente occupata della denegatio actionis[32] - ha avuto modo di svolgere a proposito di Afr. 6 quaest. [L.54] D. 30.109.1 Heres, cuius fidei commissum erat, ut mihi fundum aut centum daret, fundum Titio vendidit: cum electio ei relinquitur utrum malit dandi, ut tamen alterum solidum praestet, praetori officio convenire existimo, ut, si pecuniam Titius offerat, inhibeat fundi persecutionem. ita enim eadem causa constitueretur, quae futura esset, si alienatus fundus non fuisset, quando etiam adversus ipsum heredem officium praetoris sive arbitri tale esse deberet, ut, si fundus non praestaretur, neque pluris neque minoris quam centum aestimaretur. Non si intende, certo, in questa sede proporre l’esegesi del complesso passo di Africano (qui ricordato essenzialmente per la presenza di una locuzione, inhibeat persecutionem, assimilabile a quella contenuta nel passo dello stesso Africano sopra riportato) – si pensi, ad esempio, da un lato ai soli profili dell’obbligazione con facoltà alternativa e quelli della concentrazione della prestazione (cui, però, corrisponde l’obbligo per il fedecommissario di accettare la delegatio solvendi del compratore fattagli dal venditore/erede) e, dall’altro, alle questioni processuali legate alla «possibile trasferibilità della giurisdizione fedecommissaria a iudices dati extra ordinem dal titolare della cognitio»[33] – né soffermarsi sui problemi sollevati dalla ricostruzione testuale dello stesso[34].

Delle considerazioni svolte da altri a proposito del brano di Africano (D. 30,109,1) sopra ricordato, qui si fa, però, profitto nella circoscritta misura in cui queste ultime mettono in rilievo il profilo, operante sul piano degli effetti, del sintagma inhibere persecutionem, evidenziando come (sì in rapporto a quel passo particolare, ma anche tenendo conto di una prospettiva più ampia): «il valore sostanziale che espressioni apparentemente tecnico-processuali, quali denegare (o inhibere) persecutionem o petitionem hanno assunto (…)»[35].

Se appare difficile, dunque, attribuire tout-court alla locuzione inhibere persecutionem un valore pressoché equivalente a quello di denegare actionem, sembra, invece, possibile accogliere, la sostanza, della proposta emendativa beseleriana (<doli exceptione summovebitur>). Non si pretende, cioè, modificare la lettera del frammento in base a quella proposta, ma, assai più limitatamente, condividerne il contenuto interpretativo, in rapporto ad una locuzione che, quanto ai verba, rimarrebbe immutata. Infatti, non si avvertirebbe neppure la necessità di un intervento così invasivo sul testo, se solo si ammettesse una lettura orientata a valorizzarne il profilo degli effetti, piuttosto che tentare di individuare l’esatto strumento processuale attraverso il quale quell’effetto sarebbe stato raggiunto.

In altre parole, la primaria attenzione nei confronti dell’effetto della paralisi dell’azione del creditore farebbe passare in secondo piano la tematica del mezzo accordato al terzo per raggiungere quell’obiettivo: in via di (verosimile) ipotesi, non si può, allora, non pensare ad un’exceptio doli (praesentis) opposta all’actio (quasi) Serviana intentata dal creditore pignoratizio.

La ‘traduzione’, sul piano degli effetti, del rapporto tra creditore pignoratizio e terzo possessore deve allora concretizzarsi nel diritto di ritenzione a favore di quest’ultimo, che presuppone – per quanto finora si è detto – la sua tutela in forma esclusivamente negativa: vale a dire, nella resistenza passiva alla pretesa dell’avversario. La paralisi dell’azione del creditore è, infatti, il massimo al quale il terzo (sempre limitatamente alla fattispecie sin qui esaminata) può aspirare e, al contempo, realizza pienamente le sue aspettative, attraverso la subordinazione (nisi … mihi praestare sit paratus) del rilascio dell’immobile – equivalente alla sua soccombenza nell’azione reale promossa dal creditore – alla condizione del rimborso delle spese compiute nella refectio. Nel passo non è certo adottata, in maniera diretta, questa prospettiva sostanziale; essa va, al contrario, ricavata dagli indizi ivi contenuti. In questo senso – sempre in virtù dell’ampia accezione con la quale potrebbe essere intesa – non si scorgono ostacoli insuperabili per attribuire alla locuzione inhibendam persecutionem anche una valenza prettamente descrittivo-fattuale: quella, cioè, di indicare il blocco inibitorio dell’azione del creditore, causato dalla materiale disponibilità della cosa in capo al terzo, col suo contestuale diniego ad effettuarne il rilascio; in una parola: la retentio.

 

 

4. –Il quesito, sulla possibilità di estensione della retentio anche al compratore della res pignorata, lascia trasparire la valutazione di quello strumento più sotto il profilo funzionale che sotto quello strutturale

 

L’equilibrio, fin qui descritto, che vede nella retentio lo strumento di difesa del terzo possessore a seguito delle vicende collegate alla cautio damni infecti, viene sottoposto dal giurista ad una sorta di ‘sollecitazione estensiva’, al fine di verificarne la tenuta anche nel caso una di fattispecie che potrebbe essere, quantomeno prima facie, avvicinata a quella sin qui discussa. La modalità di comparazione «per confronto»[36], infatti, fa porre al giurista la domanda – formulata in termini di interrogativo negativo – se non sia doveroso attribuire (tribuendum) lo stesso trattamento (id) anche a colui che abbia comprato (emerit) un’insula[37] sottoposta al vincolo di garanzia reale. È, infatti, chiaro l’intento – sotteso proprio a quell’interrogativo (cur ergo non … quoque) – di voler proteggere anche l’acquirente nella stessa misura e con la stessa forza del terzo possessore, concedendogli parimenti la retentio avverso il creditore pignoratizio, per i ‘miglioramenti’ effettuati sulla res. Di più. Già il fatto in sé di aver posto quella domanda, presuppone nel giurista la piena consapevolezza circa l’efficacia dello strumento del quale si vorrebbe l’estensione anche ad altra fattispecie. Ad indurre, dunque, al tentativo di assimilazione non è solo la coincidenza tra situazioni esternamente equiparabili, ma anche la volontà di impiegare lo stesso strumento, vale a dire la retentio, in forza del suo effetto, lasciando in secondo piano non tanto i presupposti della sua applicabilità, quanto piuttosto la vicenda negoziale che del possesso, alla base della retentio, rappresenta la causa. In altre parole, il senso di quella estensione mirerebbe a sfruttare tout-court la posizione di vantaggio del possessore attraverso l’esercizio della retentio. Estremizzando: costui possiede e non interessa la causa del suo possesso: sarebbe dunque la ‘materialità’ del rapporto con la res obligata a prevalere su qualsiasi altra considerazione di altra natura.

Naturalmente, il contenuto sostanziale di una simile domanda implica – al pari dell’uniformità di applicazione della retentio – anche la (presunta) uniformità nella valutazione del bilanciamento dei contrapposti interessi tra creditore pignoratizio da un lato e compratore della res vincolata dall’altro.

L’ipotesi, cioè, di estendere l’operatività della retentio, anche qualora la cosa sia stata comprata, comporta necessariamente un giudizio di prevalenza degli interessi del compratore a fronte di quelli del creditore pignoratizio che vedrebbe, anche in questo caso, subordinato l’esercizio dell’actio (quasi) Serviana al rimborso delle spese per i ‘miglioramenti’, al pari della fattispecie già esaminata della cautio damni infecti.

 

 

5. – La risposta negativa, circa la ‘parallela’ opponibilità della retentio al venditore della res vincolata, è fondata sull’elemento di volontarietà (sua voluntate negotium gerat) della compravendita che impedisce alla ritenzione di spiegare i suoi effetti paralizzanti nei confronti della pretesa reale del terzo

 

Ma, proprio quella prevalenza viene negata, poiché il giurista dà risposta negativa a quell’interrogativo. Più precisamente, egli respinge la correttezza della comparazione – nel senso del raffronto funzionale tra le due fattispecie, mirante alla loro equiparazione – perché opera un diverso bilanciamento degli interessi, fondato su una radicale differenziazione giuridica degli assetti negoziali all’interno dei quali, quelle situazioni pur esteriormente assimilabili, spiegano i loro effetti.

In questo senso, l’espressione quando is qui emit sua voluntate negotium gerat si carica di densissimo significato, poiché denota l’intento del giurista di sussumere la fattispecie del rimborso dei ‘miglioramenti’ sulla res vincolata nell’ambito contrattuale della compravendita. L’‘estraneità’ fra possessore ad usucapionem e creditore pignoratizio (v., supra, § 2) giustifica la concessione della retentio come unico strumento di difesa del primo nei confronti dell’azione del secondo. È, infatti, evidente che fra i due non esista alcun vincolo obbligatorio[38] e che, quindi, il bilanciamento di interessi debba necessariamente tener conto del fatto, che il fondamento del loro rapporto sia determinato solo dalla legittimazione passiva del primo all’azione reale intentata dal secondo; questo rilievo deve essere, poi, messo in relazione con il profilo della «Verschiebung des Mehrwerts»,[39] che da quel rapporto direttamente deriva.

Se, dunque, si valutano congiuntamente da un lato il profilo relativo alla natura del rapporto che lega i soggetti della vicenda di D. 39.2.44.1 e, dall’altro, quello dello spostamento patrimoniale, che l’esecuzione forzata del credito pignoratizio comporta quando il bene esecutato si trova ‘arricchito’ dei ‘miglioramenti’ su di esso effettuati da un terzo, si nota agevolmente come la linea di demarcazione che Giuliano/Africano pongono tra le due fattispecie sia fondata sulla puntuale verifica della tenuta del bilanciamento degli interessi ai quali sopra si faceva riferimento[40].

E così, la negazione dell’estensione della retentio alla fattispecie della seconda parte del frammento è fondata sul risultato di quella valutazione, qui orientata dalla causa contrattuale quale titolo di acquisto della res in capo al possessore. La res, rispetto alla quale egli subisce l’evizione, costituisce cioè l’oggetto del contratto di compravendita precedentemente concluso col debitore pignoratizio ed è, dunque, pienamente inserita in un assetto negoziale di cui il possessore è parte contrattuale e del quale costui deve accettare la disciplina tipica. Come parte, quindi, egli gestisce un proprio affare (negotium gerat) del quale ha – o si presume che abbia – piena consapevolezza (sua voluntate) sia in relazione al momento costitutivo del rapporto, sia in relazione a quello funzionale: proprio per questo egli deve sottostare alla regolamentazione propria del contratto che ha concluso, facendosi carico delle conseguenze della sua noncuranza. Ecco, allora, come il rimprovero mossogli dal giurista si appunta sull’insufficienza del livello di diligenza (diligentius) dimostrato in occasione della conclusione del contratto: gli si obietta, infatti, di non essersi garantito nei confronti del debitore (cavere) per l’eventualità di un’evizione pur potendolo (possit) e dovendolo (debeat) fare[41]. È rilevante, in proposito, da un lato la correlazione ‘paritetica’, dall’altro il contemporaneo utilizzo dei due verbi, che fanno riferimento tanto alla sfera della possibilità, quanto a quella della doverosità della condotta che, invece, il compratore non ha tenuto. La lettura coordinata dei due verbi, fra l’altro rafforzati dalla ripetizione dell’et che li precede entrambi, consentirebbe di interpretarli quasi alla stregua di un’endiadi. In questo caso, il giurista muoverebbe un’obiezione contro il compratore per non aver richiesto al venditore la stipulatio (duplae) di garanzia, quando, invece, tanto avrebbe potuto pretenderla (con riferimento ad un tempo anteriore all’esercizio dell’actio (quasi) Serviana intentata dal creditore pignoratizio) quanto avrebbe dovuto esigerla (se solo si immagina una vendita dell’insula[42] gravata da pegno, alla quale non abbia fatto seguito la mancipatio dell’immobile). A costituire, dunque, il fondamento del rimprovero del giurista sarebbe, allora, l’assenza di una sorta – si consenta l’espressione – di attività di ‘autoprotezione’ del compratore che, avendo omesso di pretendere le necessarie garanzie al venditore pur potendolo/dovendolo fare, continua a dimostrare, sebbene in negativo, la stessa autonomia della quale ha (già) dato prova al momento di conclusione del contratto di compravendita della res vincolata in pegno: anche in questa circostanza, perciò, ben potrebbe dirsi che egli gestisce il negotium sua voluntate, dovendone così sopportare le conseguenze anche oltre la conclusione del contratto.

In questo senso, si potrebbe attribuire una sfumatura particolare al debeat prima ricordato, specie se messo in relazione ai ‘miglioramenti’ che il compratore ha compiuto sulla cosa acquistata. La ‘gravità’ del biasimo mosso al compratore si evidenzia, cioè, in misura ancora maggiore, allorché si tenga conto non solo della circostanza relativa alla consuetudine (diffusa quantomeno nella prassi orientale) della esplicita garanzia del venditore circa l’assenza di vincoli reali sul fondo alienato[43], ma anche nel momento in cui si sottolinea la sua negligenza in rapporto alla mancata previsione circa la possibilità/necessità di apportare dei ‘miglioramenti’ all’edificio acquistato. Nel caso di D. 39.2.44.1, infatti, il compratore è pienamente consapevole di acquistare un’aedes già pericolante e, di conseguenza, avrebbe già dovuto preventivare – al momento dell’acquisto – la possibilità di dover compiere, con tutta probabilità, delle spese su di essa; la refectio è, allora, la prima e la più importate fra quelle: ecco, perché egli avrebbe dovuto innanzitutto garantirsi sull’evizione circa l’immobile che, quasi sicuramente, avrebbe migliorato.

Se, dunque, si sommano questi rilievi, appare chiaro che la posizione del compratore non possa essere considerata prevalente rispetto a quella del terzo creditore pignoratizio né, d’altra parte, si potrebbe rimproverare alcunché a quest’ultimo che, forte della sua garanzia reale, fosse rimasto completamente estraneo alla vicenda. Il bilanciamento degli interessi contrapposti è chiaramente orientato a favore del creditore pignoratizio: contro di lui, quindi, non potrà essere opposta la ritenzione per le spese effettuate ed il compratore potrà solo sperare che il superfluum della vendita forzata del bene sia sufficiente a ripagarlo del prezzo pagato e del valore dei ‘miglioramenti’ su di esso effettuati.

 

 

[Appendice] –La ‘giustificazione’ di Paul. 5 quaest. [L.1327] D. 19.1.45.1 privilegia l’esperibilità della retentio sulla res, oggetto di evizione, per il rimborso dei ‘miglioramenti’ su di essa compiuti dal possessore, rispetto al ricorso all’actio empti in funzione di garanzia

 

Se finora si è cercato di tracciare un percorso argomentativo che provi a seguire e a dar conto dei principali snodi dogmatici presenti nel passo di Africano, non ci si può però neppure sottrarre al confronto – benché limitato all’esame del solo profilo ‘rimediale’, della tutela approntata per situazioni sostanzialmente assimilabili – tra la fattispecie sopra esaminata e quella riportata da Paolo[44] in D. 19.1.45.1 al fine di verificarne i punti di contatto e quelli di divergenza:

 

Paul. 5 quaest. [L.1327] D. 19.1.45.1 Illud expeditius videbatur, si mihi alienam aream vendideris et in eam ego aedificavero atque ita eam dominus evincit: nam quia possim petentem dominum, nisi impensam aedificiorum solvat, doli mali exceptione summoveri, magis est, ut ea res ad periculum venditoris non pertineat. quod et in servo dicendum est, si in servitutem, non in libertatem eviceretur, ut dominus mercedes et impensas praestare debeat. quod si emptor non possideat aedificium vel servum, ex empto habebit actionem. in omnibus tamen his casibus, si sciens quis alienum vendiderit, omnimodo teneri debet.

 

Il primo casus è, ovviamente, riconducibile alla tematica dell’inaedificatio ed il rimedio dell’exceptio doli mali[45], opposta dal compratore evitto alla rivendica intentata dal proprietario, comporta la retentio dell’immobile fin quando il possessore (di buona fede) non sia stato rimborsato delle spese compiute per la costruzione[46]. Al tema dell’inaedificatio si collega anche il caso del servus[47], al quale viene applicata la medesima disciplina della retentio; la particolarità qui sta nell’immaterialità dei ‘miglioramenti’/spese compiuti sul servo[48] che, in caso di sua evizione, portano necessariamente (vale a dire: per ragioni ‘materiali’) all’impiego di quello strumento. Al di là, dunque, della differenza nella ‘qualità’ della spesa[49], l’elemento che accomuna entrambe le fattispecie è il possesso della res in capo al compratore, che giustifica l’opposizione dell’exceptio, la quale, a sua volta, si riflette nella retentio[50].

A questo meccanismo, si sostituisce, invece, quello dell’esperimento dell’actio empti[51] contro il venditore dante causa, solo quando il compratore non sia materialmente in grado di esperire la retentio nei confronti del terzo che agisce in giudizio, proprio perché la res non è più presso di sé: è il possesso in quanto tale (si emptor non possideat) a diventare, in conclusione, il criterio determinante per la scelta dell’una o dell’altra ‘soluzione’ e non più la causa di esso.

Precisamente su questo punto si innesta il problema di capire quando possa verificarsi che il compratore, al quale viene evitta la cosa, non la possieda, di modo che egli per un verso non possa opporre la retentio e per l’altro, specularmente, si trovi costretto ad agire (in seconda battuta, verrebbe da dire) contro il suo dante causa. Se costui non l’avesse posseduta fin dall’inizio – ad esempio perché il venditore non gliene aveva affatto trasferito l’habere licere – sarebbe mancata all’origine la legittimazione alla reivindicatio del terzo e, quindi, il problema non si sarebbe posto affatto. Non c’è, d’altra parte, nel passo alcun appiglio – neppure indiretto – per credere che nel compratore sia configurabile la cd. ficta possessio[52] riconducibile alle figure del dolo desinens possidere o del liti se offerre; né, tantomeno, si riesce ad immaginare che qui la perdita del possesso sia conseguenza di un evento che abbia aliunde (cioè indipendentemente rispetto all’evizione subita) la sua origine[53].

La questione, allora, sembrerebbe avere, prima facie, una relazione con la ‘classica’ controversia tra sabiniani e proculiani circa il momento in cui valutare il possesso del convenuto ai fini della sua assoluzione nell’actio in rem: se, cioè, quello sia necessario tanto all’atto della litis contestatio, quanto al momento dell’emanazione della sentenza (utroque momento), oppure solo in rapporto ad uno dei due. Come noto, le due opposte prospettive sono rappresentate, emblematicamente, da un lato da Gai. 7 ad ed. prov. [L.153] D. 6.1.36 pr. Qui petitorio iudicio utitur, ne frustra experiatur, requirere debet, an is, cum quo instituat actionem, possessor sit vel dolo desinit possidere e, dall’altro, da Proculo (ricordato dal medesimo Paolo del nostro frammento) Paul. 21 ad ed. [L.330] D. 6.1.27.1 Possidere autem aliquis debet utique et litis contestatae tempore et quo res iudicatur. quod si litis contestationis possedit, cum autem res iudicatur sine dolo malo amisit possessionem, absolvendus est possessor. item si litis contestatae tempore non possedit, quo autem iudicatur possidet, probanda est Proculi sententia, ut omnimodo condemnetur: ergo et fructuum nomine ex quo coepit possidere damnabitur; nella stessa linea di quest’ultimo, con riferimento a Proculo e Pegaso, Ulp. 29 ad ed. [L.861] D. 15.1.30 pr. […] Proculus et Pegasus nihilo minus teneri aiunt: intenditur enim recte, etiamsi nihil sit in peculio. idem et circa ad exibendum et in rem actionem placuit, quae sententia et a nobis probanda est. Non è questa certo la sede per affrontare un simile tema e per dubitare della qualità di «siegreichen»[54] dei giuristi proculiani e della loro (più estensiva) opinione[55]. Va, peraltro, notato che l’intera tematica è orientata unicamente alla verifica dei requisiti necessari per la determinazione della legittimazione passiva alla rivendica. Nel nostro passo, invece, quel problema non emerge affatto e la prospettiva con la quale si analizza la fattispecie è tutta incentrata sul rapporto in personam tra compratore evitto e suo dante causa.

Ed allora sembra difficile, proseguendo su questa via, chiarire il dubbio su come sia possibile che la mancanza del possesso della res in capo al compratore faccia sì che egli, al contempo, sia legittimato passivo alla rivendica e legittimato attivo all’esercizio dell’actio empti (al fine, da un lato di far valere la condanna all’id quod interest in dipendenza dell’evizione della cosa e, dall’altro, di ottenere dal venditore il rimborso delle impensae per la refectio dell’immobile).

Bisogna, allora, cambiar strada e mutare punto di osservazione, immaginando che la perdita del possesso in capo al compratore significhi altro che la sconfitta – quale convenuto – in un’azione reale.

Un passo che – in una certa misura – potrebbe essere interpretato sulla scorta di questa ‘suggestione’ è rappresentato da Pomp. 11 ad Sab. [L.573] D. 21.2.29.1 Si duplae stipulator ex possessore petitor factus et victus sit, quam rem si possideret retinere potuerit, peti autem utiliter non <poterit> [potuerit edd.], vel ipso iure promissor duplae tutus erit vel certe doli mali exceptione se tueri poterit, sed ita, si culpa vel sponte duplae stipulatoris possessio amissa fuerit.

Pur non nascondendo che la struttura logico-sintattica del frammento non sia limpidissima, a causa di un certo andamento ellittico del discorso, la fattispecie può essere tuttavia ricostruita nel senso che un compratore, che si era fatto promettere con stipulazione il doppio del prezzo in caso di evizione della cosa da lui acquistata, ne perde il possesso ma, anziché agire immediatamente contro il venditore, preferisce agire egli stesso con un’azione reale contro il possessore. Viene poi sconfitto da quest’ultimo; egli infatti – evidenzia il giurista – avrebbe potuto ‘trattenere’ con successo quella cosa che, invece, non è in grado di rivendicare: in altre parole, il compratore sarebbe stato in grado di resistere ad un’azione intentata da altri e mirante a spossessarlo, ma, perduto il possesso non risulta più giuridicamente in grado di recuperarlo. Respinto, dunque, nell’actio in rem da lui intentata contro il possessore della cosa da egli acquistata, quid iuris se costui dovesse comunque decidere di far valere la garanzia della stipulatio duplae nei confronti del venditore? In ogni caso, la sua istanza non andrebbe ascoltata. Il passo, poi, mette sullo stesso piano la tutela ipso iure del venditore (perché si ritiene che il compratore non sarebbe mai stato evitto, cioè sconfitto quale convenuto in un’actio in rem e che quindi la stipulatio duplae non sarebbe mai stata commissa[56]) e quella ope exceptionis (doli mali praesenti, da opporre al tentativo del compratore di convenirlo in forza della stipulatio stessa) a patto che il possesso sia stato perso per colpa o per altra condotta volontaria del compratore.

Certo, potrebbe lasciare perplessi la concorrenza di quei due strumenti, oltretutto correlati da vel – vel[57] ma, al contrario, non necessariamente si dovrebbe credere ad un effetto di ‘appiattimento’ dell’uno sull’altro. Se si ammette che il primo ponga l’accento sul momento ‘sostanziale’ dell’inesigibilità della stipulatio per non essere stata commissa ed il secondo su quello processuale dell’effetto paralizzante dell’eccezione di dolo, si potrebbe anche arrivare ad ipotizzare che il dato rilevante del passo consista non solo sull’impossibilità dell’esperimento in sé dell’azione, quanto, piuttosto, sulla scorrettezza del comportamento del compratore, che ad essa sia ricorso dopo essere stato respinto nell’actio in rem, rispetto alla quale egli ben sapeva fin dall’inizio non avrebbe potuto dare esito positivo. Il dolo dell’attore-compratore consisterebbe, allora, nell’agire ‘di rimessa’ contro il venditore con l’actio ex stipulato, dopo essere stato sconfitto in un’azione reale che – ab origine – sapeva di non poter utiliter esperire nella fattispecie alla quale si allude in D. 21.2.29.1. La scorrettezza, poi, dell’attore-compratore si rivela tanto più grave, quanto più si accentua il profilo della sua primaria responsabilità nella perdita del possesso. Nel frammento, infatti, si afferma che la perdita di quest’ultimo (con la derivante tutela accordata dal giurista al venditore) è avvenuta culpa vel sponte: emerge, così, la diretta attribuzione del fatto dannoso allo stesso compratore che, poi, cercherebbe ingiustamente di rivalersi contro il suo dante causa, quando egli stesso, per una sua condotta volontaria o per sua negligenza, ha dato origine all’intera vicenda della quale, invece, vorrebbe far ricadere le conseguenze sul venditore.

In un certo senso (anche se, in questo ammettendo una buona dose di estremizzazione) si potrebbe sostenere che la garanzia per l’evizione fosse – in quel caso – come ‘dimezzata’: limitata, cioè, al caso di soccombenza, come convenuto, in un’azione reale (quam rem si possideret retinere potuerit) ma non alla sconfitta, come attore, nella ‘parallela’ azione di rivendica (peti autem utiliter non potuerit), volta al recupero del possesso (perduto culpa vel sponte), che il compratore esperisce ‘autonomamente’; quando, allora, egli intenta l’azione da compravendita contro venditore, quest’ultimo ha dunque tutte le ragioni per opporgli l’eccezione di dolo[58].

Se questa – pur con una certa dose di ipoteticità, come appena sopra ammesso – sembra essere la ricostruzione astratta attraverso la quale potrebbe operare il bilanciamento di interessi fra le posizioni contrapposte del compratore e del venditore, rimane, dal punto di vista concreto, la difficoltà a costruire un esempio che permetta di verificarne il funzionamento[59]. In ogni caso, ben al di là della riprova dell’adattabilità di un esempio concreto alla fattispecie descritta da Pomponio, il dato certo, che si può ricavare da D. 21.2.29.1, è l’uso ‘particolare’ del verbo retinere che non indica lo strumento ‘tecnico’ di difesa del convenuto a fronte di un (contro)credito che egli possa vantare in relazione alla cosa posseduta, bensì solo l’effetto materiale di trattenimento della cosa, sufficiente a difenderne il possesso di fronte all’azione intentata dal terzo, ma che a nulla potrebbe giovargli, qualora proprio il possesso vada recuperato.

Come conseguenza, l’elemento che consente il collegamento tra D. 21.2.29.1 ed il meccanismo di operatività di D. 19.1.45.1 è ravvisabile, in conclusione, nel fatto che «a colui che possiede, la cosa non può esser evitta, mentre una volta perduto il possesso (colposamente o volontariamente), la cosa non è più ricuperabile (con petitio); onde la stipulatio duplae che garantisce dall’evizione non può invocarsi, giacché l’evizione era facilmente evitata dalla conservazione del possesso»[60].

In D. 19.1.45.1 allora, il fatto di non possedere (si emptor non possideat aedificium vel servum) andrebbe inteso non come soccombenza nella rivendica intentata da un terzo, ma come incapacità di recuperare il possesso stesso, dopo averlo perso e una volta tentatone il recupero (senza successo) secondo il meccanismo di D. 21.2.29.1. A differenza, però, che nel passo di Pomponio, in quello di Paolo, al compratore che ha perso il possesso viene concessa senz’altro l’actio empti e nulla si dice, circa la causa della sua perdita. La sua (qui data per presupposta) sconfitta nell’azione in rem intentata dal creditore pignoratizio non gli avrebbe precluso, di conseguenza, l’esperimento dell’actio ex empto, in funzione di garanzia per l’evizione, dovendosi presumere che egli non avesse causato la perdita del possesso culpa vel sponte; elemento quest’ultimo, che si rivela determinante per giustificare la diversità di disciplina proprio con il ‘corrispondente’ passo di Pomponio. Di più; come si vedrà poco più avanti, la stessa azione da compravendita gli sarà utile per ottenere dal venditore anche il rimborso per le spese dei ‘miglioramenti’ operati sulla cosa, che altrimenti non sarebbe più riuscito a recuperare.

L’elemento fondante della disciplina di D. 19.1.45.1 è allora ravvisabile nell’applicazione di un regime particolare che pure era ricompreso nel criterio dell’id quod interest e che, quale parametro di valutazione quantitativa della responsabilità del venditore per evizione, presiedeva alla determinazione della misura del ‘concorso’ del danneggiato nella emersione o nell’accrescimento del danno. Non sarebbe stato possibile, cioè, per il danneggiato richiedere in giudizio il risarcimento anche per quel danno che – sebbene solo in parte – fosse stato originato o accresciuto da una sua condotta[61]. Se letto in questo senso, il fr. di Paolo porrebbe il limite per il compratore di non poter pretendere con l’actio empti dal venditore le spese per i ‘miglioramenti’ che egli non avrebbe richiesto al terzo proprietario in sede di esercizio della retentio opposta alla rivendica di costui: la conclusione, molto netta, sul punto si accentrerebbe, allora, nel fatto che «der Käufer hat nicht nur das Recht, sondern auch die Pflicht, den Ausgleich des Mehrwertes von evinzierenden Eigentümer mit dem Retentionsrecht zu fordern, wenn er sich für diesen Betrag schadlos halten will»[62].

A dire il vero, però – almeno nella forma ‘estremizzata’ della netta contrapposizione tra ‘Recht’ (reso efficace per mezzo della retentio) del possessore e sua contemporanea ‘Pflicht’ (nei confronti del venditore dante causa) – la linea interpretativa sopra riportata si rivela eccessivamente rigida, rispetto alla prudenza adottata dal giurista. Paolo, infatti, in D. 19.1.45.1 esprime a chiare lettere la sua cautela con magis est, con palese riferimento alla volontà di ‘tener fuori’ – quantomeno in prima istanza – il venditore dalla vicenda legata alla tutela del compratore per i ‘miglioramenti’ apposti alla res venduta, nel momento in cui quest’ultima dovesse subire l’evizione ad opera di un terzo.[63]. Di più. L’interrelazione tra questo profilo e quello del (mancato) coinvolgimento del venditore è focalizzato sul problema non certo della rivendica della cosa tout-court ma, ben più limitatamente, del rimborso per i ‘miglioramenti’[64]. L’impiego della locuzione nam quia chiarisce, in tal senso, l’esclusione del periculum in capo al venditore[65], proprio in ragione della retentio sulla cosa – collegata al rimborso sui ‘miglioramenti’ stessi – che può essere opposta dal possessore al dominus, nel momento in cui quest’ultimo agisca per l’evizione.

Il possesso della res, allora, nella qualità di elemento fondante la retentio, viene valutato nella sua funzione di strumento di difesa del convenuto, che riesce a paralizzare la pretesa reale dell’attore, fintanto che egli non venga soddisfatto per le spese compiute sulla cosa.

Il merito di Paolo – che avrebbe risolto «glänzend»[66] il problema dell’arricchimento – consiste nell’aver collegato un profilo all’altro, di modo che, alla soluzione della questione di natura reale circa la proprietà della cosa, sarebbe corrisposta unitariamente anche quella di carattere obbligatorio sull’(ingiustificato) arricchimento. In questo senso, la responsabilità del venditore per i ‘miglioramenti’ apportati alla res evitta finisce per divenire del tutto sussidiaria rispetto alla possibilità di esigere il loro rimborso da parte del terzo rivendicante[67]. Tale residualità è affermata dal giurista attraverso l’indicazione di due circostanze nelle quali il venditore è direttamente tenuto al rimborso dei ‘miglioramenti’ compiuti dal compratore sulla cosa evitta: da un lato la perdita del possesso di quest’ultimo sulla res – come sopra già evidenziato – e, dall’altro, la scientia del venditore stesso circa l’altruità della cosa venduta.

Se la prima di esse è chiaramente legata al meccanismo della retentio e ne determina, in re ipsa, l’impossibilità dell’applicazione facendone mancare il presupposto essenziale, alla seconda, invece, è attribuita con tutta evidenza una funzione ‘punitiva’ perché sarebbe stato ingiusto – in quel caso – che il rimborso dei ‘miglioramenti’ fosse stato accollato al terzo rivendicante, dal momento che il venditore era pienamente consapevole dell’altruità della cosa fin dal momento (vendiderit) dell’alienazione[68].

Ad avvicinare, dunque, D. 19.1.45.1 e D. 39.2.44.2 sono le analogie tra reivindicatio e actio (quasi) Serviana intese – sempre sotto il profilo dell’effetto – quali strumenti volti allo spossessamento nei confronti una res, sulla quale si pretende vantare un diritto reale; a distinguerli, il criterio di applicazione della retentio. È fin quasi banale osservare che il fatto in sé del possesso della res, ai fini dell’esercizio della retentio, sia (dal punto di vista della sua estensione) ben più amplio che non quello della causa del possesso. Non è necessario, però, come ancora faceva la dottrina legata ad una inflessibile contrapposizione[69] tra diritto classico e innovazioni giustinianee, giustapporre ‘soluzioni’ più restrittive (classiche) ad altre più estensive (giustinianee), quanto, piuttosto, valutare le stesse in rapporto alla concreta situazione nella quale esse vengono adottate.

 

 

6. – Breve nota conclusiva

 

Solo poche parole al termine di questa ricerca, nella quale si è avuto modo di verificare la concretezza e la duttilità del giurista romano, che sa adattare le ‘soluzioni’ proposte alla specificità delle fattispecie esaminate. In questo senso, la testimonianza di Africano si rivela emblematica di un modus operandi che non rimane prigioniero di aprioristici schematismi dottrinari, ma neppure prescinde da qualsiasi ‘linea ricostruttiva’, per lasciarsi guidare dalla ‘estemporaneità’ dell’approccio particolaristico.

Così, la capacità di ‘resistenza’ della retentio (qui, peraltro, mai esplicitata, quantomeno in riferimento all’impiego di quel segno) risponde ad un’esigenza di bilanciamento di interessi contrapposti, che non avrebbe trovato aliter una possibilità di composizione o, se non altro, un ordinamento parimenti efficace. Il giurista è, inoltre, a tal punto consapevole della ‘residualità’ dell’utilizzo di quello strumento che, a fronte del quesito (carico di implicazioni teoriche e di non irrilevanti risvolti pratici) circa l’eventualità di una sua applicazione ‘estensiva’, si mostra nettamente contrario ad essa, preferendo rimanere fedele ad un ‘principio’ di autonomia privata che, responsabilizzando la parte, la vincola di conseguenza alla regolamentazione, prevista dal sistema, per il negozio da lei concluso.

 

 

Abstract

 

El pensamento de Africano, conservado en D. 39.2.44.1, permite comprobar la capacidad de ‘resistencia’ de la retención, en el marco de un empleo específico de la misma, con relación a la garantía por el daño temido. Mientras el referido jurista admite su empleo en este contexto, niega, en cambio, su operatividad en relación a una fattispecie ‘paralela’, en materia de compraventa. La plena consciencia de Africano, acerca del carácter ‘residual’ de esta institución, lo induce efectivamente a excluir su empleo generalizado y, al contrario, lo conduce – conservándose fiel al ‘principio’ de autonomía privada – a responsabilizar a la parte, vinculándola a la reglamentación, privista por el sistema, para el negocio por él concluído.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

* Questo contributo si inserisce nel quadro, di più ampio respiro, di una ricerca che si propone uno studio incentrato sulla possibilità (ed i modi) di applicazione del ‘diritto’ di ritenzione, affrontato nella particolare prospettiva della tutela del possessore, per i miglioramenti da lui apportati sulla res evitta. Si cercherà, in quella sede, di ricostruire le articolazioni di un possibile ius controversum sul punto e si tenterà, parimenti, di seguire lo sviluppo che quella discussione ha avuto nella tradizione romanistica, fino a sfociare nelle concrete scelte applicative dei moderni Codici civili, che escludono ‑ in linea di massima ‑ proprio la possibilità dell’utilizzo della ritenzione a favore di quello. Così, in prima battuta ‑ e, in questa sede, per il solo valore ‘emblematico’ della disciplina (anche in considerazione della sua specificità in rapporto all’ipoteca) ‑ appare opportuno ricordare, da un lato, l’art. 2864, 2° e 3° comma (Danni causati dal terzo e miglioramenti) del vigente Codice civile italiano laddove, in tema di regolamentazione degli effetti dell’ipoteca rispetto al terzo acquirente, il legislatore prescrive che «Egli [sc. il possessore] non può ritenere l’immobile per causa di miglioramenti; ma ha il diritto di far separare dal prezzo di vendita la parte corrispondente ai miglioramenti eseguiti dopo la trascrizione del suo titolo, fino a concorrenza del valore dei medesimi al tempo della vendita. Se il prezzo non copre il valore dell’immobile nello stato in cui era prima dei miglioramenti e insieme quello dei miglioramenti, esso deve dividersi in due parti proporzionali ai detti valori» e, dall’altro, il corrispondente articolo 2020 del Codice civile del 1865 dove, in analoga sedes materiae, si disponeva che «Il terzo possessore (…) non può contro di essi [sc. i creditori iscritti] invocare alcun diritto di ritenzione per causa di miglioramenti. Egli ha però diritto di far separare dal prezzo la parte corrispondente ai miglioramenti da esso fatti dopo la trascrizione del suo titolo, sino a concorrenza della minor somma che risulterà tra lo speso ed il migliorato al tempo del rilascio o della vendita all’incanto».

 

[1] Afr. 9 quaest. [L.111] D. 39.2.44 pr. Cum postulassem, ut mihi damni infecti promitteres, noluisti et priusquam praetor adiretur, aedes tuae corruerunt et damnum mihi dederunt: potius esse ait, ut nihil novi praetor constituere debeat et mea culpa damnum sim passus, qui tardius experiri coeperim. At si cum praetor ut promitteres decrevisset et te non promittente ire me in possessionem iussisset et prius quam eo venissem, corruerunt, perinde omnia servanda esse existimavit, atque si posteaquam in possessionem venissem damnum datum esset. Da notare, sotto il profilo formale, l’impiego della terza persona (existimavit), indice del fatto che Africano qui riporti l’opinione altrui, assai probabilmente di Giuliano (cfr. F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana [trad. it. G. Nocera] Firenze, 1968, 415; W. Kunkel, Die Römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung, 1967, 2a ed [rist. Köln - Weimar - Wien 2001] 172 ss. e da ultimo, specificatamente in questo senso, A. D’Ors, Las Quaestiones de Africano, Roma, 1997, 9-22). Al di là, dunque, della ‘soluzione’ del caso concreto del pr., sembra altamente probabile che anche il § 1 – sebbene in maniera più implicita che non il pr. (argomenta dalla forma impersonale: dicetur; dici potest) – possa essere ricondotto allo stesso giurista, il parere del quale Africano riporta nel pr.

 

[2] A. Biscardi, La dottrina romana dell’obligatio rei, Milano, 1991, 75 non esclude espressamente (v. nt. precedente) una riconduzione del caso presentato «come oggetto di dubbio» al maestro di Africano: Giuliano.

 

[3] Indicativa, della unanime posizione sul punto, è l’opinione di A. Hägerström, Die römische Obligationsbegriff im Lichte der allgemeinen römischen Rechstsanschauung. I, Leipzig, 1927, 182 che, senza mezzi termini, definiva «absurd» il riferimento al dominium quando «letzterer unmittelbar bonitarischer Eigentümer ist». Cfr. ex professo, G. Branca, Danno temuto e danno da cose inanimate nel diritto romano, Padova, 1937, 214 s., nt. 3 con rinvio alla letteratura precedente; più recentemente (ma con un taglio più generale) F. Betancourt, La defensa pretoria del «missus in possessionem», in AHDE 52 (1982), 373-510, in part. 429 ss.; molto dettagliato (come lo è in generale per i riferimenti dottrinari) E. Nardi, Studi sulla ritenzione in diritto romano. I Fonti e casi, Milano, 1947, 47 s.; neanche la dottrina più recente, A. Bürge, Retentio im römischen Sachen- und Obligationenrecht, Zürich, 1979, 148 – che pure ha (ri)esaminato il passo con attenzione più mirata ai profili dei quali ci si occuperà a breve, che non all’analisi formale del testo – ha rimesso in discussione l’intervento giustinianeo sul punto.

 

[4] Anche qui si rinvia all’accurata disamina di Nardi, Studi cit., I, 48 ss. che, dopo aver valutato i rilievi formali Krüger, Scialoja, Riccobono, Lenel, Branca conclude con l’affermazione secondo la quale «com’è facile vedere, a parte [dominium], appigli sostanziali contro la genuinità del passo la critica non è riuscita a trovarne» (49).

 

[5] In questo senso, potrebbe essere anche ricordata la proposta di O. Lenel, Afrikans Quästionen. Versuch einer kritischen Palingenesie, in ZSS 51 (1931), 49 che, leggendo «cepi[t]», intenderebbe ricondurre proprio a quell’alternanza anche la prima frase del § 1.

 

[6] La cesura che emergerebbe dalle osservazioni sin qui compiute ha, altresì, fornito un indizio per sostenere la caduta di quella parte del testo nella quale il giurista avrebbe sostenuto la (posteriore, rispetto a quella rivolta al dominus) richiesta della cautio damni infecti al creditore pignoratizio che avrebbe giustificato, secondo le circostanze del caso, la necessità di inhibire la persecutio del pegno stesso; Branca, Danno temuto cit., 214 s.; in senso adesivo Nardi, Studi cit., I, 52 s., con il rinvio a F. Glück (continuazione di U. Burckhard), Commentario alle Pandette (trad. it. P. Bonfante), XXXIX, 2, Milano, 1905, 275 ss.; su questo aspetto, v. però, infra § 3.

 

[7] Si esprime in questo senso anche Bürge, Retentio cit., 150 accennando, invero, solamente – senza neppure farne i nomi – agli autorevoli Studiosi dei primi del ‘900 che pure avrebbero attaccato il passo «mit weitgehenden Eingriffen».

 

[8] D’Ors, Las Quaestiones cit., 428 s. si limita ad una semplice parafrasi del passo, lasciando peraltro inalterato nel testo la lettura dominium, ma accogliendo (428 nt. 1060) nella sostanza la proposta di emendazione, le cui ragioni sono state prima (v., supra nt. 11) illustrate.

 

[9] Per una descrizione della fattispecie in tal senso, v. già G.C. Groskopff, Zur Lehere von Retentionsrechte, Oldeburg, 1858, 41.

 

[10] V., principalmente M. Kaser, Das römische Privatrecht, 2a ed., München, 1971, 473; Id., Besitzpfand und ‘besizloses’ Pfand (Studien zum römischen Pfandrecht III), in SDHI 45 (1979), 37 s. (= Studien zum römischen Pfandrecht, Napoli, 1982, 163 s.); G. Krämer, Das besitzlose Pfandrecht. Entwicklungen in der römischen Republik und Prinzipat, Köln - Weimar - Wien, 50 s.; per lo più descrittivo M. Braukmann, Pignus. Das Pfandrecht unter dem Einfluß der vorklassischen und klassischen Tradition der römischen Rechtswissenschaft, Göttingen, 2008, 56 ss.; v. anche R. Knütel, Rc. a Braukmann Pignus cit., in IURA 58 (2010), 303-319; D. Schanbacher, Rc. a Braukmann, Pignus cit., in ZSS 127 (2010), 443-448 in part. 446; Id., Verpfändungspraxis und Pfandrecht, in (W. Ernst - E. Jakab Hrsg.) Usus Antiquus Juris Romani. Antikes Recht in lebenspraktischer Anwendung, Berlin - Heidelberg, 2005, 191-204; Id., Zu Ursprung und Entwicklung des römischen Pfandrechs, in ZSS 123 (2006), 49-70. Con diretto riferimento alla cautio damni infecti, v. F. Betancourt, Recursos supletorios de la «cautio damni infecti» en el derecho romano clasico, in AHDE, 45 (1975), 111 che ivi sottolinea «la persistencia del derecho real de hipotheca a pesar de la usucapión». Merita una particolare menzione, per la lucida esposizione dei problemi, S. Pietrini, A proposito della protezione del creditore pignoratizio (D.13.7.28pr. e 9.4.36), in IURA 47 (1997), 144-165; Ead., La Pira ed il pegno: storia di un’idea, in Index 34 (2006), 201-207.

 

[11] Cfr. la laudatio edicti in Ulp. 53 ad ed. [L.1271] D. 39.2.7 pr. Praetor ait: ‘damni infecti suo nomine promitti, alieno satisdari iubebo …; O. Lenel, Das Edictum perpetuum, 3a ed., Leipzig, 1927 (rist. Aalen, 1985), 371 ss.; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 451.

 

[12] Così Branca, Danno temuto cit., 214 che adduce a sostegno l’esplicito Ulp. 53 ad ed. [L.1278] D. 39.2.15.25 Item quaeritur in pigneraticio creditore, an pignoris persecutio denegetur adversus eum, qui iussus sit possidere. et magis est, ut, si neque debitor repromiserit neque creditor satisdedit, pignoris persecutio denegetur (…).

 

[13] Le espressioni sono sempre di Branca, Danno temuto cit., 215, in riferimento al quale, sembra opportuno (se non altro per ‘stemperare’ l’impressione di acceso interpolazionista che sarebbe potuta trapelare da quanto sopra detto, specie nella parte in cui l’A. presuppone una lacuna nel testo per sostenere una sua ipotesi) riportare le parole di un Suo allievo, A. Masi, L’opera di Giuseppe Branca, in Index 34 (2006), 25 allorquando sottolinea come «l’opera [sc. Danno temuto cit.] pone innanzitutto in risalto la capacità esegetica del Branca, che dei testi presi in considerazione riusciva a rendersi padrone nel vero senso della parola ed era perciò in grado di percepirne il dettato originario, le alterazioni dagli stessi eventualmente subite in epoca postclassica, le modifiche giustinianee. (…) In anni nei quali era dominante la critica interpolazionistica è stato uno degli studiosi che hanno cominciato a reagire consapevolmente agli abusi dell’interpolazionismo ad oltranza, aiutato dalla sua sensibilità giuridica che gli consentiva di dominare dal punto di vista contenutistico i passi oggetto della sua ricerca in tutte le loro sfumature e, quindi, di utilizzare tutti i possibili elementi formali senza lasciarsi condizionare da questi».

 

[14] La lunga citazione è tratta da Nardi, Studi cit., I, 52; è evidente, poi, quanta influenza abbia avuto sulla presentazione del problema da parte di questo Studioso la complessiva impostazione del problema presentata da Branca.

 

[15] V. rispettivamente Gai. 28 ad ed. [L.369] D. 39.2.2 Damnum infectum est damnum nondum factum, quod futurum veremur e Ulp. 53 ad ed. [L.1272] D. 39.2.9 pr. (…) integra autem re unus­quisque cogitur aut de damno infecto cavere, aut aedibus carere quas non defendit (…).

 

[16] Nardi, Studi cit., I, 52 non sembra neppure prendere in considerazione quest’ultima possibilità, limitandosi a circoscrivere l’ipotesi a quella in cui «(…) il missus non seppe del pegno o non ebbe modo di chieder la cautio al creditore; la chiese solo al dominus con le conseguenze del caso».

 

[17] Ancora Bürge, Retentio cit., 151 che sostiene come «für den Eingewiesenen bestehet ja weder zum Eigentümer noch zum Pfandgläubuger eine obligatorische Beziehung, da keine der beiden die cautio damni infecti geleistet hat». Che il profilo obbligatorio sia qui assente (a differenza proprio della fattispecie successiva) è evidente; è, però, parimenti evidente che il creditore non abbia prestato la cautio, perché a lui non poteva essere (più) richiesta.

 

[18] Ulp. 81 ad ed. [L.1753] D. 39.2.24.2 Sed ut ne quid aedium loci operisve vitio damnum factum sit, stipulatio interponitur (…).

 

[19] Ben altro problema riguarda la concessione della cautio de praeterito di Ulp. 53 ad ed. [L.1272] D. 39.2.9 pr. Hoc amplius Iulianus posse dici compellendum eum, ut etiam de praeterito damno caveret: quod enim re integra custoditur, hoc non inique etiam post ruinam aedium praestabitur. integra autem re unusquisque cogitur aut de damno infecto cavere aut aedibus carere quas non defendit. denique, inquit, si quis propter angustias temporis aut quia rei publicae causa aberat non potuerit damni infecti stipulari, non inique praetorem curaturum, ut dominus vitiosarum aedium aut damnum sarciat aut aedibus careat. sententiam Iuliani utilitas comprobat. A tacer d’altro, infatti, il discrimine fattuale col nostro passo è qui rappresentato dall’ormai avvenuto crollo dell’edificio e dell’impossibilità (giustificata) di richiedere per tempo la garanzia.

 

[20] A questo punto, si può anche cercare di giustificare – dal punto di vista sostanziale, non certo formale – l’intuizione di G. Beseler, Einzelne Stellen, in ZSS 45 (1925), 478 (nello stesso senso, Id., Beiträge zur Kritik der römischen Rechsquellen, V, Leipzig, 1931, 67, dove, però, non colgo il rinvio [«zu bescheiden»] a Id., Romanistische Studien, in TJ 10 (1930), 196 in cui si tratta solamente dell’impiego di diligentius nella seconda parte del §; non corretta, almeno stavolta, sembra quindi la citazione di ‘seconda mano’ di Nardi, Studi cit., I, 48 che, nel merito, giudica, condivisibilmente, la proposta del romanista tedesco «congetturale ed arbitraria», ibidem, 49) che proponeva (dubitativamente «vielleicht») di leggere <aedes refeci> anziché [possidendo dominium cepit]. L’intervento sul testo è, chiaramente, assai invasivo e non sostenuto da ragioni filologiche o paleografiche. L’evidente vantaggio è rappresentato sia – grammaticalmente – dall’ottenimento dell’uniformità attraverso la riconduzione alla prima persona singolare del verbo impiegato (cancellando, così, la ‘variazione’ prima/terza persona alla quale sopra si è fatto cenno) sia – sostanzialmente – dall’esplicitazione dell’attività compiuta dal missus che escluderebbe, in radice, il ricorso all’argomento della mancata prestazione, da parte del creditore pignoratizio, della cautio damni infecti. Quanto questa proposta di emendazione (che qui, si ripete, viene presa in considerazione quale indizio ‘esterno’ per una ricostruzione che trova aliunde la sua giustificazione) faccia da pendant all’altra (ibidem) – altrettanto invasiva – che leggerebbe <doli exceptione summovebitur> cancellando lo ‘scomodo’ [inhibendam adversus me persecutionem] si vedrà fra poco (v., infra § 3).

 

[21] Cfr. F. Casavola, Actio petitio persecutio, Napoli, 1965, 103; v. anche R. Orestano, s.v. Persecutio, in NNDI XII, Torino, 1965, 1005-1009 che mette in luce l’ambito semantico «in cui il persequi ha un valore affatto differente [sc. in riferimento alle actiones rei persecutoriae] cioè determinato dal contenuto e dall’oggetto dell’actio stessa» (1005); A. Guarino, Rc. a F. Casavola, Actio cit., in Labeo 12 (1966), 129-136; G.I. Luzzatto, Rc. a F. Casavola, Actio cit., in SDHI 32 (1966), 344-349.

 

[22] La situazione del missus sarebbe allora sostanzialmente avvicinabile a quella di colui che, avendo comprato imprudens un fondo altrui, vi abbia costruito o piantato alcunché e sia stato poi evitto: Cels. 3 dig. [L.22] D. 6.1.38 In fundo alieno, quem imprudens emeras, aedificasti aut conseruisti, deinde evincitur: bonus iudex varie ex personis causisque constituet. finge et dominum eadem factum fuisse: reddat impensam, ut fundum recipiat … Al di là della centralità del passo per il tema della inaedificatio (v. per tutti F. Musumeci, Inaedificatio, Milano, 1988, 149 ss.) la fattispecie sembra adattarsi al passo qui esaminato sia sotto il profilo della assenza di conoscenza della presenza di diritti reali altrui sulla cosa (rispettivamente proprietà e pegno) sia del tipo di intervento compiuto dal possessore rispetto a quello che avrebbe posto in essere il proprietario. In rapporto a quest’ultimo argomento, l’apparente paradosso della mancata prestazione della cautio damni infecti da parte del proprietario – intesa quale causa legittimante l’immissione nel possesso del terzo – rappresenta, invece, il trait-d’union tra la l. 44.1 e D. 6.1.38: in altre parole, la condotta doverosa che si sarebbe pretesa dal proprietario è, per l’appunto, la refectio dell’immobile; quando essa viene posta (volontariamente) in essere dal missus si può correttamente presumere – sia pure ex adverso – che sarebbe stata a maggior ragione attuata dal proprietario (finge et dominum eadem factum fuisse): di qui il parallelismo anche con la disciplina per il rimborso delle spese; v. Nardi, Studi cit., I, 326 ss.

 

[23] Per rapide, ma puntuali precisazioni sul punto, v. da ultimo Krämer, Das besitzlose Pfandrecht cit., 38 ss.

 

[24] L’espressione è di Bürge, Retentio cit., 28 (che rinvia erroneamente a D. 50.16.70); v., invece, Paul. 6 ad Plaut. [L.1127] D. 50.16.79 ‘Impensae necessariae’ sunt, quae si factae non sint, res aut peritura aut deterior futura sit. 1. ‘Utiles impensas’ esse Fulcinius ait, quae meliorem dotem faciant, non deteriorem esse non sinant, ex quibus reditus mulieri adquiratur: sicuti arbusti pastinationem ultra quam necesse fuerat, item doctrinam puerorum. Quorum nomine onerari mulierem ignorantem vel invitam non oportet, ne cogatur fundo aut mancipiis carere. In his impensis et pistrinum et horreum insulae dotali adiectum plerumque dicemus. 2. ‘Voluptariae’ sunt, quae speciem dumtaxat ornant, non etiam fructum augent: ut sint viridia et aquae salientes, incrustationes, loricationes, picturae e Tit. Ulp. 6.14-17: Impensarum species sunt tres: aut enim necessariae dicuntur aut utiles aut voluptuosae. 15. Necessariae sunt impensae, quibus non factis dos deterior futura est, velut si quis ruinosas aedes refecerit. 16. Utiles sunt, quibus non factis quidem deterior dos non fuerit, factis autem fructuosior effecta est, veluti si vineta et oliveta fecerit. 17. Voluptuosae sunt, quibus neque omissis deterior dos fieret neque fructiosior effecta est: quod evenit in viridiariis et picturis similibusque rebus. Sul punto v. L. von Petražycky, Die Lehre von Einkommen. I, Berlin, 1893, 291-344 che riserva all’argomento un particolare ‘Anhang’ sulle «Impensae necessariae und utiles» e che, pur in un generale impianto pandettistico, si rivela sensibile ad una una ‘modernizzante’ analisi economica del problema (ma, v. comunque, l’accento, posto pressoché all’inizio del suo ponderoso lavoro sul tema: «es handelt sich um den Begriff Einkommen und seine Anwendung im täglichen Leben» [lo spaziato è dell’A.]) laddove si identificano le impensae necessariae con quelle che «zum Zweck der Erhaltung des Kapitals geschehen» e quelle utiles «als solche einmaligen Ausgaben, welche die Erhöhung des Ertrages oder des Werthes der Sache bezwechen» (293 s.).

 

[25] Così, da ultimo, A. Chianale, in (a cura di R. Sacco) Trattato di diritto civile, I diritti reali, 6, L’ipoteca, Torino, 2010, 150. Il problema, come ci si propone di esaminare specificatamente, si riacutizza per l’esplicita negazione del nostro codice civile (art. 2864 2) della ritenzione in capo al terzo possessore

 

[26] La proposta è di Beseler, Beiträge cit., V, 67; v. anche, supra nt. 20.

 

[27] Il riferimento è a Nardi, Studi cit., I, 49.

 

[28] «Che inhibere stia qui, come al solito, in luogo di denegare, non v’ha dubbio», così Nardi, Studi cit., I, 49 (lo spaziato è mio). L’A. porta come esempio di quella equiparazione altri otto passi dei Digesta (indicandoli, peraltro, solo col riferimento numerico, senza esplicitare l’impiego della locuzione): Paul. 17 ad Plaut. [L.1231] D. 5.1.24.2 actio … non sit inhibendam; Paul. 7 ad Plaut. [L1142] D. 9.4.31 sequentes actiones inhibeantur; Ulp. 26 ad ed. [L.772] D. 12.4.3.1 aut admittenda erit repetitio aut inhibendam; Ulp. 26 ad ed. [L.772] D. 12.4.3.3 inhibenda erit repetitio, nisi paeniteat; Paul. 29 ad ed. [L.450] D. 13.7.20.3 tamen pigneraticia actio inhibenda est; Ulp. 6 opin. [L.2352] D. 27.9.10 vindicatio praedii ex aequitate inhibetur; Afr. 6 quaest. [L.54] D. 30.109.1 inhibeat fundi persecutionem ed una costituzione di Diocleziano e Massimiano C. 4.32.19.2 pignoris inhibere persecutionem. Con l’impiego di moderni strumenti informatici, si ricava che le ricorrenze complessive del verbo nei Digesta sono complessivamente venticinque e, per almeno la metà di esse, non sembra possibile operare quella usuale ‘sovrapposizione’ ipotizzata da Nardi. A titolo di esempio: Gai. 1 ad ed. prov. [L.62] D. 2.14.30.1 non esse inhibendum creditorem; Paul. 13 ad ed. [L.251] D. 4.8.32.10 arbiter inhibendum est; Ulp. 3 ad ed. [L.212] D. 5.1.2.2 prorogatio fuerit inhibita; Paul. 21 ad ed. [L.354] D. 8.5.9 pr. inhibebo opus tuum; Ulp. 3 ad l. Iul. et Pap. [L.1992] D. 23.1.16 nuptias in personam senatorum inhibuit; Paul. 6 ad Plaut. [L.1128] D. 23.3.56.3 alienatio fundi inhibeatur; Ulp. 36 ad Sab. [L.2808] D. 25.1.11.1 Donationem inter virum et uxorem … inhibitam; Ulp. 52 ad ed. [L.1259] D. 39.1.1 pr. opus … per nuntiationem inhibetur; Ulp. 53 ad ed. [L.1285] D. 39.3.1.13 opere facto inhibeat per suum agrum decurrere; Ulp. 44 ad Sab. [L.2909] D. 39.5.7.4 inhibebitur haec quoque donatio; Pomp. 24 ad Q. Muc. [L.289] D. 41.3.24 pr. ubi lex inhibet usucapionem, bona fides possidenti nihil prodest; Paul. l. s. de concurrentib. action. [L.54] D. 44.7.34 pr. haec sententia per praetore inhibenda est. Almeno da queste ricorrenze, sembra abbastanza agevole notare come sia praticamente impossibile continuare a ritenere valida quella equiparazione: al contrario (come era d’altra parte prevedibile) l’ambito semantico coperto dal verbo è piuttosto esteso e – specie quando il suo oggetto non è un atto processuale – spazia dal corrispondente tedesco ‘aufhalten’ fino a (in ultima posizione) ‘verbieten’ (così H. Heumann - E. Seckel, Heumanns Handlexicon zu den Quellen des römischen Rechts9, rist. Jena, 1926, s.v. inhibere, 267). Il dato che emerge dalla lettura di questi passi consente di notare come, in ogni caso, la prospettiva, nella quale il verbo è impiegato, sia più ‘funzionale’ che ‘strutturale’: nel senso che, con inhibere si mette in rilievo l’effetto di ‘paralisi’ e di ‘blocco’ nei confronti di una determinata attività/atto (sostanziale o processuale)/persona e questo indipendentemente dagli strumenti impiegati, che finiscono per passare decisamente in secondo piano rispetto al risultato al quale si è appena fatto riferimento.

 

[29] Così, ancora, Nardi, Studi cit. I, 52.

 

[30] Così, Branca, Danno temuto cit., 214; v., supra nt. 20.

 

[31] Solo per correggere l’errore di stampa in Branca, Danno temuto, 214 s. nt. 3 (inhibendum … persecutionem).

 

[32] Il riferimento è a A. Metro, La «denegatio actionis», Milano, 1972, 216-218.

 

[33] Così V. Giodice Sabbatelli, Fideicommissorum persecutio. Contributo allo studio delle cognizioni straordinarie, Bari, 2001, 188 nt. 73 che afferma altresì (ibidem 188) di non potersi occupare della «delicata questione, che coinvolge l’intero frammento, relativa alla funzione della denegatio actionis formulare»; v. anche Ead., La tutela giuridica dei fedecommessi fra Augusto e Vespasiano, Bari, 1993, 30 nt. 11 e già D. Johnston, The Roman Law of Trust, Oxford, 1988, 224.

 

[34] Su questi aspetti, v. le (comunque invasive) ricostruzioni di G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, II, Tübingen, 1911, 87; Id., Romanistische Studien, I, in ZSS 50 (1930), 66 – con la sostituzione <fideicommissi> [fundi], dal momento che si intendeva «persecutionem = die Klage gegen den Erben», e ‑ ancor più incisivamente ‑ di O. Lenel, Afrikans Quaëstionen. Versuch einer kritischen Palingenesie, in ZSS 51 (1931), 23 e nt. 4 – che del passo riteneva genuino solo il tratto Heresvendidit. Va segnalato che ancora Metro, Denegatio cit., 216 s. accoglie integralmente la proposta beseleriana perché più «plausibile». In questo senso, l’accoglimento di quella proposta comporterebbe, come conseguenza, la negazione che con persecutio si indichi l’azione reale con oggetto il fundus e l’affermazione per cui con essa, invece, si faccia riferimento alla «pretesa fondata sul fedecommesso». La prospettiva cambierebbe radicalmente, con i riflessi, sul significato del sintagma inhibire persecutionem, dei quali si tratterà subito nel testo. Non si può, però, nascondere almeno un motivo di perplessità: quello indotto da un così netto cambiamento di senso (nel pur vasto ambito semantico del termine) di persecutio, impiegato dallo stesso giurista (Africano) nella stessa opera (le Quaestiones); v. sul punto Giodice Sabbatelli, Fideicommissorum persecutio cit., 188 e nt. 74 secondo la quale «l’uso di persecutio … anche in questo caso non presenta una sua propria specificità». Non tocca l’integrità del testo e, anzi, argomenta dalla genuinità della locuzione persecutio fundi, G. Impallomeni, L’efficacia del fedecommesso pecuniario nei confronti dei terzi. La in rem missio, in BIDR 70 (1967), 1-104 che la intende come azione reale intentata dal fedecommissario nei confronti di Tizio che «(…) per impedire la persecutio fundi, paga al fedecommissario cento. Ciò, perché, si dice, se il fondo non fosse stato alienato, l’erede, per non prestare il fondo, non avrebbe dovuto dare né più né meno di quella cifra» (13). Da ultimo anche D’Ors, Las Quaestiones cit., 228 s. sostiene che il pretore fedecommissario avrebbe concesso un’azione in rem «cuando es posibile por la substitencia del objeto específico», di modo che «el fideicomisario tenía una accíon real (extra ordinem, y por eso se habla de persecutio) sobre el fundo …» (229).

 

[35] Così Metro, Denegatio cit., 218.

 

[36] Impiega questa (felice) espressione Riccobono, Dal diritto romano romano classico al diritto moderno (a proposito di D.10,3,14 [Paul. 3 ad Plaut.]), in AUPA 3-4 (1917), 165 ss. (= Scritti di diritto romano. II, Palermo, 1964, dal quale citerò, 228) che ritiene questa tecnica comune allo stesso Africano.

 

[37] Forse è solo un particolare, ma non si può fare a meno di notare la differenza tra l’insula di questa frase e l’aedes del caso precedente (v. supra, § 2). Il particolare, poi, potrebbe essere inteso non tanto come l’indizio di un intervento manipolativo sul testo quanto, piuttosto, come il risultato di uno sforzo interpretativo che, avendo come fulcro la verifica dell’applicazione del meccanismo della retentio ad un altro ambito negoziale, a quella sacrifica il rispetto dell’uniformità terminologica che, in questo senso, appare secondaria.

 

[38] È, a maggior ragione, assente qualsiasi vincolo obbligatorio tra possessore ad usucapionem e proprietario dell’edificio che non ha prestato la cautio, tanto che il primo è stato immesso nel possesso dell’immobile, proprio a causa della mancata prestazione di quella garanzia. In ogni caso (ben al di là, dunque, dell’osservazione di Bürge, Retentio cit., 151, che dubita «ob er aber am Haus als solches ein Interesse hat, ist damit noch nicht gesagt») il possessore ad usucapionem si comporta uti dominus nel momento in cui restaura l’edificio pericolante e soggiacerebbe pienamente all’actio (quasi) Serviana mossagli contro dal creditore, senza avere la possibilità di esercitare qualsiasi tipo di regresso contro il vecchio proprietario, se la retentio della res non venisse in suo soccorso attraverso l’opposizione dell’exceptio doli.

 

[39] Concetto questo di centrale rilevanza per la definizione stessa dell’ambito di applicazione della retentio, in base alla ricostruzione dello stesso Bürge, Retentio cit., 151.

 

[40] La linea interpretativa di Riccobono, Dal diritto romano cit., 228 evidenzia un aspetto che mette in risalto il vantaggio che il debitore esecutato ricaverebbe dai ‘miglioramenti’ posti in essere dal terzo di buona fede: «(…) le spese fatte dall’acquirente vanno, in definitivo, a profitto del debitore alienante proprietario; il quale in seguito alla vendita della cosa pignorata viene liberato dal suo debito; mentre il creditore persegue quel che gli compete in forza del suo diritto, e non può essere costretto a pagare le spese di manutenzione dell’edificio, diminuendo in tal modo la forza e l’estensione della sua garenzia». Non si può, però, fare a meno di notare come il ragionamento – almeno sotto il profilo del bilanciamento economico – non sembri potersi sottrarre a talune critiche: quantomeno quella, in base alla quale, i ‘miglioramenti’ vadano ad esclusivo vantaggio del debitore pignoratizio. Se, infatti è vero che i ‘miglioramenti’, di per sé, aumentano il valore del bene messo all’asta e allontanano quindi il rischio per cui «se il prezzo è insufficiente a soddisfare il credito, questo perdura per la parte non soddisfatta» (così S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, I, 2a ed., Roma, 1928 [rist. Roma, 2002], 818, è, però, altrettanto vero che la possibilità di una soddisfazione completa sul ricavato del bene si accresce proporzionalmente, in rapporto al maggior valore che la res obligata si trova ad avere ad opera dei ‘miglioramenti’ del terzo. Tra l’alternativa (qui posta in astratto): rimborsare il terzo per i ‘miglioramenti’ (altro problema: in che misura?) e soddisfarsi sul bene; oppure rimanere insoddisfatto e dover agire come creditore chirografario per «la parte non soddisfatta», sembra di gran lunga preferibile la prima opzione.

 

[41] Chiarissimo, sul punto T. Mayer-Maly, De se queri debere. Officia erga se und Verschulden gegen sich Selbst, in Festschrift für Max Kaser zum 70. Geburtstag, München, 1976, 240 nt. 57. In questa linea, R. Backhaus, Rc. a Bürge, Retentio cit., in ZSS 98 (1981), 511 che ravvisa nel rimprovero mosso al compratore da parte di Africano la riprova del «Verschulden gegen sich selbst» poiché, a fronte della usuale («üblich») apposizione di un fideiussore a garanzia della evizione della res venduta, il compratore, invece, non si sarebbe curato di richiederla. Dove non si può concordare con Backhaus è nel (presumibile) fraintendimento dell’avverbio aeque che, secondo lui, qualificherebbe l’effetto «das Insolvenzrisiko des Schuldners dem Käufer anzulasten», derivato dall’omissione del compratore riferita, appunto, alla mancata richiesta di garanti.

 

[42] Per l’origine della stipulatio duplae ricondotta alla vendita di res mancipi al quale non abbia fatto seguito il corrispondente atto di trasferimento della proprietà v. per tutti, Talamanca, s.v. Vendita (dir. rom.) cit., 391.

 

[43] V. in questo senso, quando previsto nel testo della emptio vinae Durae ad Euphratem contracta del 227 d.C. (FIRA III, n.138, 439-442) – in cui ut apud Romanos moris erat, in tota re enarranda praecipue emptori ratio habetur (439) – dove si specificava espressamente che il venditore garantiva che to# auèto# aègo@rasma aène@pafon k[a]i# aènepida@neiston [442, l. 21] (rem nec obnoxiam nec pigneratam); cfr. Bürge, Retentio cit., 151 s. e bibliografia ivi citata (152 nt. 26).

 

[44] Va segnalato che, nel pr. del medesimo frammento, Paolo dia notizia di come Africano riferisse che Giuliano (idque et Iulianum agitasse Africanus refert) si fosse occupato della complessa materia (l’argomento del § 1 della l. 45 viene introdotto da expeditius che proprio a quella articolazione concettuale fa riferimento) della diminuzione della somma che il venditore – condannato per l’evizione subita dal suo avente causa – deve prestare al compratore nel caso in cui la cosa acquistata si fosse deteriorata presso quest’ultimo, prima del giudizio di evizione. Questo, solo per ipotizzare che anche il § 1 della medesima l. possa essere riconducibile ad una matrice risalente a Giuliano/Africano, al pari di D. 39.2.44.2 e che, dunque, a rafforzamento della comparazione che nel testo si va proponendo, possa essere aggiunto anche questo dato, solo al fine di tentare di sostenere – sebbene solo in via ipotetica – una continuità di pensiero nel modo di affrontare fattispecie comparabili fra di loro. Per un primo richiamo alla critica testuale, v. D. Medicus, Id quod interest. Studien zum römischen Recht des Schadenersatzes, Köln – Graz, 1962, 83 nt. 18 e 84; doverosa anche la citazione di H. Honsell, Quod interest im bonae – fidei – iudicium. Studien zum römischen Schadenersatzercht, München, 1969, 51 ss. Sul passo, che notoriamente, si inserisce nel ben più complesso (ed amplio) contesto palingenetico di L.1327, v. da ultimi J. Schmidt-Ott, Pauli Quaestiones. Eigenart und Textgeschichte einer spätklassischen Juristenschrift, Berlin, 1993, 82 e, soprattutto, D. Nörr, Römisches Recht: Geschichte und Geschichten. Der Fall der Arescusa et alii (D.19,1,43 sq.), München, 2005, 52 s.; puntuale e limpido R. Knütel, Stipulatio poenae. Studien zur römischen Vetragstrafen, Köln - Wien, 1976, 338 ss. Anche Bürge, Retentio cit., 66 pone l’accento sul legame ‘autoriale’ al quale sopra si accennava e sostiene lo sforzo del giurista di condensarne la riflessione – in riferimento al fr. 45.1 – riportandola «in die eng gezogenen Schranken des vorliegenden Falles», col fine primario «die Frage des Ersatzes für den Merhrwert zu lösen».

 

[45] Sul meccanismo di operatività dell’exceptio doli generalis correlata alla clusola restitutoria della reivindicatio, v. le coincise ed acute osservazioni di C.A. Cannata, Bona fides e strutture processuali, in (a cura di) L. Garofalo, Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, I, Padova, 2003, 257-273, in part. 269 ss.; Id., ‘Exceptio doli generalis’ e diritti reali, in (a cura di) L. Garofalo, L’eccezione di dolo generale. Diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 2006, 245, nt. 19; legato (invece) ad una concezione della exceptio in diminuzione della condanna, E. Betti, Sulla opposizione della “exceptio” all’“actio” e sulla concorrenza fra loro, Parma, 1913, in part. 17 ss.

 

[46] Cfr. Musumeci, Inaedificatio cit., 162 s. con puntuali riflessioni circa la differenza quantitativa tra la condemnatio all’id quod interest dell’actio empti rispetto al duplum della fattispecie decemvirale del tignum iunctum di Tab. VI.8 (FIRA); osservazioni critiche (che però non toccano lo «Zurückbehaltungsrecht» del quale qui si tratta) sono mosse da P. Apathy, Paul. D. 46.3.98.8 – Zur Ersatzpflicht bei ‘inaedificatio’, in IURA 42 (1991), 1-11. Il brano è sottoposto anche ad esegesi (non, però, per tutte le fattispecie in esso rappresentate) da Cannata, ‘Exceptio doli generalis’ cit., 250 ss.

 

[47] Bürge, Retentio cit., 66 nt. 245 ricorda come il ricorso alle fattispecie dell’area a quella del servus fosse già presente in un altro passo dello stesso Paolo, vale a dire, in Paul. 21 ad ed. [L.336] D. 6.1.27.5 In rem petitam si possessor ante litem contestatam sumptus fecit, per doli mali exceptionem ratio eorum haberi debet, si perseveret actor petere rem suam non redditis sumptibus. idem est etiam, si noxali iudicio servum defendit et damnatus praestitit pecuniam, aut in area quae fuit petitoris per errorem insulam aedificavit (…) per sostenere il passaggio «von einfacheren [sc. fattispecie] zum offenbar schwierigeren». Qui, però, da un lato, l’ordine delle fattispecie è invertito rispetto a D. 19.1.45.1; dall’altro la gradualità nella difficoltà del caso non sembra sussistere ma, anzi, l’aut fra le due fattispecie sembra porle su un piano perfettamente equivalente; contra U. Elsener, Le racines romanistes de l’interdiction de l’abus de droit, Bâle, 2004, 172 per la quale «(…) le cas de la vente du fonds est mentionné uniquement dans le but d’en tirer une analogie avec celui de l’esclave»; v. anche L. Labruna, Note su eccezione di dolo generale e abuso del diritto nelle vedute dei giuristi classici, in (a cura di) L. Garofalo, L’eccezione di dolo generale cit., 123-137 in part. 136.

 

[48] Rispetto al binomio mercedes et impensas non necessariamente si dovrebbero considerare i due termini come sinonimi e concludere, come fa Riccobono, Dal diritto romano cit., 222, per un verso, per l’inutilità del primo, che non esprimerebbe nulla più di quanto già espresso dal secondo, per l’altro, ritenendo che «il binomio è anche ambiguo, a causa della voce mercedes senza specificazione, occorrendo essa pure per designare gli acquisti del possessore fatti dalle opere del servo [ex operis mercedes capere], laddove in questo luogo sta ad indicare le mercedi pagate per il servo». Nel senso di una riconduzione, da un lato delle mercedes «(…) a compensi a terzi che hanno effettuato prestazioni a carico dello schiavo (…) in particolare ai compensi di coloro che hanno istruito lo schiavo stesso o lo hanno magari curato» e, dall’altro, delle impensae «(…) alle spese per il mantenimento dello schiavo ed eventualmente le medicine nel caso in cui si fosse ammalato», v. Cannata, ‘Exceptio doli generalis’ cit., 251. A parte la possibilità di un raccorciamento del brano – che lascerebbe aperto il dubbio circa l’‘inserimento’ dell’esempio del servus, pur potendosi ricondurre il fenomeno ad un’abbreviazione tout-court del testo; cfr. il passaggio dall’ego dell’esempio sull’area alla forma impersonale del caso del servo, v. le critiche mosse da F. Pringsheim, Zur Schadenersatzpflicht des Verkäufers und des Käufers, in Studi in onore di Salvatore Riccobono nel XL anno del suo insegnamento. IV, (Palermo, 1936), 323 all’andamento logico-argomentativo dell’intero fr.; al quale, adde Nardi, Studi, I cit., 396 – non si vede perché si sarebbe dovuta specificare la natura delle impensae (necessarie? utili?) operate nei confronti del servo, quando nulla si era precisato rispetto alla natura delle impensae per gli aedificia. La volontà di assimilazione estensiva del secondo caso rispetto al primo – benché possano rimaner ferme tutte le perplessità che, proprio in quello ‘sforzato’ parallelismo, troverebbero fondamento – costituirebbe giustificazione sufficiente per ritenere che si volessero mettere sullo stesso piano le spese effettuate in rapporto ad entrambi gli oggetti (servus ed aedificia): quello, cioè, della loro valenza come causa fondante la retentio nei confronti del terzo rivendicante. Per il caso, poi, della vindicatio del servo, esse, però, vanno distinte, intuitivamente, sulla base del ‘tipo’ di rivendicazione della quale il servo è oggetto. È, infatti, evidente che il meccanismo della retentio possa essere attuato solo in occasione di una vindicatio in servitutem, poiché solo in quel caso il nuovo dominus otterrebbe un ingiusto profitto derivante dalle impensae sostenute o dalle mercedes pagate dal possessore; al contrario, tutto questo non dovrebbe aver luogo se la vindicatio fosse in libertatem e, quindi, si concludesse con la pronuncia secundum libertatem a favore del servo stesso: in questo caso, il compratore, potrebbe, ovviamente, agire solo contro il venditore; v. preliminarmente, G. Franciosi, Il processo di libertà in diritto romano classico, Napoli, 1961, 84 ss. Indispensabile, su quest’ultimo profilo, il rinvio ancora alla posizione di Giuliano – approvato da Paolo – che non fa venir meno l’azione da compera pur se il servo sia stato manomesso: Paul. 5 quaest. [L.1327] D. 19.1.43 (…) ego cum meminissem et Iulianum in ea sententia esse, et existimaret post manumissionem quoque empti actionem durare.

 

[49] Per i profili terminologici, evidenziati oltretutto dalla doppia ricorrenza nel passo del termine impensa, v. J. Reszczyński, Impendere, impensa, impendium (sulla terminologia delle spese in diritto romano), in SDHI 55 (1989), 218 nt. 139; 221 nt. 143 e 225, nt. 157; per un quadro complessivo sul tema delle spese, v. il mantenimento di una linea di continuità nell’impostazione del problema tra J.-P. Lévy, Les impenses dotales en droit romain classique, Paris, 1937 e M.T. González-Palenzuela Gallego, Las impensas en el derecho romano clásico, Cáceres, 1998; su quest’ultima, poi, v. l’equilibrato, positivo giudizio di F. Cuena Boy, Rc. a González-Palenzuela Gallego, in Rev. de Est. Hist. Jur. 22 (2000), 507.

 

[50] Il meccanismo è ben delineato in Gai. 2.76 Sed si ab eo petamus fundum vel aedificium et inpensas in aedificium vel in seminaria vel in sementem factas ei solvere nolimus, poterit nos per exceptionem doli mali repellere, utique si bonae fidei possessor fuerit; nel medesimo senso v., dello stesso Gaio, Gai. 2 rer. cott. sive aur. [L.491] D. 41.1.7.12 Ex diverso si quis in alieno solo sua materia aedificaverit, illius fit aedificium, cuius et solum est (…) certe si dominus soli petat aedificium nec solvat pretium materiae et mercedes fabrorum, poterit per exceptionem doli mali repelli, utique si nescit qui aedificaverit alienum esse solum et tamquam in suo bona fide aedificavit: nam si scit, culpa et obici potest, quod temere aedificavit in eo solo, quod intellegeret alienum.

 

[51] Si ricordano, sul punto, le posizioni contrapposte da un lato di B. Biondi, Iudicia bonae fidei, Palermo, 1920, 146 s., che nega – sulla scorta dell’opinione di Riccobono, Dal diritto romano classico cit., 222 – la possibilità che, per il diritto classico, si potesse agire contro il venditore con l’actio empti per il rimborso delle spese compiute sulla res rispetto alla quale si fosse subita l’evizione e dall’altro di E. Albertario, Il rimborso delle spese fatte dal compratore intorno alla «res evicta», in AG. 9 (1925), 3 ss. (= Studi di diritto romano. III. Obbligazioni, Milano, 1936, 481-494 dal quale citerò) che, sosteneva sì la funzione ‘residuale’ dell’actio empti (nel senso che essa potesse essere esperita solo quando il compratore espropriato non avesse avuto altra possibilità, se non quella di «pretendere dal venditore col iudicium empti quello che con altri mezzi processuali avrebbe potuto ottenere dal proprietario rivendicante») ma, al contempo, ne ammetteva la piena esperibilità in riferimento a «quelle spese (le voluttuarie) che il compratore, benché possessore di buona fede, non avesse potuto esigere dal rivendicante, o [a] tutte le spese (anche le necessarie e le utili) che, per non essere in possesso della cosa al momento dell’evizione, non avesse potuto chiedere al proprietario che agiva con la rivendica» [487 s.]). Diretta conseguenza di ciò, sarebbe la responsabilità ‘sussidiaria’ del venditore rispetto al terzo rivendicante, di modo che, specularmente, «der Kaüfer soll sich in erster Linie an den Eigentümer halten, dem die Aufwendungen auch zugute kommen» (così, Nörr, Geschichte cit., 53). Al di là della diversità nei rapporti tra compratore e terzo – sotto il profilo di un maggiore o minore coinvolgimento nel rimborso delle spese in capo al venditore – che le due differenti ricostruzioni comportano, ciò che rimane comunque nell’ombra è la possibilità in sé che sia convenuto con la rivendica colui che non possiede (più) la res acquistata (v. infra, nel testo).

 

[52] Sul problema v. principalmente S. Schipani, Responsabilità del convenuto per la cosa oggetto di azione reale, Torino, 1971, 65 ss.; da ultimo M. Wimmer, Besitz und Haftung des Vindikationsbeklagten, Köln-Weimar-Wien, 1995, in part. 39 ss.

 

[53] Va segnalato che Nardi, Studi I cit., 396 ss., che pure si occupa passo con la sua consueta minuziosità dal punto di vista della ricostruzione della lettera del testo, sorvoli completamente su questo aspetto ed, anzi, argomenti dalla ‘pacifica’ ammissione del parallelismo fra mancanza di possesso ed esperimento dell’actio empti per costruire una differenziazione tra il caso del venditore in buona fede (nel quale essa troverebbe luogo) e quello del venditore in mala fede nei cui confronti il compratore «(…) sarebbe autorizzato a rifarsi per le spese (…) in ogni caso: cioè, tanto se può esercitar la retentio, quanto se non lo può, per deficiente possesso». Questo, ovviamente, senza dir nulla circa il problema qui affrontato. Neppure, più recentemente, H. Ankum, Die manumissio fideicommissaria der Arescusa, des Stichus und des Pamphilus, in Ars boni et aequi. Festschrift für Wolfgang Waldstein für 65 Geburtstag, Stuttgart, 1993, 13 sembra prendere posizione circa il problema qui affrontato, ma si limita a descrivere la fattispecie come quella di un venditore che «(ohne seine Schuld) den Besitz der Sache verloren hat»; v. già Id., Pomponio, Juliano y la responsabilidad del vendedor por la evicción con la actio empti, in RIDA 49 (1992) 65 nt. 18; così, ancora, Cannata, ‘Exceptio doli generalis’ cit., 252 che sembra sorvolare sulla questione quando si limita ad affermare che «l’ulteriore precisazione che, se C non fosse in possesso della cosa – e quindi non sia stata esperita contro di lui la rei vindicatio di P –, il problema delle mercedes et impensae sarebbe in ogni caso regolato con l’actio empti, è enunciato insieme per i due casi dell’area e dello schiavo, e quindi, per quanto ci riguarda, serve solo a rafforzare l’idea che Paolo li considerasse analoghi»; a fronte di questo, però, il dubbio posto nel testo non trova però chiarimento, tanto più perché, se contro C non viene esperita la rivendica da parte di P (o, da un adsertor in libertatem) egli neppure avrebbe motivo di agire ex empto nei confronti del venditore, dato che non sarebbe stato evitto.

 

[54] Così M. Kaser, Das römische Privatrecht, I, 2a ed., München, 1971, 433; v. dettagliatamente, M. Talamanca, Osservazioni sulla legittimazione passiva alle actiones in rem, in Studi economico-giuridici pubblicati per cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari XLIII (1962-1963), 133-186 che precisa come «l’ipotesi di una controversia di scuola tra sabiniani e proculiani, che avesse, come oggetto, la rilevanza o l’irrilevanza del possesso ai fini della legittimazione passiva nelle actiones in rem nella fase successiva alla litis contestatio non sussisteva. Che vi fossero controversie, non si può dubitare: ma esse vertevano esclusivamente (…) sul momento in cui tale possesso dovesse sussistere» (173); v. anche M. Marrone, La legittimazione passiva alla rei vindicatio (Corso di diritto romano), Palermo, 1970, 22 ss.

 

[55] V., per tutti, M. Marrone, s.v. Rivendicazione (dir. rom.), in ED. XLI, Milano, 1989, 20 s.

 

[56] Ulp. 29 ad Sab. [L.2727] D. 21.2.21.1 Inde Iulianus libro quadragesimo tertio eleganter definit duplae stipulationem tunc committi, quotiens res ita amitittur, ut eam emptori habere non liceat propter ipsam evictionem; ma diversamente da Pomp. 9 ad Sab. [L.559] D. 21,2,16,1 Duplae stipulatio committi dicitur tunc, cum res restituta est petitori, vel damnatus est litis aestimatione, vel possessor ab emptore conventus absolutus est per il quale l’evizione (in senso sostanziale) si anche verifica allorché «l’acquirente non possessore attore, [sia] risultato soccombente in giudizio», così, da ultimo T. Dalla Massara, Garanzia per evizione ed interdipendenza delle obbligazioni nella compravendita romana, in (a cura di L. Garofalo) La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni in diritto romano, II, Padova, 2007, 280 s. nt. 3 con rinvio alle concordi opinioni di Talamanca, s.v. Vendita cit., 401 e ntt. 1011 e 1012 e G. Impallomeni, s.v. Evizione (dir. rom.), in NNDI. VI, Torino, 1960, 1049 nt. 1; v. anche nt. seguente.

 

[57] Che il passo abbia potuto risentire di un intervento giustinianeo nel senso di un livellamento degli strumenti di tutela (ipso iureope exceptionis) è sostenuto da Nardi, Studi cit., I, 274 che immagina che «(…) Pomponio non avesse parlato che di exceptio doli: furono dunque i giustinianei che, nell’intento di fondere assieme il diritto civile e pretorio (...) inserirono qui [vel ipso iure] e [tutus erit vel certe]»; in questo senso, ancora D. Daube, Utiliter agere, in IURA 11 (1960), 129 e Talamanca s.v. Vendita cit., 401 nt. 1014 che ritiene che il passo sia stato raccorciato per la sovrapposizione della disciplina dell’actio auctoritatis da un lato e quella della stipulatio duplae dall’altro.

 

[58] Questa lettura che, si ripete, va intesa solo con la necessaria elasticità che l’analisi del caso di specie esige, sembra ritrovarsi nelle parole di L. Vacca, Ancora sull’estensione dell’ambito di applicazione dell’‘actio empti’ in età classica, in IURA 45 (1994), 35 ss. (= in Appartenenza e circolazione dei beni. Modelli classici e giustinianei, Padova, 2006, 329 ss.) quando sostiene che «non si configura alcuna responsabilità del venditore se, dopo il trasferimento del bene, il compratore soccombe nella lite con il terzo, o comunque l’habere licere per una circostanza non riferibile alla mancata piena disponibilità della cosa da parte del venditore al momento del contratto e del trasferimento» (55 = 349); in questo stesso senso, già M. Talamanca s.v. Vendita cit., 401.

 

[59] A questo interrogativo cerca di dare una risposta Daube, Utiliter agere cit., 132 che si sforza di proporre un paio di casi – abbastanza macchinosi, a dire il vero – ma che pure corrisponderebbero alla fattispecie descritta nel passo, il cui trait-d’union è rappresentato dall’esercizio dell’actio Publiciana: «A buys a slave-child from B, a non-owner, it gets into the hands of C, also a non-owner, who sells and delivers it to D. A brings the Publician against D and is defeated: he may not sue B on stipulation. Or a jewel is sold and delivered by E, a non-owner, to F, it gets into the hands of G, also non-owner, who sells and delivers it to H. H loses or gives up possession to F, brings the Publician agaist him and is defeated: he may not sue G on the stipulation». È evidente, che le due fattispecie corrano in parallelo e la loro differenza consista nella qualità di res mancipi o nec mancipi della cosa venduta, senza che, peraltro, la mancanza dell’atto formale traslativo della proprietà, rispetto agli effetti dei quali qui ci si occupa, giochi poi alcun ruolo.

 

[60] Così Nardi, Studi cit., I, 275; non si può, però, qui fare a meno di osservare la gratuità dell’ultima parte dell’affermazione (in particolare, circa l’agevolezza del mantenimento del possesso) quando, sul particolare della facilità, il passo non dice nulla. V. anche C. Wollschläger, Das eigene Veschulden des Verletzten im römischen Recht, in ZSS 93 (1976), 135 che riconduce il passo nel quadro generale dell’esonero del venditore dalla responsabilità per evizione («wenn der Käufer die Kaufsache durch eigene Schuld, insbesondere durch fehlerhafte Führung des Eviktionsprozesses, verloren hatte») poiché quella disciplina «gilt auch für einzelne Schadenposten» (nt. 113) evidentemente ricomprendendo fra queste ultime anche le spese per i ‘miglioramenti’ sulla res acquistata.

 

[61] Riprendendo, allora, le parole di D. Medicus, Id quod interest cit., 322 «(…) dem Geshädigten sei nur der aus dem schadigenden Ereignis mit Notwendigkeit sich ergebende Schaden zu ersetzen, nicht aber auch der weitere, der erst durch das Verhalten des Geschädigten hinzugekommen ist».

 

[62] Così, Bürge, Retentio cit., 65.

 

[63] In questo senso, già Medicus, Id quod interest cit., 323.

 

[64] Una costituzione di Diocleziano e Massimiano del 290 si esprime – sebbene in forma ellittica – nello stesso senso del frammento paolino quando distingue tra ‘restituzione’ delle impensae ad meliorandam rem da un lato e del praetium evictae portionis dall’altro: C. 8.44.16 Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Alexandro et Diogeni. Super empti agri quaestione disceptabit praeses provinciae et, si portionem diversae partis esse cognoverit, impensas, quas ad meliorandam rem vos erogasse constiterit, habita fructuum ratione restitui vobis iubebit. nam super praetio evictae portionis non eum qui dominium evicerit, sed auctricem conveniri consequens est. PP. x k. Iul. ipsis iiii et iii AA. conss. Per una (come sempre) accurata rassegna delle diverse proposte di emendazione del testo v. E. Nardi, Testi in origine relativi alla ritenzione?, in Scritti in onore di Contardo Ferrini pubblicati in occasione della beatificazione, I, Milano, 1947, 391 s. (= Scritti minori. I, Bologna, 1991, 337 s.) che suggerisce, a sua volta, l’espressa previsione dell’exceptio doli mali (in funzione ‘giustificativa’ della retentio) al posto della, a suo parere, «indubbia» interpolazione habita – ratione, sostituendo ad essa la forma ‘impersonale’ <per exceptionem doli mali> che avrebbe fatto salva la ‘terzietà’ del praeses rispetto all’onere di parte del sollevamento dell’eccezione. A fronte, però, della consueta puntigliosità nella ricostruzione testuale del passo, manca completamente (forse perché già data per scontata in seguito alla restituzione della lettera ‘genuina’ della fonte) un’esegesi sostanziale della costituzione. La fattispecie illustrata dalla cancelleria imperiale descrive una sorta di ‘programma processuale’, che il preside della provincia dovrà seguire nella valutazione degli interessi contrapposti tra le tre figure: i compratori (Alessandro e Diogene), il terzo rivendicante e la venditrice. Ai primi, evitti di una parte del fondo acquistato, il preside deve concedere il rimborso delle spese compiute per i ‘miglioramenti’ di quella parte e, al contempo, ingiungere loro la restituzione dei frutti (senza ulteriore specificazione ma, assai probabilmente, quelli extantes al momento dell’esperimento dell’azione). Il meccanismo, che (condividendo sul punto l’osservazione di Bürge, Retentio cit., 68 nt. 252) non necessiterebbe di un’esplicita exceptio doli (tanto più nel quadro della cognitio extra ordinem) ma lascerebbe direttamente al praeses l’officium della sua applicazione, vede nella retentio opposta al terzo rivendicante lo strumento più immediato (e più efficace) per la realizzazione di quell’interesse. Ben distinto da quest’ultimo è, invece, quello che fa capo alla responsabilità del venditore (nel caso di specie, si ripete, una venditrice: auctricem) per l’evizione della pars; contro di essa, infatti – stabilisce la cancelleria – si dovrà agire super praetio evictae partis, distinguendo così sia le differenti pretese sia, cosa per certi versi ancor più rilevante, i diversi strumenti con i quali farle valere: retentio da un lato, azione da compera (ex evictione) dall’altro. Dalla necessità – avvertita dagli imperatori – di indicare esplicitamente che la venditrice dell’ager deve corrispondere ai compratori il solo pretium della pars evicta, si potrebbe forse leggere la presenza di indizi che denunciano la preoccupazione di evitare una (sebbene solo potenziale) confusione fra le figure dell’autrix da un lato e di qui dominium evicit dall’altro. In questo senso, la loro contrapposizione (accentuata dal valore asseverativo della particella nam, con la quale se ne giustifica la chiamata in giudizio) varrebbe a fugare il dubbio circa una (ipoteticamente) possibile ‘estraneità’ alla vicenda della venditrice, obbligandola, al contrario, a rispondere per l’evizione parziale. Permarrebbero, dunque, ben al di là del complessivo sistema procedurale nel quale gli strumenti si collocano, le ragioni – di evidente riscontro pratico e di elevato vantaggio in termini di economia processuale – che sottostanno alla preferenza della immediatezza retentio direttamente opposta alla azione reale del terzo, rispetto all’azione per la garanzia per evizione rivolta contro la venditrice: il doppio binomio costituito dalle spese per ‘miglioramenti’ e retentio da un lato; garanzia per evizione e ‘azione’ da compera dall’altro, rimane invariato, perché ‘intrinsecamente’ funzionale alla dialettica che si instaura tra responsabilità per evizione per un verso e rimborso delle spese per i ‘miglioramenti’ dall’altro.

 

[65] Osservazioni sull’impiego e sull’accezione del termine nell’ambito della compravendita sono svolte da G. MacCormak, Periculum, in ZSS 96 (1979), 133 s.

 

[66] Ancora Bürge, Retentio cit., 67; sul punto v. il positivo giudizio («sehr ansprechend») di T. Mayer-Maly, Rc. a A. Bürge, Retentio cit., in IURA 30 (1979), 124.

 

[67] Aspetto colto perfettamente da R. Backhaus, Rc. a A. Bürge, Retentio cit., 502: «eine Rechsmängelhaftung des Veräußers ist (…) – wenn nich auf dolus vorliegt – im Fall des Kaufer subsidiär».

 

[68] Nutre dubbi formali sulla chiusa del passo Honsell, Quod interest cit., 54 anche se – al di là della rielaborazione esteriore della forma – afferma che sarebbe stato sorprendente se «Paulus seinen Ausgangsfall am Schluß nicht wieder aufgenommen hätte».

 

[69] Il riferimento è a Nardi, Studi cit., I, 50 s.