Università di
Roma Tor Vergata
La tutela del possessore per i
‘miglioramenti’ sulla res
evitta: il criterio di applicazione della retentio
nel pensiero di Africano (D. 39.2.44.1)*
SOMMARIO: 1. Afr. 9 quaest. [L.111] D. 39.2.44.1: la retentio è concessa se il titolo del terzo è fondato
su un rapporto non negoziale (missio in
possessionem ex secundo decreto emanato a seguito della mancata prestazione
della cautio damni infecti);
altrimenti, in caso di compravendita del bene vincolato, il compratore soccombe
nei confronti del creditore e deve agire per evizione contro il venditore, suo
dante causa. – 2. Il creditore pignoratizio
non può essere considerato legittimato passivo alla dazione di garanti (satisdatio) in relazione alla
prestazione della cautio damni infecti
a suo tempo non prestata dal proprietario all’attuale missus in possessionem: quando, infatti,
il primo agisce con l’actio (quasi) Serviana contro quest’ultimo, l’aedes non è più pericolante, perché già
restaurata. – 3. L’interpretazione
dell’espressione inhibendam
persecutionem, sotto il profilo della paralisi dell’azione reale del
creditore, ne permette la riconduzione nell’ambito della retentio accordata al terzo possessore.
– 4. Il quesito, sulla
possibilità di estensione della retentio
anche al compratore della res pignorata,
lascia trasparire la valutazione di quello strumento più sotto il
profilo funzionale che sotto quello strutturale. ‑ 5. La risposta negativa, circa la ‘parallela’
opponibilità della retentio al
venditore della res vincolata,
è fondata sull’elemento di volontarietà (sua voluntate negotium gerat) della compravendita
che impedisce alla ritenzione di spiegare i suoi effetti paralizzanti nei
confronti della pretesa reale del terzo. ‑ [Appendice]. La
‘giustificazione‘ di Paul. 5 quaest.
[L.1327] D. 19.1.45.1 privilegia l’esperibilità della retentio sulla res, oggetto di evizione, per il rimborso dei
‘miglioramenti’ su di essa compiuti dal possessore, rispetto al
ricorso all’actio empti in
funzione di garanzia. ‑ 6. Breve nota
conclusiva. – Abstract.
Nel quadro di un’articolata analisi circa i rapporti tra
ricorso al pretore per l’emanazione del decreto derivante dalla mancata
prestazione della cautio damni infecti,
immissione del richiedente nel possesso dell’immobile pericolante e
ricadute giuridiche dal suo crollo[1],
Africano[2] passa a
valutare le relazioni intercorrenti tra creditore pignoratizio e terzo immesso
nel possesso damni infecti causa da
un lato e tra quest’ultimo ed il venditore di un bene pignorato
dall’altro.
Afr. 9 quaest. [L.111] D. 39.2.44.1 Damni infecti nomine in possessionem missus possidendo [dominium] <usu>cepit, deinde creditor eas aedes pignori sibi
obligatas persequi vult. non sine ratione dicetur, nisi impensas, quas in
refectionem fecerim, mihi praestare sit paratus, inihibendam adversus me
persecutionem. cur ergo non emptori quoque id tribuendum est, si forte quis
insulam pigneratam emerit? non recte haec inter se comparabuntur, quando is qui
emit sua voluntate negotium gerat ideoque diligentius a venditore sibi cavere
et possit et debeat: quod non aeque et de eo, cui damni infecti non promittatur
dici potest.
Dal
punto di vista formale, non si mette qui in discussione l’intervento dei
compilatori che avrebbero sostituito il richiamo alla possessio
ad usucapionem (attraverso la concessione
dell’in bonis habere) con il diretto rinvio
all’acquisto del dominium[3]. Il resto del passo, pur
essendo stato fortemente attaccato dalla critica interpolazionistica, si rivela
sostanzialmente genuino[4]. Il ‘salto’
sintattico tra la terza persona della prima frase (cepit; vult) e
l’alternanza tra prima e terza (fecerim;
paratus sit) di quella successiva[5] potrebbe essere, al limite,
interpretato come un ‘taglio’ operato dai giustinianei per legare
l’enunciazione della parte ‘in fatto’ (impersonale) della
questione, con quella ‘in diritto’ (prima e terza singolare)[6]. Il contenuto del testo non
sembra, in ogni caso, risentirne ed il valore dommatico del
parallelismo/opposizione tra le due fattispecie presentate rimane invariato[7].
La linea logico-giuridica del passo si articola su un primo livello, nel quale viene presentata la fattispecie (damni infecti – vult [v., infra § 2 ]) e prospettata una ‘soluzione’ (non sine – persecutionem [v., infra, § 3]), cui segue un secondo livello nel quale si avanza – attraverso un interrogativo espresso in forma negativa (cur ergo non ‑ emerit? [v., infra § 4]) – la proposta dell’applicazione estensiva della medesima ‘soluzione’ anche ad una fattispecie differente dalla prima; nella parte conclusiva (non recte – fine [v., infra § 5 ]) infine, si nega la possibilità di operare una comparazione per equivalenza (non aeque) fra le due, giustificando il diniego attraverso l’affermazione della presenza di un elemento (sua voluntate) nella seconda fattispecie che, invece, risulta assente nella prima[8].
Se questa è, sebbene sinteticamente, la sequenza
argomentativa del passo, il suo nucleo centrale consiste nella enfatizzazione
della diversità degli strumenti di tutela accordati al terzo
(rispettivamente possessore ad
usucapionem e compratore) rispetto al verificarsi della medesima
aggressione rivolta contro il bene del quale egli dispone: vale a dire,
l’esercizio dell’azione reale del creditore pignoratizio,
finalizzato alla successiva alienazione della cosa, in vista del
soddisfacimento dell’obbligazione garantita e rimasta inadempiuta.
Questa vicenda va, poi, calata nella concreta dinamica di un
rapporto sorto – e che trova il suo sviluppo – nel contesto della cautio damni infecti, all’interno
del quale i tre soggetti (debitore principale, creditore pignoratizio e terzo
immesso nel possesso dell’immobile) si trovano ad interagire.
Si deve allora immaginare una situazione in cui il terzo
minacciato dal crollo dell’edificio, dopo aver inutilmente richiesto al dominus la prestazione della cautio e avendo ormai acquistato la
proprietà dell’immobile attraverso il decorrere dell’usucapione
perché possessore ex secundo
decreto, si veda convenuto – in quanto la cosa è presso di
sé – con l’actio (quasi) Serviana dal creditore del precedente proprietario, in rapporto ad
un debito da quest’ultimo contratto e garantito dal pegno sulla aedes[9]. Alla
possibilità di aggressione della cosa che, proprio perché fondata
su un’azione reale[10],
risulta essere ‘impermeabile’ rispetto al titolo in base al quale
il terzo possiede la res, si
‘giustappone’, però, la richiesta di rimborso delle spese
effettuate.
Su questo ‘snodo’ concettuale si innesta, facendo
leva sulla cesura formale alla quale sopra si faceva riferimento, il problema
della legittimazione passiva del creditore pignoratizio alla prestazione cautio damni infecti e le (eventuali)
conseguenze, nei suoi confronti, della mancata prestazione della garanzia.
Naturalmente, il tema assume qui rilevanza nei limitati risvolti che possano,
se del caso, coinvolgere le ragioni della difesa del terzo possessore contro lo
stesso creditore pignoratizio.
Su quest’ultimo, infatti, incombe il dovere di satisdare, qualora il dominus non adempia alla sua repromissio[11]; se il
creditore, poi, non concede la satisdatio:
«(…) è tolta espressamente la persecutio dei (…) [suoi] diritti. La perdita di questi, nel
campo del diritto onorario, è assoluta e definitiva dopo il iussum possidendi»[12]. Il
pretore, cioè, denegherebbe l’azione del creditore contro il
possessore della cosa perché il primo non avrebbe prestato la cautio al secondo: il diritto reale,
dunque, pur rimanendo integro ed immutato dal punto di vista sostanziale,
verrebbe però svuotato di ogni valenza pratica iure honorario, in virtù dell’impedimento processuale
al suo esercizio. Questo fenomeno sarebbe rispecchiato dal nostro passo dove,
anche in forza di quella cesura sopra indicata, sarebbe stato originariamente
«spiegato» il meccanismo sopra descritto, tanto più che, la
stessa l. 44.1 apparirebbe
«scorretta» nella sua parte finale[13].
In base a questo ragionamento, dunque, si è dedotto
– con una fin troppo rigida consequenzialità – che
l’espressione inhibendam
persecutionem fosse il risultato del diniego (potenziale) di prestare la satisdatio da parte del creditore
pignoratizio. La garanzia per il caso di crollo dell’immobile,
cioè, non sarebbe stata richiesta a quest’ultimo subito dopo aver
accertato il rifiuto del proprietario, perché il terzo non avrebbe
avuto, ad esempio, neppure conoscenza dell’esistenza di un soggetto
titolare di un simile diritto reale sull’immobile; «e allora, tenuto
conto che il creditore non fu posto a suo tempo dinanzi all’alternativa
‘o cauzione o perdita in pratica del diritto’, che per ciò
ha avuto luogo la missio e il missus è stato costretto dalla
mancata cautio a sostenere delle
spese di refectio, che se il creditore
fosse stato posto dinanzi alla suddetta alternativa avrebbe dovuto o prestar la
cautio e reficere lui a sue spese o rimetterci in pratica il suo diritto, si
provvede a riprodurre quella alternativa ora che il creditore si fa avanti,
modificandola però in rapporto ai fatti nel frattempo intervenuti (missio, e refectio da parte del missus).
Si dice dunque al creditore, con piena logica: avresti dovuto scegliere fra
perdita del diritto e cautio damni
infecti (con refectio a tue
spese); scegli ora fra la perdita del diritto e il risarcimento al missus di quelle spese di refectio cui la mancata cautio l’ha costretto»[14].
La, pur articolata ricostruzione, però, non si dimostra
coerente rispetto al verosimile (nel senso di più
‘probabile’ e ‘normale’) svolgimento dei fatti e sembra
perdere di vista, ad avviso di chi scrive, la finalità primaria della stipulatio pretoria rappresentata dalla cautio damni infecti: quella,
cioè, della garanzia in rapporto ad un danno non ancora verificatosi, ma
solo potenziale. È, dunque, opportuno (anche se si rischia di apparire
banali) rilevare che, proprio sulla base di quel rilievo che poggia
l’alternativa concessa al proprietario e che sostanzia nella scelta tra
prestazione della cautio ovvero nella
perdita della possessio della aedes[15]. Il dominus non è, quindi,
assolutamente costretto a reficere
l’immobile; conseguentemente, egli si accollerà, però, le
conseguenze dell’eventuale crollo, dato che attiene alla sua valutazione
discrezionale preferire la prestazione della cautio (vale a dire, subire una condanna futura e incerta) oppure
il restauro dell’edificio (vale a dire, affrontare immediatamente una
spesa). Il dovere di restaurare l’immobile non lo ha neanche colui che
è immesso nel possesso che può – ma, non necessariamente,
deve – procedere alla sua messa in sicurezza. In questo senso, si
pronuncia esplicitamente anche Ulpiano che contraddice la diversa opinione di
altri giuristi non specificamente indicati: Ulp. 53 ad ed. [L.1278] D. 39.2.15.30 Si
quis damni infecti in possessionem missus sit, fulcire eum et reficere insulam
debere sunt qui putent [eamque]
<eumque Kr.> culpam praestare exemplo eius qui pignore
accepit. sed alio iure utimur: cum enim ob hoc tantum missus sit, ut vice
cautionis in possessione sit, nihil ei imputari si non refecerit. Altro
è, dunque, rifiutarsi di prestare la cautio,
altro è preferire prestarla piuttosto che reficere immediatamente l’aedes.
Nel nostro caso, dunque, l’iter temporale della vicenda
sembra essere quello della immissione del terzo nel possesso
dell’immobile e del contemporaneo (e facoltativo) suo restauro; costui
allora non «è stato costretto dalla mancata cautio a sostenere le spese della refectio» ma vi si è sottoposto volontariamente,
contando di divenire egli dominus
dell’immobile, in virtù del trascorrere del tempo
dell’usucapione (accogliendo la proposta di emendazione del testo, sopra
segnalata). La refectio potrebbe
essere considerata, allora, come un’attività svolta nel proprio
interesse, sia per il vantaggio immediato di impedire il danno (ad un altro
edificio di sua proprietà, che si deve presumere collocato nelle
immediate vicinanze di quello pericolante) derivante dall’eventuale
crollo dell’immobile del quale era stato immesso nel possesso, sia per il
suo valore di ‘miglioramento’ del quale il missus stesso avrebbe appieno beneficiato una volta divenuto
proprietario e, naturalmente, beneficiandone fin dal momento della sua
immissione nel possesso, poiché gli consente, quantomeno, di goderne in
una condizione di ripristinata sicurezza.
Al di là, comunque, di queste riflessioni, rimane in ogni
caso altamente probabile la circostanza che né il missus sapesse dell’esistenza del creditore pignoratizio al
momento della richiesta della cautio
al dominus né che, viceversa, il
creditore fosse a conoscenza della stesso procedimento ‘cautelare’
e della sostituzione, nel possesso dell’immobile, del proprio debitore
con un terzo[16]:
d’altra parte, è fin troppo ovvio che, per il creditore
pignoratizio, proprio in forza dello ius
in rem del quale gode, sia indifferente la posizione soggettiva di colui
che possiede la cosa vincolata in pegno. In considerazione di questa situazione
di reciproca ‘estraneità’, va valutato l’esercizio
dell’actio (quasi) Serviana del creditore nei confronti del missus e la ‘reazione’ di quest’ultimo.
Ciò che, infatti, non sembra essere emerso con sufficiente
chiarezza dalle riflessioni che la dottrina ha sin qui compiuto (delle quali,
sia pure per excerpta, si è
sopra riferito) è un dato di fatto, parere di chi scrive, innegabile: al
creditore pignoratizio, del passo qui esaminato, non può (neppure in
ipotesi) essere richiesta la cautio damni
infecti[17]. E questo non per
particolari interpretazioni delle specifiche posizioni soggettive rispetto alle
quali essa si sarebbe dovuta (gradualmente) richiedere, ma per una banale
constatazione di fatto: il creditore ‘interviene’ nella vicenda
dopo il restauro dell’immobile; quando, cioè, per definizione,
manca il requisito del pericolo del crollo[18]. Il missus, quindi, non avrebbe potuto richiedere la concessione di una
garanzia per un danno che non avrebbe più potuto, neppure in ipotesi,
verificarsi né, tantomeno, il pretore l’avrebbe imposta[19].
Le osservazioni alle quali si è fatto sopra riferimento
– che forniscono alla spossessamento una duplice motivazione:
argomentando dalla mancata concessione della cautio o dal rifiuto del «risarcimento» delle spese (al
di là dei problemi posti dallo ‘scarto’ temporale, che si
intenderebbe colmare attraverso la proiezione all’indietro di
un’alternativa che sarebbe sorta in un momento differente da quello al
quale il passo farebbe riferimento) – danno, però, per scontato
che il presupposto del pericolo del crollo dell’edificio permanga
invariato sia nell’uno che nell’altro caso, quando al contrario, in
quest’ultimo, esso manca completamente, perché l’edificio
stesso è, ormai, messo in sicurezza[20].
Appurata, dunque, la situazione concreta nella quale la vicenda
si colloca, sembra allora ricevere maggior luce la questione circa il valore
della riflessione del giurista introdotta dall’espressione non sine ratione.
Il ‘contenuto minimo’ di essa consiste,
indiscutibilmente, nella esplicita sottoposizione della
‘possibilità’ (lasciando, per ora, volutamente imprecisata
la portata di una simile affermazione) per creditore di conseguire «il
risultato utile che si vuole raggiungere portando a compimento il
processo»[21], non
altrimenti che rimborsando al missus
le spese da lui già compiute per la refectio.
Non è, dunque, più questione di prestazione della cautio; al creditore che cerca di
aggredire un immobile ormai restaurato, il missus
oppone l’unica ragione di ‘resistenza’ avverso
l’esercizio dell’azione reale: e, cioè, il rimborso per le
spese sostenute[22]. Se
è innegabile, infatti, la soccombenza di quest’ultimo di fronte
all’actio (quasi) Serviana quale
diretta conseguenza della natura in rem[23]
dell’azione, è altrettanto incontestabile, però, la
situazione di iniquità che verrebbe a crearsi qualora egli dovesse
senz’altro abbandonare immediatamente il possesso dell’immobile a
favore del creditore procedente.
Non va, poi, passata sotto silenzio la circostanza che
l’avvenuto restauro comporta, di per sé, l’accrescimento
delle possibilità di una vendita economicamente fruttuosa
dell’immobile, nel senso che, fermi restando naturalmente
l’ammontare del credito garantito ed il dovere di restituzione del superfluum, la concreta
possibilità di soddisfarlo attraverso l’esercizio dello ius vendendi sia di gran lunga maggiore
di quanto lo fosse al momento in cui è sorta la garanzia reale, proprio
per l’ovvia riflessione, per cui un immobile restaurato è comunque
più ‘appetibile’ sul mercato di un rudere pericolante. Ecco,
allora, che – sebbene indirettamente – anche sotto questo profilo,
l’avvenuto ‘miglioramento’ (dal momento che non si vedono
ostacoli a sussumere anche le spese per la refectio
sotto quell’ampia categoria) dell’edificio pignorato va ad incidere
sulla posizione del creditore procedente.
Ed,
inoltre, neppure sarebbe astrattamente possibile, nel caso di specie, pensare
ad una separazione ‘materiale’ dei ‘miglioramenti’
apportati dal missus e, da questo,
far derivare le conseguenze della «starre Regel» della
‘tripartizione’ delle impensae[24]. Piuttosto, si potrebbe accedere alla
moderna concezione di una parte della civilistica italiana nei limiti,
naturalmente, in cui essa possa essere utilizzata con la ristretta
finalità di indice descrittivo della fattispecie qui analizzata; in
particolare, appare condivisibile la posizione per cui: «i
‘miglioramenti’ del bene sono intesi abitualmente in senso
restrittivo, e consistono in mutamenti di carattere fisico che aumentano il
valore dell’immobile senza assumere una propria autonoma individualità:
si fanno gli esempi (…) della riparazione di un edificio. Nessun sistema
giuridico al mondo è in grado di escludere questi
‘miglioramenti’ dal vincolo pignoratizio o
dall’espropriazione, in quanto non si tratta di entità autonome
(…)»[25].
Sebbene su altro piano rispetto alle considerazioni sopra svolte, non va, però, passato sotto silenzio almeno un dubbio di tipo interpretativo, dipendente dal valore da attribuire al sintagma inhibendam persecutionem che, proprio per la sua laconicità, ha permesso letture di segno differente rispetto a quella sinora che sta emergendo da queste pagine.
La discussione origina dalla proposta di emendazione del testo
che vorrebbe sostituire, proprio a quel sintagma, l’espressione <doli exceptione summovebitur>[26]. La
ragione sottostante è puramente giuridico-deduttiva (essendo priva di
qualsiasi appiglio formale derivante dalla critica
textus) e la capacità ‘suggestiva’ da essa indotta
è ben riconosciuta anche da chi l’ha combattuta[27].
L’intervento, cioè, avrebbe la funzione di rendere esplicito
– nei verba stessi della l. – il meccanismo di
‘resistenza’ del convenuto possessore, che sottoporrebbe, per mezzo
dell’eccezione di dolo sollevata contro l’actio (quasi) Serviana, il rilascio
dell’immobile al pagamento delle spese della refectio.
Gli argomenti proposti per rigettare una (pur) così
fortemente invasiva proposta tendono a ravvisare nelle fonti un impiego della
locuzione inhibere assimilabile a
quella di denegare[28],
giungendo a concludere che «(…) non è che il convenuto possa
subordinare il rilascio della res etc.,
come nelle ipotesi di autentica ritenzione (…) ma l’attore
addirittura non ha azione ‘nisi
– paratus’. Il pagamento
delle spese non ha bisogno d’esser richiesto dal convenuto; deve essere
súbito e senz’altro offerto dall’attore, perché esso
costituisce il fondamento, la base, il presupposto stesso del suo diritto e
della sua azione. Egli ha l’uno e l’altra proprio e solo in quanto
offra le spese»[29].
Alla linea interpretativa appena riportata, però,
può essere rimproverata una eccessiva dose di rigidità che,
facendo leva sul presunto valore ‘preclusivo-assoluto’ del sintagma
inhibere persecutionem, finisce per
proiettare su di esso il significato tecnico di denegatio che, non necessariamente, gli è proprio.
In
senso contrario, infatti, depongono almeno due paragrafi di un frammento
– inserito nella stessa sedes di quello qui analizzato – che,
impiegando (in senso proprio) il verbo denegare, sembrerebbero attestarne un (ampio)
margine di diversità con l’inihibere prima richiamato; questo, tanto
più se si pone anche attenzione alla non secondaria circostanza per cui
l’oggetto, vale a dire il termine persecutio, rimane invariato in entrambe le ricorrenze.
Il
primo è Ulp. 53 ad ed.
[L.1278] D.
39.2.15.24 Si qua sint iura debita his,
qui potuerunt de damno infecto satisdare, deneganda erit eorum persecutio
adversus eum, qui in possessionem missus est: et ita Labeo probat;
e, ancor più significativamente, il successivo § 25 [L. ibidem] Item quaeritur in pigneraticio
creditore, an pignoris persecutio denegetur, qui iussus sit possidere. Et magis est, ut, si neque debitor repromisit, neque
creditor satisdedit, pignoris persecutio denegetur.
quod et in fructuario recte Celsus scribit. Tutti
e due i passi si occupano degli effetti della mancata prestazione della cautio
rispetto ai diritti vantati dal legittimato passivo di quest’ultima nei
confronti del terzo, che ‑ proprio in ragione di quel rifiuto ‑
è stato immesso nel possesso dell’immobile.
In
particolare, nel § 25, la quaestio verte
proprio sulla possibilità di denegare
la persecutio del pignus al
creditore che agisca contro il terzo possessore; in caso di mancata prestazione
della satisdatio,
l’effetto della missio in possessionem
ex secundo decreto risulterebbe gravemente punitiva per il
creditore stesso, comportando, infatti, la perdita dei diritti che
«(…) nel campo del sistema onorario, è assoluta e definitiva
dopo il iussum possidendi»[30]. Non si
obietti che, nel nostro brano, proprio perché si è dimostrato che
non avrebbe potuto aver luogo la richiesta della cautio, anche la
discussione sugli effetti della denegatio
non sarebbe rilevante; all’opposto, la scelta terminologica è
indicativa della volontà di distinguere la situazione
‘preclusiva’ della denegatio
rispetto ad una prospettiva, empirica ed operante sul piano degli
effetti, dell’inihibitio
della persecutio del
diritto. Chiarendo: se l’effetto della denegatio è
la perdita del diritto sul piano del diritto onorario – perdita intesa
come risultato immediato della (definitiva) ‘sanzione’ processuale
comminata dal pretore per non aver prestato la satisdatio –
lo stesso non può dirsi per la più ‘elastica’ e
‘sfumata’ inhibitio
che potrebbe essere intesa come una paralisi ‘potenziale’
della persecutio. Non, dunque,
la sua denegazione tout-court, ma la minaccia (intesa come doverosa
conseguenza, v. l’impiego del gerundivo[31])
della sanzione, condizionata dal rimborso delle spese.
A
questo si possono aggiungere le riflessioni che la dottrina - che, da ultima,
si è specificamente occupata della denegatio
actionis[32] - ha
avuto modo di svolgere a proposito di Afr. 6 quaest. [L.54] D.
30.109.1 Heres, cuius fidei commissum erat,
ut mihi fundum aut centum daret, fundum Titio vendidit: cum electio ei
relinquitur utrum malit dandi, ut tamen alterum solidum praestet, praetori
officio convenire existimo, ut, si pecuniam Titius offerat, inhibeat fundi
persecutionem. ita enim eadem causa constitueretur, quae futura esset, si
alienatus fundus non fuisset, quando etiam adversus ipsum heredem officium
praetoris sive arbitri tale esse deberet, ut, si fundus non praestaretur, neque
pluris neque minoris quam centum aestimaretur. Non si
intende, certo, in questa sede proporre l’esegesi del complesso passo di
Africano (qui ricordato essenzialmente per la presenza di una locuzione, inhibeat persecutionem,
assimilabile a quella contenuta nel passo dello stesso Africano sopra riportato)
– si pensi, ad esempio, da un lato ai soli profili
dell’obbligazione con facoltà alternativa e quelli della
concentrazione della prestazione (cui, però, corrisponde l’obbligo
per il fedecommissario di accettare la delegatio
solvendi del compratore fattagli dal venditore/erede) e,
dall’altro, alle questioni processuali legate alla «possibile
trasferibilità della giurisdizione fedecommissaria a iudices dati extra ordinem
dal titolare della cognitio»[33] –
né soffermarsi sui problemi sollevati dalla ricostruzione testuale dello
stesso[34].
Delle considerazioni svolte da altri a proposito del brano di Africano (D. 30,109,1) sopra ricordato, qui si fa, però, profitto nella circoscritta misura in cui queste ultime mettono in rilievo il profilo, operante sul piano degli effetti, del sintagma inhibere persecutionem, evidenziando come (sì in rapporto a quel passo particolare, ma anche tenendo conto di una prospettiva più ampia): «il valore sostanziale che espressioni apparentemente tecnico-processuali, quali denegare (o inhibere) persecutionem o petitionem hanno assunto (…)»[35].
Se appare difficile, dunque, attribuire tout-court alla locuzione
inhibere persecutionem un valore
pressoché equivalente a quello di denegare
actionem, sembra, invece, possibile accogliere, la sostanza, della proposta
emendativa beseleriana (<doli
exceptione summovebitur>). Non si pretende, cioè, modificare la
lettera del frammento in base a quella proposta, ma, assai più
limitatamente, condividerne il contenuto interpretativo, in rapporto ad una
locuzione che, quanto ai verba,
rimarrebbe immutata. Infatti, non si avvertirebbe neppure la necessità
di un intervento così invasivo sul testo, se solo si ammettesse una
lettura orientata a valorizzarne il profilo degli effetti, piuttosto che
tentare di individuare l’esatto strumento processuale attraverso il quale
quell’effetto sarebbe stato raggiunto.
In altre parole, la primaria attenzione nei confronti
dell’effetto della paralisi dell’azione del creditore farebbe
passare in secondo piano la tematica del mezzo accordato al terzo per
raggiungere quell’obiettivo: in via di (verosimile) ipotesi, non si
può, allora, non pensare ad un’exceptio
doli (praesentis) opposta
all’actio (quasi) Serviana intentata
dal creditore pignoratizio.
La ‘traduzione’, sul piano degli effetti, del
rapporto tra creditore pignoratizio e terzo possessore deve allora
concretizzarsi nel diritto di ritenzione a favore di quest’ultimo, che
presuppone – per quanto finora si è detto – la sua tutela in
forma esclusivamente negativa: vale a dire, nella resistenza passiva alla
pretesa dell’avversario. La paralisi dell’azione del creditore
è, infatti, il massimo al quale il terzo (sempre limitatamente alla
fattispecie sin qui esaminata) può aspirare e, al contempo, realizza
pienamente le sue aspettative, attraverso la subordinazione (nisi … mihi praestare sit paratus)
del rilascio dell’immobile – equivalente alla sua soccombenza
nell’azione reale promossa dal creditore – alla condizione del
rimborso delle spese compiute nella refectio.
Nel passo non è certo adottata, in maniera diretta, questa prospettiva
sostanziale; essa va, al contrario, ricavata dagli indizi ivi contenuti. In
questo senso – sempre in virtù dell’ampia accezione con la
quale potrebbe essere intesa – non si scorgono ostacoli insuperabili per
attribuire alla locuzione inhibendam
persecutionem anche una valenza prettamente descrittivo-fattuale: quella,
cioè, di indicare il blocco inibitorio dell’azione del creditore,
causato dalla materiale disponibilità della cosa in capo al terzo, col
suo contestuale diniego ad effettuarne il rilascio; in una parola: la retentio.
L’equilibrio, fin qui descritto, che vede nella retentio lo strumento di difesa del
terzo possessore a seguito delle vicende collegate alla cautio damni infecti, viene sottoposto dal giurista ad una sorta di
‘sollecitazione estensiva’, al fine di verificarne la tenuta anche
nel caso una di fattispecie che potrebbe essere, quantomeno prima facie, avvicinata a quella sin qui
discussa. La modalità di comparazione «per confronto»[36],
infatti, fa porre al giurista la domanda – formulata in termini di
interrogativo negativo – se non sia doveroso attribuire (tribuendum) lo stesso trattamento (id) anche a colui che abbia comprato (emerit) un’insula[37]
sottoposta al vincolo di garanzia reale. È, infatti, chiaro
l’intento – sotteso proprio a quell’interrogativo (cur ergo non … quoque) – di
voler proteggere anche l’acquirente nella stessa misura e con la stessa
forza del terzo possessore, concedendogli parimenti la retentio avverso il creditore pignoratizio, per i
‘miglioramenti’ effettuati sulla res. Di più. Già il fatto in sé di aver posto
quella domanda, presuppone nel giurista la piena consapevolezza circa
l’efficacia dello strumento del quale si vorrebbe l’estensione
anche ad altra fattispecie. Ad indurre, dunque, al tentativo di assimilazione
non è solo la coincidenza tra situazioni esternamente equiparabili, ma
anche la volontà di impiegare lo stesso strumento, vale a dire la retentio, in forza del suo effetto,
lasciando in secondo piano non tanto i presupposti della sua
applicabilità, quanto piuttosto la vicenda negoziale che del possesso,
alla base della retentio, rappresenta
la causa. In altre parole, il senso di quella estensione mirerebbe a sfruttare
tout-court la posizione di vantaggio del possessore attraverso
l’esercizio della retentio.
Estremizzando: costui possiede e non interessa la causa del suo possesso:
sarebbe dunque la ‘materialità’ del rapporto con la res obligata a prevalere su qualsiasi
altra considerazione di altra natura.
Naturalmente, il contenuto sostanziale di una simile domanda
implica – al pari dell’uniformità di applicazione della retentio – anche la (presunta)
uniformità nella valutazione del bilanciamento dei contrapposti
interessi tra creditore pignoratizio da un lato e compratore della res vincolata dall’altro.
L’ipotesi, cioè, di estendere
l’operatività della retentio,
anche qualora la cosa sia stata comprata, comporta necessariamente un giudizio
di prevalenza degli interessi del compratore a fronte di quelli del creditore
pignoratizio che vedrebbe, anche in questo caso, subordinato l’esercizio
dell’actio (quasi) Serviana al rimborso delle spese per i
‘miglioramenti’, al pari della fattispecie già esaminata
della cautio damni infecti.
Ma, proprio quella prevalenza viene negata, poiché il
giurista dà risposta negativa a quell’interrogativo. Più
precisamente, egli respinge la correttezza della comparazione – nel senso
del raffronto funzionale tra le due fattispecie, mirante alla loro
equiparazione – perché opera un diverso bilanciamento degli
interessi, fondato su una radicale differenziazione giuridica degli assetti
negoziali all’interno dei quali, quelle situazioni pur esteriormente
assimilabili, spiegano i loro effetti.
In questo senso, l’espressione quando is qui emit sua
voluntate negotium gerat si carica di densissimo significato, poiché
denota l’intento del giurista di sussumere la fattispecie del rimborso
dei ‘miglioramenti’ sulla res
vincolata nell’ambito contrattuale della compravendita.
L’‘estraneità’ fra possessore ad usucapionem e creditore pignoratizio (v., supra, § 2) giustifica la concessione della retentio come unico strumento di difesa
del primo nei confronti dell’azione del secondo. È, infatti,
evidente che fra i due non esista alcun vincolo obbligatorio[38] e che,
quindi, il bilanciamento di interessi debba necessariamente tener conto del
fatto, che il fondamento del loro rapporto sia determinato solo dalla
legittimazione passiva del primo all’azione reale intentata dal secondo;
questo rilievo deve essere, poi, messo in relazione con il profilo della
«Verschiebung des Mehrwerts»,[39] che da quel rapporto
direttamente deriva.
Se, dunque, si valutano congiuntamente da un lato il profilo
relativo alla natura del rapporto che lega i soggetti della vicenda di D.
39.2.44.1 e, dall’altro, quello dello spostamento patrimoniale, che
l’esecuzione forzata del credito pignoratizio comporta quando il bene
esecutato si trova ‘arricchito’ dei ‘miglioramenti’ su
di esso effettuati da un terzo, si nota agevolmente come la linea di
demarcazione che Giuliano/Africano pongono tra le due fattispecie sia fondata
sulla puntuale verifica della tenuta del bilanciamento degli interessi ai quali
sopra si faceva riferimento[40].
E così, la negazione dell’estensione della retentio alla fattispecie della seconda
parte del frammento è fondata sul risultato di quella valutazione, qui
orientata dalla causa contrattuale quale titolo di acquisto della res in capo al possessore. La res, rispetto alla quale egli subisce
l’evizione, costituisce cioè l’oggetto del contratto di
compravendita precedentemente concluso col debitore pignoratizio ed è,
dunque, pienamente inserita in un assetto negoziale di cui il possessore
è parte contrattuale e del quale costui deve accettare la disciplina
tipica. Come parte, quindi, egli gestisce un proprio affare (negotium gerat) del quale ha – o
si presume che abbia – piena consapevolezza (sua voluntate) sia in relazione al momento costitutivo del
rapporto, sia in relazione a quello funzionale: proprio per questo egli deve
sottostare alla regolamentazione propria del contratto che ha concluso,
facendosi carico delle conseguenze della sua noncuranza. Ecco, allora, come il
rimprovero mossogli dal giurista si appunta sull’insufficienza del
livello di diligenza (diligentius)
dimostrato in occasione della conclusione del contratto: gli si obietta,
infatti, di non essersi garantito nei confronti del debitore (cavere) per l’eventualità
di un’evizione pur potendolo (possit)
e dovendolo (debeat) fare[41].
È rilevante, in proposito, da un lato la correlazione
‘paritetica’, dall’altro il contemporaneo utilizzo dei due
verbi, che fanno riferimento tanto alla sfera della possibilità, quanto
a quella della doverosità della condotta che, invece, il compratore non
ha tenuto. La lettura coordinata dei due verbi, fra l’altro rafforzati
dalla ripetizione dell’et che
li precede entrambi, consentirebbe di interpretarli quasi alla stregua di
un’endiadi. In questo caso, il giurista muoverebbe un’obiezione
contro il compratore per non aver richiesto al venditore la stipulatio (duplae) di garanzia, quando, invece, tanto avrebbe potuto
pretenderla (con riferimento ad un tempo anteriore all’esercizio
dell’actio (quasi) Serviana intentata dal creditore pignoratizio) quanto avrebbe
dovuto esigerla (se solo si immagina una vendita dell’insula[42] gravata
da pegno, alla quale non abbia fatto seguito la mancipatio dell’immobile). A costituire, dunque, il
fondamento del rimprovero del giurista sarebbe, allora, l’assenza di una
sorta – si consenta l’espressione – di attività di
‘autoprotezione’ del compratore che, avendo omesso di pretendere le
necessarie garanzie al venditore pur potendolo/dovendolo fare, continua a
dimostrare, sebbene in negativo, la stessa autonomia della quale ha
(già) dato prova al momento di conclusione del contratto di compravendita
della res vincolata in pegno: anche
in questa circostanza, perciò, ben potrebbe dirsi che egli gestisce il negotium sua voluntate, dovendone
così sopportare le conseguenze anche oltre la conclusione del contratto.
In questo senso, si potrebbe attribuire una sfumatura particolare
al debeat prima ricordato, specie se
messo in relazione ai ‘miglioramenti’ che il compratore ha compiuto
sulla cosa acquistata. La ‘gravità’ del biasimo mosso al
compratore si evidenzia, cioè, in misura ancora maggiore, allorché
si tenga conto non solo della circostanza relativa alla consuetudine (diffusa
quantomeno nella prassi orientale) della esplicita garanzia del venditore circa
l’assenza di vincoli reali sul fondo alienato[43], ma
anche nel momento in cui si sottolinea la sua negligenza in rapporto alla
mancata previsione circa la possibilità/necessità di apportare
dei ‘miglioramenti’ all’edificio acquistato. Nel caso di D.
39.2.44.1, infatti, il compratore è pienamente consapevole di acquistare
un’aedes già pericolante
e, di conseguenza, avrebbe già dovuto preventivare – al momento
dell’acquisto – la possibilità di dover compiere, con tutta
probabilità, delle spese su di essa; la refectio è, allora, la prima e la più importate fra
quelle: ecco, perché egli avrebbe dovuto innanzitutto garantirsi
sull’evizione circa l’immobile che, quasi sicuramente, avrebbe
migliorato.
Se, dunque, si sommano questi rilievi, appare chiaro che la
posizione del compratore non possa essere considerata prevalente rispetto a
quella del terzo creditore pignoratizio né, d’altra parte, si
potrebbe rimproverare alcunché a quest’ultimo che, forte della sua
garanzia reale, fosse rimasto completamente estraneo alla vicenda. Il
bilanciamento degli interessi contrapposti è chiaramente orientato a
favore del creditore pignoratizio: contro di lui, quindi, non potrà
essere opposta la ritenzione per le spese effettuate ed il compratore
potrà solo sperare che il superfluum
della vendita forzata del bene sia sufficiente a ripagarlo del prezzo pagato e
del valore dei ‘miglioramenti’ su di esso effettuati.
Se finora si è cercato di tracciare un percorso
argomentativo che provi a seguire e a dar conto dei principali snodi dogmatici
presenti nel passo di Africano, non ci si può però neppure
sottrarre al confronto – benché limitato all’esame del solo
profilo ‘rimediale’, della tutela approntata per situazioni
sostanzialmente assimilabili – tra la fattispecie sopra esaminata e
quella riportata da Paolo[44] in D.
19.1.45.1 al fine di verificarne i punti di contatto e quelli di divergenza:
Paul. 5 quaest. [L.1327] D. 19.1.45.1 Illud expeditius videbatur, si mihi alienam aream vendideris
et in eam ego aedificavero atque ita eam dominus evincit: nam quia possim
petentem dominum, nisi impensam aedificiorum solvat, doli mali exceptione
summoveri, magis est, ut ea res ad periculum venditoris non pertineat. quod et
in servo dicendum est, si in servitutem, non in libertatem eviceretur, ut
dominus mercedes et impensas praestare debeat. quod si emptor non possideat
aedificium vel servum, ex empto habebit actionem. in omnibus tamen his casibus,
si sciens quis alienum vendiderit, omnimodo teneri debet.
Il primo casus
è, ovviamente, riconducibile alla tematica dell’inaedificatio ed il rimedio dell’exceptio doli mali[45], opposta dal compratore
evitto alla rivendica intentata dal proprietario, comporta la retentio dell’immobile fin quando
il possessore (di buona fede) non sia stato rimborsato delle spese compiute per
la costruzione[46]. Al
tema dell’inaedificatio si
collega anche il caso del servus[47], al
quale viene applicata la medesima disciplina della retentio; la particolarità qui sta
nell’immaterialità dei ‘miglioramenti’/spese compiuti
sul servo[48] che, in
caso di sua evizione, portano necessariamente (vale a dire: per ragioni
‘materiali’) all’impiego di quello strumento. Al di
là, dunque, della differenza nella ‘qualità’ della
spesa[49],
l’elemento che accomuna entrambe le fattispecie è il possesso
della res in capo al compratore, che
giustifica l’opposizione dell’exceptio,
la quale, a sua volta, si riflette nella retentio[50].
A questo meccanismo, si sostituisce, invece, quello
dell’esperimento dell’actio
empti[51] contro
il venditore dante causa, solo quando il compratore non sia materialmente in
grado di esperire la retentio nei
confronti del terzo che agisce in giudizio, proprio perché la res non è più presso di
sé: è il possesso in quanto tale (si emptor non possideat) a diventare, in
conclusione, il criterio determinante per la scelta dell’una o
dell’altra ‘soluzione’ e non più la causa di esso.
Precisamente su questo punto si innesta il problema di capire
quando possa verificarsi che il compratore, al quale viene evitta la cosa, non
la possieda, di modo che egli per un verso non possa opporre la retentio e per l’altro,
specularmente, si trovi costretto ad agire (in seconda battuta, verrebbe da
dire) contro il suo dante causa. Se costui non l’avesse posseduta fin
dall’inizio – ad esempio perché il venditore non gliene
aveva affatto trasferito l’habere
licere – sarebbe mancata all’origine la legittimazione alla reivindicatio del terzo e, quindi, il
problema non si sarebbe posto affatto. Non c’è, d’altra
parte, nel passo alcun appiglio – neppure indiretto – per credere
che nel compratore sia configurabile la cd. ficta
possessio[52]
riconducibile alle figure del dolo
desinens possidere o del liti se
offerre; né, tantomeno, si riesce ad immaginare che qui la perdita
del possesso sia conseguenza di un evento che abbia aliunde (cioè indipendentemente rispetto all’evizione
subita) la sua origine[53].
La questione, allora, sembrerebbe avere, prima facie, una relazione con la ‘classica’
controversia tra sabiniani e proculiani circa il momento in cui valutare il
possesso del convenuto ai fini della sua assoluzione nell’actio in rem: se, cioè, quello
sia necessario tanto all’atto della litis
contestatio, quanto al momento dell’emanazione della sentenza (utroque momento), oppure solo in
rapporto ad uno dei due. Come noto, le due opposte prospettive sono
rappresentate, emblematicamente, da un lato da Gai. 7 ad ed. prov. [L.153] D. 6.1.36 pr. Qui petitorio iudicio utitur, ne frustra experiatur, requirere debet,
an is, cum quo instituat actionem, possessor sit vel dolo desinit possidere
e, dall’altro, da Proculo (ricordato dal medesimo Paolo del nostro
frammento) Paul. 21 ad ed. [L.330] D.
6.1.27.1 Possidere autem aliquis debet
utique et litis contestatae tempore et quo res iudicatur. quod si litis
contestationis possedit, cum autem res iudicatur sine dolo malo amisit
possessionem, absolvendus est possessor. item si litis contestatae tempore non
possedit, quo autem iudicatur possidet, probanda est Proculi sententia, ut
omnimodo condemnetur: ergo et fructuum nomine ex quo coepit possidere damnabitur;
nella stessa linea di quest’ultimo, con riferimento a Proculo e Pegaso,
Ulp. 29 ad ed. [L.861] D. 15.1.30 pr.
[…] Proculus et Pegasus nihilo
minus teneri aiunt: intenditur enim recte, etiamsi nihil sit in peculio. idem
et circa ad exibendum et in rem actionem placuit, quae sententia et a nobis
probanda est. Non è questa certo la sede per affrontare un simile
tema e per dubitare della qualità di «siegreichen»[54] dei
giuristi proculiani e della loro (più estensiva) opinione[55]. Va, peraltro,
notato che l’intera tematica è orientata unicamente alla verifica
dei requisiti necessari per la determinazione della legittimazione passiva alla
rivendica. Nel nostro passo, invece, quel problema non emerge affatto e la
prospettiva con la quale si analizza la fattispecie è tutta incentrata
sul rapporto in personam tra
compratore evitto e suo dante causa.
Ed allora sembra difficile, proseguendo su questa via, chiarire
il dubbio su come sia possibile che la mancanza del possesso della res in capo al compratore faccia
sì che egli, al contempo, sia legittimato passivo alla rivendica e
legittimato attivo all’esercizio dell’actio empti (al fine, da un lato di far valere la condanna
all’id quod interest in
dipendenza dell’evizione della cosa e, dall’altro, di ottenere dal
venditore il rimborso delle impensae
per la refectio dell’immobile).
Bisogna, allora, cambiar strada e mutare punto di osservazione,
immaginando che la perdita del possesso in capo al compratore significhi altro
che la sconfitta – quale convenuto – in un’azione reale.
Un passo che – in una certa misura – potrebbe essere
interpretato sulla scorta di questa ‘suggestione’ è
rappresentato da Pomp. 11 ad Sab.
[L.573] D. 21.2.29.1 Si duplae stipulator
ex possessore petitor factus et victus sit, quam rem si possideret retinere
potuerit, peti autem utiliter non <poterit> [potuerit edd.], vel ipso iure
promissor duplae tutus erit vel certe doli mali exceptione se tueri poterit,
sed ita, si culpa vel sponte duplae stipulatoris possessio amissa fuerit.
Pur non nascondendo che la struttura logico-sintattica del
frammento non sia limpidissima, a causa di un certo andamento ellittico del
discorso, la fattispecie può essere tuttavia ricostruita nel senso che
un compratore, che si era fatto promettere con stipulazione il doppio del
prezzo in caso di evizione della cosa da lui acquistata, ne perde il possesso
ma, anziché agire immediatamente contro il venditore, preferisce agire
egli stesso con un’azione reale contro il possessore. Viene poi sconfitto
da quest’ultimo; egli infatti – evidenzia il giurista –
avrebbe potuto ‘trattenere’ con successo quella cosa che, invece,
non è in grado di rivendicare: in altre parole, il compratore sarebbe
stato in grado di resistere ad un’azione intentata da altri e mirante a
spossessarlo, ma, perduto il possesso non risulta più giuridicamente in
grado di recuperarlo. Respinto, dunque, nell’actio in rem da lui intentata contro il possessore della cosa da
egli acquistata, quid iuris se costui
dovesse comunque decidere di far valere la garanzia della stipulatio duplae nei confronti del venditore? In ogni caso, la sua
istanza non andrebbe ascoltata. Il passo, poi, mette sullo stesso piano la
tutela ipso iure del venditore (perché si ritiene che il compratore non
sarebbe mai stato evitto, cioè sconfitto quale convenuto in un’actio in rem e che quindi la stipulatio duplae non sarebbe mai stata commissa[56]) e
quella ope exceptionis (doli mali praesenti, da opporre al
tentativo del compratore di convenirlo in forza della stipulatio stessa) a patto che il possesso sia stato perso per colpa o per altra condotta volontaria del compratore.
Certo, potrebbe lasciare perplessi la concorrenza di quei due
strumenti, oltretutto correlati da vel
– vel[57] ma, al contrario, non necessariamente
si dovrebbe credere ad un effetto di ‘appiattimento’ dell’uno
sull’altro. Se si ammette che il primo ponga l’accento sul momento
‘sostanziale’ dell’inesigibilità della stipulatio per non essere stata commissa ed il secondo su quello
processuale dell’effetto paralizzante dell’eccezione di dolo, si
potrebbe anche arrivare ad ipotizzare che il dato rilevante del passo consista
non solo sull’impossibilità dell’esperimento in sé
dell’azione, quanto, piuttosto, sulla scorrettezza del comportamento del
compratore, che ad essa sia ricorso dopo essere stato respinto nell’actio in rem, rispetto alla quale egli
ben sapeva fin dall’inizio non avrebbe potuto dare esito positivo. Il
dolo dell’attore-compratore consisterebbe, allora, nell’agire
‘di rimessa’ contro il venditore con l’actio ex stipulato, dopo essere stato sconfitto in un’azione
reale che – ab origine –
sapeva di non poter utiliter esperire
nella fattispecie alla quale si allude in D. 21.2.29.1. La scorrettezza, poi,
dell’attore-compratore si rivela tanto più grave, quanto
più si accentua il profilo della sua primaria responsabilità
nella perdita del possesso. Nel frammento, infatti, si afferma che la perdita
di quest’ultimo (con la derivante tutela accordata dal giurista al
venditore) è avvenuta culpa vel
sponte: emerge, così, la diretta attribuzione del fatto dannoso allo
stesso compratore che, poi, cercherebbe ingiustamente di rivalersi contro il
suo dante causa, quando egli stesso, per una sua condotta volontaria o per sua
negligenza, ha dato origine all’intera vicenda della quale, invece,
vorrebbe far ricadere le conseguenze sul venditore.
In un certo senso (anche se, in questo ammettendo una buona dose
di estremizzazione) si potrebbe sostenere che la garanzia per l’evizione
fosse – in quel caso – come ‘dimezzata’: limitata,
cioè, al caso di soccombenza, come convenuto, in un’azione reale (quam rem si possideret retinere potuerit)
ma non alla sconfitta, come attore, nella ‘parallela’ azione di
rivendica (peti autem utiliter non
potuerit), volta al recupero del possesso (perduto culpa vel sponte), che il compratore esperisce
‘autonomamente’; quando, allora, egli intenta l’azione da
compravendita contro venditore, quest’ultimo ha dunque tutte le ragioni
per opporgli l’eccezione di dolo[58].
Se questa – pur con una certa dose di ipoteticità,
come appena sopra ammesso – sembra essere la ricostruzione astratta
attraverso la quale potrebbe operare il bilanciamento di interessi fra le
posizioni contrapposte del compratore e del venditore, rimane, dal punto di
vista concreto, la difficoltà a costruire un esempio che permetta di
verificarne il funzionamento[59]. In
ogni caso, ben al di là della riprova dell’adattabilità di
un esempio concreto alla fattispecie descritta da Pomponio, il dato certo, che
si può ricavare da D. 21.2.29.1, è l’uso
‘particolare’ del verbo retinere
che non indica lo strumento ‘tecnico’ di difesa del convenuto a
fronte di un (contro)credito che egli possa vantare in relazione alla cosa
posseduta, bensì solo l’effetto materiale di trattenimento della
cosa, sufficiente a difenderne il possesso di fronte all’azione intentata
dal terzo, ma che a nulla potrebbe giovargli, qualora proprio il possesso vada
recuperato.
Come
conseguenza, l’elemento che consente il collegamento tra D. 21.2.29.1 ed
il meccanismo di operatività di D. 19.1.45.1 è ravvisabile, in
conclusione, nel fatto che «a colui che possiede, la cosa non può
esser evitta, mentre una volta perduto il possesso (colposamente o
volontariamente), la cosa non è più ricuperabile (con petitio); onde la stipulatio duplae che garantisce dall’evizione non
può invocarsi, giacché l’evizione era facilmente evitata
dalla conservazione del possesso»[60].
In D. 19.1.45.1 allora, il fatto di non possedere (si emptor non possideat aedificium vel
servum) andrebbe inteso non come soccombenza nella rivendica intentata da
un terzo, ma come incapacità di recuperare il possesso stesso, dopo
averlo perso e una volta tentatone il recupero (senza successo) secondo il
meccanismo di D. 21.2.29.1. A differenza, però, che nel passo di
Pomponio, in quello di Paolo, al compratore che ha perso il possesso viene
concessa senz’altro l’actio
empti e nulla si dice, circa la causa della sua perdita. La sua (qui data
per presupposta) sconfitta nell’azione in rem intentata dal creditore pignoratizio non gli avrebbe
precluso, di conseguenza, l’esperimento dell’actio ex empto, in funzione di garanzia per l’evizione,
dovendosi presumere che egli non avesse causato la perdita del possesso culpa vel sponte; elemento
quest’ultimo, che si rivela determinante per giustificare la
diversità di disciplina proprio con il ‘corrispondente’
passo di Pomponio. Di più; come si vedrà poco più avanti,
la stessa azione da compravendita gli sarà utile per ottenere dal
venditore anche il rimborso per le spese dei ‘miglioramenti’
operati sulla cosa, che altrimenti non sarebbe più riuscito a
recuperare.
L’elemento fondante della disciplina di D. 19.1.45.1
è allora ravvisabile nell’applicazione di un regime particolare
che pure era ricompreso nel criterio dell’id quod interest e che, quale parametro di valutazione quantitativa
della responsabilità del venditore per evizione, presiedeva alla
determinazione della misura del ‘concorso’ del danneggiato nella
emersione o nell’accrescimento del danno. Non sarebbe stato possibile,
cioè, per il danneggiato richiedere in giudizio il risarcimento anche
per quel danno che – sebbene solo in parte – fosse stato originato
o accresciuto da una sua condotta[61]. Se
letto in questo senso, il fr. di Paolo porrebbe il limite per il compratore di
non poter pretendere con l’actio
empti dal venditore le spese per i ‘miglioramenti’ che egli non
avrebbe richiesto al terzo proprietario in sede di esercizio della retentio opposta alla rivendica di
costui: la conclusione, molto netta, sul punto si accentrerebbe, allora, nel
fatto che «der Käufer hat nicht nur das Recht, sondern auch die
Pflicht, den Ausgleich des Mehrwertes von evinzierenden Eigentümer mit dem
Retentionsrecht zu fordern, wenn er sich für diesen Betrag schadlos halten
will»[62].
A dire il vero, però – almeno nella forma
‘estremizzata’ della netta contrapposizione tra ‘Recht’
(reso efficace per mezzo della retentio)
del possessore e sua contemporanea ‘Pflicht’ (nei confronti del
venditore dante causa) – la linea interpretativa sopra riportata si
rivela eccessivamente rigida, rispetto alla prudenza adottata dal giurista.
Paolo, infatti, in D. 19.1.45.1 esprime a chiare lettere la sua cautela con magis est, con palese riferimento alla
volontà di ‘tener fuori’ – quantomeno in prima istanza
– il venditore dalla vicenda legata alla tutela del compratore per i
‘miglioramenti’ apposti alla res
venduta, nel momento in cui quest’ultima dovesse subire l’evizione
ad opera di un terzo.[63]. Di
più. L’interrelazione tra questo profilo e quello del (mancato)
coinvolgimento del venditore è focalizzato sul problema non certo della
rivendica della cosa tout-court ma, ben più limitatamente, del rimborso
per i ‘miglioramenti’[64]. L’impiego della
locuzione nam quia chiarisce, in tal
senso, l’esclusione del periculum
in capo al venditore[65],
proprio in ragione della retentio
sulla cosa – collegata al rimborso sui ‘miglioramenti’ stessi
– che può essere opposta dal possessore al dominus, nel momento in cui quest’ultimo agisca per
l’evizione.
Il possesso della res, allora,
nella qualità di elemento fondante la retentio, viene valutato nella sua funzione di strumento di difesa
del convenuto, che riesce a paralizzare la pretesa reale dell’attore,
fintanto che egli non venga soddisfatto per le spese compiute sulla cosa.
Il merito di Paolo – che avrebbe risolto
«glänzend»[66] il
problema dell’arricchimento – consiste nell’aver collegato un
profilo all’altro, di modo che, alla soluzione della questione di natura
reale circa la proprietà della cosa, sarebbe corrisposta unitariamente
anche quella di carattere obbligatorio sull’(ingiustificato)
arricchimento. In questo senso, la responsabilità del venditore per i
‘miglioramenti’ apportati alla res
evitta finisce per divenire del tutto sussidiaria rispetto alla
possibilità di esigere il loro rimborso da parte del terzo rivendicante[67]. Tale
residualità è affermata dal giurista attraverso
l’indicazione di due circostanze nelle quali il venditore è
direttamente tenuto al rimborso dei ‘miglioramenti’ compiuti dal
compratore sulla cosa evitta: da un lato la perdita del possesso di
quest’ultimo sulla res –
come sopra già evidenziato – e, dall’altro, la scientia del venditore stesso circa
l’altruità della cosa venduta.
Se la prima di esse è chiaramente legata al meccanismo
della retentio e ne determina, in re ipsa, l’impossibilità
dell’applicazione facendone mancare il presupposto essenziale, alla
seconda, invece, è attribuita con tutta evidenza una funzione
‘punitiva’ perché sarebbe stato ingiusto – in quel
caso – che il rimborso dei ‘miglioramenti’ fosse stato
accollato al terzo rivendicante, dal momento che il venditore era pienamente
consapevole dell’altruità della cosa fin dal momento (vendiderit) dell’alienazione[68].
Ad avvicinare, dunque, D. 19.1.45.1 e D. 39.2.44.2 sono le
analogie tra reivindicatio e actio (quasi) Serviana intese
– sempre sotto il profilo dell’effetto – quali strumenti
volti allo spossessamento nei confronti una res,
sulla quale si pretende vantare un diritto reale; a distinguerli, il criterio
di applicazione della retentio.
È fin quasi banale osservare che il fatto in sé del possesso
della res, ai fini
dell’esercizio della retentio,
sia (dal punto di vista della sua estensione) ben più amplio che non
quello della causa del possesso. Non è necessario, però, come
ancora faceva la dottrina legata ad una inflessibile contrapposizione[69] tra
diritto classico e innovazioni giustinianee, giustapporre
‘soluzioni’ più restrittive (classiche) ad altre più
estensive (giustinianee), quanto, piuttosto, valutare le stesse in rapporto alla
concreta situazione nella quale esse vengono adottate.
Solo poche parole al termine di questa ricerca, nella quale si
è avuto modo di verificare la concretezza e la duttilità del
giurista romano, che sa adattare le ‘soluzioni’ proposte alla
specificità delle fattispecie esaminate. In questo senso, la
testimonianza di Africano si rivela emblematica di un modus operandi che non rimane prigioniero di aprioristici
schematismi dottrinari, ma neppure prescinde da qualsiasi ‘linea
ricostruttiva’, per lasciarsi guidare dalla
‘estemporaneità’ dell’approccio particolaristico.
Così, la capacità di ‘resistenza’ della
retentio (qui, peraltro, mai
esplicitata, quantomeno in riferimento all’impiego di quel segno)
risponde ad un’esigenza di bilanciamento di interessi contrapposti, che
non avrebbe trovato aliter una
possibilità di composizione o, se non altro, un ordinamento parimenti
efficace. Il giurista è, inoltre, a tal punto consapevole della
‘residualità’ dell’utilizzo di quello strumento che, a
fronte del quesito (carico di implicazioni teoriche e di non irrilevanti
risvolti pratici) circa l’eventualità di una sua applicazione
‘estensiva’, si mostra nettamente contrario ad essa, preferendo
rimanere fedele ad un ‘principio’ di autonomia privata che,
responsabilizzando la parte, la vincola di conseguenza alla regolamentazione,
prevista dal sistema, per il negozio da lei concluso.
El pensamento de Africano, conservado en D. 39.2.44.1,
permite comprobar la capacidad de ‘resistencia’ de la
retención, en el marco de un empleo específico de la misma, con
relación a la garantía por el daño temido. Mientras el
referido jurista admite su empleo en este contexto, niega, en cambio, su
operatividad en relación a una fattispecie ‘paralela’,
en materia de compraventa. La plena consciencia de Africano, acerca del
carácter ‘residual’ de esta institución, lo induce
efectivamente a excluir su empleo generalizado y, al contrario, lo conduce
– conservándose fiel al ‘principio’ de
autonomía privada – a responsabilizar a la parte,
vinculándola a la reglamentación, privista por el sistema, para
el negocio por él concluído.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione
Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].
* Questo contributo si
inserisce nel quadro, di più ampio respiro, di una ricerca che si
propone uno studio incentrato sulla possibilità (ed i modi) di
applicazione del ‘diritto’ di ritenzione, affrontato nella
particolare prospettiva della tutela del possessore, per i miglioramenti da lui
apportati sulla res evitta. Si
cercherà, in quella sede, di ricostruire le articolazioni di un
possibile ius controversum sul punto
e si tenterà, parimenti, di seguire lo sviluppo che quella discussione
ha avuto nella tradizione romanistica, fino a sfociare nelle concrete scelte
applicative dei moderni Codici civili, che escludono ‑ in linea di
massima ‑ proprio la possibilità dell’utilizzo della
ritenzione a favore di quello. Così, in prima battuta ‑ e, in
questa sede, per il solo valore ‘emblematico’ della disciplina
(anche in considerazione della sua specificità in rapporto
all’ipoteca) ‑ appare opportuno ricordare, da un lato, l’art.
2864, 2° e 3° comma (Danni causati dal terzo e miglioramenti) del
vigente Codice civile italiano laddove, in tema di regolamentazione degli
effetti dell’ipoteca rispetto al terzo acquirente, il legislatore
prescrive che «Egli [sc. il possessore] non può ritenere
l’immobile per causa di miglioramenti; ma ha il diritto di far separare
dal prezzo di vendita la parte corrispondente ai miglioramenti eseguiti dopo la
trascrizione del suo titolo, fino a concorrenza del valore dei medesimi al
tempo della vendita. Se il prezzo non copre il valore dell’immobile nello
stato in cui era prima dei miglioramenti e insieme quello dei miglioramenti,
esso deve dividersi in due parti proporzionali ai detti valori» e,
dall’altro, il corrispondente articolo 2020 del Codice civile del 1865
dove, in analoga sedes materiae, si
disponeva che «Il terzo possessore (…) non può contro di
essi [sc. i creditori iscritti] invocare alcun diritto di ritenzione per causa
di miglioramenti. Egli ha però diritto di far separare dal prezzo la
parte corrispondente ai miglioramenti da esso fatti dopo la trascrizione del
suo titolo, sino a concorrenza della minor somma che risulterà tra lo
speso ed il migliorato al tempo del rilascio o della vendita
all’incanto».
[1] Afr. 9 quaest.
[L.111] D. 39.2.44 pr. Cum postulassem,
ut mihi damni infecti promitteres, noluisti et priusquam praetor adiretur,
aedes tuae corruerunt et damnum mihi dederunt: potius esse ait, ut nihil novi
praetor constituere debeat et mea culpa damnum sim passus, qui tardius experiri
coeperim. At si cum praetor ut promitteres decrevisset et te non promittente
ire me in possessionem iussisset et prius quam eo venissem, corruerunt, perinde
omnia servanda esse existimavit, atque si posteaquam in possessionem venissem
damnum datum esset. Da notare, sotto il profilo formale, l’impiego della terza
persona (existimavit), indice del
fatto che Africano qui riporti l’opinione altrui, assai probabilmente di Giuliano
(cfr. F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana
[trad. it. G. Nocera]
Firenze, 1968, 415; W. Kunkel, Die Römischen Juristen. Herkunft und
soziale Stellung, 1967, 2a ed [rist. Köln - Weimar - Wien
2001] 172 ss. e da ultimo, specificatamente in questo senso, A. D’Ors, Las Quaestiones de Africano,
Roma, 1997, 9-22). Al di là, dunque, della ‘soluzione’ del
caso concreto del pr., sembra altamente probabile che anche il § 1 –
sebbene in maniera più implicita che non il pr. (argomenta dalla forma
impersonale: dicetur; dici potest) – possa essere
ricondotto allo stesso giurista, il parere del quale Africano riporta nel pr.
[2] A. Biscardi, La dottrina romana dell’obligatio rei, Milano, 1991, 75 non
esclude espressamente (v. nt. precedente) una riconduzione del caso presentato
«come oggetto di dubbio» al maestro di Africano: Giuliano.
[3]
Indicativa, della unanime posizione sul punto, è l’opinione di A. Hägerström, Die römische Obligationsbegriff im
Lichte der allgemeinen römischen Rechstsanschauung. I, Leipzig, 1927,
182 che, senza mezzi termini, definiva «absurd» il riferimento al dominium quando «letzterer
unmittelbar bonitarischer Eigentümer ist». Cfr. ex professo, G. Branca,
Danno temuto e danno da cose inanimate
nel diritto romano, Padova, 1937, 214 s., nt. 3 con rinvio alla letteratura
precedente; più recentemente (ma con un taglio più generale) F. Betancourt, La defensa pretoria del «missus in possessionem», in AHDE 52 (1982), 373-
[4] Anche
qui si rinvia all’accurata disamina di Nardi,
Studi cit., I, 48 ss. che, dopo aver
valutato i rilievi formali Krüger, Scialoja, Riccobono, Lenel, Branca
conclude con l’affermazione secondo la quale «com’è
facile vedere, a parte [dominium],
appigli sostanziali contro la genuinità del passo la critica non
è riuscita a trovarne» (49).
[5] In
questo senso, potrebbe essere anche ricordata la proposta di O. Lenel, Afrikans Quästionen. Versuch einer kritischen Palingenesie, in
ZSS 51 (1931), 49 che, leggendo
«cepi[t]», intenderebbe ricondurre proprio a quell’alternanza
anche la prima frase del § 1.
[6] La
cesura che emergerebbe dalle osservazioni sin qui compiute ha, altresì,
fornito un indizio per sostenere la caduta di quella parte del testo nella
quale il giurista avrebbe sostenuto la (posteriore, rispetto a quella rivolta
al dominus) richiesta della cautio damni infecti al creditore
pignoratizio che avrebbe giustificato, secondo le circostanze del caso, la
necessità di inhibire la persecutio del pegno stesso; Branca, Danno temuto cit., 214 s.; in senso adesivo Nardi, Studi cit.,
I, 52 s., con il rinvio a F. Glück
(continuazione di U. Burckhard), Commentario alle Pandette (trad. it. P. Bonfante), XXXIX, 2, Milano, 1905, 275
ss.; su questo aspetto, v. però, infra
§ 3.
[7] Si
esprime in questo senso anche Bürge,
Retentio cit., 150 accennando,
invero, solamente – senza neppure farne i nomi – agli autorevoli
Studiosi dei primi del ‘900 che pure avrebbero attaccato il passo
«mit weitgehenden Eingriffen».
[8] D’Ors, Las Quaestiones cit., 428 s. si limita ad una semplice parafrasi
del passo, lasciando peraltro inalterato nel testo la lettura dominium, ma accogliendo (428 nt. 1060)
nella sostanza la proposta di emendazione, le cui ragioni sono state prima (v.,
supra nt. 11) illustrate.
[9] Per
una descrizione della fattispecie in tal senso, v. già G.C. Groskopff, Zur Lehere von Retentionsrechte, Oldeburg, 1858, 41.
[10] V., principalmente M. Kaser,
Das römische Privatrecht, 2a
ed., München, 1971, 473; Id.,
Besitzpfand und ‘besizloses’
Pfand (Studien zum römischen
Pfandrecht III), in SDHI 45
(1979), 37 s. (= Studien zum
römischen Pfandrecht, Napoli, 1982, 163 s.); G. Krämer, Das besitzlose Pfandrecht. Entwicklungen
in der römischen Republik und Prinzipat, Köln - Weimar - Wien, 50 s.; per lo più descrittivo M.
Braukmann, Pignus. Das Pfandrecht unter dem Einfluß der
vorklassischen und klassischen Tradition der römischen Rechtswissenschaft,
Göttingen, 2008, 56 ss.; v. anche R. Knütel,
Rc. a Braukmann
Pignus cit., in IURA 58 (2010), 303-319; D. Schanbacher,
Rc. a Braukmann,
Pignus cit., in ZSS 127 (2010), 443-
[11] Cfr.
la laudatio edicti in Ulp. 53 ad ed. [L.1271] D. 39.2.7 pr. Praetor ait:
‘damni infecti suo nomine promitti, alieno satisdari iubebo …;
O. Lenel, Das Edictum perpetuum, 3a ed., Leipzig, 1927 (rist. Aalen, 1985),
371 ss.; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano,
1990, 451.
[12]
Così Branca, Danno temuto cit., 214 che adduce a
sostegno l’esplicito Ulp. 53 ad ed.
[L.1278] D. 39.2.15.25 Item quaeritur in
pigneraticio creditore, an pignoris persecutio denegetur adversus eum, qui
iussus sit possidere. et magis est, ut, si neque debitor repromiserit neque
creditor satisdedit, pignoris persecutio denegetur (…).
[13] Le
espressioni sono sempre di Branca,
Danno temuto cit.,
[14] La
lunga citazione è tratta da Nardi,
Studi cit., I, 52; è evidente,
poi, quanta influenza abbia avuto sulla presentazione del problema da parte di
questo Studioso la complessiva impostazione del problema presentata da Branca.
[15] V.
rispettivamente Gai. 28 ad ed.
[L.369] D. 39.2.2 Damnum infectum est
damnum nondum factum, quod futurum veremur e Ulp. 53 ad ed. [L.1272] D. 39.2.9
pr. (…) integra autem re unusquisque
cogitur aut de damno infecto cavere, aut aedibus carere quas non defendit
(…).
[16] Nardi, Studi cit., I, 52 non sembra neppure prendere in considerazione
quest’ultima possibilità, limitandosi a circoscrivere
l’ipotesi a quella in cui «(…) il missus non seppe del pegno o non ebbe modo di chieder la cautio al creditore; la chiese solo al dominus con le conseguenze del
caso».
[17] Ancora Bürge,
Retentio cit., 151 che sostiene come
«für den Eingewiesenen bestehet ja weder zum Eigentümer noch
zum Pfandgläubuger eine obligatorische Beziehung, da keine der beiden die cautio damni infecti geleistet
hat». Che il profilo obbligatorio sia qui assente (a differenza proprio
della fattispecie successiva) è evidente; è, però,
parimenti evidente che il creditore non abbia prestato la cautio, perché a lui non poteva essere (più)
richiesta.
[18] Ulp.
81 ad ed. [L.1753] D. 39.2.24.2 Sed ut ne quid aedium loci operisve vitio damnum
factum sit, stipulatio interponitur (…).
[19] Ben
altro problema riguarda la concessione della cautio de praeterito di Ulp. 53 ad
ed. [L.1272] D. 39.2.9 pr. Hoc
amplius Iulianus posse dici compellendum eum, ut etiam de praeterito damno caveret:
quod enim re integra custoditur, hoc non inique etiam post ruinam aedium
praestabitur. integra autem re unusquisque cogitur aut de damno infecto cavere
aut aedibus carere quas non defendit. denique, inquit, si quis propter
angustias temporis aut quia rei publicae causa aberat non potuerit damni
infecti stipulari, non inique praetorem curaturum, ut dominus vitiosarum aedium
aut damnum sarciat aut aedibus careat. sententiam Iuliani utilitas comprobat.
A tacer d’altro, infatti, il discrimine fattuale col nostro passo
è qui rappresentato dall’ormai avvenuto crollo dell’edificio
e dell’impossibilità (giustificata) di richiedere per tempo la
garanzia.
[20] A
questo punto, si può anche cercare di giustificare – dal punto di
vista sostanziale, non certo formale – l’intuizione di G. Beseler, Einzelne Stellen, in ZSS
45 (1925), 478 (nello stesso senso, Id.,
Beiträge zur Kritik der
römischen Rechsquellen, V, Leipzig, 1931, 67, dove, però, non
colgo il rinvio [«zu bescheiden»] a Id., Romanistische
Studien, in TJ 10 (1930),
[21] Cfr.
F. Casavola, Actio petitio persecutio, Napoli, 1965, 103; v. anche R. Orestano, s.v. Persecutio, in NNDI XII, Torino, 1965, 1005-1009 che
mette in luce l’ambito semantico «in cui il persequi ha un valore affatto differente [sc. in riferimento alle actiones rei persecutoriae] cioè
determinato dal contenuto e dall’oggetto dell’actio stessa» (1005); A. Guarino,
Rc. a F. Casavola, Actio cit., in Labeo 12 (1966), 129-136; G.I. Luzzatto,
Rc. a F. Casavola, Actio cit., in SDHI 32 (1966), 344-349.
[22] La
situazione del missus sarebbe allora
sostanzialmente avvicinabile a quella di colui che, avendo comprato imprudens un fondo altrui, vi abbia
costruito o piantato alcunché e sia stato poi evitto: Cels. 3 dig. [L.22] D. 6.1.38 In fundo alieno, quem imprudens emeras,
aedificasti aut conseruisti, deinde evincitur: bonus iudex varie ex personis
causisque constituet. finge et dominum eadem factum fuisse: reddat impensam, ut
fundum recipiat … Al di là della centralità del passo
per il tema della inaedificatio (v.
per tutti F. Musumeci, Inaedificatio, Milano, 1988, 149 ss.) la
fattispecie sembra adattarsi al passo qui esaminato sia sotto il profilo della
assenza di conoscenza della presenza di diritti reali altrui sulla cosa
(rispettivamente proprietà e pegno) sia del tipo di intervento compiuto
dal possessore rispetto a quello che avrebbe posto in essere il proprietario.
In rapporto a quest’ultimo argomento, l’apparente paradosso della
mancata prestazione della cautio damni
infecti da parte del proprietario – intesa quale causa legittimante
l’immissione nel possesso del terzo – rappresenta, invece, il
trait-d’union tra la l. 44.1 e
D. 6.1.38: in altre parole, la condotta doverosa che si sarebbe pretesa dal
proprietario è, per l’appunto, la refectio dell’immobile; quando essa viene posta
(volontariamente) in essere dal missus
si può correttamente presumere – sia pure ex adverso – che sarebbe stata a maggior ragione attuata dal
proprietario (finge et dominum eadem
factum fuisse): di qui il parallelismo anche con la disciplina per il
rimborso delle spese; v. Nardi, Studi cit., I, 326 ss.
[23] Per
rapide, ma puntuali precisazioni sul punto, v. da ultimo Krämer, Das besitzlose Pfandrecht cit., 38 ss.
[24]
L’espressione è di Bürge,
Retentio cit., 28 (che rinvia
erroneamente a D. 50.16.70); v., invece, Paul. 6 ad Plaut. [L.1127] D. 50.16.79 ‘Impensae
necessariae’ sunt, quae si factae non sint, res aut peritura aut deterior
futura sit. 1. ‘Utiles
impensas’ esse Fulcinius ait, quae meliorem dotem faciant, non deteriorem
esse non sinant, ex quibus reditus mulieri adquiratur: sicuti arbusti
pastinationem ultra quam necesse fuerat, item doctrinam puerorum. Quorum nomine
onerari mulierem ignorantem vel invitam non oportet, ne cogatur fundo aut
mancipiis carere. In his impensis et pistrinum et horreum insulae dotali
adiectum plerumque dicemus. 2. ‘Voluptariae’ sunt, quae speciem
dumtaxat ornant, non etiam fructum augent: ut sint viridia et aquae salientes, incrustationes, loricationes, picturae e Tit. Ulp. 6.14-17: Impensarum species sunt tres: aut enim
necessariae dicuntur aut utiles aut voluptuosae. 15. Necessariae sunt impensae, quibus non factis dos deterior futura est,
velut si quis ruinosas aedes refecerit. 16. Utiles sunt, quibus non factis quidem deterior dos non fuerit, factis
autem fructuosior effecta est, veluti si vineta et oliveta fecerit. 17. Voluptuosae sunt, quibus neque omissis
deterior dos fieret neque fructiosior effecta est: quod evenit in viridiariis
et picturis similibusque rebus. Sul punto
v. L. von Petražycky, Die Lehre von Einkommen. I,
Berlin, 1893, 291-344 che riserva all’argomento un particolare
‘Anhang’ sulle «Impensae necessariae und utiles» e che,
pur in un generale impianto pandettistico, si rivela sensibile ad una una
‘modernizzante’ analisi economica del problema (ma, v. comunque, l’accento,
posto pressoché all’inizio del suo ponderoso lavoro sul tema:
«es handelt sich um den Begriff Einkommen und seine Anwendung im
täglichen Leben» [lo spaziato è dell’A.]) laddove si
identificano le impensae necessariae
con quelle che «zum Zweck der Erhaltung des Kapitals geschehen» e
quelle utiles «als solche
einmaligen Ausgaben, welche die Erhöhung des Ertrages oder des Werthes der
Sache bezwechen» (293 s.).
[25]
Così, da ultimo, A. Chianale,
in (a cura di R. Sacco) Trattato di diritto civile, I diritti reali, 6, L’ipoteca, Torino, 2010, 150. Il problema, come ci si propone
di esaminare specificatamente, si riacutizza per l’esplicita negazione
del nostro codice civile (art. 2864 2) della ritenzione in capo al terzo
possessore
[28]
«Che inhibere stia qui, come al
solito, in luogo di denegare, non
v’ha dubbio», così Nardi,
Studi cit., I, 49 (lo spaziato
è mio). L’A. porta come esempio di quella equiparazione altri otto
passi dei Digesta (indicandoli,
peraltro, solo col riferimento numerico, senza esplicitare l’impiego
della locuzione): Paul. 17 ad Plaut. [L.1231] D. 5.1.24.2 actio … non sit inhibendam; Paul. 7 ad Plaut. [L1142] D. 9.4.31 sequentes
actiones inhibeantur; Ulp. 26 ad ed.
[L.772] D. 12.4.3.1 aut admittenda erit
repetitio aut inhibendam; Ulp. 26 ad
ed. [L.772] D. 12.4.3.3 inhibenda
erit repetitio, nisi paeniteat; Paul.
29 ad ed. [L.450]
D. 13.7.20.3 tamen pigneraticia actio
inhibenda est; Ulp. 6 opin.
[L.2352] D. 27.9.10 vindicatio praedii ex
aequitate inhibetur; Afr. 6 quaest. [L.54]
D. 30.109.1 inhibeat fundi persecutionem
ed una costituzione di Diocleziano e Massimiano C. 4.32.19.2 pignoris inhibere persecutionem. Con
l’impiego di moderni strumenti informatici, si ricava che le ricorrenze
complessive del verbo nei Digesta
sono complessivamente venticinque e, per almeno la metà di esse, non
sembra possibile operare quella usuale ‘sovrapposizione’ ipotizzata
da Nardi. A titolo di esempio: Gai. 1 ad
ed. prov. [L.62] D. 2.14.30.1 non
esse inhibendum creditorem; Paul. 13 ad
ed. [L.251] D. 4.8.32.10 arbiter
inhibendum est; Ulp. 3 ad ed.
[L.212] D. 5.1.2.2 prorogatio fuerit
inhibita; Paul. 21 ad ed. [L.354] D. 8.5.9 pr. inhibebo
opus tuum; Ulp. 3 ad l. Iul. et Pap. [L.1992] D. 23.1.16 nuptias in personam senatorum inhibuit; Paul. 6 ad Plaut. [L.1128] D. 23.3.56.3 alienatio fundi inhibeatur; Ulp. 36 ad Sab. [L.2808] D. 25.1.11.1 Donationem inter virum et uxorem …
inhibitam; Ulp. 52 ad ed. [L.1259]
D. 39.1.1 pr. opus … per
nuntiationem inhibetur; Ulp. 53 ad
ed. [L.1285] D. 39.3.1.13 opere facto
inhibeat per suum agrum decurrere; Ulp. 44 ad Sab. [L.2909] D. 39.5.7.4 inhibebitur
haec quoque donatio; Pomp. 24 ad Q.
Muc. [L.289] D. 41.3.24 pr. ubi lex inhibet usucapionem, bona fides possidenti nihil prodest;
Paul. l. s. de concurrentib. action. [L.54]
D. 44.7.34 pr. haec sententia per
praetore inhibenda est. Almeno da queste ricorrenze, sembra abbastanza
agevole notare come sia praticamente impossibile continuare a ritenere valida
quella equiparazione: al contrario (come era d’altra parte prevedibile)
l’ambito semantico coperto dal verbo è piuttosto esteso e –
specie quando il suo oggetto non è un atto processuale – spazia
dal corrispondente tedesco ‘aufhalten’ fino a (in ultima posizione)
‘verbieten’ (così H. Heumann
- E. Seckel, Heumanns Handlexicon zu den Quellen des römischen Rechts9,
rist. Jena, 1926, s.v. inhibere, 267). Il dato che emerge dalla
lettura di questi passi consente di notare come, in ogni caso, la prospettiva,
nella quale il verbo è impiegato, sia più
‘funzionale’ che ‘strutturale’: nel senso che, con inhibere si mette in rilievo
l’effetto di ‘paralisi’ e di ‘blocco’ nei
confronti di una determinata attività/atto (sostanziale o
processuale)/persona e questo indipendentemente dagli strumenti impiegati, che
finiscono per passare decisamente in secondo piano rispetto al risultato al
quale si è appena fatto riferimento.
[31] Solo
per correggere l’errore di stampa in Branca,
Danno temuto, 214 s. nt. 3 (inhibendum … persecutionem).
[33]
Così V. Giodice Sabbatelli,
Fideicommissorum persecutio. Contributo
allo studio delle cognizioni straordinarie, Bari, 2001, 188 nt. 73 che
afferma altresì (ibidem 188)
di non potersi occupare della «delicata questione, che coinvolge
l’intero frammento, relativa alla funzione della denegatio actionis formulare»; v. anche Ead., La tutela giuridica dei fedecommessi fra Augusto e Vespasiano,
Bari, 1993, 30 nt. 11 e già D. Johnston,
The Roman Law of Trust, Oxford, 1988,
224.
[34] Su
questi aspetti, v. le (comunque invasive) ricostruzioni di G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, II,
Tübingen, 1911, 87; Id., Romanistische Studien, I, in ZSS 50 (1930), 66 – con la
sostituzione <fideicommissi> [fundi], dal momento che si intendeva
«persecutionem = die Klage
gegen den Erben», e ‑ ancor più incisivamente ‑ di O. Lenel, Afrikans Quaëstionen. Versuch einer kritischen Palingenesie,
in ZSS 51 (1931), 23 e nt. 4 –
che del passo riteneva genuino solo il tratto Heres – vendidit.
Va segnalato che ancora Metro, Denegatio cit., 216 s. accoglie
integralmente la proposta beseleriana perché più
«plausibile». In questo senso, l’accoglimento di quella
proposta comporterebbe, come conseguenza, la negazione che con persecutio si indichi l’azione
reale con oggetto il fundus e
l’affermazione per cui con essa, invece, si faccia riferimento alla
«pretesa fondata sul fedecommesso». La prospettiva cambierebbe
radicalmente, con i riflessi, sul significato del sintagma inhibire persecutionem, dei quali si tratterà subito nel
testo. Non si può, però, nascondere almeno un motivo di
perplessità: quello indotto da un così netto cambiamento di senso
(nel pur vasto ambito semantico del termine) di persecutio, impiegato dallo stesso giurista (Africano) nella stessa
opera (le Quaestiones); v. sul punto Giodice Sabbatelli, Fideicommissorum persecutio cit., 188 e
nt. 74 secondo la quale «l’uso di persecutio … anche in questo caso non presenta una sua
propria specificità». Non tocca l’integrità del testo
e, anzi, argomenta dalla genuinità della locuzione persecutio fundi, G. Impallomeni,
L’efficacia del fedecommesso
pecuniario nei confronti dei terzi. La in rem missio, in BIDR 70 (1967), 1-104 che la intende
come azione reale intentata dal fedecommissario nei confronti di Tizio che
«(…) per impedire la persecutio
fundi, paga al fedecommissario cento. Ciò, perché, si dice,
se il fondo non fosse stato alienato, l’erede, per non prestare il fondo,
non avrebbe dovuto dare né più né meno di quella
cifra» (13). Da ultimo anche D’Ors,
Las Quaestiones cit., 228 s. sostiene
che il pretore fedecommissario avrebbe concesso un’azione in rem «cuando es posibile por la
substitencia del objeto específico», di modo che «el
fideicomisario tenía una accíon real (extra ordinem, y por eso se habla de persecutio) sobre el fundo …» (229).
[36]
Impiega questa (felice) espressione Riccobono,
Dal diritto romano romano classico al
diritto moderno (a proposito di
D.10,3,14 [Paul. 3 ad Plaut.]), in AUPA
3-4 (1917), 165 ss. (= Scritti di diritto
romano. II, Palermo, 1964, dal quale citerò, 228) che ritiene questa
tecnica comune allo stesso Africano.
[37] Forse
è solo un particolare, ma non si può fare a meno di notare la
differenza tra l’insula di
questa frase e l’aedes del caso
precedente (v. supra, § 2). Il
particolare, poi, potrebbe essere inteso non tanto come l’indizio di un
intervento manipolativo sul testo quanto, piuttosto, come il risultato di uno
sforzo interpretativo che, avendo come fulcro la verifica
dell’applicazione del meccanismo della retentio ad un altro ambito negoziale, a quella sacrifica il
rispetto dell’uniformità terminologica che, in questo senso,
appare secondaria.
[38]
È, a maggior ragione, assente qualsiasi vincolo obbligatorio tra
possessore ad usucapionem e
proprietario dell’edificio che non ha prestato la cautio, tanto che il primo è stato immesso nel possesso
dell’immobile, proprio a causa della mancata prestazione di quella
garanzia. In ogni caso (ben al di là, dunque, dell’osservazione di
Bürge, Retentio cit., 151, che dubita «ob er aber am Haus als solches
ein Interesse hat, ist damit noch nicht gesagt») il possessore ad usucapionem si comporta uti dominus nel momento in cui restaura
l’edificio pericolante e soggiacerebbe pienamente all’actio (quasi) Serviana mossagli
contro dal creditore, senza avere la possibilità di esercitare qualsiasi
tipo di regresso contro il vecchio proprietario, se la retentio della res non
venisse in suo soccorso attraverso l’opposizione dell’exceptio doli.
[39]
Concetto questo di centrale rilevanza per la definizione stessa dell’ambito
di applicazione della retentio, in
base alla ricostruzione dello stesso Bürge,
Retentio cit., 151.
[40] La
linea interpretativa di Riccobono,
Dal diritto romano cit., 228
evidenzia un aspetto che mette in risalto il vantaggio che il debitore esecutato
ricaverebbe dai ‘miglioramenti’ posti in essere dal terzo di buona
fede: «(…) le spese fatte dall’acquirente vanno, in
definitivo, a profitto del debitore alienante proprietario; il quale in seguito
alla vendita della cosa pignorata viene liberato dal suo debito; mentre il
creditore persegue quel che gli compete in forza del suo diritto, e non
può essere costretto a pagare le spese di manutenzione
dell’edificio, diminuendo in tal modo la forza e l’estensione della
sua garenzia». Non si può, però, fare a meno di notare come
il ragionamento – almeno sotto il profilo del bilanciamento economico
– non sembri potersi sottrarre a talune critiche: quantomeno quella, in
base alla quale, i ‘miglioramenti’ vadano ad esclusivo vantaggio del
debitore pignoratizio. Se, infatti è vero che i
‘miglioramenti’, di per sé, aumentano il valore del bene
messo all’asta e allontanano quindi il rischio per cui «se il
prezzo è insufficiente a soddisfare il credito, questo perdura per la
parte non soddisfatta» (così S. Perozzi,
Istituzioni di diritto romano, I, 2a
ed., Roma, 1928 [rist. Roma, 2002], 818, è, però, altrettanto
vero che la possibilità di una soddisfazione completa sul ricavato del
bene si accresce proporzionalmente, in rapporto al maggior valore che la res obligata si trova ad avere ad opera
dei ‘miglioramenti’ del terzo. Tra l’alternativa (qui posta
in astratto): rimborsare il terzo per i ‘miglioramenti’ (altro
problema: in che misura?) e soddisfarsi sul bene; oppure rimanere insoddisfatto
e dover agire come creditore chirografario per «la parte non
soddisfatta», sembra di gran lunga preferibile la prima opzione.
[41]
Chiarissimo, sul punto T. Mayer-Maly,
De se queri debere. Officia erga se und Verschulden gegen sich Selbst, in Festschrift für Max Kaser zum 70. Geburtstag,
München, 1976, 240 nt.
[42] Per
l’origine della stipulatio duplae
ricondotta alla vendita di res mancipi
al quale non abbia fatto seguito il corrispondente atto di trasferimento della
proprietà v. per tutti, Talamanca,
s.v. Vendita (dir. rom.) cit., 391.
[43] V. in
questo senso, quando previsto nel testo della emptio vinae Durae ad Euphratem contracta del 227 d.C. (FIRA III,
n.138, 439-442) – in cui ut apud
Romanos moris erat, in tota re enarranda praecipue emptori ratio habetur
(439) – dove si specificava espressamente che il venditore garantiva che to#
auèto# aègo@rasma aène@pafon k[a]i# aènepida@neiston [442, l. 21] (rem nec obnoxiam nec pigneratam); cfr. Bürge, Retentio
cit., 151 s. e bibliografia ivi citata (152 nt. 26).
[44] Va
segnalato che, nel pr. del medesimo frammento, Paolo dia notizia di come
Africano riferisse che Giuliano (idque et
Iulianum agitasse Africanus refert) si fosse occupato della complessa
materia (l’argomento del § 1 della l. 45 viene introdotto da expeditius
che proprio a quella articolazione concettuale fa riferimento) della
diminuzione della somma che il venditore – condannato per
l’evizione subita dal suo avente causa – deve prestare al
compratore nel caso in cui la cosa acquistata si fosse deteriorata presso
quest’ultimo, prima del giudizio di evizione. Questo, solo per ipotizzare
che anche il § 1 della medesima l.
possa essere riconducibile ad una matrice risalente a Giuliano/Africano, al
pari di D. 39.2.44.2 e che, dunque, a rafforzamento della comparazione che nel
testo si va proponendo, possa essere aggiunto anche questo dato, solo al fine
di tentare di sostenere – sebbene solo in via ipotetica – una
continuità di pensiero nel modo di affrontare fattispecie comparabili
fra di loro. Per un primo richiamo alla critica testuale, v. D. Medicus, Id quod interest. Studien zum römischen Recht des
Schadenersatzes, Köln – Graz, 1962, 83 nt. 18 e 84; doverosa
anche la citazione di H. Honsell,
Quod interest im bonae – fidei
– iudicium. Studien zum
römischen Schadenersatzercht, München, 1969, 51 ss. Sul passo,
che notoriamente, si inserisce nel ben più complesso (ed amplio) contesto
palingenetico di L.1327, v. da ultimi J. Schmidt-Ott,
Pauli Quaestiones. Eigenart
und Textgeschichte einer spätklassischen Juristenschrift, Berlin, 1993, 82 e, soprattutto, D. Nörr, Römisches Recht: Geschichte und Geschichten. Der Fall der
Arescusa et alii (D.19,1,43 sq.),
München, 2005, 52 s.; puntuale e limpido R. Knütel, Stipulatio poenae. Studien zur römischen Vetragstrafen, Köln - Wien, 1976,
338 ss. Anche Bürge, Retentio cit., 66 pone l’accento
sul legame ‘autoriale’ al quale sopra si accennava e sostiene lo
sforzo del giurista di condensarne la riflessione – in riferimento al fr.
45.1 – riportandola «in die eng gezogenen Schranken des
vorliegenden Falles», col fine primario «die Frage des Ersatzes
für den Merhrwert zu lösen».
[45] Sul
meccanismo di operatività dell’exceptio
doli generalis correlata alla clusola restitutoria
della reivindicatio, v. le coincise
ed acute osservazioni di C.A. Cannata,
Bona fides e strutture processuali,
in (a cura di) L. Garofalo, Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza
giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in
onore di Alberto Burdese, I, Padova, 2003, 257-
[46] Cfr. Musumeci, Inaedificatio cit., 162 s. con puntuali riflessioni circa la
differenza quantitativa tra la condemnatio
all’id quod interest
dell’actio empti rispetto al duplum della fattispecie decemvirale del
tignum iunctum di Tab. VI.8 (FIRA);
osservazioni critiche (che però non toccano lo
«Zurückbehaltungsrecht» del quale qui si tratta) sono mosse da
P. Apathy, Paul. D. 46.3.98.8 – Zur
Ersatzpflicht bei ‘inaedificatio’, in IURA 42 (1991), 1-11. Il brano è sottoposto anche ad esegesi
(non, però, per tutte le fattispecie in esso rappresentate) da Cannata, ‘Exceptio doli generalis’ cit., 250 ss.
[47] Bürge, Retentio cit., 66 nt. 245 ricorda come il ricorso alle fattispecie
dell’area a quella del servus fosse già presente in un
altro passo dello stesso Paolo, vale a dire, in Paul. 21 ad ed. [L.336] D.
6.1.27.5 In rem petitam si possessor ante
litem contestatam sumptus fecit, per doli mali exceptionem ratio eorum haberi
debet, si perseveret actor petere rem suam non redditis sumptibus. idem est
etiam, si noxali iudicio servum defendit et damnatus praestitit pecuniam, aut
in area quae fuit petitoris per errorem insulam aedificavit (…) per
sostenere il passaggio «von einfacheren [sc. fattispecie] zum offenbar
schwierigeren». Qui, però, da un lato, l’ordine delle
fattispecie è invertito rispetto a D. 19.1.45.1; dall’altro la
gradualità nella difficoltà del caso non sembra sussistere ma,
anzi, l’aut fra le due
fattispecie sembra porle su un piano perfettamente equivalente; contra U. Elsener, Le racines
romanistes de l’interdiction de l’abus de droit, Bâle,
2004, 172 per la quale «(…) le cas de la vente du fonds est
mentionné uniquement dans le but d’en tirer une analogie avec
celui de l’esclave»; v. anche L. Labruna,
Note su eccezione di dolo generale e
abuso del diritto nelle vedute dei giuristi classici, in (a cura di) L. Garofalo, L’eccezione di dolo generale cit., 123-137 in part. 136.
[48]
Rispetto al binomio mercedes et impensas
non necessariamente si dovrebbero considerare i due termini come sinonimi e
concludere, come fa Riccobono, Dal diritto romano cit., 222, per un
verso, per l’inutilità del primo, che non esprimerebbe nulla
più di quanto già espresso dal secondo, per l’altro,
ritenendo che «il binomio è anche ambiguo, a causa della voce mercedes senza specificazione,
occorrendo essa pure per designare gli acquisti del possessore fatti dalle
opere del servo [ex operis mercedes
capere], laddove in questo luogo sta ad indicare le mercedi pagate per il
servo». Nel senso di una riconduzione, da un lato delle mercedes «(…) a compensi a
terzi che hanno effettuato prestazioni a carico dello schiavo (…) in
particolare ai compensi di coloro che hanno istruito lo schiavo stesso o lo
hanno magari curato» e, dall’altro, delle impensae «(…) alle spese per il mantenimento dello
schiavo ed eventualmente le medicine nel caso in cui si fosse ammalato»,
v. Cannata, ‘Exceptio doli generalis’ cit.,
[49] Per i
profili terminologici, evidenziati oltretutto dalla doppia ricorrenza nel passo
del termine impensa, v. J. Reszczyński, Impendere, impensa,
impendium (sulla terminologia delle spese
in diritto romano), in SDHI 55
(1989), 218 nt. 139; 221 nt. 143 e 225, nt. 157; per un quadro complessivo sul
tema delle spese, v. il mantenimento di una linea di continuità
nell’impostazione del problema tra J.-P. Lévy, Les
impenses dotales en droit romain classique, Paris, 1937 e M.T. González-Palenzuela Gallego,
Las impensas en el derecho romano
clásico, Cáceres, 1998; su quest’ultima, poi, v.
l’equilibrato, positivo giudizio di F. Cuena
Boy, Rc. a
González-Palenzuela Gallego, in Rev.
de Est. Hist. Jur. 22 (2000), 507.
[50] Il
meccanismo è ben delineato in Gai. 2.76 Sed si ab eo petamus fundum vel aedificium et inpensas in aedificium
vel in seminaria vel in sementem factas ei solvere nolimus, poterit nos per
exceptionem doli mali repellere, utique si bonae fidei possessor fuerit;
nel medesimo senso v., dello stesso Gaio, Gai. 2 rer. cott. sive aur. [L.491] D. 41.1.7.12 Ex diverso si quis in alieno solo sua materia aedificaverit, illius fit
aedificium, cuius et solum est (…) certe si dominus soli petat aedificium nec solvat pretium materiae et
mercedes fabrorum, poterit per exceptionem doli mali repelli, utique si nescit
qui aedificaverit alienum esse solum et tamquam in suo bona fide aedificavit:
nam si scit, culpa et obici potest, quod temere aedificavit in eo solo, quod
intellegeret alienum.
[51] Si
ricordano, sul punto, le posizioni contrapposte da un lato di B. Biondi, Iudicia bonae fidei, Palermo, 1920, 146 s., che nega – sulla
scorta dell’opinione di Riccobono,
Dal diritto romano classico cit., 222
– la possibilità che, per il diritto classico, si potesse agire
contro il venditore con l’actio
empti per il rimborso delle spese compiute sulla res rispetto alla quale si fosse subita l’evizione e
dall’altro di E. Albertario,
Il rimborso delle spese fatte dal
compratore intorno alla «res evicta», in AG. 9 (1925), 3 ss. (= Studi
di diritto romano. III. Obbligazioni,
Milano, 1936, 481-494 dal quale citerò) che, sosteneva sì la
funzione ‘residuale’ dell’actio
empti (nel senso che essa potesse essere esperita solo quando il compratore
espropriato non avesse avuto altra possibilità, se non quella di
«pretendere dal venditore col iudicium
empti quello che con altri mezzi processuali avrebbe potuto ottenere dal
proprietario rivendicante») ma, al contempo, ne ammetteva la piena
esperibilità in riferimento a «quelle spese (le voluttuarie) che
il compratore, benché possessore di buona fede, non avesse potuto
esigere dal rivendicante, o [a] tutte le spese (anche le necessarie e le utili)
che, per non essere in possesso della cosa al momento dell’evizione, non
avesse potuto chiedere al proprietario che agiva con la rivendica» [487
s.]). Diretta conseguenza di ciò, sarebbe la responsabilità
‘sussidiaria’ del venditore rispetto al terzo rivendicante, di modo
che, specularmente, «der Kaüfer soll sich in erster Linie an den
Eigentümer halten, dem die Aufwendungen auch zugute kommen»
(così, Nörr, Geschichte cit., 53). Al di là
della diversità nei rapporti tra compratore e terzo – sotto il profilo
di un maggiore o minore coinvolgimento nel rimborso delle spese in capo al
venditore – che le due differenti ricostruzioni comportano, ciò
che rimane comunque nell’ombra è la possibilità in
sé che sia convenuto con la rivendica colui che non possiede
(più) la res acquistata (v. infra, nel testo).
[52] Sul
problema v. principalmente S. Schipani,
Responsabilità del convenuto per
la cosa oggetto di azione reale, Torino, 1971, 65 ss.; da ultimo M. Wimmer, Besitz und Haftung des Vindikationsbeklagten, Köln-Weimar-Wien,
[53] Va
segnalato che Nardi, Studi I cit., 396 ss., che pure si
occupa passo con la sua consueta minuziosità dal punto di vista della
ricostruzione della lettera del testo, sorvoli completamente su questo aspetto
ed, anzi, argomenti dalla ‘pacifica’ ammissione del parallelismo
fra mancanza di possesso ed esperimento dell’actio empti per costruire una differenziazione tra il caso del
venditore in buona fede (nel quale essa troverebbe luogo) e quello del
venditore in mala fede nei cui confronti il compratore «(…) sarebbe
autorizzato a rifarsi per le spese (…) in ogni caso: cioè, tanto
se può esercitar la retentio,
quanto se non lo può, per deficiente possesso». Questo,
ovviamente, senza dir nulla circa il problema qui affrontato. Neppure,
più recentemente, H. Ankum,
Die manumissio fideicommissaria der Arescusa, des Stichus und des
Pamphilus, in Ars boni et aequi. Festschrift
für Wolfgang Waldstein für 65 Geburtstag, Stuttgart, 1993, 13
sembra prendere posizione circa il problema qui affrontato, ma si limita a
descrivere la fattispecie come quella di un venditore che «(ohne seine
Schuld) den Besitz der Sache verloren hat»; v. già Id., Pomponio, Juliano y la responsabilidad del vendedor por la
evicción con la actio empti, in RIDA
49 (1992) 65 nt. 18; così, ancora, Cannata,
‘Exceptio doli generalis’
cit., 252 che sembra sorvolare sulla questione quando si limita ad affermare
che «l’ulteriore precisazione che, se C non fosse in possesso della
cosa – e quindi non sia stata esperita contro di lui la rei vindicatio di P –, il problema
delle mercedes et impensae sarebbe in
ogni caso regolato con l’actio
empti, è enunciato insieme per i due casi dell’area e dello schiavo, e quindi, per
quanto ci riguarda, serve solo a rafforzare l’idea che Paolo li
considerasse analoghi»; a fronte di questo, però, il dubbio posto
nel testo non trova però chiarimento, tanto più perché, se
contro C non viene esperita la rivendica da parte di P (o, da un adsertor in libertatem) egli neppure
avrebbe motivo di agire ex empto nei
confronti del venditore, dato che non sarebbe stato evitto.
[54]
Così M. Kaser, Das römische Privatrecht, I, 2a
ed., München, 1971, 433; v. dettagliatamente, M. Talamanca, Osservazioni
sulla legittimazione passiva alle actiones in rem, in Studi economico-giuridici pubblicati per cura della Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Cagliari XLIII (1962-1963),
133-186 che precisa come «l’ipotesi di una controversia di scuola
tra sabiniani e proculiani, che avesse, come oggetto, la rilevanza o
l’irrilevanza del possesso ai fini della legittimazione passiva nelle actiones in rem nella fase successiva
alla litis contestatio non
sussisteva. Che vi fossero controversie, non si può dubitare: ma esse
vertevano esclusivamente (…) sul momento in cui tale possesso dovesse
sussistere» (173); v. anche M. Marrone,
La legittimazione passiva alla rei
vindicatio (Corso di diritto romano),
Palermo, 1970, 22 ss.
[56] Ulp.
29 ad Sab. [L.2727] D. 21.2.21.1 Inde Iulianus libro quadragesimo tertio
eleganter definit duplae stipulationem tunc committi, quotiens res ita
amitittur, ut eam emptori habere non liceat propter ipsam evictionem; ma
diversamente da Pomp. 9 ad Sab. [L.559]
D. 21,2,16,1 Duplae stipulatio committi
dicitur tunc, cum res restituta est petitori, vel damnatus est litis
aestimatione, vel possessor ab emptore conventus absolutus est per il quale
l’evizione (in senso sostanziale) si anche verifica allorché
«l’acquirente non possessore attore, [sia] risultato soccombente in
giudizio», così, da ultimo T. Dalla
Massara, Garanzia per evizione ed
interdipendenza delle obbligazioni nella compravendita romana, in (a cura
di L. Garofalo) La compravendita e l’interdipendenza
delle obbligazioni in diritto romano, II, Padova, 2007, 280 s. nt. 3 con
rinvio alle concordi opinioni di Talamanca,
s.v. Vendita cit., 401 e ntt. 1011 e
1012 e G. Impallomeni, s.v. Evizione (dir. rom.), in NNDI. VI, Torino, 1960, 1049 nt. 1; v.
anche nt. seguente.
[57] Che il
passo abbia potuto risentire di un intervento giustinianeo nel senso di un
livellamento degli strumenti di tutela (ipso
iure – ope exceptionis)
è sostenuto da Nardi, Studi cit., I, 274 che immagina che
«(…) Pomponio non avesse parlato che di exceptio doli: furono dunque i giustinianei che, nell’intento
di fondere assieme il diritto civile e pretorio (...) inserirono qui [vel ipso iure] e [tutus erit vel certe]»; in questo senso, ancora D. Daube, Utiliter agere, in IURA
11 (1960), 129 e Talamanca s.v. Vendita cit., 401 nt. 1014 che
ritiene che il passo sia stato raccorciato per la sovrapposizione della
disciplina dell’actio auctoritatis
da un lato e quella della stipulatio
duplae dall’altro.
[58] Questa
lettura che, si ripete, va intesa solo con la necessaria elasticità che
l’analisi del caso di specie esige, sembra ritrovarsi nelle parole di L. Vacca, Ancora sull’estensione dell’ambito di applicazione
dell’‘actio empti’
in età classica, in IURA 45
(1994), 35 ss. (= in Appartenenza e
circolazione dei beni. Modelli classici e giustinianei, Padova, 2006, 329
ss.) quando sostiene che «non si configura alcuna responsabilità
del venditore se, dopo il trasferimento del bene, il compratore soccombe nella
lite con il terzo, o comunque l’habere
licere per una circostanza non riferibile alla mancata piena
disponibilità della cosa da parte del venditore al momento del contratto
e del trasferimento» (55 = 349); in questo stesso senso, già M. Talamanca s.v. Vendita cit., 401.
[59] A
questo interrogativo cerca di dare una risposta Daube, Utiliter agere
cit., 132 che si sforza di proporre un paio di casi – abbastanza
macchinosi, a dire il vero – ma che pure corrisponderebbero alla
fattispecie descritta nel passo, il cui trait-d’union è
rappresentato dall’esercizio dell’actio Publiciana: «A buys a slave-child from B, a non-owner,
it gets into the hands of C, also a non-owner, who sells and delivers it to D.
A brings the Publician against D and is defeated: he may not sue B on
stipulation. Or a jewel is sold and delivered by E, a
non-owner, to F, it gets into the hands of G, also non-owner, who sells and
delivers it to H. H loses or gives up possession to F, brings the Publician
agaist him and is defeated: he may not sue G on the stipulation». È
evidente, che le due fattispecie corrano in parallelo e la loro differenza
consista nella qualità di res
mancipi o nec mancipi della cosa
venduta, senza che, peraltro, la mancanza dell’atto formale traslativo
della proprietà, rispetto agli effetti dei quali qui ci si occupa,
giochi poi alcun ruolo.
[60]
Così Nardi, Studi cit., I, 275; non si può,
però, qui fare a meno di osservare la gratuità dell’ultima
parte dell’affermazione (in particolare, circa l’agevolezza del
mantenimento del possesso) quando, sul particolare della facilità, il
passo non dice nulla. V. anche C. Wollschläger,
Das eigene Veschulden des Verletzten im
römischen Recht, in ZSS 93
(1976), 135 che riconduce il passo nel quadro generale dell’esonero del
venditore dalla responsabilità per evizione («wenn der Käufer
die Kaufsache durch eigene Schuld, insbesondere durch fehlerhafte Führung
des Eviktionsprozesses, verloren hatte») poiché quella disciplina
«gilt auch für einzelne Schadenposten» (nt. 113) evidentemente
ricomprendendo fra queste ultime anche le spese per i
‘miglioramenti’ sulla res
acquistata.
[61] Riprendendo, allora, le parole di D. Medicus, Id quod interest cit., 322 «(…) dem Geshädigten
sei nur der aus dem schadigenden Ereignis mit Notwendigkeit sich ergebende
Schaden zu ersetzen, nicht aber auch der weitere, der erst durch das Verhalten
des Geschädigten hinzugekommen ist».
[64] Una costituzione
di Diocleziano e Massimiano del 290 si esprime – sebbene in forma
ellittica – nello stesso senso del frammento paolino quando distingue tra
‘restituzione’ delle impensae
ad meliorandam rem da un lato e del praetium
evictae portionis dall’altro: C. 8.44.16 Impp. Diocletianus et
Maximianus AA. Alexandro et Diogeni. Super
empti agri quaestione disceptabit praeses provinciae et, si portionem diversae
partis esse cognoverit, impensas, quas ad meliorandam rem vos erogasse
constiterit, habita fructuum ratione restitui vobis iubebit. nam super praetio
evictae portionis non eum qui dominium evicerit, sed auctricem conveniri
consequens est. PP. x k. Iul. ipsis iiii
et iii AA. conss. Per una
(come sempre) accurata rassegna delle diverse proposte di emendazione del testo
v. E. Nardi, Testi in origine relativi alla ritenzione?, in Scritti in onore di Contardo Ferrini pubblicati in occasione della
beatificazione, I, Milano, 1947, 391 s.
(= Scritti minori. I, Bologna,
1991, 337 s.) che suggerisce, a sua volta, l’espressa previsione
dell’exceptio doli mali (in
funzione ‘giustificativa’ della retentio)
al posto della, a suo parere, «indubbia» interpolazione habita – ratione, sostituendo ad
essa la forma ‘impersonale’ <per
exceptionem doli mali> che avrebbe fatto salva la
‘terzietà’ del praeses
rispetto all’onere di parte del sollevamento dell’eccezione. A
fronte, però, della consueta puntigliosità nella ricostruzione
testuale del passo, manca completamente (forse perché già data
per scontata in seguito alla restituzione della lettera ‘genuina’
della fonte) un’esegesi sostanziale della costituzione. La fattispecie
illustrata dalla cancelleria imperiale descrive una sorta di ‘programma
processuale’, che il preside della provincia dovrà seguire nella
valutazione degli interessi contrapposti tra le tre figure: i compratori
(Alessandro e Diogene), il terzo rivendicante e la venditrice. Ai primi, evitti
di una parte del fondo acquistato, il preside deve concedere il rimborso delle
spese compiute per i ‘miglioramenti’ di quella parte e, al
contempo, ingiungere loro la restituzione dei frutti (senza ulteriore
specificazione ma, assai probabilmente, quelli extantes al momento dell’esperimento dell’azione). Il
meccanismo, che (condividendo sul punto l’osservazione di Bürge, Retentio cit., 68 nt. 252) non necessiterebbe di un’esplicita
exceptio doli (tanto più nel
quadro della cognitio extra ordinem)
ma lascerebbe direttamente al praeses
l’officium della sua
applicazione, vede nella retentio opposta
al terzo rivendicante lo strumento più immediato (e più efficace)
per la realizzazione di quell’interesse. Ben distinto da
quest’ultimo è, invece, quello che fa capo alla
responsabilità del venditore (nel caso di specie, si ripete, una
venditrice: auctricem) per
l’evizione della pars; contro
di essa, infatti – stabilisce la cancelleria – si dovrà
agire super praetio evictae partis,
distinguendo così sia le differenti pretese sia, cosa per certi versi
ancor più rilevante, i diversi strumenti con i quali farle valere: retentio da un lato, azione da compera (ex evictione) dall’altro. Dalla
necessità – avvertita dagli imperatori – di indicare
esplicitamente che la venditrice dell’ager
deve corrispondere ai compratori il solo pretium
della pars evicta, si potrebbe forse leggere la presenza di indizi che
denunciano la preoccupazione di evitare una (sebbene solo potenziale)
confusione fra le figure dell’autrix
da un lato e di qui dominium evicit
dall’altro. In questo senso, la loro contrapposizione (accentuata dal
valore asseverativo della particella nam,
con la quale se ne giustifica la chiamata in giudizio) varrebbe a fugare il
dubbio circa una (ipoteticamente) possibile ‘estraneità’
alla vicenda della venditrice, obbligandola, al contrario, a rispondere per
l’evizione parziale. Permarrebbero, dunque, ben al di là del
complessivo sistema procedurale nel quale gli strumenti si collocano, le
ragioni – di evidente riscontro pratico e di elevato vantaggio in termini
di economia processuale – che sottostanno alla preferenza della
immediatezza retentio direttamente
opposta alla azione reale del terzo, rispetto all’azione per la garanzia
per evizione rivolta contro la venditrice: il doppio binomio costituito dalle
spese per ‘miglioramenti’ e retentio
da un lato; garanzia per evizione e ‘azione’ da compera
dall’altro, rimane invariato, perché ‘intrinsecamente’
funzionale alla dialettica che si instaura tra responsabilità per
evizione per un verso e rimborso delle spese per i ‘miglioramenti’
dall’altro.
[65]
Osservazioni sull’impiego e sull’accezione del termine
nell’ambito della compravendita sono svolte da G. MacCormak, Periculum,
in ZSS 96 (1979), 133 s.
[66] Ancora
Bürge, Retentio cit., 67; sul punto v. il positivo giudizio («sehr
ansprechend») di T. Mayer-Maly,
Rc. a A. Bürge, Retentio cit.,
in IURA 30 (1979), 124.
[67] Aspetto colto perfettamente da R. Backhaus, Rc. a A. Bürge, Retentio cit., 502: «eine
Rechsmängelhaftung des Veräußers ist (…) – wenn
nich auf dolus vorliegt – im Fall des Kaufer subsidiär».
[68] Nutre dubbi formali sulla chiusa del passo Honsell, Quod interest cit., 54 anche se – al di là della
rielaborazione esteriore della forma – afferma che sarebbe stato
sorprendente se «Paulus seinen Ausgangsfall am Schluß nicht wieder
aufgenommen hätte».