Università di Bari
Diritto alla vita e infanticidium *
Sommario: 1. Diritti
fondamentali e antichità. – 2. Opinioni antiche e
contemporanee sulla liceità dell’infanticidio per il diritto romano. – 3. Il divieto d’infanticidio attribuito a Romolo. – 4. Infanticidio e patria
potestas. – 5. Il divieto di infanticidio nella
riflessione di Paolo e nelle Costituzioni di Valentiniano I. – 6. Considerazioni di chiusura. – 7. Bibliografia. – Abstract.
In un mio recente scritto ho ipotizzato il riconoscimento, nel
diritto romano, del ‘diritto alla vita’. Rinviando alle considerazioni esposte
in quella sede, vorrei pormi qui un interrogativo[1].
Vorrei chiedermi se sia sostenibile il riconoscimento nell’esperienza romana
del diritto alla vita per i nati e se, di conseguenza, fosse vietato
l’infanticidio.
Le odierne concezioni di infanticidio (con le connesse
riprovazioni morali, sociali e giuridiche)[2]
possono
essere assunte come dati di comparazione storico-diacronica (se non
addirittura, almeno in parte, sincronica), la quale abbia come polo di
riferimento il diritto romano[3]?
L’interrogativo, opinabile e controvertibile, come tutti i
tentativi di raffronto tra le odierne visioni dei diritti e delle protezione
dei diritti dell’uomo, richiede alcune precisazioni preliminari, idonee a
chiarire ed, eventualmente, giustificare l’uso di terminologia e concetti
odierni per la realtà remota.
Nello specifico, ci si può domandare se
riguardo ai fanciulli sia legittimo interrogarsi sull’esistenza di diritti
essenziali (primo fra tutti quello alla vita) nell’esperienza romana.
Ipotizzare il riconoscimento di diritti
del fanciullo potrebbe apparire frutto di inammissibili spinte di
modernizzazione dell’esperienza antica. Ma, in proposito, chiarito che in
nessun modo per il diritto romano si potrebbe ipotizzare l’enucleazione di
principi e regole parificabili a quelli contenuti nelle moderne dichiarazioni o
convenzioni[4]
concernenti l’infanzia, non sembra fuori luogo indagare se il diritto romano
abbia conosciuto forme di protezione delle aspettative essenziali degli esseri
umani.
Così formulato, l’interrogativo appare di
attualità e serve a capire se sia possibile riscontrare, già nell’antichità, il
riconoscimento di valori fondanti della civiltà anche contemporanea. L’assunto
è oggi di attualità ed anima discussioni vivaci, tra chi ritiene inutile e
fuorviante il paragone tra le regole antiche e le categorie elaborate intorno
ai diritti umani e chi ne enfatizza l’utilità. Al fondo del dibattito vi
è la convinzione (o meno) dell’esistenza nel diritto di princìpi, valori e
regole universali, riscontrabili in ogni società ed in ogni epoca[5]
e, quindi, anche nel diritto romano[6].
In quest’ottica si può reputare utile il richiamo ai ‘valori’ che nel passato,
così come oggi, sono alla base dei diritti fondamentali[7] e si può motivare
la possibilità di un confronto quanto meno diacronico tra i diritti
riconosciuti nel passato e quelli individuati in età recenti, anche riguardo ai
neonati.
Convinto di ciò, reputo che l’indagine
storica possa fruttuosamente interessarsi delle condizioni effettive riservate
ai soggetti ‘deboli’ come i fanciulli e, in particolare, ai neonati, verificando
se la disciplina effettivamente applicata rispecchiò princìpi generali, intuiti
o riconosciuti, implicanti la percezione della dignità di tutti gli uomini[8].
È opinione abbastanza diffusa e radicata
che per il diritto romano, almeno fino al dominato, l’uccisione dei neonati
sarebbe stata consentita.
A conforto sono citate alcune fonti ed in
particolare un versetto delle XII tabulae ed alcune considerazioni
comparative di Filone di Alessandria e Tacito.
Nello specifico la liceità
dell’infanticidio è desunta dalla circostanza che autori (come Tacito,
Strabone, Filone, Giuseppe Flavio) sottolineavano che i Germani, gli Egiziani,
gli Ebrei non uccidevano i neonati, deducendone ex adverso che i Romani
dovessero consentire l’infanticidio[9].
In limine vorrei avanzare due osservazioni, che mi paiono essenziali per la
comprensione delle testimonianze citate. In primo luogo, mi sembra che esse
guardavano alla diffusione o meno della soppressione (o della non accettazione
nella familia) dei neonati senza distinguere tra dato normativo e
costume[10].
In secondo, presentando come migliore il costume germanico (Tacito) o ebreo
(Filone e Giuseppe Flavio), gli autori antichi lasciano trasparire che, almeno
al loro tempo, dovesse apparire evidente che la prassi (romana e di altri
popoli) di praticare l’infanticidio era considerata negativamente; di modo che,
quindi, essi, implicitamente, si facevano portavoce di una cultura della vita
che concerneva tutti gli uomini, almeno fin dalla nascita.
Tacito, in un contesto nel quale
espressamente elogiava l’intolleranza dei Germani verso i ‘vizi’, indicava,
come esempio anche il loro rifuggire dall’infanticidio dei figli:
Tac., Germania 19:
Nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur. …
Numerum liberorum finire aut quemquam ex adgnatis necare flagitium habetur,
plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges[11].
La testimonianza è
chiara: l’uccisione dei figli da parte degli agnati era delitto, mentre erano
apprezzabili i boni mores[12],
orientati in direzione opposta, cioè, della salvezza di tutti i nati.
La chiusa che lodava i
buoni costumi germanici al confronto delle buone leggi esistenti altrove, mi
pare, di estremo interesse. Vi è profilata una contrapposizione tra un’endiadi
(i costumi e le leggi) che normalmente erano rappresentate in chiave simbiotica[13].
Mi sembra che Tacito esprimesse la consapevolezza che il tema della sorte dei
neonati non potesse essere esaminato esclusivamente in base alle leggi[14];
inoltre, l’aggiunta della puntualizzazione che i mores da apprezzare
dovessero essere quelli boni potrebbe tradire, da parte dell’autore
romano, un’esplicitata reazione contro il costume del suo tempo, da lui
stigmatizzato e contrapposto ai costumi ‘buoni’, ritenuti degni di
apprezzamento e da preferire persino alle buone leggi[15].
Considerazioni in parte
analoghe suscitano le parole di Filone.
L’autore nel De
specialibus legibus dice che gli Ebrei, a differenza di molti altri popoli,
non esponevano i propri figli alla nascita:
Philo, De spec. Legib. XX:
Il brano, che
proseguiva con considerazioni concernenti la contrarietà alla Natura della
soppressione dei neonati[16],
desume il divieto d’infanticidio da una precedente prescrizione: quella che
vietava l’aborto quando il feto fosse completamente formato[17].
Perciò il divieto di
esposizione risulta desunto da Filone, piuttosto che formulato espressamente,
come, peraltro, lo stesso autore diceva in chiusura del paragrafo, dove
desumeva la punibilità dell’infanticidio dal fatto che, una volta nato, il
bambino era da considerare uomo a tutti gli effetti, di modo che la sua
soppressione rientrasse nella punizione dell’omicidio[18].
Che Filone annoverasse
i Romani tra i popoli che praticavano l’infanticidio e soprattutto
l’esposizione è verisimile.
Ma il punto è se egli
considerasse la legislazione o la prassi, sia pure corrente.
L’andamento del suo
racconto mi pare indicare che egli guardasse alle situazioni fattuali, cioè ai
comportamenti, piuttosto che a norme specifiche: tant’è che egli non si
riferiva a nessuna prescrizione esplicita e desumeva la punizione
dell’infanticidio dal divieto di danneggiare la donna incinta (causandole
l’aborto) e dalla repressione dell’omicidio.
Cosa succedeva, in
realtà, a Roma, cui era rivolto il rimprovero di disumanità nell’abbandono dei
figli?
Partiamo dai dati
normativi.
Il più antico potrebbe
essere una disposizione dello stesso fondatore della Città, Romolo.
Dionigi di Alicarnasso
(vissuto nell’ultimo secolo della Respublica) afferma che Romolo non
avrebbe consentito ai padri di sopprimere i figli appena nati, ma
esclusivamente di esporli qualora fossero stati deformi e la deformità fosse
fatta costatare a cinque testimoni:
Dionigi, Rhomaikè archaiología (Antichità
romane) 2.15.2:
Il retore, noto per la
sua esemplare diligenza, faceva dipendere addirittura lo sviluppo della Città proprio
dal fatto che Romolo vietò l’uccisione dei neonati maschi e delle primogenite,
costringendo i padri ad allevarli, salvo che fossero nati deformi o mostruosi.
Nel qual caso consentí anche che i genitori li esponessero, ma soltanto dopo
avere fatto costatare la deformità da cinque vicini[19].
Stando a questa
testimonianza parrebbe che l’infanticidio, per i maschi e per le primogenite,
di norma non fosse consentito, salvo nelle ipotesi di deformità[20],
le quali, peraltro, ponevano in discussione la nascita di un essere umano[21].
Le sanzioni previste
contro gli infanticidi erano molto severe e molteplici, arrivando alla confisca
di metà del loro patrimonio.
Emergerebbe, perciò, un
divieto generale d’infanticidio, addirittura visto da Dionigi come uno dei
motivi della grandezza di Roma, la quale, a suo dire, sarebbe diventata grande
e popolosa proprio a causa di quel divieto. L’elogio, in tal modo rivolto a
Romolo e, per lui, a Roma non è di poco conto: infatti la ‘crescita’ era, in
generale per gli antichi e nello specifico per i Romani, il cardine di tutta la
‘vita’ del popolo[22].
Si può discutere, come
si è discusso[23],
dell’effettiva provenienza da Romolo del provvedimento, ma, alla luce di
un’affermazione di Cicerone, riterrei indubbia la sua appartenenza al periodo
più risalente della storia di Roma. L’Arpinate pare richiamare, in via generale
e senza distinzione tra bambini e bambine[24],
il divieto di infanticidio con la sola eccezione dei nati deformi[25],
prevista nelle XII tavole:
Cic., De leg. 3.8.19: cito (necatus)
tamquam ex XII tabulis insignis ac deformitatem puer[26].
Le parole dell’Arpinate
trovano eco in una fonte, probabilmente proveniente dal giurista Gaio, il
quale, come è noto, sebbene del II secolo d.C. prestava molta e fedele
attenzione alla storia degli istituti[27],
dove il divieto di uccisione del figlio appare generalizzato, salvo che vi
ricorresse una giusta causa:
Gai
Augustodunensia 4.86: De filio hoc tractari crudele
est, sed …. Non est post … r
…occidere sine iusta causa, ut constituit lex XII tabularum.
Se si tiene presente
che la codificazione decemvirale, delle XII tavole, dovette costituire una
stabilizzazione del diritto più antico[28],
si può forse concedere credito a Dionigi.
In ogni modo, anche se
l’attribuzione a Romolo sia inverosimile, rimane comunque significativo che,
alla fine dell’età repubblicana, l’infanticidio e la correlata esposizione dei
neonati dovessero essere considerati illeciti e si fosse convinti che il loro
divieto avesse radici profonde e radicate nell’antico jus; tanto da
avvertire l’esigenza di farle risalire, emblematicamente, perfino alle origini
di Roma ed al suo mitico fondatore.
In conclusione,
l’osservazione di Dionigi non può essere accantonata e testimonia l’elaborazione
di un’articolata normativa tendente a vietare, in termini generali,
l’infanticidio, salvo alcune ristrette eccezioni[29].
Sorge, però, un dubbio.
Come si concilierebbe l’obbligo
di allevare i figli fino a tre anni con i poteri riconosciuti al paterfamilias
ed in particolare con gli istituti del tollere liberos e dello ius vitae ac necis[30]?
Se, come si sostiene,
il padre, ai cui piedi, per terra, veniva deposto il figlio, era libero di
sollevarlo (con il che l’avrebbe riconosciuto come proprio) o meno
(abbandonandolo), non si comprende come potesse essere, invece, vincolato
dall’obbligo di allevare il figlio almeno fino ai tre anni. Invece è del tutto
plausibile una forma di tutela diretta dei nati[31].
In via preliminare
proprio il riferimento (di Dionigi) ai tre anni mi pare degno di nota, perché
quell’età sembra appartenere alle più arcaiche visioni concernenti i fanciulli
in Roma e rinviano all’età predecemvirale[32].
Il che offre un
elemento a favore della credibilità di quanto Dionigi affermava, di modo che
siamo avvertiti di andare cauti prima di negargli attendibilità. Tanto più che
l’Alessandrino potrebbe essere testimone di una tensione – non inconsueta in
materia di diritto famigliare, là dove si trattasse di fare i conti con
ancestrali costumi delle famiglie - tra pratica e legislazione, la quale
spingeva sovente quest’ultima a porre degli argini all’arbitrio ed alla
inaccettabilità di costumi non più tollerati dall’evoluzione socio-culturale[33].
Inoltre, va tenuto
presente che il rito arcaico, connesso alla simbologia della Madre-Terra e
diffuso a lungo[34],
in realtà non era legato all’acquisizione della patria potestas ed
all’ingresso del nato nella familia, ma rappresentava il residuo di un
rituale che via via perdette di importanza. Esso sembra ininfluente sulla
condizione di figlio[35]. La stessa espressione tollere liberum
assunse significati generici e diventò sinonimo di procreare o allevare un
figlio, secondo accezioni che sono le uniche presenti nelle fonti della
giurisprudenza romana[36].
Perciò l’obbligo, attribuito a Romolo da Dionigi, di allevare i neonati non
sarebbe in contrasto con il rito del tollere liberos, nel senso che ne
avrebbe contrastato la durezza e la disumanità[37].
Forse ha colto nel
segno il Voci, affermando: «Non è la patria potestà a rendere lecite (di
diritto e di fatto) l’esposizione e l’uccisione: quella che vige è la legge del
piú forte, di cui usano gli adulti, spinti da miseria, pregiudizio, vendetta»[38]
In altre parole quei comportamenti, piuttosto che essere legittimati dal
diritto, sono conseguenze della pratica, vale a dire, della vita quotidiana,
con le sue pulsioni e passioni non sempre razionali e giuste.
Per lo storico è
importante ricostruire la complessità del vissuto e del suo ordito, cercando di
cogliere i concetti, i valori ed i princípi che si affacciavano nell’esperienza
antica, non necessariamente uniforme e razionale.
C’è, tuttavia, da
chiedersi se il divieto d’infanticidio, attraverso l’eliminazione o
l’abbandono, sia stato pari per i bambini e per le bambine.
In verità sembra che
riguardo alle bambine vi fosse un trattamento di maggiore permissività delle
forme di soppressione; il quale concerneva sia l’uccisione tout court
sia l’esposizione.
Mi pare che esso appaia
indiscutibile, sia nel dettato di Dionigi, il quale parlava della possibilità
di uccidere le figlie nate dopo la primogenita, sia in quanto sappiamo da altre
fonti[39].
Un papiro proveniente dall’Egitto esponeva nella sua cruda brutalità la (direi)
normalità dell’abbandono delle neonate. Nel 29 a.C. un soldato, di stanza in
Egitto, scriveva alla sorella per rassicurarla che avrebbe inviato i soldi
appena possibile e, saputo che la moglie era incinta, impartiva la secca disposizione
«se è un maschio, che viva, se è una femmina, esporla»[40].
Il disfavore per le
femmine potrebbe essere stato motivato da almeno due circostanze: la monogamia
e la disciplina della dote. Mi pare evidente che nelle società monogamiche la
possibilità di matrimonio per le figlie è limitata e meno facile che nelle
società poligamiche; sicché un padre doveva essere indotto a preoccuparsi per
il futuro delle figlie, dipendente principalmente dal matrimonio, dato che le
fanciulle erano escluse dalla vita pubblica e da molte delle attività che per i
Romani erano fonte di guadagno. A ciò si aggiungeva l’obbligo di dotare le
figlie, poiché, a differenza di altri popoli (specialmente di quelli a cultura
poligamica), il marito non offriva nessuna ricompensa al padre della sposa (per
averla in moglie); anzi, all’opposto, pretendeva e riceveva un considerevole
patrimonio (soprattutto fondi), di modo che il padre della ragazza doveva
provvedere a fornirle una congrua dote, senza la quale, quindi, essa non si
sarebbe potuto sposare[41].
Tutto ciò doveva giustificare la considerazione negativa della nascita di
figlie e, agli occhi dei Romani, poteva contribuire a giustificare la loro
esposizione.
Ciò doveva ispirare
comportamenti che il diritto tendeva a superare.
Alla
luce di tali dati[42]
non sembrerebbero motivati né l’accusa rivolta da autori come Filone o gli
scrittori cristiani né le pervasive affermazioni, secondo le quali per i Romani
l’infanticidio sarebbe stato lecito e diffuso: occorre, però, distinguere
adeguatamente tra norme e pratica; perché se (come sembrano fare autori
antichi, quale Filone, e contemporanei[43]) si confondono
i due piani, c’è il rischio di conclusioni fuorvianti.
L’esperienza romana
pare essere stata altra ed aver maturato in misura sempre più tassativa la
convinzione dell’illiceità dell’infanticidio. La percezione della delittuosità
della soppressione dei nati, in qualsiasi modo perpetrata, dovette essere
sempre più netta ed appare evidente in un’asserzione del giurista Paolo, il
quale, nell’età dei Severi, affermava, in termini generali e (mi pare)
tassativi, che ogni forma d’infanticidio era da considerare uccisione:
D. 25.3.4, Paul. l.
2 sententiarum: Necare videtur non
tantum is qui partum praefocat, sed et is qui abicit et qui alimonia denegat et
is qui publicis locis misericordiae causa exponit, quam ipse non habet[44].
Il brano era contenuto
nelle ‘Sententiae’, cioè in un’opera
che non si preoccupava tanto di individuare il diritto applicato, ma tendeva a
dare nozioni generali ed astratte, sotto forma di dichiarazioni di principio ed
esprimeva più indirizzi e orientamenti che normative concrete[45].
Di conseguenza esso, di là dalla disciplina concreta, doveva essere espressione
del convincimento diffuso all’epoca di Paolo e da lui riassunto in una
enunciazione di carattere generale, in base al quale credo che si desse per
scontato che l’infanticidio costituisse uccisione, con tutte le conseguenze che
da ciò sarebbero dovute derivare.
Il termine (necare) usato dal giurista appare non
generico, bensì, «sfumatamente tecnico, … indicherebbe un modo non cruento di
uccidere»[46],
assimilando l’infanticidio diretto all’abbandono, vale a dire all’esposizione e
alla mancata alimentazione.
Gli interpreti
contemporanei, particolarmente nel secolo scorso, hanno ritenuto che
l’affermazione contenuta nel brano non possa risalire a Paolo e al suo tempo[47].
Ma le motivazioni addotte non appaiono persuasive, perché sembrano conseguenza
di una forzatura aprioristica, cioè della convinzione che il giurista severiano
non avrebbe potuto enunciare in via generale un divieto di infanticidio, per il
fatto che loro sono convinti che al suo tempo un tale divieto non sarebbe maturato,
poiché vi sarebbe stato ancora l’arbitrio assoluto dei padri di famiglia,
detentori del potere di uccidere i propri figli (ius vitae ac necis)[48].
In realtà, lo ius vitae ac necis fu riconosciuto
soltanto dinanzi a casi estremamente gravi, fino alla scomparsa, avvenuta
progressivamente e certamente durante il basso impero, mentre già «le piú
antiche consuetudini giuridiche romane, gli antichi mores, legittimavano il padre ad una repressione così grave solo
dopo che si fosse consultato un consiglio di parenti ed amici, indicato
generalmente, ma non del tutto esattamente, come un iudicium domesticum»[49].
Inoltre nel sistema
aperto, quale era quello del diritto romano, la soppressione immotivata della
prole dovette essere sanzionata dai Censori, i quali dovevano ergersi a
baluardo della ‘crescita’ delle famiglie (e, con esse, della Città) in maniera
efficace. Il tutto fece sì che il diritto di uccisione venisse sempre più
limitato e visto con disfavore, persino quando il figlio fosse palesemente
colpevole[50].
Tutto ciò mi spinge a
ritenere che l’affermazione di Paolo sia degna di fede ed esprimesse un sentire
comune contro l’infanticidio e l’esposizione: l’infanticidio, sotto qualsiasi
forma perpetrato, in via di principio, era riprovevole perché considerato uccisione[51].
In questa direzione,
punto di arrivo e, secondo la maggioranza degli interpreti contemporanei, forse
provvedimento esclusivo e definitivo fu nel IV secolo (d. C.) una costituzione
dell’imperatore Valentiniano I, che porta anche i nomi di Valente e Graziano[52],
con la quale non solo si vietò l’esposizione dei neonati e, perciò stesso, ogni
forma d’infanticidio, ma fu comminata la pena di morte per i trasgressori:
C. 8.51.2 pr.: Imppp. Valentinianus Valens et Gratianus AAA. Ad
Probum p.p.: Unusquisque
subolem suam nutriat. Quod si exponendam putaverit, animadversioni quae
constituta est subiacebit. D. III non. Mart. Grat. A. III et Equitio conss.
(a. 374)[53].
L’imperatore diceva che
chi avesse esposto il figlio sarebbe stato sottoposto alla pena stabilita.
La natura della pena
richiamata da Valentiniano ha suscitato un nutrito dibattito[54].
In che consisteva la
pena (animadversio) e, poiché si
faceva riferimento alla pena ‘stabilita’, quando era avvenuta la sua
previsione?
Probabilmente il brano
va letto tenendo presente che, come affermava Paolo, già più di un secolo prima
per i giuristi dell’età dei Severi (III sec. d.C.) era fuori dubbio che
l’esposizione dovesse essere equiparata all’uccisione e come tale sanzionata[55].
Più verosimilmente il
richiamo potrebbe concernere precedenti provvedimenti degli stessi imperatori.
Il brano di C. 8.51.2
era del marzo del 374 ed appare preceduto da una costituzione emanata
all’incirca un mese prima e conservataci, in termini pressoché uguali, sia nel Codex Theodosianus sia nel Codex Iustinianus:
C.Th. 9.14.1 [= Brev. 9.11.1], Impp.
Valent., Valens et Grat. Ad Probum p. p.: Si quis necandi infantis piaculum
agressus agressave sit, erit capitale istud malum. PP. VII Id. Feb. Romae
Gratiano a. III et Equitio conss.
interpretatio: sive vir sive mulier infantem necaverit, rei
homicidii teneantur[56]
(a. 374).
C. 9.16.7,
Valent. Valens Grat.: si quis necandi infantis piaculum adgressus adgressave sit,
sciat se capitali supplicio esse puniendum. Valentin. Valens et Grat. AAA. Ad Probum
pp. PP. VII Id. Febr. Romae Gratiano a. III et Equitio conss.[57]
(a. 374).
La costituzione del Febbraio
si occupava della pena da comminare verso gli infanticidi ed era chiara nel
prevedere, per essi, la pena di morte, senza differenza tra la soppressione di
un maschio o l’uccisione di una bambina. È verosimile che fosse a questa pena,
da lui emanata poco prima, che si riferisse Valentiniano nel Marzo dello stesso
anno (374), in una costituzione avente gli stessi promotori e lo stesso
destinatario[58].
Si concludeva così un
lungo cammino, del quale qui non ho potuto ricostruire tutti i passaggi; esso
già da secoli aveva portato alla condanna anche penale del padre che avesse
abusato dei suoi poteri, uccidendo il figlio. La punizione, in antico, doveva
concernere i casi d’infanticidio commesso fuori dalle ipotesi previste come
eccezione (di deformità e di assenza di forma umana) e senza l’approvazione del
iudicium domesticum[59].
Essa era fuori discussione già forse sul finire del principato e certamente nel
tardo antico e al tempo di Giustiniano (VI sec. d. C.), poiché, peraltro, il ius vitae ac necis del pater fin dal tempo di Costantino era
«ridotto a mero ricordo di antichi e più duri costumi»[60].
L’apparente conflitto
tra poteri del padre e limite all’esercizio della facoltà di soppressione del
figlio in realtà era risolto all’interno della complessità del sistema
giuridico romano, nel quale interagivano più ordinamenti[61]:
nello specifico quello delle famiglie (inglobante l’esame del cosiddetto iudicium domesticum) e quello della Civitas, con l’incessante e vigile
controllo dei Censori. Inoltre in età imperiale si crearono ulteriori spazi con
la cognitio extra ordinem (che
conferiva al giudice nuovi poteri di valutazione sul comportamento dei padri) e
i numerosi e, spesso, avveduti interventi dei prìncipi, i quali seppero cogliere
e disciplinare le nuove esigenze ispirando sia valori più consoni e ai criteri
di humanitas e benignitas.
La facoltà,
riconosciuta ai padri di famiglia, di decidere la sorte dei figli non può essere
intesa come conferimento di poteri arbitrari e capricciosi, bensì come
mantenimento in capo ai padri di famiglia di poteri in materie (come il diritto
alla vita) che la Civitas tendeva a
considerare propri e che, perciò, andavano esercitati in conformità al nuovo
ordinamento della Città (oltre che della familia)
e sotto un costante e pressante controllo sociale.
M.P. Baccari, Curator ventris. Il concepito, la donna e la res publica tra
storia e attualità, Torino 2012; EAD.
Concepito: l’antico diritto per il nuovo millennio, Giappichelli,
Torino, 2004; L. Capogrossi-Colognesi,
v. Patria potestà a) dir. rom., in ED XXXII, Milano 1982; L. Capogrossi-Colognesi, Tollere
liberos, in Mél. D’Archéol. et d’Hist. École Franç. Rome, 102, Roma
1990, 107 ss.; F. Lanfranchi, «Ius exponendi» e
obbligo alimentare nel diritto romano-classico, in SDHI 6 (1940); F. Lanfranchi, Ricerche sulle azioni di stato nella filiazione in diritto romano II.
La c.d. presunzione di paternità, Bologna 1964; C. LORENZI, “Sull’infanticidio nel diritto tardo
imperiale”, in Atti dell’Accademia
Romanistica Costantiniana. Organizzare sorvegliare punire. Il controllo dei
corpi e delle menti nel diritto della tarda antichità. In memoria di Franca De Marini Avonzo, 2013, 779 ss. A. Romano,
Tollere liberos: Uomo, donna e potere, in Sodalitas, II, Napoli
1984, 881 ss.; A. Rousselle, La
politica dei corpi: tra procreazione e continenza, in G. Duby – M. Perrot, Storia delle
donne. L’antichità [cur. P. Schmitt Pantel], Bari 1990, 330; S. Tafaro, Pubes e viripotens nell’esperienza
giuridica romana, Bari 1988; ID., Ius hominum causa constitutum. Un
diritto a misura d’uomo, Napoli 2009, partic., 58 ss.; P. Voci, Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano,
in Iura 31 (1980), 80 s.
Un aspecto fundamental para el reconocimiento del 'derecho a la vida' es el
de la admisibilidad o no del infanticidio. Para el derecho romano el
interrogante se vincula con los poderes del pater familias, a quien correspondía
el ius vitae et necis. Frente a esta facultad de los padres se pregunta si es
sostenible el reconocimiento en la experiencia del derecho romano del derecho a
la vida y si, en consecuencia, era prohibido el infanticidio. En relación con
este asunto son analizadas diversas fuentes, arribando a la conclusión de que
su lectura integrada lleva a afirmar que los derechos a nacer y ser criados
caracterizaban la sociedad romana, si bien se perseguían a través de complejas
y sofisticadas articulaciones, que preveían el respeto de los boni mores, y se
confiaban no a la prohibición del acto, sino más bien a la intervención del
consejo de la familia y de los Censores. El aparente conflicto entre los
poderes del padre y la prohibición de supresión de los hijos era resuelto en
realidad al interior del complejo sistema jurídico romano, en el que
interactuaban varios ordenamientos, específicamente el de las familias (que
engloba el examen del llamado iudicium domesticum) y el de la Civitas, con el
incesante y atento control de los Censores. Además, en edad imperial se crearon
ulteriores espacios, tanto en la cognitio extra ordinem (que confería al juez
nuevos poderes de valoración sobre el comportamiento de los padres), como con
las numerosas y, a menudo, perspicaces intervenciones de los príncipes, los que
supieron identificar y disciplinar las nuevas exigencias inspirándose en
valores más apropiados y en los criterios de humanitas y benignitas.
La facultad, reconocida a los padres de familia, de decidir la suerte de
los hijos, no puede ser entendida como la concesión de poderes arbitrarios y
caprichosos, sino como el mantenimiento en cabeza de los padres de familia, de
asuntos (como el derecho a la vida) que la Civitas tendía a considerar propios
y que, por tanto, eran ejercidos de conformidad con el nuevo ordenamiento de la
ciudad (a más del de la familia) y bajo un constante y fuerte control social; a
tal punto eficaz, que Dionisio consideraba la prohibición del infanticidio como
uno de los motivos de la grandeza de Roma.
[Per la pubblicazione
degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind].
*
Riproduco qui una riflessione destinata agli scritti in memoria di Fernando
Hinestrosa.
[1] S. Tafaro, Ius hominum causa constitutum. Un diritto a misura d’uomo,
Napoli 2009, partic., 126 ss.
[2] Il
codice penale italiano, al tit. XII capo I, contempla l’infanticidio tra i
delitti contro la vita e l’incolumità individuale, assimilandolo
all’omicidio e differenziandolo nella pena (più lieve) qualora sia compiuto per
causa d’onore (artt. 575, 578).
[3] Al
diritto romano risalgono diversi studiosi del diritto penale attuale: v., per
tutti, C. Fiore, v. Infanticidio, in ED XXI, Milano 1971.
[4] Tra
esse, centrale appare la Convenzione Internazionale sui diritti
dell’infanzia, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20
novembre 1989, a New York. Altri riferimenti sono costituiti dalla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali,
dalla Carta sociale europea del 1996, dalla Convenzione europea sull’esercizio
dei diritti dei minori del 1996 entrata in vigore il 1° luglio 2000, dal Patto
de San José de Costa Rica, del 1969.
[5] È,
questa, la tesi di fondo di un classico del pensiero contemporaneo: G. Östreich, Storia dei diritti
umani e delle libertà fondamentali [cur. G.
Gozzi], Roma-Bari, 2001.
[6] V., ad
esempio, il dibattito svoltosi nel 1996 in seno alla 50a sessione della Société
Internationale Fernand De Visscher pour l’histoire des droits de l’antiquité
(SHIDA): v. Aa. Vv., Le monde
antique et les droits de l’homme [cur. H.
Jones], Bruxelles 1998.
[7] Cfr.: M. Talamanca, L’antichità e i
‘diritti dell’uomo’, in Convenzione del Consiglio d’Europa per la
protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, Atti dei
Convegni Lincei, 174, Roma 2001, 51.
[8] T. HONORÉ, Les droits de l’homme chez Ulpien, in Aa. Vv., Le Monde Antique et les Droits de
l’Homme (ed. H.Jones, 1998) 235-253
[9]
Emblematica della citata e diffusa tendenza può ritenersi l’affermazione, che mi
sembra guardare il mondo antico secondo schemi dell’oggi, di Aline Rousselle: «L'eliminazione
dei neonati. Tacito, nel riferire che i Germani considerano disonorevole
limitare la dimensione delle famiglie, fa intendere come questo fosse un
problema della società romana. Notava anche la condanna dell'infanticidio da
parte degli Ebrei, da lui giudicati lussuriosi perché facevano fare troppi
figli alle loro mogli. Ci si meravigliava inoltre che gli Egiziani tenessero
tutti i figli nati. Gli Ebrei dell'età imperiale, come Giuseppe Flavio nel I
secolo, evidenziano la loro diversità rispetto ai Romani proprio sul punto
della conservazione di tutti i figli. Nella stessa Roma, durante l'Impero, le
leggi di Augusto potevano indurre a conservare solo i primi tre figli.
L'esposizione dei figli maschi era consentita allo stesso modo di quella delle
femmine: legalmente, esisteva quindi un principio di parità». Così A. Rousselle, La politica dei corpi:
tra procreazione e continenza, in G.
Duby – M. Perrot, Storia delle donne. L’antichità [cur. P. Schmitt Pantel], Bari 1990, 330.
[10] Il
punto non è di poco rilievo. Basti pensare che ancora oggi, pur in presenza di
normative cogenti contro l’infanticidio, le cronache sono ricche di notizie
relative a pratiche di infanticidio e di bambini abbandonati persino nei
cassonetti della spazzatura!
[11] Trad.:
Perché là i vizi non fanno sorridere e il corrompere e l'essere corrotti non
si chiama moda. … Limitare il numero dei figli o ucciderne qualcuno dopo il
primogenito è considerata colpa infamante e lì hanno più valore i buoni costumi
che non altrove le buone leggi.
[12] Sul
senso e sulla portata dei boni mores v. J. Plescia, The Development of the Doctrine of «Boni
Mores», in RIDA 34 (1987), 265 ss., cui adde: E. BALDACCI: “Buoni costumi”, in Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, (diretta da E.
Sgreccia e A. Tarantino) II, Napoli 2009, 435 ss; “Censimento” e “Censori”, in Enciclopedia di Bioetica e Scienza
Giuridica, cit., III, Napoli 2010, 153 ss.
[13] Mi
limito a citare la proposizione del giureconsulto Gaio (2° sec. d. C.), secondo
la quale i popoli (ed in primo luogo il popolo romano) sono regolati da leggi e
costumi: Gai 1.1 (= D. 1.1.9): Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur
... D’altra parte in tutta l’antichità l’endiadi mores-leges è
caratterizzante degli ordinamenti dell’antico Mediterraneo, come appare anche
nel «codice di Gorthina»: v. M. Bretone,
Storia del diritto romano, Bari 1987, 106.
[15] La
necessità di specificare che il richiamo ai mores dovesse concernere
quelli boni compare durante l’impero e, oltre ad introdurre una
valutazione selettiva dei costumi, sembra «stabilire un rinvio a concezioni
ancora più generali…»: S. Tafaro,
Regula e ius antiquum in D. 50.17.23. Ricerche sulla responsabilità
contrattuale I, Bari 1984, 71. Poiché Tacito inseriva il richiamo ai mores
boni dopo aver stigmatizzato i costumi ‘di moda’, ben si potrebbe scorgere
nella sua specificazione la sottolineatura della necessità di far vivere i
costumi ispirati a princìpi consolidati e non effimeri.
[16] Tr.: Questa
ordinanza comporta il divieto di qualcos’altro di più importante, l’esposizione
dei neonati, una pratica sacrilega, che, radicata presso molte altre nazioni,
per la loro disumanità, ha finito per essere considerata con compiacimento.
Il brano si addentrava
nella spiegazione dell’assunto, deducendo il divieto dell’uccisione dei neonati
dal fatto che era vietato l’aborto. Tal che, osservava Filone, se andava
salvato il bambino non nato, a maggior ragione bisognava affermare la stessa
cosa per il bambino nato con l’aspettativa di entrare nella nuova patria
(quella del genere umano) e diventare partecipe dei doni della natura, in modo
da potere attingere ai doni dalla terra, dall’acqua, dall’aria e dal cielo.
L’a., perciò, denunciava la disumanità e la contrarietà alla natura dell’atto
dei genitori che strangolavano o annegavano o, comunque, buttavano via i propri
figli.
[18] Philo,
De spec. leg. XX.117, dove Filone parla di proibizione implicita da
parte di Mosè e deduce che l’uccisione di un bambino è ancora più turpe
dell’uccisione di un adulto, poiché, se l’adulto potrebbe avere provocato l’ira
o l’indignazione e la conseguente eccessiva punizione a causa di suoi eventuali
comportamenti, nessuna accusa potrebbe essere ipotizzata verso chi ha appena
vista la luce; perciò, aggiungeva l’autore, a mio parere l’infanticidio dà
motivi d’indignazione ancora maggiori.
[19] Tr.: Con
queste istituzioni Romolo ha sufficientemente regolamentato e adeguatamente
ordinato la città sia per la pace sia per la guerra; ed egli l’ha resa grande e
popolosa con i seguenti mezzi. In primo luogo, ha costretto gli abitanti ad
allevare tutti i loro figli maschi e le primogenite delle femmine, e proibí di
uccidere tutti i bambini sotto i tre anni di età, a meno che non fossero
mutilati o mostruosi fin dalla loro stessa nascita. Questo non vietava ai loro
genitori di esporli, a condizione che prima li avessero mostrati a cinque loro
vicini piú prossimi e questi l’avessero approvato. Contro gli inottemperanti a
questa legge ha fissato diverse sanzioni, tra cui la confisca di metà della
loro proprietà.
[20] La
norma non dovrebbe avere introdotto un obbligo di soppressione, bensí avrebbe
lasciato il genitore libero di decidere se procedere all’uccisione, senza
penalizzazione per lui, o di tenere il neonato deforme ovvero di esporlo. A
prima lettura, la prescrizione pare avere consentito la soppressione libera delle
figlie, ad eccezione delle primogenite. Le bambine certamente sarebbero state
soppresse o esposte, qualora fossero state deformi, perché esse, normalmente
viste come peso per la familia, certamente non sarebbero state mantenute
in vita proprio quando, a causa della deformità, sarebbero state di maggiore ed
insostenibile aggravio. Focalizza la situazione L. Capogrossi-Colognesi, Tollere liberos, in Mél.
d’Archéol. et d’Hist. École Franç. Rome, 102, Roma 1990, 111: «Se
scomponiamo il testo di Dionigi nei diversi precetti, possiamo individuare
distinti campi di applicazione. Una normativa volta a sancire l'obbligo di
allevamento dei figli maschi e delle primogenite femmine. In secondo luogo una
regolamentazione di quella che parrebbe l'esplicazione del ius vitae ac
necis del pater familias. Infine il particolare regime dei nati
deformi o mostruosi. In modo del tutto residuale, poi, parrebbe trasparire
un’altra situazione relativa al regime di esposizione degli infanti».
[21] Cfr., L. Pellegrino, v. Forma umana,
in Enciclopedia di Bioetica e Scienza
giuridica, cit., VI, Napoli 2013, 481 ss., cui rinvio per le fonti e la
bibliografia; adde L. Monaco,
Percezione sociale e riflessi giuridici della deformità, al momento
consultabile all’indirizzo online: users.unimi.it/dikeius/prin_file/nap2/monaco.pdf.
[22] Lo
stesso etimo populus potrebbe derivare da una radice (indoeuropea) che
significa ‘crescita’, come suggestivamente ipotizzava Francesco De Martino. Il
concetto e l’idea della ‘crescita’ ha costituito l’ideale di tutta l’evoluzione
della storia di Roma: cfr., da ultimo, S. Tafaro,
Ius hominum causa constitutum. Un diritto a misura d’uomo,
cit., partic., 58 ss. ed ivi ntt. 151-98. Fecondi e perspicue osservazioni
intorno all’idea di crescita si trovano nei lavori della Baccari ed in
particolare in M.P. Baccari,
Il concetto di civitas augescens: origine e continuità, in SDHI,
LXI (1995), 760 ed ivi nt. 9; Ead.,
Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI,
Torino, 1996, partic. 57 ss.; Ead.,
Concepito: l’antico diritto per il nuovo millennio, Torino 2004, partic.
47 ss. L’a. in più riprese ha rivolto l’attenzione al sintagma civitas
auguscens ed alle sue proiezioni, sviluppando le suggestioni suscitate
dall’ipotesi formulata dal Catalano – P.
Catalano, Diritto e persone – studi su origine e attualità del
sistema romano, I, Torino 1990, XV, secondo il quale l’idea di crescita
della Città ebbe implicazioni che andavano ben oltre i fatti interni della Civitas.
[23] V. L. Monaco, loc. cit. Va tenuto presente che parte dei
commentatori hanno ritenuto che il brano di Dionigi non fosse null’altro che
una falsificazione ellenistica o, al più, il contenuto di precetti meramente
religiosi, oppure la trasposizione di princìpi correnti in Sparta: v., in
proposito, F. Lanfranchi, «Ius
exponendi» e obbligo alimentare nel diritto romano-classico, in SDHI
6 (1940), 26 nt. 85.
[24] Non mi
pare che si andrebbe lontano dal vero ipotizzando che già tra la fine della
monarchia e gli inizi della repubblica il divieto fosse stato generalizzato,
facendo cadere la distinzione tra maschi e femmine e rimettendo alla
valutazione del iudicium domesticum e/o (probabilmente dalla metà del V
secolo) dei censori la fondatezza o meno del motivo che potesse giustificare la
soppressione (oppure l’esposizione).
[25] Una
singolare lettura della disposizione è stata tentata dallo studioso brasiliano
Silvio Meira, il quale ha ipotizzato che la facoltà di soppressione o di
esposizione concernesse soltanto i maschi, per il fatto che sarebbero stati
inadatti alla guerra, e non le bambine: S. Meira, Os seres monstrosos em face do
direito romano e do civil moderno,
in Revista de informaçao legislativa, Brasilia 1987, 318 s. Mi sembra,
però, che l’ipotesi, certamente acuta ed ardita, dia una lettura quanto meno
singolare del dato testuale, il quale parlava della facoltà di soppressione
delle nate, oltre la primogenita, stabilendo un’assimilazione tra queste e i
figli maschi o le primogenite nate con deformità; in tal senso L. Capogrossi Colognesi, Tollere liberos, cit., 112: «Vi è un’eccezione al divieto
di uccidere i figli sotto i tre anni e si tratta di quelli caratterizzati da
mostruosità o deformazioni fisiche. Qui mi sembra però che il testo di Dionigi
presenti un'ambiguità che converrà sciogliere. In esso infatti la norma
relativa agli infanti mostruosi e deformi si presenta come eccezione al divieto
di uccisione dei figli sotto i tre anni. Ma a ben vedere l'opposizione appare
piuttosto alla sostanza dell'obbligo sancito per i maschi e le primogenite
femmine. Ed infatti, a differenza del dovere di allevamento di costoro (ektrefein),
vi è la possibilità di esporre i neonati deformi (ektithenai). Si tratta
certo di una sfumatura che mi sembra però abbastanza significativa. Dionigi
infatti, pur richiamandosi al limite dei tre anni come discrimine rispetto al ius
vitae ac necis del pater, sembra poi evocare la facoltà di
esposizione del neonato deforme che, in linea di massima, avverrà non appena
constatato il difetto nei giorni successivi alla nascita. Non è tanto la messa
a morte del deforme (o delle figlie non primogenite), nel corso dei primi tre
anni di vita che si afferma dunque, in opposizione al generale divieto di
uccidere i maschi e le primogenite femmine sotto tale età, quanto la
possibilità del loro abbandono (diversamente da questi ultimi) subito dopo la
loro nascita e non appena che i difetti fisici nel caso dei maschi o delle
primogenite femmine verranno adeguatamente constatati. Possibilità che si
afferma dunque quale eccezione all’obbligo di allevamento introdotto dalla
legislazione romulea e ricordato da Dionigi all'inizio di questo brano. Da
questo punto di vista il regime dei deformi e il regime delle femmine successive
alla prima appare identico».
[26] Tr.: Subito
ucciso, come secondo le XII tavole avviene per un bambino particolarmente
deforme… sul frammento v. L. Monaco,
loc. cit.
[27] A
tacer d’altro basti ricordare che il giurista dedicava un dettagliato spazio
alle ‘azioni di legge’ (legis actiones), scomparse da secoli ed abolite
da una lex Julia.
[28] Sul
punto, per tutti, v. L. Capogrossi
Colognesi, La Repubblica. Il codice decemvirale, in Aa. Vv. Lineamenti di storia del
diritto romano, Milano 1989, partic. 103: «Come si è accennato, i decemviri
dovettero utilizzare nella redazione del testo delle XII Tavole
“memorizzazioni” del contenuto dei mores che i pontefices avevano
fatto del periodo precedente».
[29] V. v. Infanticidium in PWRE IX-2, 1916, col. 1540; L. Capogrossi
Colognesi, v. Patria potestà a)
dir. rom., in ED XXXII, Milano 1982,
243 s.
[30] Il
fanciullino veniva posto per terra ai piedi del padre, che poteva sollevarlo,
spesso accogliendolo poi sulle proprie ginocchia, o ignorarlo: nel primo caso
il figlio sarebbe stato accolto in casa, mentre nel secondo caso il neonato
sarebbe stato esposto davanti alla porta di casa o vicino ad uno scarico di
rifiuti – col tempo si individuò una colonna (colonna lattea) come luogo
dell’abbandono dei figli -, in modo che chiunque lo potesse raccogliere: v. G. Bonabello, La
"fabbricazione" dello schiavo nell'antica Roma. Un’antropo-poiesi a
rovescio, in Forme di umanità [cur. F. Remotti], Milano 2002, 53.
Per le problematiche giuridiche implicate dal tollere, da ultimo, v. L. Capogrossi
Colognesi, Patria potestà, cit.; Id., Tollere liberos, cit., 107 e ss.
[31]
Osserva L. Capogrossi Colognesi,
Tollere, cit. 112: «In tal modo la posizione dei figli maschi e delle figlie
primogenite appare tutelata in duplice forma. Da una parte infatti vi è un
limite al potere coercitivo di vita e di morte del pater che non può
rivolgersi ai figli al di sotto dei tre anni di età, dall'altra vi è un obbligo
in positivo (o almeno una pratica assolutamente generalizzata) ad allevare
tutti costoro e che, ovviamente, non viene meno col terzo anno di vita non
potendo essi, aver raggiunti in tale età l'autosufficienza. Questo dovere
appare dunque generalizzato, mentre del tutto eccezionale e isolata appare
l'uccisione del figlio maggiore di tre anni».
[32] Sul
punto cfr. A. Wilinski, Maior
trimo. Granika wieku trzech lat w praie rzymskim (La limite d’age de
trois ans dans le droit romain), en Czasopismo prawno hostoryczne,
VII, Zeszyt 1, Warszawa, 1955, 45 ss.; G. Moschetta,
Le verborum obligationes contratte dagli infantes, in SDHI LXXIV (2008), 515 s. Gli a.
affermano che il richiamo ai tre anni operasse nel regime arcaico, nel quale il
riferimento per i comportamenti non era considerato in riferimento all’idoneità
a capire l’atto compiuto, bensí alla vincolatività per il gruppo di
appartenenza delle azioni di ciascun membro, in grado di compiere atti sia pure
istintivi. Invece fa riferimento ad una minima capacità di comprensione L. Capogrossi, Tollere, cit., 11 s.: «È
sembrato a vari studiosi e sembra a me che il limite dei tre anni al di sotto
del quale è fatto divieto di mettere a morte i propri figli sia legato
all'esigenza che in questi ultimi possa aversi un minimo di consapevolezza
delle proprie azioni e quindi di punibilità».
[33] Mi limito
a richiamare i casi della pubertà e del matrimonio. Il raggiungimento, da parte
dei figli, della pubertas (che per le donne era detta viripotentia)
era attestata dai padri, i quali la fissavano ad età disparate; la Civitas,
tramite soprattutto la mediazione dei giuristi ed alcune disposizioni
normative, cercò di dare ragionevolezza e certezza, stabilendo che la pubertà
dovesse ritenersi raggiunta soltanto con il compimento del 14° anno per il
maschi, o del 12° per le femmine. Ma il punto fu gravido di tensioni tra
pratica e diritto: cfr. S. Tafaro,
Pubes et viripotens nella esperienza giuridica romana, in Nomos, Revista do
curso de mestrado de direito, in UFC, 9/10, 1991, 209 ss.; Id., La pubertà in Roma. Profili
giuridici, Bari 1991 e 1993, 45 ss. Non meno aspra fu la tensione tra
prassi e normativa giuridica riguardo al matrimonio delle fanciulle: di fronte
ad una perdurante prassi, che non venne meno neppure con la diffusione del
cristianesimo, di far sposare le fanciulle in età precocissima, si stabilì
(principalmente da parte dei giuristi del principato e di alcuni imperatori)
che comunque la ragazza dovesse avere raggiunto i 12 anni: v. S. Tafaro, Pubes e viripotens nell’esperienza
giuridica romana, Bari 1988, 157 ss.
[34] V.,
principalmente, A. Dieteriche, Mutter
Erde. Ein Versuch über Volksreligion, Leipzig 1913; F. Lanfranchi, Ricerche sulle azioni di stato nella filiazione in diritto romano II La
c.d. presunzione di paternità, Bologna 1964, 12, il quale osservava «Un’opinione
diffusa, ma non pacifica, riporta questo rapporto del neonato con la Terra ad
una credenza della maternità di questa. Sia questa ipotesi fondata o meno,
resta il fatto che l'idea che il contatto col suolo – come elemento di
forza, come fattore di trasmissione di potenza al neonato o addirittura al fine
che questi divenga ‘lebensfähig’ –, è assai comune e credibile. Tutto ciò è
però sufficiente a farci comprendere che la fase della deposizione a terra del
nato rientra in un ambito di semplice costume profondamente permeato di
elementi sacrali e religiosi; e quindi per noi indifferente ai fini della
presente indagine e di una valutazione giuridica in generale. Il secondo tempo
della cerimonia è coordinato col primo; alla deposizione a terra segue – di
regola, deve pensarci – il sollevamento. E qui compare il tanto discusso ‘tollere’,
di cui il pedante, ma utilissimo Nonio Marcello grammatico – De conp. Doctrina 14-15, 682 (ed.
Lindsay) – ci tramanda il significato
differenziato, valido entro certi limiti: Inter tollere et auferre est
diversitas. Tollere est levare et erigere, auferre levatura trans/erre». V., anche per gli esaustivi
ragguagli bibliografici, A. Romano,
Tollere liberos: Uomo, donna e potere, in Sodalitas, II, Napoli
1984, 881 ss. ed ivi ntt. 2-3.
[35] Cosí
già S. Perozzi, Tollere liberum, in St. Simoncelli
I, 1917, 225 = Scritti giuridici III, Milano 1948, 95: «È comune - il
Perozzi continua – sia a chi dà il tollere questa funzione di costituire
le presunzioni posteriori circa la paternità, sia a quegli scrittori che questa
funzione non gli attribuiscono, l'idea che il tollere costituisca un
atto formale di riconoscimento della paternità fisica, e che il non tollere costituisca
un atto di disconoscimento ... L'ordinamento giuridico parentale della famiglia
romana sarebbe stato così meramente apparente, non sostanziale. La famiglia
sarebbe stata composta non di generati dal marito ma di riconosciuti dal
marito, quando è invece la discendenza naturale di fatto la base incrollabile
della familia, per quanto in alto risaliamo nel tempo». Tra la
letteratura recenziore, v, A.
Romano, Tollere liberos, cit., 887 s. «non ha piú senso domandarsi se ed
in qual misura la pratica del “tollere”
abbia effetti sulla determinazione giuridica della paternità. La paternità
legittima scaturisce, ora, inequivocabilmente dalla struttura stessa del
matrimonio romano, che è appunto preordinato “liberorum procreandorum causa”. Una volta contratte iustae nuptiae e avvenuta la nascita ex uxore e intra legitimum tempus, il paterfamilias
ha già accettato implicitamente la patria
potestas, di cui il gesto del sollevamento o il rifiuto di compierlo,
l’esposizione, la vendita o l’uccisione del nato non sono che manifestazioni».
Ma su tale posizione vi sono le riserve di L. Capogrossi Colognesi, Tollere
liberos, cit., 108.
[36] È
questa la penetrante tesi avanzata, contro l’opposta e diffusa opinione del
Volterra e del Gualandi, da P. Voci,
Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano, in Iura 31
(1980), 80 s. ed ivi nt. 196; l’a. afferma «nessun atto di riconoscimento è
necessario da parte del padre, che non potrebbe neppure, esponendolo,
togliergli la qualità di suus».
[37] In tal
caso si spiegherebbe la circostanza che «quanto all’infanticidio in generale,
Tertulliano, afferma che era largamente praticato nonostante il divieto
legale» – l’evidenziazione è mia -:
P. Voci, op. cit.,
81 ed ivi nt. 199, dove viene citato Tert.,
Adv. nat. 1.15 e si ricorda che, secondo Mommsen, il riferimento di
Tertulliano doveva essere alle leges regiae.
[40] P.Oxy IV.744.8-10., sul quale, per il punto qui esaminato, v. M. R. Lefkowitz-M. B. Fant, Women’s
life in Greece & Roma, Baltimore 2005, 249.
[41] Sul
punto, v., la voce Dote, in Enciclopedia
di Bioetica e Scienza giuridica, cit., IV, Napoli 2011, 826 ss.
[42] Il
testo di Dionigi sembra, peraltro, confermato da una osservazione di Lucio
Anneo Seneca, il quale pure riferiva della possibilità di uccidere i nati
esclusivamente nei casi di deformazione e/o mostruosità: Sen., De ira 1.15.2: Quid enim
est cur oderim eum cui tum maxime prosum cum illum sibi eripio? Num quis membra
sua tunc odit cum abscidit? Non est illa ira, sed misera curatio. Rabidos
effligimus canes et trucem atque inmansuetum bovem occidimus et morbidis
pecoribus, ne gregem polluant, ferrum demittimus; portentosos fetus
extinguimus, liberos quoque, si debiles monstrosique editi sunt, mergimus; nec
ira sed ratio est a sanis inutilia secernere. (Tr.: Che motivo ho,
infatti, di odiare un essere al quale giovo solo quando lo sottraggo a se
stesso? Forse qualcuno odia le sue membra, quando se le fa amputare? Quello non
è odio: è una cura tormentosa. Abbattiamo i cani rabbiosi, uccidiamo il bue
selvaggio e riottoso, trafiggiamo con il ferro le bestie malate perché non
infettino il gregge, soffochiamo i feti mostruosi, ed anche i nostri figli, se
sono venuti alla luce minorati e anormali, li anneghiamo, ma non è ira, è
ragionevolezza separare gli esseri inutili dai sani). Sul brano, ai nostri
fini, v. P. Voci, Storia della
patria potestas da Augusto a Diocleziano, cit., 81.
[43] Cfr., fra altri, D. Engels, The problem of female
infanticide in the Greco-Roman world, in Class. Philol. 75 (1980),
112-120; E. Eyben, Family Planning in
Graeco-Roman Antiquity, in Ancient society 11-12
(1980-1981), 5 ss.; W.V. Harris, The theorical possibility of
extensive infanticide in the Graeco-Roman world, in Class. Quart. 32 (1982),
114-116. Rivolge, invece, l’attenzione alla pratica, A. Rousselle, Vivre sous deux droit: la pratique familiale
poly-juridique des citoyens romains juifs, in Annales. Économies,
Sociétés, Civilisation 45 (1990), 839 ss.
[44] Paolo
l. 2 delle sentenze: Si considera uccidere non solo colui che soffoca il
nato, ma anche colui che lo abbandona, che gli nega gli alimenti e colui che lo
lascia in luoghi pubblici, esposto alla misericordia che egli stesso non ha.
[46] S. Faro, La libertas ex divi Claudii edicto. Schiavitù e valori morali nel I secolo d.C, Catania 1992, 52. Da
ultimo, M. P. BACCARI, Curator ventris.
Il concepito, la donna e la res publica tra storia e attualità, Torino
2012.
[47] F. Lanfranchi, «Ius exponendi» e
obbligo alimentare nel diritto romano-classico, cit., 20: «La dottrina ha
pensato che il passo, pervenutoci attraverso la compilazione, abbia subìto
delle gravissime alterazioni, sì da far dire a Paolo quello che doveva essere
il pensiero giustinianeo». Sul punto, cfr., ex
multis, C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari.
Problemi e ricerche di storia antica, Roma 1994, partic. 123 ss.
[48] Cfr.
F. Lanfranchi, «Ius exponendi» e
obbligo alimentare nel diritto romano-classico, cit., 23-25 ed ivi
letteratura (nelle note).
[50]
Emblematico sembra un caso avvenuto al tempo di Augusto, dal quale traspare
come non fosse più tollerata l’uccisione del figlio, al punto che quando esso
si rendesse meritorio di condanna il padre lo mandava in esilio, sentendosi pur
sempre impegnato a sostenerlo; nella fattispecie si può vedere quanto peso
avesse il ‘Tribunale domestico’: Sen., De Clementia, Liber I, 15. 1. 1. Trichonem equitem Romanum memoria nostra,
quia filium suum flagellis occiderat, populus graphiis in foro confodit; vix
illum Augusti Caesaris auctoritas infestis tam patrum quam filiorum manibus
eripuit. 2. Tarium, qui filium
deprensum in parricidii consilio damnavit causa cognita, nemo non suspexit,
quod contentus exsilio et exsilio delicato Massiliae parricidam continuit et
annua illi praestitit, quanta praestare integro solebat; haec liberalitas
effecit, ut, in qua civitate numquam deest patronus peioribus, nemo dubitaret,
quin reus merito damnatus esset, quem is pater damnare potuisset, qui odisse
non poterat. 3. Hoc ipso exemplo
dabo, quem compares bono patri, bonum principem. Cogniturus de filio Tarius
advocavit in consilium Caesarem Augustum; venit in privatos penates, adsedit,
pars alieni consilii fuit, non dixit; 'Immo in meam domum veniat'; quod si
factum esset, Caesaris futura erat cognitio, non patris. 4. Audita causa excussisque omnibus, et his,
quae adulescens pro se dixerat, et his, quibus arguebatur, petit, ut sententiam
suam quisque scriberet, ne ea omnium fieret, quae Caesaris fuisset; deinde,
priusquam aperirentur codicilli, iuravit se Tarii, hominis locupletis,
hereditatem non aditurum. [Trad.: A
nostra memoria (per quel che ricordiamo), Tricone, cavaliere romano per avere
ucciso suo figlio a colpi di frustra, fu trafitto di stilettate dal popolo nel
foro; a stento l’autorità di Cesare Augusto lo strappò dalle mani levate tanto
dei padri quanto dei figli. 2. Nessuno non guardò con ammirazione Tario, il
quale, dopo (attenta) investigazione condannò il figlio colto in flagranza di
tentativo di parricidio, accontentandosi dell’esilio e con un esilio delizioso
lo mantenne per parricidio a Marsiglia e gli attribuì una rendita annua, pari a
quella che gli dava senza variazione; questa generosità fece sí che nessuno
dubitasse che, in una città dove i peggiori non mancano di difensori,
fondatamente venisse condannato il reo che questo padre avesse potuto
condannare chi non aveva potuto odiare. 3. Ciò stesso ti darò come esempio, in
modo che paragoni al buon padre il buon principe. Tario per investigare sul
figlio chiamò nel consiglio Cesare Augusto; venne nella dimora privata,
sedette, fu parte del consiglio altrui, non disse: “piuttosto venga in casa
mia”; il che, se fosse stato fatto, avrebbe trasferita la competenza a Cesare,
non al padre. 4. Ascoltata la causa ed escussi tutti, sia quelli che
l’adolescente aveva citato a suo favore si quelli dai quali si provava (il
tentativo), chiese che ciascuno scrivesse la sua sentenza, onde evitare che
diventasse di tutti il parere di Cesare; poi, prima dell’apertura dei
codicilli, giurò che non avrebbe adita l’eredità di Tario, uomo facoltoso.]
[51] Per la
quale la punizione fin ab antiquo era
radicale e poteva comportare la morte: L. Capogrossi
Colognesi,v. Omicidio (dir. rom.), in ED XXIX, Milano 1979, 885 ss.
[52]
Rispettivamente fratello e figlio di Valentiniano; il primo associato subito
già nel 364; mentre Graziano, dal padre, era stato nominato Augusto nel 367.
[53] Tr.:
Imperatori Valentiniano Valente e Graziano Augusti a Probo prefetto del
pretorio: Ognuno deve nutrire i propri figli. E se li espose sarà sottoposto
alla pena stabilita per ciò. Giorno III delle none di marzo essendo
Graziano A. III ed Equizio consoli.
[54] Per le
diverse ipotesi d’individuazione della pena e, principalmente, sull’ambiguità
se essa consistesse nella perdita della patria potestà oppure nella pena di
morte, v. F. Lanfranchi, «Ius
exponendi» e obbligo alimentare nel diritto romano-classico, cit., 25
ss. Sui cambiamenti avvenuti nel tardo antico v., anche, C. LORENZI, Sull’infanticidio nel diritto tardo
imperiale, in Atti dell’Accademia
Romanistica Costantiniana. Organizzare sorvegliare punire. Il controllo dei
corpi e delle menti nel diritto della tarda antichità. In memoria di Franca De
Marini Avonzo, 2013, 779 ss. Cfr. P. FERRETTI, In rerum natura esse in rebus humanis non dum esse. L’identità del
concepito nel pensiero giurisprudenziale classico, Milano,
2008, 24 ss ed ivi nt. 44 con bibl.
[55] Ma, in
proposito, v. F. Lanfranchi, «Ius
exponendi» e obbligo alimentare nel diritto romano-classico, loc. cit., che menziona gli autori che
non ritengono collegabile la costituzione al frammento paolino.
[56] Tr.:
Gli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano al prefetto Probo: Se uno abbia commesso una scellerataggine al
fine di uccidere un fanciullo, ciò sarà considerato (delitto) capitale.
Emanata in Roma. PP. 7 delle idi di Febbraio sotto il consolato terzo di
Graziano e di Equizio.
[57]
Valentiniano Valente Graziano: Se uno
abbia commesso una scellerataggine al fine di uccidere un fanciullo, sappia che
sarà punito con la pena di morte. Emanata in Roma. PP. 7 delle idi di
Febbraio sotto il consolato terzo di Graziano e di Equizio.
[58] Per
differenti letture e immotivati sospetti di manomissione v. F. Lanfranchi, «Ius exponendi» e
obbligo alimentare nel diritto romano-classico, cit., 25 s.
[60] V. L. Capogrossi-Colognesi, Patria potestà, cit., 243. M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, 3a ed., Palumbo, Palermo 2006, 238
s. Costantino parlava di istituto vigente una volta (olim): C. 8.46.10.
[61] F. Lanfranchi, «Ius exponendi» e obbligo
alimentare nel diritto romano-classico, cit., 18; l’a., soffermandosi
sull’esistenza di un obbligo ad alimentare i figli (peraltro sottinteso già nel
brano, esaminato, di Dionigi), si chiedeva:«come si concilia questo principio
indiscusso con l’altro della piena libertà di esporre i figli, concessa al
padre? Come può questi esporre colui d’altra parte è tenuto ad alimentare?».
Acutamente notava che la spiegazione risiede nel fatto che vi «è conflitto tra
due ordinamenti, quello privato, interno, della famiglia e quello pubblico,
esterno dello Stato».