Università di Sassari
Il giuramento dei chierici
fra diritto romano e diritto canonico*
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La prospettiva cristiana. – 2.a. Il
giuramento nella Bibbia. – 2.b. Il giuramento nella
Patristica. – 2.c. Il giuramento nei Sinodi. –
2.d. Alcuni esempi di giuramenti di chierici. –
3. Il giuramento nella legislazione imperiale. – 4. Conclusioni. – Abstract.
Il tema di questa
ricerca è emerso dall’analisi di un editto in materia di ajgoranovmoi[1], emanato dal praefectus praetorio Orientis Illus[2],
sotto l’impero di Anastasio[3],
e ciò nell’ambito della ricerca PRIN 2008 «Normativa primaria e
normativa secondaria su amministrazione e giustizia nell’Oriente romano dei
secoli IV-VI»[4].
Nella versione della norma conservata nel nr. 8 del Cod. Bodl. Roe 18, il prefetto stabilisce la composizione del
comitato elettivo per la nomina degli agoranomoi:
vescovo, chierici, possessores,
curiali e honorati[5].
Nell’Index Marcianus la previsione
della norma è più ampia, poiché si
ritrovano le disposizioni prefettizie circa l’esautorazione di questi
magistrati municipali: devono giurare tutti coloro che avevano proceduto
all’elezione, a eccezione del presule[6].
Ci si chiede dunque se l’autore dell’editto si sia ispirato a una norma
imperiale, oppure a un canone ecclesiastico, o si sia rifatto piuttosto a un
principio affermatosi nella prassi. A tal fine, si deve procedere a un’analisi
più ampia che parta dalla concezione generale del giuramento nella religione
cristiana, per arrivare a verificare l’esistenza di una norma, ecclesiastica o
imperiale, che comporti il divieto dell’atto di giurare per tutti i religiosi,
o parte di essi. Oggetto della presente ricerca saranno innanzitutto i testi
sacri, la riflessione patristica, i canoni dei concili episcopali; in secondo
luogo dovrò rivolgere l’attenzione alle costituzioni imperiali in materia.
Pur non prendendo in
considerazione l’editto del prefetto Illus,
il giuramento dei chierici è un tema che è stato affrontato in letteratura. Si
sono occupati dell’argomento, in opere di più largo respiro, studiosi del
calibro di Seidl, Wenger, Biondi, Gaudemet[7];
comunque mi sembra opportuno riprendere la materia: come si vedrà, infatti, le
fonti di età romana appaiono spesso contraddittorie, e queste divergenze non si
appianeranno nemmeno nell’età di mezzo. Ciò rende utile una nuova riflessione
sul tema, che – senza timore di smentita – si presenta alquanto intricato.
Nel mondo ebraico si registra un uso diffuso del giuramento, come
è attestato dal Vecchio Testamento[8].
Qui, in più occasioni, l’atto è attribuito alla stessa divinità, come, ad
esempio, nel primo discorso di Mosè in cui il profeta, rivolgendosi al popolo di
Israele, ricorda l’alleanza tra Yahweh
e gli Israeliti sancita da un giuramento[9].
Il dio di Israele rafforza le sue promesse con un giuramento a se stesso, come
nel caso della promessa fatta ad Abramo[10],
o giura le punizioni da lui inflitte, sulla sua vita o sulla sua santità[11].
Yahweh, secondo quanto si legge
nel testo biblico, giura su se stesso che sarà richiamato in tutti i
giuramenti, poiché per lui giurerà ogni lingua[12].
Gli esempi poi sono innumerevoli circa i giuramenti posti in
essere dagli Israeliti, a conferma di come questi atti fossero radicati nella
prassi. Il giuramento è utilizzato, ad esempio, per rafforzare una promessa[13],
per siglare rapporti di alleanza, come quello di Abramo con Abimèlech[14],
per esimere da responsabilità il depositario nel caso di furto di oggetti e in
quello di morte, danno, sottrazione degli animali depositati[15],
per promettere a Dio un’astensione[16].
A fronte di quest’ampia diffusione nel mondo ebraico, si trova un
netto sfavore evangelico verso il giuramento. Nel discorso sulla montagna
riportato nel Vangelo di Matteo[17],
e che è in parte richiamato in una lettera di Giacomo[18],
Cristo afferma chiaramente che non si deve giurare affatto, ma che i fedeli
devono parlare chiaramente con un’affermazione, o una negazione, poiché “il di
più proviene dal maligno”. Questo insegnamento, però, non fu colto
dall’apostolo Pietro, il quale fece ricorso al giuramento, come è attestato dai Vangeli di Matteo e di
Marco, quando, nel cortile del sommo sacerdote, negò di conoscere Cristo[19].
Nell’Apocalisse, poi, si riporta il
giuramento di un angelo[20],
e ciò dimostra come ancora nel Nuovo Testamento il giurare fosse percepito come
azione talmente comune, da attribuirne l’uso, oltre a Dio, ad altri esseri del
Creato[21].
Lo stesso Paolo di Tarso appare in qualche modo sfumare il netto
divieto di Cristo[22],
poiché, come ha evidenziato Agostino d’Ippona (su cui vedi infra), in molte circostanze l’apostolo avrebbe più volte chiamato
l’essere divino a testimone, utilizzando quindi la stessa configurazione del giuramento,
come il richiamo alla formula “Dio mi è testimone”, o ad altre equivalenti, a
solenne sostegno delle proprie affermazioni[23]. Non solo, nella lettera agli Ebrei 6.16, inserita
nell’epistolario paolino, si riconosce valore centrale all’atto, sostenendo che
il giuramento, prestato dagli uomini su chi è superiore a loro, pone termine a
qualsiasi controversia[24].
La riprovazione del Vangelo non fu, quindi, interpretata alla
lettera, e, come ha sottolineato O. Delouis, autore di un articolo dedicato al
rapporto tra il giuramento e la Chiesa a Bisanzio, questa discordanza non
dipendeva da un’ambiguità del testo, ma dalla persistenza dell’uso del
giuramento nella prassi[25].
L’avversione verso il giuramento probabilmente fu recepita appieno dalle
antiche comunità cristiane e dalle riflessioni patristiche dei primi secoli[26],
ma con il tempo il giuramento fu legittimato dalla riflessione teologica. La
condanna evangelica fu particolarmente sentita soltanto da pochi, come ad esempio
Giustino, filosofo e martire, il quale inviò ad Antonino Pio la sua Apologia,
dove, nell’illustrare alcuni insegnamenti di Cristo, riporta anche il divieto
messianico dei giuramenti, inteso come una prescrizione in termini assoluti[27].
Il richiamo del precetto evangelico si rinviene anche nel III sec. in Clemente
Alessandrino, il quale rileva come il giuramento fosse interdetto ai cristiani[28];
inoltre, nel Paedagogus, egli chiede di astenersi dal giuramento ai
commercianti, mostrando quindi come l’atto fosse utilizzato anche nella pratica
degli scambi commerciali[29].
Una simile testimonianza si trova in Occidente, alla fine del III sec., con
Tertulliano (ca. 155-ca. 230), il quale nel de
Idololatria, al cap. 11, dedicato a coloro che erano coinvolti nei traffici
di merci che servivano al culto delle false divinità, afferma
di non voler parlare dello spergiurare, poiché neppure giurare è concesso[30].
Sebbene Tertulliano faccia riferimento a un commercio specifico, la sua
testimonianza dimostra quanto il iusiurandum
fosse diffuso nella prassi commerciale[31].
Giovanni Crisostomo si oppose strenuamente al giuramento, e
questa testimonianza mostra come, ancora nel V sec., tra i Padri della Chiesa
vi fosse chi si atteneva a una lettura rigorosa del precetto evangelico. Nella
sua opera Adversus oppugnatores eorum qui Vitam
monasticam inducunt afferma che non si
deve fare distinzione tra un giuramento prestato da un monaco oppure da
qualcuno che non lo è, ma pone l’accento su come Cristo abbia detto in modo
definitivo, e a tutti, di non giurare affatto, per cui chiunque presti
giuramento è parimenti dannato[32].
La sua
avversione contro il iusiurandum è
espressa in numerosissime opere, siano esse trattati[33],
omelie[34],
o la Catechesis ad illuminandos[35].
La maniera così frequente e insistente con cui egli invita i fedeli a non
giurare mostra come la consuetudine di giurare (così la chiama più volte lo
stesso Crisostomo[36])
fosse fortemente radicata[37].
Tra i teologi che, al contrario, presentano un pensiero non
lineare e censurano il iusiurandum a
volte in maniera piuttosto blanda, e spesso contraddittoria, va ricordato ad
es. Origene (185-254), il quale se per un verso prescrive che i giuramenti
siano fatti con discernimento, secondo verità e giustizia, limitando, o meglio
coniugando il precetto evangelico con le parole del libro di Geremia, per poter
arrivare a non giurare affatto, come prescrive Cristo[38],
altrove esprime una netta condanna del giuramento[39],
in particolare in antiche interpretazioni del suo commento al Vangelo di Matteo.
Qui, in una versione pervenuta invero soltanto in latino, il teologo
alessandrino afferma Alioquin manifeste
superius vetuit omnino jurare[40], ma nel paragrafo successivo dà una
precisa definizione di giuramento, mostrando certo di non percepire l’atto come
qualcosa di vietato[41].
Origene per altro spiega su cosa non si deve giurare: Non ergo debemus ad confirmandam doctrinam nostram nostros proprios
intellectus jurare, et quasi testimonia assumere, quos unusquisque nostrum
intelligit, et secundum veritatem existimat esse, ni ostenderit eos sanctos
esse, ex eo quod in Scripturis continentur divinis, quasi in templis quibusdam
Dei[42],
e ciò dimostra che egli «non ha ... un concetto troppo sicuro della asserita
illiceità»[43].
Tra coloro che non si opponevano all’atto di giurare, anzi, in
alcuni casi ne riconoscevano la legittimità, va ricordato Girolamo (ca.
347-420), il quale condanna i giuramenti idolatri e quelli per il cielo, la
terra, Gerusalemme e per la propria testa, e definisce come spergiuro il
giuramento che non sia stato prestato con verità, giudizio e giustizia[44],
dando così un’interpretazione ‘restrittiva’ del discorso sulla montagna (Mt
5.33-37). Dello stesso tenore è un altro passo di Girolamo, di commento al
Vangelo di Matteo riportato, ad es., da Ivo di Chartres[45],
e nel Decretum Gratiani[46],
fatto che conferma l’importanza della sua posizione per il diritto canonico
medioevale:
Denique
considera quod hic Salvator non per Deum jurare prohibuerit; sed per cœlum, et
terram, et Jerosolymam, et per caput tuum. Et hoc quasi parvulis fuerat lege
concessum, ut quomodo victimas immolabant Deo, ne eas idolis immolarent: sic et
jurare permitterentur in Deum: non quod recte hoc facerent, sed quod melius
esset Deo id exhibere, quam dæmonibus. Evangelica autem veritas non recipit
juramentum, cum omnis sermo fidelis pro jurejurando sit[47].
Per la sua influenza sulle riflessioni patristiche dell’età
bizantina si deve ricordare Basilio di Cesarea, il quale in un’epistola del
375, indirizzata ad Amphilochius,
richiama il dilemma tra rispettare il giuramento o compiere un illecito, e
afferma come il giuramento sia stato condannato in modo definitivo, riferendosi
quindi al precetto evangelico. A maggior ragione, egli afferma, deve essere
condannato il giuramento prestato per commettere un danno a terzi ($Apax de; oJ o{rko" ajphgovreutai, pollw' de; dhvpou eijko;" to;n ejpi; kakw' ginovmenon katakekrivsqai)[48].
Basilio Magno offre ancora interessanti notizie nell’epistula del 374, definita canonica prima, dove tratta del giuramento
con cui si prometteva di non ricevere l’ordinazione, pratica che sollevava la
questione se si fosse o no tenuti all’impegno preso, oppure se coloro che
l’avessero prestato potessero incorrere nello spergiuro[49]
(tema riproposto anche nella lettera, già citata supra, scritta l’anno
seguente al medesimo destinatario[50]).
In realtà, qui non si trova una netta censura del giuramento, quanto la
necessità di evitare per un sacerdote di incorrere nello spergiuro, atto per
cui Basilio sostiene, in un’altra epistula
del 375, che si devono comminare ben dieci anni di esclusione dalla comunione[51].
Il timore che s’incorresse nello spergiuro
porta Basilio nel 372 a inviare un’epistola, probabilmente al governatore di
Cappadocia, per chiedere di far cessare la pratica degli esattori di esigere un
giuramento dai contribuenti[52],
e ancora lo stesso Basilio, in una sua omelia, afferma che chi giura in modo vero e
retto può cadere in fallo, ma chi non giura evita lo spergiuro[53],
e questa posizione si ritroverà anche in altri padri della Chiesa (vedi infra).
Il pensiero di
Basilio di Cesarea intorno alla possibilità per gli appartenenti al clero di
prestare giuramento è espresso ancor più chiaramente in due lettere. In
un’epistola del 364, dove tratta della perfezione della vita monastica, il
teologo sostiene che non si deve né giurare, né mentire[54].
Nella lettera destinata ai chierici di Neocesarea, scritta nel 375, ricorda il
precetto evangelico di non giurare[55].
L’insegnamento di Basilio di Cesarea certamente non fu colto, a fronte del
fatto che nella Historia religiosa sue
ascetica vivendi ratio, Teodoreto di Cirro, teologo e vescovo siriano, testimonia nel V
secolo l’usanza radicata tra i monaci orientali di prestare reciproci giuramenti
di non separarsi per condurre la
propria vita insieme, anche dopo la morte[56].
Gregorio Nazianzeno, sempre nel IV secolo, in un’opera diretta a
chi giurava di frequente, afferma che rimedio per lo spergiuro è il non giurare:
egli non dichiara l’illiceità del giuramento, ma, come Basilio Magno, indica
che la colpa da evitare è lo spergiuro[57].
Lo stesso Gregorio, comunque, giura, e quindi ci si deve chiedere quanto le
affermazioni di condanna, o disapprovazione del giuramento, restassero mere
petizioni di principio[58];
non solo, in una lettera Gregorio afferma di aver condannato un laico, un certo
Georgio Paspasino, perché non aveva rispettato quanto promesso attraverso un
giuramento prestato per iscritto, discostandosi dal sentito dei suoi
contemporanei per cui il giuramento valido era solo quello orale[59].
Agostino d’Ippona, altresì, non si oppone in maniera netta
all’atto, ma soltanto al suo uso abituale e allo spergiuro[60].
In particolare, bisogna ricordare la risposta agostiniana all’epistola di
Ilario, quest’ultima scritta intorno al 414, che tra i vari quesiti annoverava
quello circa la disposizione di non prestare giuramento prescritta dal
pelagianesimo[61].
Il vescovo d’Ippona afferma che è meglio non prestare giuramento, ribadendo,
comunque, che il giurare la verità non si configura come peccato[62].
Nella lettera si trova una breve esegesi di alcune frasi di Paolo di Tarso, da
cui emerge che lo stesso apostolo aveva giurato, sebbene il giuramento non
debba essere comunque considerato un ludus[63].
È evidente quindi che la limitazione del giuramento per Agostino è dettata
dalla paura di ricorrere nel gravissimum
peccatum dello spergiuro[64].
Nel sermone esegetico che analizza la lettera di Giacomo (5.12), il vescovo
d’Ippona ben espone la sua posizione in materia[65].
In effetti egli afferma esplicitamente che giurare non è peccato perché lo
stesso Dio giura, ed è peccato solo spergiurare (Jurat Deus qui peccatum non habet: non ergo est peccatum jurare[66]); per questo consiglia
di evitare il giuramento, poiché si può giurare il falso e quindi peccare (sed nec ille peccat, qui omnino non jurat. Sed qui non jurat, et non peccat, longe est
a peccato: qui autem verum jurat, non peccat, sed prope est ad peccatum[67]).
La
posizione agostiniana è dunque chiara, e appare come un compromesso: da un lato
si prospetta un’esegesi non letterale del precetto messianico, attribuendo
legittimità al giuramento, dall’altro, però, si consiglia di non giurare per
evitare il peccato di spergiuro[68].
Del resto, fin dai primordi della Chiesa, l’essere avvezzi allo spergiuro, o al
furto, o alla fornicazione, comportava la deposizione per il vescovo, il
presbitero e il diacono (e per qualunque chierico), come disposto dal canone 25
dei Canones Apostolorum (che corrispondono
a parte del libro VIII delle Constitutiones
Apostolorum, pubblicate intorno all’anno 380)[69].
Nel VII libro delle Costituzioni Apostoliche, che amplia e rielabora la Didascalia Apostolorum, un trattato del
secolo precedente di origine greca che riporta il culto e la dottrina
paleocristiana, si prescrive di non giurare, e nel ricordare il precetto
evangelico, “non iurabis omnino”, si
dispone che bisogna giurare sinceramente (oujk ejpiorkhvsei", ejrrevqh ga;r „mh; ojmovsai
o{lw"‟ · eij de; mhvge, ka]n eujorkhvsh", o{ti, „ejpaineqhvsetai pa'" oJ ojmnuvwn ejn aujtw'‟)[70].
La stessa posizione intorno al giuramento e allo spergiuro si
ritrova in Isidoro di Siviglia (560 ca.-636), sententiarum 2.31.1-2: Sicut mentiri
non potest qui non loquitur, sic perjurare non poterit qui jurare non appetit.
Cavenda est igitur juratio, nec ea utendum, nisi in sola necessitate. 2. Non est contra Dei præceptum jurare, sed dum
usum jurandi facimus, perjurii crimen incurrimus. Nunquam ergo juret qui
perjurare timet (PL 83, col. 633), il che mostra come questo “compromesso”
fosse in qualche modo assurto a principio in Occidente.
L’evidente discordanza nelle diverse riflessioni patristiche,
circa l’interpretazione da dare all’insegnamento evangelico, dimostra che non
vi fu mai una netta censura nei confronti di una pratica assai diffusa in
particolare nello svolgimento dei rapporti giuridici tra privati[71].
Furono soprattutto le dottrine eretiche medievali che
procedettero a una lettura letterale del precetto evangelico, con il
conseguente rifiuto di giurare in qualsiasi caso[72],
tanto da portare a una netta distinzione tra il cattolico e l’eretico, basata
sul prestare il giuramento o il non giurare per nulla. Il concilio Laterano IV
svoltosi a Roma nel 1215, sotto papa Innocenzo III, al capitolo 3, che
riguardava gli eretici, disponeva che “Chi rifiutasse il carattere sacro del
giuramento e con riprovevole ostinazione non volesse giurare, per questo stesso
motivo sia considerato eretico”[73].
In Occidente, quindi, non risulta dalle riflessioni teologiche
una generale censura per l’atto in sé, come emerge anche dalla sistemazione che
la materia ricevette in grandi collezioni[74],
ad esempio, per l’XI sec., da parte di Burcardo di Worms (Decretorum libri viginti XII) e da Ivo di Chartres (Decretum XII; Panormia VIII, capp. 83-123), e nel XII sec. nella Concordia
discordantium canonum (Decret.
Grat. Pars II, C. XXII)[75]; nel secolo successivo Tommaso
d’Aquino ritornerà sul tema nella Summa
Teologica (IIa.IIae.q. 89).
Per quanto riguarda l’Oriente, al contrario, dopo l’età
patristica, non ci sono state simili sistemazioni della materia e trattazioni
specifiche, e questo silenzio sarebbe il risultato, secondo il Delouis, più di
un certo “disagio” che di un’incuria[76].
Nell’Oriente bizantino il giuramento
continuò a essere ampiamente diffuso[77],
ma i problemi riguardanti l’interpretazione del precetto evangelico dovettero
in qualche modo riemergere[78],
tanto da richiedere, intorno al IX-X secolo, l’intervento imperiale per la
difesa della liceità di due disposizioni del passato ancora vigenti, che
imponevano di prestare un giuramento ai magistrati prima di entrare in
funzione, e alle parti all’inizio di un processo[79].
Nella novella 97 Leone il Saggio (imperatore dall’866 al 912) afferma che
questa normativa potrebbe sembrare contraria a quanto disposto da Dio, che
proibisce di giurare; tuttavia secondo l’imperatore la legge civile non è
contraria a quella divina, ma anzi avrebbe il medesimo fine di prevenire la menzogna.
Il precetto divino non è stato formulato in modo assoluto e non ha cercato di
regolare gli affari temporali, ma mira a portare allo stato di perfezione
coloro che aspirano a elevarsi. Per questo Leone conferma la legge civile e
quindi ordina che i magistrati, prima di assumere il loro officio, e le parti
che vogliono iniziare un processo, prestino un giuramento con cui affermano di
preferire la verità alla menzogna e che non lasceranno il giusto cammino per
seguire quello della frode[80].
Per quanto riguarda il giuramento in generale, non risultano
fonti che attestino che sinodi ecclesiastici abbiano condannato l’atto in sé[81].
Si ha notizia di un fantomatico Concilio degli Apostoli svoltosi intorno
all’anno 56 ad Antiochia[82],
che, nel richiamare il discorso sulla montagna di Mt 5.33-37[83],
avrebbe imposto di astenersi dal giurare in modo poco avveduto e ponderato
(l’avverbio utilizzato è propetw'" che
significa precipitosamente, sconsideratamente, stoltamente), probabilmente a
fronte di un massiccio e avventato ricorso nel quotidiano[84].
Qualora si considerasse come attendibile questa testimonianza, non si può
affermare con certezza che nel cristianesimo delle origini non si seguisse
letteralmente il precetto evangelico, anche se la proibizione non assoluta del
giuramento si accorda con il c. 25 dei Canones
Apostolorum, già citato supra,
che puniva l’ecclesiastico che avesse spergiurato. Questo tipo di politica
ecclesiastica in età romana si rinviene secoli dopo, nel c. 9 del concilio Aurelianense III, svolto a Orleans nel
538, che condanna lo spergiuro dei chierici nelle cause che si decidevano
mediante giuramento[85].
In riferimento ai giuramenti prestati da ecclesiastici, in età
romana si conosce soltanto il c. 61 del concilio Cartaginense IV del 398, che stabilisce di riprendere severamente
il chierico che giura per creaturas[86] e commina la scomunica qualora persista[87];
il canone, quindi, sanziona soltanto giuramenti specifici, quelli di tipo
pagano e quelli utilizzati nel mondo giudaico condannati da Cristo[88].
Basilio Magno richiama la norma, specificando la pena canonica prevista[89].
Questo canone fu confermato dal c. 94 del concilium
in Trullo, svoltosi a Costantinopoli nel 692, che condanna i giuramenti
definiti “ellenici”[90].
Il canone del concilio cartaginese appare conforme alla condanna, che si
rinviene nelle Costituzioni Apostoliche, del giuramento con connotazioni
pagane, per cui non si deve giurare per gli idoli, il sole, la luna, o gli
elementi[91].
Vi era quindi la necessità per la Chiesa di estirpare le antiche pratiche
politeiste e giudaiche, che furono in uso per secoli, così come le formule
blasfeme dei giuramenti, visto che Giustiniano in Nov. 77.1.1, priva di
datazione, condanna il giuramento per i capelli o per la testa di Dio, e forme
similari[92].
Si conoscono, invece, esempi di giuramenti richiesti proprio da
alcuni sinodi a ecclesiastici, per raccogliere deposizioni, o per confermare
affermazioni[93]:
ad esempio, tra gli atti relativi al concilio di Efeso del 431 si ritrova
l’interrogatorio sotto giuramento di due vescovi, Theodotus di Ancira e Acacius
di Melitene[94].
Per il periodo successivo all’età romana, tuttavia, si devono
ricordare due evenienze in controtendenza rispetto a quanto detto. La prima nel lib. 9 della Collectio Canonum Hibernensis, una collezione di
canoni e scritti patristici compilata in Irlanda nella prima metà dell’VIII
sec.[95],
dove s’infligge la scomunica al chierico che presta giuramento: Clericus jurans excommunicandus e(st)[96].
Questa condanna appare un caso isolato, poiché sempre in Occidente si conoscono
specifiche limitazioni del giuramento per i chierici, ma non una sua assoluta
preclusione, come, ad es., il c. 21 del Concilio Triburiense del 895 per cui i sacerdoti ex levi causa non devono giurare[97]:
sembra evidente che quanto disposto nel documento d’oltremanica era il frutto
di esigenze e discussioni che provenivano dalle realtà locali. Non solo, il
concilio di Chalons-sur-Saône dell’813 (Cabillonense
II) al c. 13 proibisce il giuramento imposto da alcuni vescovi, per
vincolare coloro che essi elevavano alla dignità degli ordini sacri, al
rispetto dei canoni e all’obbedienza al vescovo che li ordina e alla chiesa in
cui venivano ordinati[98].
In questo caso non si tratta di una generica condanna per il giuramento degli
ecclesiastici, ma solo per quello specifico imposto a coloro che stavano per
essere ordinati.
La seconda evenienza riguarda il capitolare episcopale
carolingio, dell’801 o dell’802, fissato dai vescovi dopo il concilio di
Aix-la-Chapelle, che vieta qualsiasi giuramento per i sacerdoti: c. 19. Ut nullus sacerdos quicquam cum iuramento
iuret, sed simpliciter cum puritate et veritate omnia dicat[99].
Non di meno nell’802 Carlo Magno con il Capitulare
missorum generale richiese a tutti, anche ai chierici, la prestazione del
giuramento di fedeltà[100],
e ciò potrebbe essere una conferma che la prescrizione precedente non dovesse
essere intesa in senso assoluto. Come ha evidenziato Prodi, nell’impero
carolingio dalla seconda metà dell’VIII secolo il potere secolare cercò,
invano, di sottrarre il giuramento “nella sua valenza politica” all’autorità
della Chiesa[101],
e ciò è dimostrato dal fatto che un successivo capitolare dell’805 proibirà
qualsiasi giuramento, a eccezione di quelli rivolti all’imperatore e al proprio
signore[102].
Altre, tuttavia, sono le testimonianze che
attestano il giuramento del vescovo e dei chierici, specie nei procedimenti
giudiziari. Nel Concilium Brennancense
del 580, Gregorio vescovo di Tours, accusato di aver detto che la regina
Fredegonda intratteneva una relazione adulterina, seguendo quanto richiesto da
Chilperico I, re di Soissons, prestò ben tre solenni giuramenti, dopo aver
detto messa in tre altari differenti, per attestare la sua innocenza[103]. Si
tratta del giuramento che permetteva di “purgarsi” dalle accuse, una prova
giudiziaria[104] che
fu abolita dal concilio svoltosi a Roma nel 1725[105]. In
virtù di questa pratica, nell’800 il pontefice Leone III, nella chiesa di San
Pietro a Roma, avrebbe prestato tale giuramento per liberarsi dalle accuse a
lui mosse[106]. I
casi di purgatio sono tanti, così
come le decretali e i sinodi in materia, ma per economia del discorso non se ne
può dare atto in questo contesto[107];
vorrei solo ricordare l’epistola inviata ai Bulgari, con cui il papa Nicolò I
(858-867) il 13 novembre dell’866 dispone per l’accusato, per cui non vi sono
prove sufficienti, un giuramento d’innocenza che deve comportare l’assoluzione,
e a tal fine richiama l’affermazione presente nella Lettera agli Ebrei 6.16 che “la garanzia di un
giuramento pone termine a tutte le contestazioni”, confermando così
l’importanza dell’atto[108].
Altri sono gli esempi di come nei canoni dei sinodi si
continuasse a richiamare il giuramento; un esempio è il concilio Berghamstedense, svoltosi nel 696 in
Inghilterra, che prescrive numerosi giuramenti, anche per ecclesiastici[109],
ma nel c. 17 si legge: Episcopi et regis
verbum sit inviolabile absque juramento[110],
riconoscendo il privilegio per re e vescovi di non giurare, perché le loro
parole sono paragonate allo stesso giuramento. Vi furono anche delle
disposizioni sinodali intorno alle formalità del giuramento, come il canone 38
del concilio Meldense, svolto a Meaux
nell’845, che proibisce al vescovo di giurare sopra le cose sacre (super sacra iurare)[111].
Da questo breve excursus appare
quindi chiaro che durante l’età romana non si ebbe mai da parte dei concili
episcopali una generale condanna del iusiurandum,
né l’atto fu proibito agli ecclesiastici, se non in qualche caso limite.
Nel diritto canonico sono numerose le forme di giuramento che,
attualmente, è utilizzato in momenti solenni della vita della Chiesa[112]:
così il giuramento dei Cardinali elettori del pontefice, con cui essi si obbligano
a osservare le prescrizioni della Costituzione apostolica Universi Dominici
Gregis, emanata da Giovanni Paolo II, il 22 febbraio 1996[113],
oppure il giuramento di fedeltà alla sede apostolica imposto al vescovo al
momento della presa di possesso dell’ufficio[114],
confermando come, nella Chiesa cattolica, non vi siano divieti per gli
ecclesiastici al riguardo[115].
L’utilizzo del giuramento da parte di chierici è testimoniato da fonti
letterarie e papirologiche; nel III sec. è attestato, addirittura, che durante
l’eucarestia l’antipapa Novaziano fece giurare solennemente i suoi sostenitori
che non sarebbero ritornati dal suo antagonista, il pontefice Cornelio[116].
Il che, seppur fatto peculiare, è un esempio dell’utilizzo del giuramento a
solenne garanzia delle promesse anche tra sacerdoti.
Ho già citato supra il
giuramento che i monaci orientali si scambiavano reciprocamente come strumento
di condivisione di sentimenti, che legava loro anche dopo la morte, e si
concretizzava nella sepoltura vicina o comune. Questa pratica continuò anche
successivamente, come attesta Joannes Moschus, monaco ed eremita (ca. 550-ca. 630)[117].
Il giuramento era utilizzato dagli ecclesiastici per legarsi al proprio
vescovo, come testimonia Agostino d’Ippona, nell’epistola 62 del 402. La
lettera fu inviata al vescovo Severo dallo stesso Agostino, insieme ad Alipio e
Sansucio, allo scopo di presentare le loro scuse per alcuni equivoci sorti
relativamente al fatto che un chierico, un certo Timoteo, aveva giurato che non
si sarebbe mai separato da Severo, il quale non era il suo vescovo; sui fatti
si aprì una sorta di inchiesta. Nell’epistola si racconta che Timoteo prestò
giuramento a fronte dell’esitazione dello stesso Severo che cercava di indurlo
ad andare a Subsana, nella diocesi d’Ippona, dove era stato ordinato
suddiacono. Timoteo sosteneva che il giuramento da lui prestato gli impediva di
recarsi nella sede a cui era stato destinato già da tempo, ma Alipio, Agostino
e Sansucio gli spiegarono che il suo giuramento non vincolava lo stesso Severo
(e si sottolinea come Severo non avesse prestato alcun giuramento di ricambio),
il quale, per evitare uno scandalo, poteva allontanarlo dalla sua sede, e in
tal caso Timoteo non sarebbe stato colpevole di spergiuro[118].
Questa intricata vicenda, comunque, non rileva alcuna condanna dell’atto in sé
e confermerebbe l’uso del giuramento che legava il chierico al proprio presule,
e anche che un simile giuramento poteva essere reciproco.
Le evenienze
papirologiche in materia sono state studiate da Seidl[119],
il quale evidenzia che i primi giuramenti di ecclesiastici si rinvengono nei
papiri egiziani dal IV secolo[120], ma è a partire dal VI sec. che si trovano testimonianze più ampie.
Si devono ricordare, come esempio di giuramenti di garanzia per
affari secolari nel VI sec., P. Cairo Masp.
67328.III, dove a giurare è un diacono, e P. Cairo Masp. 67328.XI, in cui un
presbitero presta giuramento per Dio e la tyche
dell’imperatore. Eppure, come sottolinea Seidl, esistono
testimonianze in cui gli ecclesiastici non utilizzano specificatamente il
termine giuramento, ma in qualche modo eludono il divieto di giurare: ne è
esempio un atto di costituzione di enfiteusi su terreni di un monastero,
contenuto in P. Cairo Masp. 67299 del VI sec., in cui giura unicamente
l’enfiteuta laico, mentre gli ecclesiastici prestano soltanto l’assicurazione
di rappresentare il monastero, attestazione che, sebbene espressa in modalità
vicine al giuramento, non si concretizza in un formale iusiurandum[121]. Comunque Seidl rimarca come dai papiri emerga che i tentativi per
vietare il giuramento rimasero sostanzialmente inutili[122].
Come vedremo, le incertezze e le contraddizioni che emergono
dall’analisi delle fonti canoniche e della riflessione patristica dovettero
riflettersi nella stessa legislazione imperiale.
Dai dati in nostro possesso, niente può far affermare con
certezza che l’editto di Illus, che
dispone che l’episcopo non prestasse il giuramento per la destituzione dell’ajgoranovmo", mentre lo richiede
per i chierici, s’ispirasse a una disposizione ecclesiastica. Eppure sussistono
due argomenti e silentio che
potrebbero in qualche modo far ritenere che sotto l’impero di Anastasio e
durante l’età precedente il vescovo fosse esentato dalla prestazione di un
giuramento per gli affari secolari. Innanzitutto, nella codificazione
Teodosiana non si trova alcuna norma che preveda direttamente il giuramento per
membri del clero; vi è solo un indizio: Teodosio I nel 381,
durante una seduta del consistorium,
esonerò i presuli a rendere testimonianza in forza della loro dignitas[123];
è evidente che qui non vi è un richiamo al giuramento, e alla sua esenzione per
i vescovi, ma sappiamo che in età tardo imperiale i testimoni erano tenuti a
giurare[124]; nessuna esenzione,
invece, si registra per gli altri sacerdoti, per i quali, però, una norma
imperiale vieta l’uso della tortura[125].
Nel 546,
con Nov. 123.7 Giustiniano riforma la materia e dispone
che i vescovi non possano essere costretti a recarsi in giudizio, ma il giudice
deve inviare qualcuno dei suoi ministri per far dire loro quello che sanno alla
presenza dei Vangeli, nel modo che conviene alla loro dignità sacerdotale[126]:
anche se non si può affermare con certezza che si tratti della prestazione di
un giuramento da parte del presule[127],
si può almeno sottolineare che sono qui utilizzate le medesime formalità, data
la presenza delle Sacre Scritture[128].
Nell’impero bizantino, la testimonianza dei sacerdoti poteva
avvenire con giuramento, come risulta dalla costituzione 76, inviata al magister officiorum Stylianus, dove Leone VI il Saggio
stabilisce le pene da infliggere ai sacerdoti che avessero prestato falsa
testimonianza[129]. L’imperatore bizantino
ricorda sia il canone 25 dei Canones
Apostolorum, che comminava la
deposizione dagli ordini sacri per gli ecclesiastici che avessero prestato un
falso giuramento (ejpiorkiva‘)[130],
sia le leggi civili, richiamando Nov. 123.20[131],
che nel caso di falsa testimonianza resa in un processo criminale dispone per
l’ecclesiastico la deposizione, mentre per le cause civili prescrive la
sospensione per tre anni da trascorrere in un monastero. Leone stabilisce che
un sacerdote, che abbia affermato qualcosa di falso attraverso un giuramento,
sia negli affari criminali, sia negli affari civili, deve essere cacciato
dall’ordine, ma qualora non abbia confermato la falsa testimonianza attraverso
un giuramento egli sarà relegato per tre anni in un monastero dove sarà
assoggettato a una regola rigorosa[132].
Il secondo dato consiste nel riconoscimento di poteri civili al
vescovo in età tardo imperiale, che si presenta con forza proprio nell’età di
Anastasio, e che coinvolge il presule nell’amministrazione delle città
dell’impero: nomina del defensor
civitatis[133],
electio del curator frumentarius[134],
riscossioni annonarie[135],
nomina del sovrintendente ai pesi legali[136].
Il riconoscimento dell’importanza, e della ieraticità, della figura episcopale[137]
potrebbe aver indotto ad accogliere nella normativa primaria e secondaria, se
non una regola, almeno una riflessione patristica, che escludeva la possibilità
di chiedere al vescovo un giuramento per affari secolari.
Un’informazione particolare proviene dagli atti della conferenza
episcopale che si tenne a Costantinopoli nell’aprile 449 (Cognitio de gestis contra Eutychen), quando si attivò un’inchiesta
per stabilire se gli atti del concilio svoltosi nella capitale l’anno
precedente fossero stati alterati, come affermava, lamentandosi presso
l’imperatore Teodosio, Eutiche, che proprio in quel concilio era stato
condannato[138].
Il tribuno imperiale Macedonio[139],
producendo le Sacre Scritture, chiese un giuramento circa la veridicità degli atti
in questione ai vescovi che avevano presenziato alla deposizione di Eutiche. A
tale richiesta si oppose Basilio, vescovo di Seleucia in Isauria, il quale
affermò che sino a quel momento non era mai stato imposto di giurare ai
presuli, ricordando come Cristo avesse vietato i giuramenti, e che tutti i
vescovi avrebbero parlato sinceramente come davanti all’altare; per tale motivo
non si procedette nel senso richiesto dal tribuno[140]. Questo discorso
corrisponde, senza alcun richiamo diretto, a parte della seconda epistola
attribuita al pontefice Cornelio (pontificato a.a. 251-253)[141]. Nel primo caput di questa lettera, inviata al
vescovo orientale Rufo come risposta ad alcuni quesiti, si trovano interessanti
principi in materia di giuramento, enucleati nel Decretum Gratiani[142].
Innanzitutto si afferma che non si deve esigere dagli ecclesiastici un
giuramento, ma l’imposizione non pare così assoluta: Sacramentum autem hactenus a summis sacerdotibus vel reliquis exigi
nisi pro fide recta minime cognovimus, nec sponte eos iurasse repperimus. A questa affermazione segue
l’illustrazione dei due precetti evangelici in materia di giuramenti (Gc 5.12 e
Mt 5.33-37), che l’autore della lettera interpreta come un divieto, per poi
richiamare in generale le interpretazioni teologiche che vietano di giurare.
Qui, tuttavia, si fa un’interessante affermazione: Quae nos sanctorum sequentes apostolorum eorumque successorum iura
firmamus et sacramenta incauta fieri prohibemus, con cui, nel proibire i
giuramenti improvvidi, si contraddice con quanto aveva appena affermato,
mostrando in realtà di non essere contrario a tutti i giuramenti. La lettera
continua con le stesse parole di Basilio di Seleucia riportate nella versione
latina antiqua della Cognitio de gestis contra Eutychen, conservata
negli atti del concilio di Calcedonia, anche se, quando si afferma di non sapere se mai un giuramento fosse stato
richiesto ai vescovi, si aggiunge l’inciso che questo comunque non si deve mai
esigere (nec umquam fieri debet). Occorre, tuttavia, una certa cautela nel richiamare
questa testimonianza pontificale, in quanto è inserita nell’opera
occidentale dello Pseudo-Isidoro (autore che si presenta come Isidorus Mercator) che ha prodotto
numerose falsificazioni nel IX sec., tra cui anche la Donazione di Costantino[143];
per questo è difficile affermare con certezza la genuinità della lettera
attribuita a Cornelio[144].
Per tornare a Basilio di Seleucia, si deve
rilevare come il vescovo non neghi direttamente la possibilità per un presule
di prestare giuramento, e del resto non poteva far altrimenti a fronte delle
numerose prove che dimostrano la pratica degli episcopi di giurare[145];
Basilio probabilmente si riferiva alla possibilità da parte di uffici secolari
di esigere un giuramento dai vescovi.
La quarta sessione degli atti del concilio generale di Calcedonia
del 451 ci offre uno spunto interessante, che appare stridere con quanto
affermato da Basilio di Seleucia. In quest’occasione, alcuni presuli egiziani
si rifiutarono, a fronte della vacanza della sede episcopale di Alessandria, di
sottoscrivere la lettera del pontefice Leone I inviata a Flaviano, vescovo di
Costantinopoli, che consisteva in un’instructio
dogmatica. Sotto indicazione del legato papale Pascasino fu concessa loro
una dilazione da parte dei magnificentissimi
et gloriosissimi iudices et amplissimus senatus, fino a quando non si fosse
proceduto alla scelta del vescovo alessandrino, purché essi dessero dei
fideiussori o prestassero giuramento con cui garantire che non avrebbero
lasciato la città[146],
ma il giuramento in questione appare un’alternativa piuttosto che
un’imposizione.
Le norme imperiali postclassiche[147],
specialmente quelle giustinianee, sancivano numerose fattispecie in cui era
previsto il giuramento, che pervadeva ogni branca del diritto[148]
e che a volte si svolgeva dinanzi al vescovo[149],
o spesso si disponeva che avvenisse tactis
evageliis[150];
del resto, il iusiurandum si rinviene
durante tutta l’esperienza giuridica romana[151].
Oltre all’editto di Illus,
a proposito del giuramento di ecclesiastici, prima dell’età giustinianea si
conosce una costituzione di Marciano, conservata in C. 1.3.25.1b[152],
probabilmente del 456, secondo cui se una causa riguardava diversi chierici,
fatta eccezione dell’economo, ed eccedeva le cinquanta libbre d’oro, il chierico
convenuto dal prefetto del pretorio, per garantire la sua presenza in iudicio[153]
era tenuto a dare all’esecutore la cauzione, ma l’executor litis non poteva esigere il giuramento[154],
in quanto vietato sia dalle regole ecclesiastiche, sia da un antico canone
sinodale: quia ecclesiasticis regulis et
canone a beatissimis episcopis antiquitus instituto clerici iurare prohibentur[155].
Questa regola pare contrastare con quanto disposto dall’editto di Illus, poiché in quest’ultimo, senza
richiamare alcuna norma ecclesiastica, si prevede il giuramento dei chierici
che compongono il comitato elettivo, mentre ne è esentato il vescovo; va
osservato però che si trattava di un contesto diverso, di un momento della vita
amministrativa e non di una disputa giudiziaria, anche se in linea di principio
l’atto, il giuramento, resta lo stesso in qualunque contesto.
Sicuramente Marciano non trasse il suo convincimento dal concilio
generale indetto a Calcedonia nel 451, in cui al c. 18 si condanna soltanto il
giuramento di fratria (sunwmosiva), posto in essere da monaci o chierici al fine di legarsi in una
società segreta per complottare contro i loro vescovi o confratelli,
sottolineando come questo fosse già proibito dalla legislazione secolare[156],
anzi, il canone dimostra come i giuramenti fossero una pratica diffusa, di cui
la fatria rappresentava un uso distorto.
Di fronte a dati contrastanti ci si deve quindi chiedere a quali
norme Marciano facesse riferimento: Biondi al proposito riconosce il
“precedente canonico” richiamato dall’imperatore[157],
esclude «che si tratti di pleonasma»[158],
ma non avanza alcuna ipotesi circa la sua identificazione. Come si è visto supra, l’unica disposizione canonica in
età romana che limita il giuramento degli ecclesiastici è il c. 61 del concilio
Cartaginense IV del 398, che vieta al
chierico di giurare per creaturas.
Quest’ultimo canone è stato identificato da Wenger come la norma ecclesiastica
richiamata da Marciano[159],
ma il principio citato in C. 1.3.25.1b è espresso in termini assoluti, e non si
riferisce ai soli giuramenti pagani. Per quanto riguarda alcune regole
ecclesiastiche in materia si conoscono quelle dettate da Basilio Magno (viste supra), ma esse erano dirette soltanto a
coloro che si dedicavano alla vita monastica.
A fronte delle prove papirologiche e letterarie che confermano il
giuramento dei chierici, in letteratura, oltre a Wenger, si è cercato di dare
un’interpretazione a quanto richiamato da Marciano. Savagnone, ad esempio,
ritiene che con il termine canone l’imperatore volesse riferirsi al “diritto
locale costantinopolitano”[160],
ma nel contempo afferma che l’asserzione imperiale è inesatta poiché «nel
diritto romano ecclesiastico il giuramento dei chierici è obbligatorio in casi
determinati»[161];
d’altro canto Seidl[162]
richiama la lettera pseudo-isidoriana, per lui presumibilmente scritta da papa
Cornelio, secondo la quale il giuramento non deve richiedersi ai sacerdoti.
Come ho già osservato, tuttavia, nemmeno qui appare un’assoluta condanna del
giuramento dei chierici.
Sono quindi indotta a pensare che l’Augusto richiami una
determinata posizione teologica e non, al contrario, una norma ecclesiastica.
Lo stesso Gaudemet per altro osserva come non sembri che ai chierici fosse
interdetto il giuramento, anche se «il devait exister un courant plus sévère»[163].
In età medievale la costituzione di Marciano sollevò alcune
problematiche, e ciò dimostra che il principio affermato non era così chiaro. Innanzi
tutto, si pone la questione se la norma fosse stringente solo per il clero di
Costantinopoli, giacché nella constitutio
si fa riferimento alla Chiesa della città. In secondo luogo, se Giustiniano
abbia disatteso il principio che ispirava Marciano, quando con C. 2.58(59).2
pr. del 531 dispone che il giuramento de
calumnia venisse richiesto in tutti i procedimenti[164],
e quindi anche in quelli in cui fossero coinvolti dei sacerdoti[165].
Ai quesiti, sollecitato dalla richiesta di alcuni giuristi (nonnulli legisperiti), l’imperatore
Enrico II rispose attraverso una costituzione, l’Edictum de iuramentis clericorum, emanata a Rimini, il 3 aprile
1047[166].
Qui l’imperatore decreta che per il iusiurandum
calumniae gli ecclesiastici potevano
delegare altri (per advocatos)[167].
L’interpretazione autentica dell’imperatore per molto tempo rimase “lettera
morta”[168]
fino al XII sec. quando papa Onorio II, tra il 1125 e il 1130, la inserì nella
decretale Inhaerentes, specificando
però che gli ecclesiastici non potevano essere forzati a prestare giuramento[169].
La costituzione di Enrico II risulta
definitivamente inserita nel Liber Extra di
Gregorio IX[170],
quando il pontefice pubblicò la decretale di Onorio II, ma, la
discussione non si acquietò[171].
Nella riflessione teologica dell’Oriente bizantino la norma di
Marciano è intesa al pari di una norma canonica, senza, tuttavia, dare lumi su
canoni e sinodi a cui l’imperatore fa riferimento. Nel IX sec., infatti, il
patriarca costantinopolitano Fozio sostiene che non si deve spergiurare, ma che
il giurare è proibito per gli ecclesiastici, come è detto da C. 1.3.25[172];
inoltre uno scolio del Nomocanone, nel richiamare la norma marcianea, osserva
che i Basilici non fanno riferimento al giuramento, ma ciò nonostante afferma
che al vescovo e al chierico è proibito giurare[173].
Nel Codice giustinianeo si conserva una costituzione di Leone del
466 (C. 1.12.6), emanata solo dieci anni dopo quella marcianea, citata da Fozio
come eccezione al divieto di giurare per gli ecclesiastici[174],
insieme a C. 1.12.3, entrambe contenute nella rubrica de his, qui ad ecclesias
confugiunt vel ibi exclamant.
Per quanto riguarda C. 1.12.3, si tratta di una norma in lingua
greca, in forma riassuntiva rispetto al testo conservato in C. Th. 9.45.4 a cui
si accosta, peraltro, una traduzione greca, aspetto questo che appare un unicum nel Teodosiano[175].
La costituzione del 431, con cui Teodosio II e Valentiniano III legiferano in
materia di asilo nelle chiese[176],
si trova in forma estesa anche negli atti del concilio di Efeso dello stesso
anno[177].
Nella versione della norma inserita nel Codice giustinianeo, al § 3, si legge
che saranno i soli chierici, sulla base dell’autorità episcopale, a intimare a
coloro che occupano armati qualsiasi luogo di una chiesa di deporre le armi,
dando loro rassicurazione mediante giuramento (didomevnh" aujtoi'" ejlpivdo" kai; o{rkou) che essi saranno
difesi più dalla religione che dal ricorso alle armi[178];
ma l’aspetto più particolare è che in C. Th. 9.45.4.3[179],
e anche nella versione contenuta negli atti del concilio efesino[180],
non vi sia alcuna menzione del giuramento[181].
La seconda norma
richiamata dal patriarca Fozio, C. 1.12.6, valida in ogni luogo dell’impero a
eccezione di Costantinopoli dove Leone afferma che avrebbe personalmente
apprestato i rimedi necessari, sancisce la difesa dell’asilo ecclesiastico per
i cristiani ortodossi. La norma comprende diverse disposizioni[182],
fra le quali ai nostri fini risulta particolarmente interessante quella
contenuta nel § 7, in cui si legge: Sicubi depositae vel commendatae dicuntur,
inquirendi tantam volumus esse cautelam, ut, si sola suspicatione apud aliquem
adserantur absconditae, de sua etiam conscientia satisfacere auctoritate
venerabilis antistitis iubeatur. Anche se qui non è detto chiaramente su chi cada il sospetto, è
evidente si tratta di un chierico[183], e ciò sia per il richiamo all’autorità del
venerabile vescovo, sia per il coordinamento con il § precedente, che fa
riferimento a beni occultati all’interno dei confini ecclesiastici. La condotta
che la norma impone al chierico (de sua
etiam conscientia satisfacere) sembra non prevedere affatto un giuramento,
ma solo la restituzione del bene[184].
Secondo Fozio,
tuttavia, il chierico sospettato di detenere un bene di un confuga, deve giurare keleuvsei tou' ejpiskovpou (tr. lat.: jussu episcopi sui), e questa
interpretazione, che intravvede la
necessità di un giuramento da parte di chierici, viene proposta anche in
Occidente da Accursio[185].
Il veto posto da Marciano in C. 1.3.25.1b è ribadito da
Giustiniano in Nov. 123.21.2 nel 546, con cui l’imperatore stabilisce che
qualora un attore abbia una controversia pecuniaria contro chierici, monaci,
diaconesse, monache o religiose, e il vescovo uJpevrqhtai metaxu; aujtw'n dikavsai (tr. lat.: inter eos iudicare differat), potrà
adire il giudice civile, però i convenuti non saranno obbligati a dare
fideiussori (il termine utilizzato è ejgguhth;"[186]), ma solamente a prestare
cauzione senza giuramento, con ipoteca sui beni[187];
qui però non si fa riferimento ad alcuna regola ecclesiastica, poiché i “sacri
canoni” richiamati alla fine del paragrafo si riferiscono soltanto alla
cognizione episcopale delle controversie ecclesiastiche[188].
È chiaro come, inserendo la costituzione di Marciano nel Codex, Giustiniano ne abbia accolto i principi, ma nella norma
novellare l’imperatore non accenna alle ecclesiasticae
regulae et canon, a beatissimis episcopis antiquitus institutus; non solo,
ma la presenza di C. 1.12.6.7, qualora l’interpretazione che fu data in seguito
in merito all’imposizione di un giuramento dei chierici corrisponda
effettivamente al contenuto della norma, può aver creato una contraddizione
all’interno della compilazione. Nella stessa novella, al capitolo 1, si
stabilisce che, per ordinare un vescovo, i chierici insieme ai primati della
città nominino con decreto (yhfivsmata) tre persone,
dichiarando, alla presenza dei santi Vangeli, l’assenza di alcun interesse
nella loro scelta[189].
In realtà nella norma è previsto per il comitato elettivo un giuramento, ma
l’inciso che lo prescrive viene considerato un’interpolazione derivata da
quanto disposto nella Nov. 137 del 565[190].
Questa costituzione, dedicata all’ordinazione dei vescovi e dei chierici, al
capitolo 2 statuisce che, per la creatio
del vescovo, i chierici e i primati della città scelgano con decreto tre
persone; per tutti, poi, è prescritto un giuramento (... prokeimevnwn tw'n aJgivwn eujaggelivwn ejpi; trisi;
pro"wvpoi"
yhfivsmata poiei'n, kai; e{kaston aujtw'n ojmnuvnai kata; tw'n qeivwn logivwn ...); inoltre, si
prevede un giuramento per l’ordinando[191].
Nella praefatio di questa novella
Giustiniano sottolinea l’importanza di seguire i sacri canoni[192],
non solo, ma nell’incipit del caput 2, l’imperatore afferma che le
disposizioni sull’ordinazione dei vescovi è promulgata sulla base delle
prescrizioni dei sacri canoni[193];
questi dunque appaiono contrari alle regole ecclesiastiche richiamate da
Marciano. Del resto, Giustiniano mostra di ben conoscere le norme sinodali e la
riflessione patristica, tanto che nella stessa novella richiama, a proposito
dell’ordinazione di ecclesiastici, sinodi e teologi, tra cui lo stesso Basilio
Magno[194],
che, come si è visto, si era schierato contro il giuramento. La Nov. 137 fu
riportata in forma abbreviata nel Prochiron[195], il che dimostra il permanere del
giuramento sia dei chierici, sia dell’ordinando vescovo, anche se il testo non
contiene alcun richiamo, se non in relazione al matrimonio del presule, dei
canoni che stanno alla base di queste norme[196].
Giustiniano, quindi, non pare accettare nella legislazione
novellare i principi a fondamento della disposizione marcianea che proibiva
l’imposizione del giuramento ai chierici[197],
e sembra, invece, porsi sulla stessa linea dell’editto di Illus, che esonera il vescovo dal giuramento. È emerso, infatti,
che la testimonianza dei presuli, alla presenza delle Sacre Scritture, è
disposta dall’imperatore senza però esigere esplicitamente un iusiurandum (Nov. 123.7), e anche che il giuramento è richiesto per l’ordinando a
vescovo, ma non allo stesso vescovo (Nov. 137.2).
Nell’ambito della vicenda dei Tre Capitoli[198],
nel 550, tuttavia, Giustiniano pretese e ottenne che il pontefice Vigilio giurasse
per iscritto sui chiodi della passione e sui quattro Vangeli che avrebbe fatto
di tutto per condannare i Tre Capitoli[199]:
ancora una volta in materia di giuramento la teoria si scontrava con la realtà.
In conclusione, pur esistendo
un precetto evangelico, che pare vietare in assoluto il giuramento a tutti i
fedeli, i successivi interpreti assumono taluni una posizione più rigida e tal
altri una più elastica. Dato che il giuramento, usato nell’antichità pagana per
gli scopi più disparati, rimase assai diffuso nella prassi, non solo nel
contesto processuale, ma anche con valenze diverse, la riflessione patristica
adottò il dettato messianico con alcuni temperamenti: poiché lo spergiuro viene
considerato un atto gravissimo, per non rischiare di incorrervi si sconsiglia
il giuramento, pur non vietandolo. La legislazione ecclesiastica è più
indulgente, non vieta in generale il giuramento, anzi talvolta vi fa ricorso, e
per quanto riguarda gli ecclesiastici limita l’atto con sorti alterne. La norma
imperiale afferma di riconoscere alla Chiesa i suoi principi, ma continua a
richiedere il giuramento per i laici, mostrando di non percepire l’avversione
ecclesiastica dovuta al fine di evitare lo spergiuro. Se per il diritto romano
il giuramento dei laici è assolutamente legittimo, si preferisce evitare per
gli ecclesiastici, ma a eccezione di alcuni casi, quando l’atto è richiesto
dalle circostanze.
L’Index Marcianus conserve un
édit, publié sous l’empire d’Anastase par Illus,
praefectus praetorio Orientis, qui, pour la destitution des agoranomoi, prescrit un serment de ceux
qui composaient le comité électif de ces magistrats municipaux, y compris les
clercs, à l’exception de l’évêque. Pour connaître ce qui a amené le préfet du
prétoire à cette exclusion, la recherche à vérifié l’existence d’une règle,
ecclésiastique ou impériale, qui implique l’interdiction du serment par les
religieux. Dans l’évangile ce
trouve la condamnation des touts les serment, mais cette interdiction n’est pas
toujours interprété littéralement par la réflexion patristique, en raison de la
persistance de l’utilisation du serment dans la pratique, même par des clercs.
Il n’y a pas de sources qui attestent que les synodes ont procédé à une
condamnation générale du iusiurandum,
ou que ils ont interdit le serment au clergé, sauf dans certains situations
particulières. Nombreuses lois impériales postclassiques prévues la prestation
de serment, que envahit toutes les branches du droit. Selon une constitution de
Marcien, conservée dans C. 1.3.25.1b, les serments des clercs ont été interdit
à la fois par des règles ecclésiastiques et par un ancien canon des évêques;
mais cette norme semble être en contradiction avec la disposition de l’édit de Illus. Dans les Novelles, Justiniens ne
semble pas accepter le principe à la base de la constitution de Marcien, et il
semble, au contraire, s’aligner sur l’édit de Illus.
[Per la pubblicazione degli articoli
della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind].
* Questo
scritto, ampliato nel testo e corredato di note, riproduce la relazione
presentata alle Giornate di Diritto
Romano: «Gli “Editti” del Praefectus Praetorio. Presentazione dei risultati
della ricerca PRIN 2008 coordinata da Fausto Goria» (Cagliari, 24 maggio 2013),
per iniziativa del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi
di Cagliari.
Nel testo, dove è stato
possibile compatibilmente con i caratteri di stampa, si rispetta la scrittura
utilizzata nell’edizione citata.
[1] In
materia di ajgoranovmoi vedi,
ad es.: C.B. Hase, vv. !Agora'nomevw, !Agora'nomiva, !Agora'nomiko;", !Agora'novmion, !Agora'novmo", in H.
Stephano, Thesaurus Graecae Linguae,
Parisiis 1831, coll. 432-437; W. S[mith]-W. W[ayte], v. Agoranomi, in A Dictionary of Greek and Roman Antiquities, London 1890, 49; J. Oehler, v. Agoranomoi, in P.-W.,
I.3, 1894, coll. 883-885; E. Caillemer,
v. Agoranomoi, in Dictionnaire des antiquités grecques et
romaines, I.1, Paris s.d., 155; W. Liebenam, Städteverwaltung
im römischen Kaiserreiche, Leipzig 1900 [rist. an., Roma 1967], 362-367, e
539-542 per una lista di iscrizioni; H.
Francotte, L’industrie dans la Grèce ancienne, II, Bruxelles 1901, 72-75, 136,
140-142, 148, 173; A.H.M. Jones, The Greek City from Alexander to Justinian,
Oxford 1940 [rist. 1966], 188, 215-217, 230, 240, 255; Id., L’economia romana. Studi di storia economica
e amministrativa antica, a cura di P.A. Brunt, tr. di E. Lo Cascio, Torino
1984 (tit. orig.: The Roman Economy,
Oxford 1974), 32 s., 62 e 63; L. Migeotte,
Les pouvoirs des agoranomes dans les cités grecques, in Symposion 2001. Vorträge
zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte. Akten der Gesellschaft
für griechische und hellenistische Rechtsgeschichte 16, Wien 2005, 287-301; T.
Bekker-Nielsen, Urban life and local
politics in Roman Bithynia. the small world of Dion Chrysostomos,
Aarhus 2008, 75-77.
[2] Per
bibliografia e fonti sul prefetto del pretorio d’Oriente Illo vedi da ultimo il
lavoro di S. Fusco, Illus,
in Edicta praefectorum praetorio,
a cura di F. Goria-F. Sitzia, Cagliari
2013, 177 s.
[3] Secondo A. Laniado, Le christianisme et l’évolution des institutions municipales du
Bas-Empire: l’exemple du defensor civitatis, in Die Stadt in der Spätantike - Niedergang oder Wandel? Akten des internationalen Kolloquiums in
München am 30. und 31. Mai 2003, Stuttgart 2006, 330 s.,
l’editto di Illus è posteriore al 20
novembre 506.
[4] Per
un’analisi dell’editto in questione, mi sia permesso di rinviare a C.M.A. Rinolfi, Ed. VIII, in Edicta
praefectorum praetorio, cit., 39-42.
[5] Edicta praefectorum praetorio ex codicibus
mss. Bodleianis, Laurentianis, Marcianis, Vindobonensibus, in Anekdota, ed. C.E. Zachariae, Leipzig
1843, 269, nr. 8: {Wste kai; ejpi; toi'" ajgoranovmoi" kaq! oJmoiovthta ejkdivkwn yhvfisma givnesqai para tou' ejpiskovpou kai; tw'n tou' klhvrou kai; kthtovrwn kai; politeuomevnwn kai; logavdwn, tr. lat.: Ut etiam de aedilibus ad instar defensorum
decretum fiat episcopi et cleri et possessorum et curialium et honoratorum.
[6] Index Marcianus 4, ed. C.E. Zachariae, Anekdota, cit., 258 s.: peri; th'" tw'n ajgoranovmwn probolh'", kai; o{ti kaq¾
oJmoiovthta tw'n
ejkdivkwn kai; oiJ ajgoranovmoi ceirotonou'ntai, yhfismavtwn ejpi; th' touvtwn probolh' ginomevnwn para; tou' qeofilou'" ejpiskovpou th'" povlew" kai; tw'n uJp! aujto;n eujlabestavtwn klhrikw'n kai; kthtovrwn kai; politeuomevnwn kai; logavdwn, kai; provsge kataqevsew" ajnwmovtou me;n para; tou' ejpiskovpou, meq! o{rkou de; para; tw'n loipw'n, tr.
lat.: De aedilium creatione, et quod ad
instar defensorum etiam aediles ordinantur, decretis super eorum creatione
faciendis a Deo amabili episcopo urbis et reliogisissimis clericis sub eo
constitutis et possessoribus et curialibus et honoratis, et insuper depositione
ab episcopo quidem sine iuramento, a reliquis vero cum iuramento facienda.
[7] Per i
riferimenti bibliografici vedi infra.
[8] Sul giuramento nel giudaismo antico vedi ad
es.: F. Horst, Der Eid im Alten Testament, in Evangelische
Theologie 17, 1957, 366-384 (ora in Id.,
Gottes Recht. Gesammelte Studien zum Recht im Alten Testament, München
1961, 292-314);
P. De Benedetti, Il giuramento nella Bibbia, in Il
vincolo del giuramento e il tribunale della coscienza, a cura di N.
Pirillo, Bologna 1997, 29-33; M.
Jasonni, Il giuramento. Profili di
uno studio sul processo di secolarizzazione dell’istituto nel diritto canonico,
Milano 1999, 27-31; J.P. Meier, Did the Historical Jesus Prohibit All Oaths? Part 1,
in Journal for the Study of the Historical Jesus 5.2, 2007, 178-187. Circa
alcune formule di giuramento utilizzate dagli ebrei vedi, ad es., M. Greenberg,
The Hebrew Oath Particle Ḥay/Ḥē, in Journal
of Biblical Literature 76.1, 1957, 34-39.
[9] Dt 4.31, il patto è ricordato anche in Dt 7.8.
Cfr. anche il giuramento di Dio a Davide in Sal 132.11-12. In materia vedi, ad es.:
P. Buis, Les formulaires d’alliance, in Vetus
Testamentum 16.4, 1966, 396-411; H.C. White,
The Divine Oath in Genesis, in
Journal of Biblical Literature 92.2,
1973, 165-179; A. Lemaire,
Serment, alliance et communauté dans
l’Ancien Israël, in Le Serment, a cura di R. Verdier,
II, Théories et devenir, Paris 1991,
spec. 45-51.
[10] Gn
22.16-18. Questo giuramento è ricordato dallo stesso Yahweh a Isacco: Gn 26.3.
[11] Num 14-20-23;
Am 4.2.
[12] Is
45.23. Alcuni giuramenti attribuiti a Dio sono richiamati anche
nell’epistolario di Paolo di Tarso, come Eb 3.11, 3.18, 4.3, 6.13-14, 6.17-18;
in particolare Eb 7.20-21 dove, secondo una prospettiva messianica, si afferma
che Cristo divenne sacerdote attraverso un giuramento.
[13] Gn
24.2.4: Abramo si fece giurare dal suo servo più anziano, facendosi mettere una
mano sotto la sua coscia, che non avrebbe preso la moglie per il figlio Isacco
tra i Cananei, ma che l’avrebbe scelta nella sua patria. Vedi ancora Gn
47.29-31, per cui Israele in punto di morte si fece giurare dal figlio
Giuseppe, con le stesse modalità, di non essere seppellito in Egitto. Come ha
evidenziato P. De Benedetti, Il giuramento nella Bibbia, cit., 30, questo
gesto, insieme all’alzata di mano, consiste in una delle principali modalità
ebraiche di giurare. L’atto di porre la mano sotto la coscia si deve intendere
«come un eufemismo per gli organi sessuali, sede della vita» (31).
[14] Gn
21.22-32. Vedi anche l’alleanza sancita tra Làbano e Giacobbe in Gn 31.43-54. Per questo tipo di alleanza rimando ad A. Lemaire, Serment, alliance et communauté dans l’Ancien Israël, cit., 35-44; vedi anche Id.,
Le serment en Ouest-Sémitique Hébreu et
araméen au Ier millénaire av. J.-C., in Droit
et cultures 15, 1988, 115-129.
[15] Es 22.6-7; 22.9-10. Cfr. la Collatio legum Mosaicarum et Romanorum 10.1.1: Moyses dicit: si aliquis
dabit proximo suo argentum aut vas servare et furatum fuerit de domo hominis,
si invenitur qui furatus est, reddet duplum. Quod si non fuerit inventus fur,
accedet is qui commendatum susceperat ante dominum et iurabit nihil se nequiter
egisse de omni re commendata proximi sui et liberabitur. Sulla Collatio
rimando, ad es., a: G. Barone-Adesi, L’età della «Lex Dei», Napoli 1992,
specialmente alle pagine 7-24 dove si illustrano le moderne indagini in
materia; E.J.H. Schrage, La date de la <Collatio Legum
Mosaicarum et Romanarum>, étudiée d’après les citations bibliques, in Mélanges F. Wubbe offerts par ses collègues
et ses amis à l’occasion de son soixante-dixième anniversaire, Fribourg
Suisse 1993, 401-417; A.M. Rabello, La datazione della Collatio legum
Mosaicarum et Romanarum e il problema di
una sua seconda redazione o del suo uso nel corso del quarto secolo, in
Humana sapit. études d’Antiquité tardive offertes à L. Cracco Ruggini,
a cura di J.-M. Carrié-R. Lizzi Testa, Turnhout 2002, 411-422 (ora in Ebraismo e Diritto. Studi sul Diritto
ebraico e gli Ebrei nell’Impero Romano scelti
e raccolti F. Lucrezi, I, Salerno 2009, 535-546, ivi altri articoli in
materia); F. Lucrezi, Sulla data di redazione della Collatio alla luce di due costituzioni costantiniane, in Atti
dell’Accademia Romanistica Costantiniana, XIV, Napoli 2003, 599-615; Id., Lex Dei e comparazione giuridica, in Atti
dell’Accademia Romanistica Costantiniana, XV, Napoli 2005, 57-82; Id., ‘Collatio’ e traduzioni della Bibbia, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, XVI, Napoli 2007,
167-178; dello stesso A. vedi gli
Studi sulla “Collatio”, I-VI, Torino
2001-2012.
[16] Num
30.3; 30.11-14.
[17] Mt
5.33-37: Iterum audistis quia dictum est
antiquis: ‘Non periurabis; reddes autem Domino iuramenta tua’. 34. Ego autem dico vobis: Non iurare omnino,
neque per caelum, quia thronus Dei est, 35. neque per terram, quia scabellum est pedum eius, neque per
Hierosolymam, quia civitas est magni Regis; 36. neque per caput tuum iuraveris, quia non potes unum capillum album
facere aut nigrum. 37. Sit autem sermo vester: ‘Est, est’, ‘Non,
non’; quod autem his abundantius est, a Malo est. Cfr.
anche Mt 23.16-22, che riporta il discorso di Cristo contro i farisei ipocriti:
Vae vobis, duces caeci, qui dicitis:
‘Quicumque iuraverit per templum, nihil est; quicumque autem iuraverit in auro
templi, debet’. 17. Stulti et caeci! Quid enim maius est: aurum
an templum, quod sanctificat aurum? 18. Et:
‘Quicumque iuraverit in altari, nihil est; quicumque autem iuraverit in dono,
quod est super illud, debet’. 19. Caeci!
Quid enim maius est: donum an altare, quod sanctificat donum? 20. Qui ergo iuraverit in altari, iurat in eo et
in omnibus, quae super illud sunt; 21. et,
qui iuraverit in templo, iurat in illo et in eo, qui inhabitat in ipso; 22.
et, qui iuraverit in caelo, iurat in
throno Dei et in eo, qui sedet super eum. In Mt 26.62-64, durante
il processo religioso a suo carico, dopo la richiesta di giurare (il verbo
utilizzato, adiuro, qui è pari a
“scongiurare”) da parte del sommo sacerdote Cristo rispose dinnanzi al sinodo:
“Tu dixisti”, risposta che ha fatto pensare in passato a un implicito
riconoscimento del giuramento: tuttavia P.
Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia
costituzionale dell’Occidente, Bologna 1992, 40, al contrario sottolinea
come la dichiarazione di Cristo sia «vicina al rifiuto del giuramento».
[18] Gc
5.12: Ante omnia autem, fratres mei,
nolite iurare neque per caelum neque per terram, neque aliud quodcumque
iuramentum; sit autem vestrum ‘Est’ est, et ‘Non’ non, uti non sub iudicio
decidatis. Vedi sul punto: J.P. Meier, Did the Historical Jesus Prohibit All Oaths? Part 1, cit., 175-204 e Part 2, in Journal for the Study of the
Historical Jesus 6.1, 2008, 3-24
(bibl. ivi).
[19] Mt
26.69-74; Mc 14.66-71. Come ha affermato L. Zani,
Il giuramento tra divieto e legittimazione
nel Nuovo Testamento, in Il vincolo
del giuramento e il tribunale della coscienza, cit., spec. 35 e 40 s., la
condanna del giuramento si trova soltanto nel discorso sulla montagna e nella
lettera di Giacomo, mentre in altri testi del Nuovo Testamento «il divieto
sembra totalmente sconosciuto».
[20] Ap
10.5-6.
[21]
Ammonisce però M. Calamari, Ricerche sul giuramento nel diritto canonico, in Rivista di storia del diritto italiano 11,
1938, 136, che «non ha interesse l’esaminare se il giuramento sia illecito per
esseri di natura divina perché la questione della liceità va trattata
esclusivamente per giuramenti fatti dagli uomini».
[22] Tra
gli autori che affermano una limitazione del precetto messianico da parte di
Paolo di Tarso, vedi, ad es., F. Zuccotti, Il giuramento nel mondo giuridico e religioso antico. Elementi per uno
studio comparatistico, Milano 2000, 89 s., per cui il «più radicale invito di
Gesù Cristo a non giurare affatto» venne «già ridimensionato nella sua
assolutezza dalla dottrina di San Paolo».
[23] Vedi
ad es.: 2Cor 1.23, Gal 1.20,
Fil 1.8, 1Ts 2.5.
[24] Eb
6.16: Homines enim per maiorem sui
iurant, et omnis controversiae eorum finis ad confirmationem est iuramentum.
Per il giuramento nell’epistolario di Paolo di Tarso rimando a: M. Calamari,
Ricerche sul giuramento nel diritto
canonico, cit., 133-136; L. Zani,
Il giuramento tra divieto e
legittimazione nel Nuovo Testamento, cit., 41-46; M. Jasonni, Il
giuramento, cit., 34-37, bibl.
ivi.
[25] O.
Delouis, église et serment à Byzance: norme et pratique, in Oralité en lien social au
Moyen Âge (Occident, Byzance, Islam): parole donnée, foi jurée, serment. Actes
du colloque international de l’Institut d’études
Byzantines et du Centre de Recherche d’Histoire et Civilisation de Byzance
(Paris, 10-11-12 mai 2007), Paris 2008, 211: «Non pas que ces textes
soient obscurs – ils sont, au contraire, limpides – et non pas que les
chrétiens aient été en désaccord sur la définition du serment, à savoir
l’invocation du nom divin comme témoin de la vérité. Mais comment les fidèles,
bientôt réunis en église, pouvaient-ils
s’accommoder d’une nouveauté qui bousculait à ce point l’usage et la coutume
ayant jusque-là prévalu? Les paroles du Christ devaient-elles s’entendre dans
un sens absolu?». Vedi anche P. Prodi, Il sacramento del potere, cit., 39, che parla in tal caso di
«divieto esplicito e assoluto», e M. Jasonni, Il giuramento, cit., 31, per cui la
parola di Cristo «è netta e chiara ed assai poco convincenti appaiono i
tentativi esegetici, volti a ridurne la portata od a limitarne gli effetti».
In letteratura, tuttavia, vi è chi ha affermato che il precetto
evangelico non proibirebbe il giuramento: in particolare M. Calamari, Ricerche sul giuramento nel diritto canonico, cit., 131 s., afferma
che il dettato di Mt 23.16-22 concerneva soltanto l’obbligatorietà del giuramento e
non accennava alla sua legittimità, anzi, probabilmente lo considerava lecito, a
fronte dell’assenza di “un accenno esplicito al problema della illiceità”,
mentre in relazione a Mt 5.33-37, l’A. afferma che «ad un esame letterale e
superficiale, il testo evangelico sembra non ammettere altra interpretazione
fuori di questa: che Cristo ha proibito il giuramento»; vedi ancora B.
Biondi, Il diritto romano
cristiano. III. La famiglia – Rapporti
patrimoniali – Diritto pubblico, Milano 1954, 409 s., per cui Cristo
proibirebbe soltanto l’abuso del giuramento.
[26] Per la
condanna del giuramento nei primi secoli del cristianesimo vedi, ad es.: M. Calamari,
Ricerche sul giuramento nel diritto
canonico, cit., 127, 129, 137; M.
Jasonni, Il giuramento, cit.,
38-44. Vedi, invece: F. Crosara, «Jurata voce». Saggi sul giuramento nel nome dei re e degli
imperatori dall’antichità pagana al Medioevo cristiano. Parte III. Il
Cristianesimo, in AUCAM 28, 1962,
280, secondo il quale «la dottrina primitiva della Chiesa si attenne
all’indirizzo paolino che non rompeva la forza di una tradizione, la quale
poteva ben dirsi millenaria per l’oriente e più che secolare per l’occidente»;
L. Zani, Il giuramento tra divieto e legittimazione nel Nuovo Testamento,
cit., 49, per cui il divieto evangelico del giuramento «è stato disatteso nella
comunità cristiana primitiva, ben pochi esegeti interpretano le parole di Gesù
e di Giacomo in maniera letterale e radicale. Molti ne attenuano la radicalità
e la inflessibilità in vari modi». L’A. alle pagine ss. illustra in maniera
schematica le varie “reinterpretazioni del divieto del giuramento” che si sono
susseguite nella storia.
[27] Apologia prima pro Christianis 16, PG 6,
col. 353: Peri; de; tou' mh; ojmnuvnai o{lw", tajlhqh' de; levgein
ajei;, ou'tw" parekeleuvsato
·
Mh; ojmovshte o{lw" ... (tr. lat., col. 354: Ne autem juremus omnino, sed vera semper
dicamus, sic praecepit: Ne juretis omnino ...).
[28]
Clemens Alexandrinus, Stromata 5.14,
PG 9, col. 149. Eppure nella stessa opera (libro 7, cap. 8, PG 9, col. 472),
Clemente afferma che lo gnostico, cioè il saggio, giura anche se non è proclive
a questo atto: sul punto vedi M.
Calamari, Ricerche sul giuramento nel diritto canonico, cit., 139.
[29] Paedagogus 3.11, PG 8, col. 657.
[30] PL 1,
col. 752: Taceo de perjurio, quando ne
jurare quidem liceat.
[31] Nello
stesso liber l’apologeta fa divieto
dei giuramenti di tipo pagano nei capp. 20 (ibid., col. 769: cæterum consuetudinis vitium est me Hercule dicere, me Dius fidius, accedente ignorantia quorumdam, qui ignorant jusjurandum esse per
Herculem. Porro quid erat dejeratio per eos quos ejerasti, quam prævaricatio
fidei cum idololatria? Quis enim per quos dejerat, non honorat?) e 21 (ibid., col. 769: Timiditatis est autem, cum te alius per deos suos obligat juratione vel
aliqua testificatione, et tu ne intelligaris quiescis. Nam
æque quiescendo confirmas majestatem eorum, cujus caussa videberis obligatus. Quid
refert deos nationum dicendo deos, an audiendo confirmes? jures per idola, an
ab alio adjuratus acquiescas? Cur non
agnoscamus versutias Satanæ, qui quod ore nostro perficere non potest, id agit,
ut suorum ore perficiat, per aures inferens nobis idololatriam?); vedi
anche: il capitolo 17 (ibid., col. 764: Credamus itaque succedere alicui posse, ut in quoquo honore, ut in solo
honoris nomine incedat, neque sacrificet, neque sacrificiis anctoritatem suam
accommodet, non hostia locet, non curas templorum deleget, non vectigalia eorum
procuret, non spectacula edat de suo aut de publico, aut edendis præsit: nihil
solemne pronuntiet vel edicat, ne juret quidem), dove, nell’elencare i modi
per evitare che i cristiani che assumono una carica pubblica incorrano
nell’idolatria, si afferma che essi non devono prestare giuramento; il cap. 19
in cui Tertulliano si pone contro il giuramento dei militari (ibid., col. 767: Non convenit
sacramento divino et humano, signo Christi et signo diaboli, castris lucis et
castris tenebrarum: non potest una anima duobus deberi, Deo et Cæsari); il
cap. 18, dove egli sostiene che nei contratti conclusi con i pagani non si deve
prestare giuramento né orale né scritto, e ribadisce che è Cristo a prescrivere
di non giurare (ibid., col. 771: Præscribit Christus, non esse jurandum).
[32]
Joannes Chrysostomus, Adversus
oppugnatores eorum qui Vitam monasticam inducunt 3.14, PG 47, col. 372.
[33] Vedi,
ad es., Joannes Chrysostomus, De compunctione I.4, PG
47, col. 399.
[34] Vedi
ad es.: Joannes Chrysostomus, Homiliae de
Statuis ad populum Antiochenum habitae, PG 49: IV.6 (coll. 67 s.), V.7 (coll.
78-82), VI.6 (coll. 89 s.), VII.5 (coll. 96-98), VIII.4 (col. 102), IX.1 e 5
(coll. 103 s. e 110), X.6 (col. 118), XI.5 (col. 126), XII.6 (coll. 135 s.),
XIII.4 (coll. 141 s.), XIV.1-3 e 5-6 (coll. 144-148 e 150-152), XV.5 (coll.
159-162), XVI.2 (coll. 163 s.), XIX.2-4 (coll. 190-197), XX.8 (coll. 209 s.); Homiliae in Matthaeum XI.8 e XVII.4-7
(PG 57, coll. 201 e 260-264).
[35]
Joannes Chrysostomus, Catechesis ad
illuminandos I.5, PG 49, coll. 229-232, dove sostiene che il
giuramento è un male incurabile e cronico poiché non viene considerato una
malattia.
[36] Vedi
ad es. Homiliae de Statuis ad populum
Antiochenum habitae XVI.6 (PG 49, col. 171).
[37]
Joannes Chrysostomus, Catechesis ad
illuminandos I.5, PG 49, col. 230, disegna un quadro del
quotidiano, segnato dal costante ricorso al giuramento: bavraqron ga;r ouj to; tuco;n h] poluorkiva, oujc o{tan peri; tw'n ejlacivstwn movnon, ajlla; kai; o'tan peri; megivstwn givnhtai pragmavtwn. jHmei'" de; kai; lavcana wjnouvmenoi kai; uJpe;r ojbolw'n duvo filoneikou'nte", kai; pro;" oijkevta" ojrgizovmenoi kai; ajpeilou'nte", to;n Qeo;n pantacou' kalou'men mavrtura (tr.
lat.: Barathrum enim non parvum est
jurandi frequentia, non modo cum de minimis rebus, sed cum de maximis agitur. Nos autem
vel olera ementes, valde de duobus obolis disceptantes, in famulos ira commoti
et comminantes, Deum semper advocamus testem).
[38] Origenes, Homiliae
in Jeremiam V.12, PG 13, col. 312.
[39] Vedi: Exhortatio
ad martyrium 7 (PG 11, coll. 572 s.).
[40] Origenes, Commentaria
in Evangelium secundum Matthaeum. Veteris interpretationis 17, PG 13, col. 1623; vedi
anche 110: ... jurare non licet quantum ad evangelicum Christi mandatum ... (col. 1757).
[41]
Origenes, Commentaria in Evangelium
secundum Matthaeum. Veteris interpretationis 18, PG 13, col. 1624: Si autem oportet quasi talibus Evangelii
agris absconditum, et non a quibuscunque comprehensibilem sensum Scripturæ, vel
ex parte altius publicare, dicendum est: Omne juramentum colligatio est et
confirmatio verbi de quo juratur. Juramentum ergo esse intelligendum est omne
testimonium Scripturarum quod profertur ad confirmationem et colligationem
nostri verbi quod loquimur ...
[42]
Origenes, Commentaria in Evangelium
secundum Matthaeum. Veteris interpretationis 18, PG 13, col. 1624.
[43] M. Calamari,
Ricerche sul giuramento nel diritto
canonico, cit., 141, che comunque lo annovera tra coloro che affermano
l’illiceità del giuramento.
[44] Hieronymus Stridonensis, Commentaria in Jeremiam prophetam 1.4, PL 24, col. 706 = PG 24, col. 733: Et quomodo Evangelium jurare nos prohibet? Sed hic
jurabis, pro confessione dicitur, et ad condemnationem idolorum, per quæ
jurabat Israel. Denique auferuntur offendicula, et jurat per Dominum. Quodque
dicitur: Vivit Dominus, in Testamento veteri jusjurandum est, ad
condemnationem mortuorum, per quos jurat omnis idololatra. Simulque
animadvertendum quod jusjurandum hos habeat comites, veritatem, judicium atque
justitiam: si ista defuerint, nequaquam erit juramentum, sed perjurium. Vedi ancora un altro passo della stessa
opera (1.5, PL 24, col. 713 = PG 24, col.
741): Et quia poterat fieri, ut aliqui
invenirentur in populo, qui simularent cultum Dei, et jurarent per Deum, hoc
prævenit, quod nequaquam Deus vanis sermonibus, sed veritate fidei delectetur,
et dicit: Nos eos diligo, qui jurant per me, et jurant in mendacio, sed quorum
corda labiaque consentiunt.
[45] Ivo Carnotensis, Decretum 12.6, Panormia 8.87
(PL 161, col. 782 e col. 1327).
[46] Decr. Grat. C. XXII, q. 1, c. 8.
[48]
Basilius caesariensis, epistula 199.29 (Saint Basile, Lettres, ed. e tr. di Y. Courtonne,
II, Paris 1961, 160). Nell’epistola si cita il dilemma di Erode II,
se rispettare il giuramento fatto a Salomè di uccidere Giovanni Battista, o
divenire spergiuro; il caso appare esemplare e viene riportato anche da altri
autori, ad es., Ambrosius Mediolanensis, De
officiis ministrorum 3.12.77, PL 16, col. 167, Augustinus Hipponensis, sermo 308.1.1, PL 38, col. 1408. Vedi il commento della lettera di Basilio in
Balsamone, Zonara e Aristeno (PG 138, coll. 681, 684 s., 688): qui in
particolare Balsamon afferma che non
tutti i giuramenti sono proibiti (col. 684).
[49]
Basilius caesariensis, epistula
188.10, ed. Y. Courtonne, II, cit., 129 s. Il
canone di Basilio viene più volte citato dal patriarca Photius a dimostrazione della sua importanza ancora nel IX sec.: Syntagma canonum 1.6, 9.27, 13.18 (PG
104, coll. 504 s., 773, 929); vedi anche il commento di Teodoro Balsamone, Giovanni Zonara e Alessio
Aristeno (PG 138, coll. 628 s., 632).
[50]
Basilius caesariensis, epistula 199.17, ed. Y. Courtonne,
II, cit., 155.
[51]
Basilius caesariensis, epistula 217.64, ed. Y. Courtonne,
II, cit., 212: @O ejpivorko" ejn devka e[tesin ajkoinwvnhto" e[stai: dusi;n e[tesi prosklaivwn, trisi;n ajkrowvmeno", tevssarsin uJpopivptwn, ejniauto;n sunestw;" movnon, kai; tovte th'" koinwniva" ajxiouvmeno"; vedi ancora nella stessa lettera, con qualche discordanza, il
canone 82, ed. Y. Courtonne, II, cit., 215.
[52]
Basilius caesariensis, epistula 85 (Saint Basile, Lettres, I, ed. e tr. di Y. Courtonne,
Paris 1957, 189 s.).
[53] Homiliae in psalmus XIV I.5, PG 29,
coll. 260 s.
[54]
Basilius caesariensis, epistula 22.1, ed. Y. Courtonne,
I, cit., 53: $Oti dei' to;n cristianovn, kreivttona tw'n kata; novmon dikaiwmavtwn genovmenon ejn pa'si, mhvte ojmnuvein mhvte yeuvdesqai. Cfr.
anche epistula 45.2, ed. Y. Courtonne,
I, cit., 114. Per maggiore comprensione del pensiero di Basilio rispetto al
giuramento dei monaci, vedi quanto afferma nel Sermo asceticus 5, PG 31, coll. 880 s.: {Orko" me;n a[pa" ejxorizevsqw tou' katalovgou
tw'n ajskoumevnwn. @H de; katavneusi" th'" kefalh'",
kai; hJ dia; th'" fwnh'" sugkatavqesi" ajnti; o{rkou krinevsqw, kai; tw' levgonti kai; tw' ajkouvonti (tr. lat.: Omne quidem juramentum exterminetur e monachorum coetu: habeatur vero
pro juramento nutus capitis, aut assensus per vocem datus, sive quis loquatur,
sive audiat, col. 882).
[55]
Basilius caesariensis, epistula 207.4, ed. Y. Courtonne,
II, cit., 187.
[56] Theodoretus Cyrensis, Historia religiosa 6, PG 82, col. 1361.
[57]
Gregorius Nazianzenus, Poemata moralia 24,
PG 37, coll. 790-813.
[58] Vedi il
giuramento prestato per attestare l’affezione verso i suoi fedeli: Gregorius
Nazianzenus, Oratio XXVI 1, PG 35,
col. 1228: !Epovqoun
ujma'", w\ tevkna, kai; ajntepoqouvmhn toi'" i[soi" mevtroi". Peivqomai
ga;r, eij dei' kai; pivstin prosqei'nai tw' lovgw, Nai; nh; th;n uJmetevran kauvchsin, ajdelfoi;, h}n e[cw ejn Cristw' !Ihsou' tw' Kurivw hvmw'n. Tou'ton gavr moi pepoivhke to;n o{rkon to; Pneu'ma to; a{gion, w| pro;" uJma'" kekinhvmeqa, i{na kataskeuavswmen Kurivw lao;n periouvsion (tr. lat. in col. 1227: Desiderabam vos, filii, et pari a vobis
desiderio expetebar. Persuasum enim id habeo; ac si ad eam rem jusjurandum
interponendum est, Juro, fratres, per vestram gloriationem, quam habeo in
Christo Jesu Domino nostro. Hanc enim
jusjurandi formam mihi condidit Spiritus sanctus, cujus numine atque afflatu ad
vos venimus, ut Domino populum eximium et peculiarem comparemus).
[59] La
lettera fu inviata a Teodoto, probabilmente vescovo di Tyana, epistula 163 (Saint Grégoire de
Nazianze, Lettres, II, ed. e tr. di
P. Gallay, Paris 1967, 52-54).
[60] Vedi,
ad es.: epistula 47.2: ... non
quia uerum iurare peccatum est ... (Corpus Scriptorum
Ecclesiasticorum Latinorum [da ora CSEL], XXXIIII.3, ed. Al. Golbacher,
Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1898, 131); vd. ancora De sermone Domini in monte 1.17.51, PL 34, col. 1254, De mendacio 15.28, PL 40, col. 507.
[61] La
lettera è conservata nell’epistolario agostiniano: epistula 156: ... proinde rogo, ut mei memor in sanctis orationibus
tuis esse digneris atque inperitiam nostram informare de eo, quod quidam
Christiani apud Syracusas exponunt dicentes ... non debere iurare omnino ...
(CSEL, XXXXIIII, ed. Al. Golbacher, Vindobonae-Lipsiae 1904, 448). Sul
pelagianesimo e su Pelagio la letteratura è vasta, tra le opere più recenti
vedi: B.R. Rees, Pelagius:
Life and Letters. I. Pelagius. A
Reluctant Heretic, rist. riveduta, Woodbridge–Rochester 1988; A. Kessler, Reichtumskritik im
‘pelagianischen’ Schrifttum. Kritische Überlegungen Zum stand der Forschung,
in Studia Patristica 33. Augustine and his opponents, Jerome, other
Latin Fathers after Nicaea, Orientalia, a cura di E.A. Livingstone, Leuven
1997, 131-139; Id., Reichtumskritik
und Pelagianismus. Die pelagianische Diatribe de divitiis: Situierung,
Lesentext, Übersetzung, Kommentar, Fribourg 1999; M. Lamberigts, Pélage: la réhabilitation d’un hérétique,
in Revue d’histoire ecclésiastique 95.3, 2000, 97-111; S. Pricoco, Alle origini
dell’agostinismo. Osservazioni sulla controversia pelagiana dai primi episodi al
concilio di Diospoli (411-415), in L’adorabile vescovo
d’Ippona. Atti del Convegno di Paola (24-25 maggio 2000), a cura di F.E.
Consolino, Soveria Mannelli 2001, 217-252; J.-M. Salamito, Les virtuoses et la multitude. Aspects sociaux de la controverse entre Augustin et le
pélagiens, Grenoble 2005.
[62] Augustinus Hipponensis, epistula 157.40: ... Iurationem autem caue, quantum potes. melius
quippe nec uerum iuratur, quam iurandi consuetudine et in periurium saepe caditur
et semper periurio propinquatur. sed illi, quantum aliquos eorum audiui, quid
sit iurare, prorsus ignorant; putant enim se non iurare, quando in ore habent: Scit
deus et: Testis
est deus et: Testem
deum inuoco super animam meam, quia non dicitur: ‘Per deum’ et quia talia reperiuntur in apostolo Paulo.
sed etiam illa ibi contra eos inuenta est, quam confitentur esse iurationem,
ubi ait apostolus: Cotidie morior,
per uestram gloriam, fratres, quam habeo in Christo Iesu domino nostro. in Graecis enim codicibus reperitur omnino
hanc esse iurationem, ne quisquam in Latina lingua hoc sic intelligat dictum ‘per uestram gloriam’, quo modo dictum est ‘per meum aduentum iterum ad uos’ et multa similia, ubi dicitur ‘per aliquid’ et non est iuratio. sed non
ideo, quia in suis litteris iurauit apostolus, uir in ueritate firmissimus,
ludus nobis debet esse iuratio. multo enim tutius, ut dixi, quantum ad nos
adtinet, numquam iuramus, ut sit in ore nostro: Est, est; non, non,
sicut dominus monet, non quia peccatum est uerum iurare, sed quia grauissimum
peccatum est falsum iurare, quo citius cadit, qui consueuit iurare (CSEL, XXXXIIII, ed. Al. Golbacher, cit., 487 s.).
[63]
Un’analisi delle formule usate da Paolo si rinviene anche, ad es., in sermo 180.5.5, PL 38, coll.
974 s.; De sermone Domini in monte
1.17.51, PL 34, col. 1255.
[64] F. Zuccotti, Il
giuramento nel mondo giuridico e religioso antico, cit., 93, afferma che: «di fronte alla
inviolabilità che il giuramento conosceva nelle concezioni pagane, gli scrittori
cristiani possano invece considerare le conseguenze dello spergiuro su di un
piano identico a quello delle implicazioni negative di qualsiasi altro
peccato».
[65] Augustinus
Hipponensis, sermo 180, PL 38, coll. 972-979. In epistula
47 (CSEL, XXXIIII.2, ed. Al. Golbacher, cit., 129-136), Agostino risponde alla richiesta di un certo Publicola (epistula
46, CSEL, loc. cit., 123-129), circa
la liceità per un cristiano di assumere delle obbligazioni sancite da un giuramento
con una controparte pagana che giura per le sue divinità. Nella lettera, dove espone numerose
questioni, Publicola ricorda che nel paese degli Arzugi, i barbari usano
prestare giuramento in nome dei loro demoni al decurione comandante della frontiera
o al tribuno, quando essi si obbligano ad accompagnare le vetture che
trasportano merci pubbliche, oppure a conservare i prodotti agricoli. I
privati, dunque, credendo di poter far affidamento sulla parola di questi
barbari, in base a una lettera ufficiale del decurione, assumono loro per
custodire i prodotti della terra, oppure come guide e per fare scorta durante i
viaggi. Publicola si preoccupa se il giuramento del barbaro possa contaminare
chi lo riceve, oppure le cose che lui custodisce, e al § 2 della sua lettera
vuole sapere se il giuramento prestato dai barbari ai propri dei, per custodire
i prodotti della terra, non contamini tali cose, e se il cristiano che se ne
ciba, o che utilizza il provento ricavato da tali beni possa restare contaminato.
Al § 5, lo stesso Publicola si chiede se, qualora il barbaro che presta
giuramento esigesse a sua volta un giuramento dal fittavolo o dal tribuno
cristiano, sia solo il cristiano a esserne contaminato o anche le cose per cui
giura. Il vescovo d’Ippona non rileva alcun peccato in questa
fattispecie, qualora fosse lecito l’oggetto del giuramento. Per Agostino è
sempre più grave giurare il falso in nome di Dio rispetto al giurare il vero in
nome di una falsa divinità, poiché più è sanctus
il nome su cui si giura, più è grave lo spergiuro. Da ciò si evince
ancora l’avversione agostiniana per lo spergiuro. Inoltre il
vescovo di Ippona ricorda come nel Nuovo Testamento si dica che non si deve
giurare affatto, e, anche qui, Agostino afferma che ciò è stato detto non
perché giurare il vero sia peccato, ma perché periurare immane peccatum est (§ 2, 131). Vedi in materia C. Lepelley,
Le serment païen. Malédiction démoniaque:
Augustin devant une angoisse des chrétiens de son temps, in Le Serment, II, cit.,
53-61.
[66] Augustinus Hipponensis, sermo
180.2.2, PL 38, col. 973.
[67] Augustinus
Hipponensis, sermo 180.3.3, PL 38,
col. 974.
[68] Vedi M. Jasonni, Il
giuramento, cit., 53 s.:
«L’esito della riflessione è paradossale: in astratto si legittima il giuramento,
ma in concreto forte è la motivazione, in base alla quale si suggerisce di non
ricorrervi, o di ricorrervi con massima cautela».
[69] Canones Apostolorum c. 25 (24 o 26 a
seconda dell’edizione) = Constitutiones
Apostolorum VIII.47.25: !Epivskopo" h] presbuvtero" h] diavkono" ejpi; porneiva h] ejpiorkiva h] kloph' aJlou;" kaqaireivsqw, kai; mh; ajforivzesqw· levgei ga;r hJ grafhv· Oujk ejkdikhvsei" di;" ejpi; to; aujtov· oJmoivw" de; oiJ loipoi; klhrikoi; th' aujjth' aiJrevsei uJpokeivsqwsan (Canones Apostolorum et Conciliorum veterum
selecti, ed. H.Th. Bruns, I.1,
Berolini 1839, 4; vedi, inoltre, altre edizioni: Didascalia et Constitutiones Apostolorum, ed. F.X. Funk, I, Paderbornae 1905, 570; Les Constitutions Apostoliques, III [Sources chrétiennes
336], ed. e tr. di M. Metzger, Paris 1987, 280). Il canone viene citato anche da autori bizantini come, ad es., il
patriarca Photius, Syntagma canonum 9.14,
9.27, 9.29 (PG 104, coll. 743, 772, 780) e l’agiografo Symeon Metaphrastes, Epitome canonum. Sanctorum Apostolorum c. 23 (PG 114, col. 237).
[70]
VII.3.4, ed. F.X. Funk, I, cit.,
392, vedi anche Les
Constitutions Apostoliques, III, ed. M. Metzger, cit., 32.
[71] Già A. Vera,
Il Cristianesimo e il Giuramento,
memoria postuma pubblicata negli Atti
dell’Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli 20, 1886, affermava
che il precetto messianico era “impraticabile” in quanto espressione di un
ideale, per cui il non giurare costituiva «un più alto grado di perfezione
spirituale» (46). Per M. Jasonni, Il giuramento, cit., 34 s., «La fonte
neo-testamentaria doveva ben presto misurarsi con lo sviluppo storico della
comunità cristiana e con le diverse realtà sociali, i diversi ordinamenti
giuridici incontrati nel suo cammino. [...] Non meraviglia, pertanto, che anche
il giuramento, quale legame fondamentale tra verità e diritto, ricompaia, e
sempre con maggiore insistenza, al volgere della conquista cristiana del mondo,
all’interno delle istituzioni ecclesiastiche».
[72] In materia rimando ad A. Vauchez, Le refus du
serment chez les hérétiques médiévaux, in Le Serment, II, cit., 257-263.
[73] Mansi 22, coll. 989 s.: Si qui vero ex eis juramenti religionem obstinatione damnabili
respuentes, jurare forte noluerint; ex hoc ipso tamquam hæretici reputentur.
[74] Per la riflessione canonistica medievale sul iusiurandum, vedi, da ultimi: J. Gaudemet, Le serment dans le droit canonique médiéval, in Le Serment,
II, cit., 63-75; C. Leveleux-Texeira, La construction canonique du serment au XIIe-XIIIe
siècles. De l’interdit à la norme, in Comptes-rendus
des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres 151.2, 2007,
821-844.
[75] Per J.
Gaudemet, Le serment dans le droit canonique médiéval, cit., 63, Graziano,
rispetto alle collezioni del secolo precedente, avrebbe riportato qualche testo
meno conosciuto e avrebbe «ordonné l’ensemble et réfléchi sur le serment».
[76] O.
Delouis, église et serment à Byzance: norme et pratique, cit., 212, il quale afferma: «Une gêne, davantage
qu’une insouciance, peut justifier ce silence». Allo stesso A. rimando per la bibliografia e le fonti
canonistiche orientali, specie per quelle successive ai Padri della Chiesa
come, ad esempio, i canonisti bizantini del XII secolo, quali Giovanni Zonara,
Teodoro Balsamone e Alessio Aristeno. Vedi anche E.V.
Maltese, Giurare a Bisanzio, in Seminari di storia e di diritto. II «Studi
sul giuramento nel mondo antico», a cura di A. Calore, Milano 1998, 127
ss., spec. 133.
[77] E.V. Maltese, Giurare a Bisanzio, cit., 128, sottolinea l’elevata frequenza
dell’uso dei giuramenti nella vita pubblica e privata.
[78] Il
patriarca Fozio, nel IX sec., sostiene che il giuramento sottende lo spergiuro,
e che una persona seria si vergogna di farne uso per avvalorare le proprie
affermazioni, richiamando il precetto evangelico: Epistolarum I, 8.72, PG 102, col. 680; come sottolinea E.V. Maltese, Giurare a Bisanzio, cit., 131-133, questa sarebbe la posizione
teologica ufficiale, che conviveva con una realtà in cui si faceva un ampio
ricorso al giuramento.
[79] Si
tratta di interventi giustinianei quali la Nov. 8.7, che dispone il giuramento dei funzionari, e C.
2.58(59).2. del 531 e Nov. 124.1 del 544-545, norme, queste ultime, che
imponevano il giuramento delle parti all’inizio del giudizio.
[80] Les Novelles de Léon VI le Sage, ed. e tr. fr. di A.
Dain-P. Noailles, Paris 1944, 316-319. O. Delouis, église et
serment à Byzance: norme et pratique,
cit., 225, sostiene che «Après Léon VI, ou peut-être grâce à lui, les
empereurs byzantins ne dissertent plus sur le serment dans leurs lois et se
contentent de points de procédure très secondaires».
[81] Non
pare, infatti, che il concilio, svoltosi ad Alessandria nel 362 (Mansi 3, coll.
343-358), di cui si conosce soltanto la lettera sinodale riportata da
Athanasius Alexandrinus, Tomus ad
Antiochenos (PG 26, coll. 793-810) abbia proibito qualsiasi giuramento,
come ha affermato M. Calamari, Ricerche sul giuramento nel diritto canonico, cit., 146, per il
quale questa deliberazione ecclesiastica non era espressione della concezione
diffusa e maggioritaria, ma sarebbe stata “provocata” da Atanasio.
[82]
Rimando per un’informazione di massima su questo concilio a H. Leclercq, Appendice II. Le concile apostolique d’Antioche, in Ch.-J. Hefele-H. Leclercq, Histoire
des conciles d’après les documents originaux, I.2, Paris 1907, 1071-1087. Il
sinodo fu citato durante lo svolgimento dell’actio prima del II concilio di Nicea del 787, riguardo al culto
delle immagini (Mansi 12, coll. 1017 s.).
[83] I
canoni del concilio degli Apostoli di Antiochia si trovano in un antico
manoscritto greco rinvenuto dal presbitero e martire Pamphilus nella biblioteca di Origene, nel XVI sec.; il teologo
spagnolo F. Turrianus (Francisco de Torres) avrebbe ridotto i canoni a 9,
descrivendoli brevemente nell’Aduersùs
Magdeburgenses Centuriatores pro Canonibus Apostolorum, & Epistolis
Decretalibus Pontificum Apostolicorum, Libri Quinq., Coloniae 1573, lib. I, cap. 25, foll. 123-128 (dell’opera esiste
anche un’edizione pubblicata a Firenze del 1572). Al fol. 124, Turrianus
colloca la prescrizione sui giuramenti al V canone, che espone così: «De vitio gulæ, Christianis item
fugiendo, & de theatris, ac iuramentis». Nell’edizione del Funk, cit., II,
146, dove il canone in
questione è il VII, si può leggere il contenuto: tou'
mh; ejmpaqw'"
e[cein
Cristiano;n
e{neken
gastrimargiva"
kai; tou'
ajpevcesqai
ajselgw'n
qeavtrwn
kai; mhvte
ojmnuvein
propetw'",
tou'
kurivou
levxanto"·
„mh; ojmo+sai
o{lw"
...‟ (tr. lat. a 147: Christianus
ne ventris causa passionibus subiacet, et ut abstineat theatris impudicis,
neque iuret velociter, cum Dominus dixerit, non iurare omnino ...).
[84] La condanna dello smodato ricorso al giuramento
si rinviene anche nel giudaismo antico, giacché nel Liber Ecclesiasticus 23.9-14 si legge: Iurationi
non assuescas os tuum: multi enim casus in illa. 10. Nominatio vero Dei non sit assidua in ore tuo, et nominibus sanctorum
non admiscearis, quoniam non eris immunis ab eis. 11. Sicut enim servus exquisitus assidue livore carere non poterit, sic
omnis iurans et nominans in toto a peccato non purgabitur. 12. Vir multum iurans implebitur iniquitate, et non discedet a domo illius
plaga. 13. Et, si frustraverit,
delictum illius super ipsum erit; et, si dissimulaverit, delinquet dupliciter. 14.
Et, si in vacuum iuraverit, non
iustificabitur: replebitur enim malis domus illius.
[85] c. 9: ... De
periurio vero id censuimus observandum, ut, si quis clericus in causis, quae
sub iureiurando finiendae sunt, praebuerit iuramenta et post rebus evidentibus
detegitur perierasse, biennii temporis excommunicatione plectatur (Monumenta Germaniae Historica, Leges III. Concilia, I. Concilia aevi
Merovingici, ed. F. Maassen, Hannoverae 1893, 76). Il canone viene
riportato anche da Ivo Carnotensis, Decretum
12.18, PL 161, col. 785.
[86] Nel
linguaggio ecclesiastico il termine latino creatura,
oltre a corrispondere a “creatura”, significa “creazione”: A. Ernout-A.
Meillet, v. creō, -ās, -āuī, -ātum,
-āre, in Dictionnaire étymologique de la langue latine.
Histoire des mots, 3a ed., Paris 1979, 149.
[87] Concilium
Carthaginense IV (sive Statuta Ecclesiae Antiqua) c.
61: Clericum per creaturas jurantem
acerrime objurgandum; si perstiterit in vitio, excommunicandum (Canones Apostolorum et Conciliorum veterum
selecti, ed. H.Th.
Bruns, I.1, cit., 147).
[88] Mt
5.34-36 (testo supra a nt. 17). F. Crosara, «Jurata
voce», III, cit., 277, afferma che «l’atteggiamento di Gesù sia
restauratore dell’integrità religiosa di Israele e rivoluzionario nei confronti
di una consuetudine che risaliva alle origini storiche degli stessi popoli
orientali», poiché in materia di giuramento Cristo rifiuta le tradizionali
formule che si ritrovano nei testi greci (“per il cielo e per la terra”), nei
testi mesopotamici (“per la città”), e nelle fonti romane (dove si rinvengono
formule personali, come ad esempio “per il capo”).
Per questa pratica vedi
Hieronymus Stridonensis, Commentariorum
in Evangelium Matthaei 1: Hanc per
elementa jurandi pessimam consuetudinem semper habuere Judæi noscuntur, sicut
prophetalis eos frequenter arguit sermo. Qui jurat, aut veneratur, aut diligit eum,
per quem jurat. In lege præceptum est, ut non juremus, nisi per Dominum Deum
nostrum. Judæi per angelos, et urbem Jerusalem, et templum, et elementa
jurantes, creaturas resque carnales venerabantur honore, et obsequio Dei (PL 26, coll. 39 s.).
[89]
Basilius caesariensis, epistula 217.81, ed. Y. Courtonne,
II, cit., 215, canone riportato da Fozio nel Syntagma canonum 13.13
(PG 104, coll. 925 s.).
[90] Canones Apostolorum et Conciliorum veterum
selecti, ed. H.Th. Bruns, I.1, cit.,
62: Tou;" ojmnuvonta" o{rkou" @Ellhnikou;" oJ kanw;n ejpitimivoi" kaqupovballei· kai; hJmei'" touvtoi" ajforismo;n oJrivzomen; il
canone è richiamato anche in Photius,
Syntagma canonum 13.19 (PG 104, col. 933),
e nel commento di Teodoro Balsamone e Giovanni Zonara al canone trullano (PG
137, coll. 837 e 840). Per la sussistenza dei giuramenti pagani in Oriente almeno fino
al XII sec. e per l’uso dei giuramenti eufemistici rimando a E.V. Maltese, Giurare a Bisanzio, cit., 136 s.
[91]
V.12.1-5, Didascalia et Constitutiones
Apostolorum, ed. F.X. Funk, I, cit., 267 e 269; vedi anche Les
Constitutions Apostoliques, II [Sources chrétiennes 329], ed. e tr. di M. Metzger, Paris
1986, 242, 244 e 246.
[92] Nov.
77.1.1: jEpeidh; dev tine" pro;" toi'" eijrhmevnoi" kai; blavsfhma rJhvmata kai; o{rkou" peri; qeou' ojmnuvousi to;n qeo;n parorgivzonte", kai; touvtoi" oJmoivw" paregguw'men ajposcevsqai tw'n toiouvtwn blasfhvmwn rJhmavtwn kai; tou' ojmnuvnai kata; tricov" te kai; kefalh'" kai; tw'n touvtoi" paraplhsivwn rJhmavtwn, eij gar aiJ kat! ajnqrwvpwn genovmenai blasfhmivai ajnekdivkhtoi ouj katalimpavnontai, pollw' ma'llon oJ eij" aujto; to; qei'on blasfhmw'n a[xiov" ejsti timwriva" uJposth'nai. dia; tou'to ou'jn pavnta" tou;" toiouvtou" protrevpomen ejk tw'n eijrhmevnwn plhmmelhmavtwn ajposcevsqai kai; to;n tou' qeou' fovbon kata; nou'n lambavnein kai; ajkolouqei'n toi'" kalw'" biou'sin, dia; ga;r ta; toiau'ta plhmmelhvmata kai; limoi; kai; seismoi; kai; loimoi; givnontai, kai; dia; tou'to parainou'men· toi'" toiouvtoi" ajposcevsqai tw'n eijrhmevnwn ajtophmavtwn, w{"te mh; ta;" auJtw'n ajpolevsai yucav". eij ga;r kai; meta; th;n toiauvthn hJmw'n nouqesivan euJreqw'siv tine" toi'" aujtoi'" ejpimevnonte" plhmmelhvmasi, provteron me;n ajnaxivou" evautou;" poiou'si th'" tou' qeou' filanqrwpiva", e[peita de; kai; ta;" ejk tw'n novmwn uJposthvsontai timwriva" (tr.
lat.: Quoniam vero nonnulli praeter ea quae
diximus etiam blasphema verba et sacramenta per deum iurant dei iram
concitantes, his quoque similiter denuntiamus, ut abstineant ab eiusmodi
blasphemis verbis et a iurando per capillos et caput atque similibus horum
verbis. Nam si maledicta in homines collata non inulta relinquuntur, multo
magis is qui ipsum deum blasphemat dignus est qui supplicio subiciatur.
Propterea igitur omnes eiusmodi homines hortamur ut a peccatis quae diximus
abstineant et dei timorem animo comprehendant et sequantur eos qui recte
vivunt. Propter eiusmodi enim peccata et fames et terrae motus et
pestes oriuntur, ideoque monemus illos ut abstineant a sceleribus quae diximus,
ne suas perdant animas. Nam si qui etiam post istam admonitionem nostram
reperiantur in iisdem peccatis perseverantes, ii primum quidem dei clementia se
ipsos indignos reddunt, deinde autem suppliciis quoque lege constitutis
subicientur). La novella è riportata
imprecisamente da Ivo di Chartres, Decretum 12.32, PL 161, col. 788: De supplicio
ejus qui per capillum Dei vel barbam jurat. Novellarum constitutio 68, cap.
1. Si quis per capillum vel barbam Dei
juraverit, vel alio modo contra Deum blasphemia aliqua usus fuerit, officio
præfecti urbis ultimo supplicio subjiciatur. Si quis autem hominem talem non
manifestaverit, non est dubium quod divina condemnatione similiter coercebitur;
il testo, per la sua brevità, si avvicina alla Epitome Iuliani cost. 71 (72), cap. 257, anche se qui non si rinviene il giuramento per barbam Dei: De
his, qui per capillum Dei aut per caput iurant, vel alio modo blasphemia contra
Deum immortalem utuntur. 1. Si
quis per capillum Dei vel per caput iuraverit, vel alio modo blasphemia contra
Deum usus fuerit, officio praefecti urbis ultimo supplicio subiiciatur. Si quis
autem sciens talem hominem non manifestaverit, non est dubium, quod divina
condemnatione similiter coërcebitur. Ipse quoque praefectus urbis, si
neglexerit, post Dei iudicium etiam nostram indignationem timeat (ed. G.
Haenel, Lipsiae 1873, 95).
Al pontefice Pio I (il cui pontificato
ebbe luogo dal 140 al 155) si attribuisce una falsa decretale, con cui condanna
duramente ecclesiastici e laici che pongono in essere alcuni tipi di giuramento
considerati blasfemi, inserita in Decr. Grat. Pars II, C. XXII, q. 1, c.
10: Si quis per capillum Dei uel caput
iurauerit, uel alio modo blasphemia contra Deum usus fuerit, si ex
ecclesiastico ordine est, deponatur; si laicus, anathematizetur. Et si
quis per creaturas iurauerit, acerrime castigetur, et iuxta id, quod sinodus
diiudicauerit, peniteat. Si quis autem talem hominem non manifestauerit, non
est dubium, quin diuina condempnatione coherceatur. Et si episcopus ista emendare neglexerit,
acerrime corripiatur (Corpus Iuris Canonici,
I, Decretum magistri Gratiani, ed. A.
Friedberg, Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959], col. 863). Vedi anche Burchardus Wormatiensis, Decretorum 12.15, PL 140, col. 879 e
Ivo Carnotensis, Decretum 12.72, PL 161, col. 798. Per la non veridicità di
tale attribuzione rimando a M.
Calamari, Ricerche sul giuramento nel diritto canonico, cit., 428 nt. 4,
bibl. ivi.
[93] Esempi
di giuramenti richiesti dai concili sono offerti, ad es., da M. Calamari,
Ricerche sul giuramento nel diritto
canonico, cit., 170-178, 181-183.
[94] Acta conciliorum
Œcumenicorum, I.1.2, ed. E.
Schwartz, Berolini-Lipsiae 1927, 37 s. Cfr. anche la terza lettera inviata
dal vescovo di Alessandria, Cirillo, che chiede a Nestorio, patriarca di
Costantinopoli, una dichiarazione scritta accompagnata da giuramento di
condanna delle proprie posizioni, per evitare la scomunica (Mansi 4, coll.
1072, Acta conciliorum Œcumenicorum, I.1.1, ed. E. Schwartz, Berolini-Lipsiae
1927, 34).
[95] Il
testo è consultabile sul sito elettronico
http://www.e-codices.unifr.ch/en/csg/0243/12/medium. Vedi anche Collectio Canonum Hibernensis,
ed. F.W.H. Wasserschleben, Leipzig 1885.
[96] Si deve ricordare qui il c. 23 del sinodo
tenuto in Irlanda da Patricius Hiberniae nel
V secolo, di data incerta (in PL 53, col. 821, si colloca il concilio nel 450),
dove si condanna il giuramento per
creaturas, ma è valido il giuramento fatto nel nome di Dio: Non
jurare omnino, de hoc consequente lectionis series docet non adjurandam esse
creaturam aliam, nisi creatorem, ut prophetis mos est Vivit dominus, & vivit anima mea, &, vivit dominus cui assisto hodie. Finis autem contradictionis est, nisi domino. Omni enim
quod amat homo, hoc & juratur (Mansi 6, col. 526). In Irlanda quindi, almeno nei secoli precedenti, il giuramento
era da considerare lecito, e ciò potrebbe far pensare, ma si tratta solo di
un’ipotesi, che nella collezione il canone in questione fosse stato inserito in
maniera lacunosa.
[97] Mansi
18, col. 143.
[98] c. 13: Dictum est interea de quibusdam fratribus, quod eos, quos ordinaturi
sunt, iurare cogant, quod digni sint et contra canones non sint facturi et
oboedientes sint episcopo, qui eos ordinat, et ecclesiae, in qua ordinantur.
Quod iuramentum, quia pericolosum est, omnes una inhibendum statuimus (Monumenta Germaniae Historica, Leges III. Concilia, II.1 Concilia aevi
Karolini, ed. A. Werminghoff, Hannoverae-Lipsiae 1906, 276).
[99] Monumenta Germaniae Historica, Capitula episcoporum, I, ed. P.
Brommer, Hannoverae 1984, 21. In realtà per Ch.-J.
Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles d’après les documents
originaux, III.2, Paris 1910, 1118, il capitolare prescrive che i chierici
si astengano dagli inutili giuramenti.
[100] Capitulare missorum generale 2: De fidelitate promittenda domno imperatori.
Precepitque, ut omni homo in toto regno suo, sive ecclesiasticus sive laicus,
unusquisque secundum votum et propositum suum, qui antea fidelitate sibi regis
nomine promisissent, nunc ipsum promissum nominis cesaris faciat; et hii qui
adhuc ipsum promissum non perficerunt omnes usque ad duodecimo aetatis annum
similiter facerent. Et ut omnes
traderetur publice, qualiter unusquisque intellegere posset, quam magna in isto
sacramento et quam multa conprehensa sunt, non, ut multi usque nunc
extimaverunt, tantum fidelitate domno imperatori usque in vita ipsius, et ne aliquem
inimicum in suum regnum causa inimicitiae inducat, et ne alicui infidelitate
illius consentiant aut retaciat, sed ut sciant omnes istam in se rationem hoc
sacramentum habere (Monumenta
Germaniae Historica, Leges II. Capitularia Regum Francorum, I, ed. A.
Boretius, Hannoverae 1883, 92). M. Jasonni, Il giuramento, cit., 84, afferma come questa
contraddizione sia soltanto apparente: «non tanto di un divieto si tratta,
bensì di un’esenzione, ovvero di un privilegio concesso al chierico rispetto al
laico, volto ad evitare uno scandalo, intollerabile per la comunità dei fedeli,
in ipotesi di spergiuro».
Questo tipo di giuramento per gli ecclesiastici venne richiesto
anche in una disposizione carolingia precedente, il Capitulare missorum del 786 o del 792 (Monumenta Germaniae Historica, loc. cit., 66 s.),
dove, dopo aver affermato la necessità per il regnum dei giuramenti di fedeltà (Quam ob rem istam sacramenta sunt necessaria, per ordine ex antiqua
consuetudine explicare faciant, et quia modo isti infideles homines magnum
conturbium in regnum domni Karoli regi voluerint terminare et in eius vita
consiliati sunt et inquisiti dixerunt, quod fidelitatem ei non iurasset),
impone poi l’obbligo per vescovi, abati, arcidiaconi, canonici e altri notabili
di prestare il giuramento (2. Quomodo
illum sacramentum iuratum esse debeat ab episcopis et abbatis sive comitibus
vel bassis regalibus necnon vicedomini, archidiaconibus adque canonicis),
prevedendo una speciale modalità per i monaci (3. Clerici qui monachorum nomine non pleniter conversare videntur et ubi
regula sancti Benedicti secundum ordinem tenent, ipsi in verbum tantum et in
veritate promittant, de quibus specialiter abbates adducant domno nostro);
fanno seguito poi le indicazioni sulle modalità di prestazione dell’atto, in
modo che omnes iurent.
Cfr. anche N.G. Svoronos, Le serment de fidélité à l’empereur byzantin et sa signification
constitutionnelle, in Revue des
études byzantines 9, 1951, 113-116, 125-129, per il giuramento di fedeltà prestato
all’imperatore dal patriarca e dai prelati nell’Oriente bizantino.
[101] P. Prodi, Il sacramento del potere, cit., 92-96.
[102] Capitulare missorum in Theodonis villa datum
secundum, generale 9: De iuramento,
ut nulli alteri per sacramentum fidelitas promittatur nisi nobis et unicuique
proprio seniori ad nostram utilitatem et sui senioris; excepto his sacramentis
quae iuste secundum legem alteri ab altero debetur ... (Monumenta Germaniae Historica, Leges II. Capitularia Regum Francorum, I, ed. A. Boretius, cit., 124). P. Prodi, Il sacramento del potere, cit., 93, commenta così questo capitolare:
«è il monopolio del giuramento».
[103] Per
questo concilio: Monumenta Germaniae
Historica, Leges III. Concilia, I. Concilia aevi Merovingici, ed. F. Maassen, cit., 152. Vedi a
riguardo S. Prioux, Grégoire de Tours au Concile de Braine, Paris 1847.
[104] In
materia rimando, ad es., a: Gregorio Magno (che svolse il suo pontificato negli
anni 590-604), che dispone un giuramento purgatorio per avvalorare le prove
dell’innocenza del reo (Decret. Grat.
Pars II, C. II, q. 5, cc. 6-9); Gregorio IX (pontificato negli anni 1227-1241)
nel Decretalium lib. 5, tit. 34. De purgatione canonica, tit. 35. De purgatione vulgari, prevede un
giuramento per liberarsi dall’infamia di un crimine, la purgatio canonica, in cui
devono essere presenti dei compurgatores,
mentre al contempo respinge la purgatio
vulgaris che si fonda sulle ordalie in uso tra le popolazioni germaniche (Corpus Iuris Canonici, II, Decretalium collectiones, ed. A. Friedberg, Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959],
coll. 869-878). Vedi, al riguardo A.
Dumas, v. Serment judiciaire,
in Dictionnaire du droit canonique,
fasc. 40, Paris 1961, coll. 980-984.
[105] tit.
13. De jure jurando, cap. 2, Mansi
34, col. 1872.
[106] Ivo Carnotensis, Decretum 5.313, PL 161,
col. 421. Vedi anche Decret. Grat.
Pars II, C. II, q. 5, c. 18.
[107] Vedi,
ad es., Decret. Grat. Pars II, C. II, q. 5, cc. 5-26.
[108] Nicolaus I, epistola
99.86: ... Porro cum liber homo crimine fuerit appetitus, nisi iam pridem
reppertus est alicuius sceleris reus, aut tribus testibus convictus poenae
succumbit aut, si convinci non potuerit, ad evangelium sacrum quod sibi
obicitur minime commisisse iurans absolvitur, et deinceps huic negotio finis
imponitur, quemadmodum crebo dictus apostolus doctor gentium attestatur:
‘Omnis’, inquiens, ‘controversiae eorum finis ad confirmationem est iuramentum’
(Monumenta Germaniae Historica, Epistolarum VI. Epistolae Karolini aevi, IV,
ed. E. Perels, Berolini 1925, 595).
[109] Vedi i
canoni 18 e 19, Canones Apostolorum et
Conciliorum veterum selecti, ed.
H.Th. Bruns, I.2, Berolini 1839, 312 s.
[110] Canones Apostolorum et Conciliorum veterum
selecti, ed. H.Th. Bruns, I.2,
cit., 312.
[111] c. 38:
Ut nullus deinceps veritatis episcopus solito
super sacra iurare praesumat, quod mysterii causa sancti quaesierint
patriarchae et fecerint. Non enim in hesitatione et malitia exigentis, sed in
caritate non ficta fides servatur. Quod
qui transgredi ausu temerario praesumpserit quolibet modo inlectus, censurae
ecclesiasticae sine retractatione subiaceat (Monumenta Germaniae Historica,
Leges III. Concilia, III. Concilia aevi Karolini DCCCXLIII-DCCCLX,
ed. W. Hartmann, Hannoverae 1984, 102 s., ivi a 103 anche il c. 39 contro lo
spergiuro).
[112] Cfr. R. Naz, v.
Serment, in Dictionnaire du droit canonique, fasc. 40,
cit., coll. 975-980, vedi anche le vv. dello stesso A. Serment des parties, coll. 986-993, Serment promissoire, coll. 993-1001; P. Fedele, v. Giuramento.
Diritto canonico ed ecclesiastico, in ED, 19, 1970, 167-179.
[113] Ordo rituum Conclavis, nn. 39-41 «Dopo l’orazione, i Cardinali elettori, alla presenza di tutti
coloro che hanno partecipato alla processione solenne, pronunceranno il
giuramento. 40. Il Cardinale
Decano o, se egli è assente o legittimamente impedito, il Sottodecano o il
primo dei Cardinali per ordine e per anzianità, pronuncerà a voce alta la
seguente formula di giuramento: Noi
tutti e singoli Cardinali elettori presenti in questa elezione del Sommo
Pontefice promettiamo, ci obblighiamo e giuriamo di osservare fedelmente e
scrupolosamente tutte le prescrizioni contenute nella Costituzione apostolica
del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, Universi
Dominici Gregis, emanata il 22 febbraio 1996. Parimenti, promettiamo, ci obblighiamo e giuriamo
che chiunque di noi, per divina disposizione, sia eletto Romano Pontefice, si
impegnerà a svolgere fedelmente il munus
Petrinum di Pastore della Chiesa universale e non mancherà di
affermare e difendere strenuamente i diritti spirituali e temporali, nonché la
libertà della Santa Sede. Soprattutto,
promettiamo e giuriamo di osservare con la massima fedeltà e con tutti, sia
chierici che laici, il segreto su tutto ciò che in qualsiasi modo riguarda
l’elezione del Romano Pontefice e su ciò che avviene nel luogo dell’elezione,
concernente direttamente o indirettamente lo scrutinio; di non violare in alcun
modo questo segreto sia durante sia dopo l’elezione del nuovo Pontefice, a meno
che non ne sia stata concessa esplicita autorizzazione dallo stesso Pontefice;
di non prestare mai appoggio o favore a qualsiasi interferenza, opposizione o
altra qualsiasi forma di intervento con cui autorità secolari di qualunque
ordine e grado, o qualunque gruppo di persone o singoli volessero ingerirsi
nell’elezione del Romano Pontefice. 41. Poi i singoli Cardinali elettori, secondo l’ordine di precedenza,
presteranno il giuramento con la seguente formula: Ed io N.,
Cardinale N., prometto, mi obbligo e giuro. E
ponendo la mano sul Vangelo presentato a ciascuno di essi dai Cerimonieri,
aggiungeranno: Così Dio mi aiuti e questi
Santi Evangeli che tocco con la mia mano».
[114] CIC
can. 380: «Prima di prendere possesso canonico del suo ufficio, colui che è
promosso emetta la professione di fede e presti giuramento di fedeltà alla Sede
Apostolica, secondo la formula approvata dalla stessa Sede Apostolica».
[115] Per il
giuramento nella legislazione ecclesiastica del XX secolo vedi M. Jasonni, Il
giuramento, cit., 165-221.
[116] Ciò è
attestato dall’epistula scritta dallo
stesso pontefice Cornelius nel 251
(PL 3, coll. 733-762) inviata ad Fabium
Episcopus Antiochenum, dove si legge: Etenim
oblationibus factis portionem singulis dividens, dum eam tradit, miseros homines
benedictionis loco jurare cogit, manus ejus qui portionem accepit, ambabus
manibus suis comprehensas retinens, nec prius dimittens, quam jurati ista
dixerint (ipsis enim utar illius verbis): Jura mihi per corpus et sanguinem
Domini nostri Jesu Christi, te numquam partes meas deserturum, nec ad Cornelium
amplius esse rediturum ... (coll. 756 e 758). La lettera viene riportata in
lingua greca da Eusebium Caesariensis, Historia
Ecclesiastica 6.43, PG 20, col. 628.
[117] Joannes Moschus, Pratum spirituale 97, PG 87.3, coll. 2956 s.: #Elegen oJ ajbba" !Iwavnnh" oJ ajnacwrhth;" oJ ejpivklhn Purro;", o{ !Akhvkoa dihgoumevnou tou' ajbba' Srefavnou tou' Mwabivtou, o{ti @W" h[mhn ejn tw' koinobivw tou' aJgivou Qeodosivou tou' megavlou koinobiavrcou, hj'san ejkei' duvo ajdelfoi; poihvsante" oJrkwmosivan, i{na mhvte ejn th' zwh', mhvte ejn tw' qanavtw aujtw'n cwrisqw'sin ajp! ajllhvlwn ... (tr. lat.: Dicebat autem abbas
Joannes anachoreta, cognomento Rutilus, audisse se ab abbate Stephano Moabita referente,
quia cum esset in coenobio sancti abbatis Theodosii magni monachorum principis,
erant illic duo fratres, qui sibi invicem juraverant quod neque in vita, neque
in morte ab invicem separarentur ..., col. 2955).
[118] epistula 62.2: ... memoratus filius noster Timotheus uehementissime perturbatus, quod
dubietatem tam inopinatam inuitissimus senserit, indicauit nobis, quod, dum
ageres cum illo, ut apud Subsanam deo seruiret, erupit et iurauit a te omnino
non recessurum. cumque eius uoluntatem requireremus, respondit se hac iuratione
impediri, quo minus ibi esset, ubi eum esse etiam antea uolebamus, cum iam
praesertim de suae libertatis manifestatione securus sit. cumque illi
aperuissemus non eum futurum periurii reum, si non per ipsum, sed per te
fieret, ut propter uitandum scandalum tecum esse non posset, quando quidem non
de tua uoluntate sed de sua iurare potuerit nec te sibi uicissim aliquid
iurasse confessus sit, ad extremum dixit, quod seruum dei, ecclesiae filium
dicere oportebat, quicquid nobis cum tua sanctitate de illo fieri placuisset,
id se sine dubio secuturum. proinde petimus et per caritatem Christi obsecramus
prudentiam tuam, ut omnium, quae locuti sumus, memineris et rescriptis tuis nos
laetifices. debemus enim nos firmiores, si tamen inter tanta temptationum
pericula hoc dicere audendum est. sicut ait apostolus, infirmorum onera
sustinere. frater Timotheus ideo non scripsit sanctitati tuae, quia omnia, quae
gesta sunt, sanctus frater tuus significauit. memor nostri in domino glorieris,
domine beatissime et uenerabiliter carissime et sincerissime frater (CSEL,
XXXIIII.2, ed. Al. Golbacher, cit., 225 s.). Si sa, però, da un’altra epistola
inviata a Severo da Agostino, che lo stesso Severo si lamentava di come
l’intera faccenda era stata condotta: epistula 63 (CSEL, loc. cit., 226-229).
[119] E. Seidl, Der Eid in römisch-ägyptischen Provinzialrecht, II, München 1935, 39-43. L’autore
evidenzia le difficoltà che presenta la lettura di alcuni papiri egiziani,
poiché il termine presbuvtero"
«sowohl den Priester der christlichen Kirche als auch den weltlichen
Dorfältesten bedeuten kann», come ad es. P. Oxy. 897 del 346 (39).
[120] Un esempio è P. Würzb. 16 del 349 dove un diacono giura per
l’imperatore.
[121] Un’opinione diversa è stata espressa da J.
Maspero, il quale colmava la lacuna della linea 50 nel modo seguente: «les
moines jurent par le Christ et leur habit ecclésiastique, la partie laïque par
la sainte Trinité et la victoire de l’empereur» (Catalogue général des antiquités égyptiennes du Musée du Caire. Papyrus grecs d’époque byzantine, III, Le Caire
1916, 67).
[122] E. Seidl, Der Eid in römisch-ägyptischen Provinzialrecht, II, cit., 43: «So zeigen die Papyri zu der Frage, ob Kleriker einen Eid schwören dürfen,
auch nur dasselbe Bild, das die Theologen in der Frage, ob ein Christ schwören
dürfe, entwerfen: das praktische Bedürfnis nach dem Eide setz sich durch, so
daß die Versuche, ihn zu verbieten oder wenigstens zu umgehen, im wesentlichen
ergebnislos geblieben sind».
[123] C. Th. 11.39.8: (Pars
actorum habitorum in consistorio aput imperatores Gratianum, Valentinianum et
Theodosium cons. Syagri et Eucheri die III kal. iul. Constantinop(oli)) in consistorio imp. Theod(osius) A. d(ixit):
Episcopus nec honore nec legibus ad testimonium flagitatur. Idem
dixit: Episcopum ad testimonium dicendum admitti non decet, nam et persona
dehonoratur et dignitas sacerdotis excepta confunditur (= C. 1.3.7).
[124] C. Th.
11.39.3 pr.: (Imp. Constantinus A. ad
Iulianum praesidem) Iurisiurandi religione testes, priusquam perhibeant testimonium, iam
dudum artari praecepimus, et ut
honestioribus potius fides testibus habeatur = C. 4.20.9 (a. 334). Vedi quanto si legge al c. 1
del cosiddetto Concilio Cartaginese V: In
principio statuendum est, ut si quis forte in ecclesia quamlibet causam iure
apostolico ecclesiis imposito agere voluerit et fortasse decisio clericorum uni
parti displicuerit, non liceat clericum in iudicium ad testimonium devocari
eum, qui cognitor vel praesens fuit,
ut nulla ad testimonium dicendum ecclesiastici cuiuslibet persona pulsetur (Decretales Pseudo-Isidorianae et Capitula
Angilramni, ed. P. Hinschius,
Lipsiae 1863, 307); si tratta di un testo conservato nell’opera dello
Pseudo-Isidoro, per alcune osservazioni in proposito vedi infra.
[125] C. Th.
11.39.10 = C 1.3.8 del 385.
[126] Nov. 123.7: Oujdeni; de; tw'n ajrcovntwn ejxevstai tou;" qeofilestavtou" ejpiskovpou" ajnagkavzein eij" dikasthvrion paragenevsqai uJpe;r tou' nei'mai marturivan, ajll! oJ dikasth;" pempevtw pro;" aujtouv" tina" ejk tw'n pro"wvpwn tw'n uJphretoumevnwn aujtw', i{na prokeimevnwn tw'n aJgivwn eujaggelivwn kata; to; prevpon iJereu'sin ei[pwsin a{per ginwskousin (tr. lat.: Nulli vero
magistratui licebit deo carissimos episcopos cogere in iudicium venire ad
testimonium dicendum, sed iudex ad eos mittat aliquos ex personis ipsi
ministrantibus, ut propositis sanctis evangeliis, quemadmodum sacerdotes decet,
dicant quae sciant). La norma inalterata si ritrova in Bas. 3.1.13.
[127] Così, ad es., C.
Bertolini, Il giuramento nel diritto
privato romano, Roma 1886, 250 e nt. 12.
[128] Vedi
la significativa affermazione di E. Seidl,
Der Eid in römisch-ägyptischen Provinzialrecht, II, cit., 39: «Nov. Just. 123,7 (546) verbietet, Bischöfe zum Zeugnis vor
Gericht zu zitieren; der Beauftragte des Gerichts legt ihnen dann aber die hlg.
Evangelien vor und nimmt so ihre Aussage entgegen, was eine deutliche Umgehung
des noch zu besprechenden “körperlichen” Eides darstellt».
[129] Les Novelles de Léon VI le Sage, ed. A. Dain-P.
Noailles, cit., 267.
[130] Per il
testo vedi supra.
[131] La
norma viene riportata letteralmente in Bas. 3.1.36.
[132] Come
ha rilevato O. Delouis, église et serment à Byzance: norme et pratique, cit., 224, Leone il
Saggio procede qui a una sintesi tra la norma ecclesiastica e quella civile.
[133] Vedi:
l’editto di Illus nr. 4 dell’Index
Marcianus e nr. 8 del Codex Bodleianus Roe 18 (Anekdota, ed. C.E. Zachariae, cit.,
rispettivamente a 258 s. e a 269); C. 1.4.19 = C. 1.55.11.
[134] Vedi C. 10.27.3 e la sua epitome in C. 1.4.17.
[135] C. 1.4.18.
[136] Così
dispone l’editto del prefetto del pretorio d’Oriente Hierius che viene conservato nel nr. 3 dell’Index
Marcianus e nel nr. 7 del Codex Bodleianus Roe 18 (Anekdota, ed. C.E. Zachariae, cit.,
rispettivamente a 258 e a 265),
per il cui commento rinvio a C.M.A. Rinolfi,
Ed. VII, in Edicta praefectorum praetorio, cit.,
34-38.
[137] Cfr.
anche un’iscrizione di Korykos, contenente la costituzione dell’imperatore
Anastasio emanata in risposta alla controversia sorta sulla nomina del defensor civitatis e del curator: Monumenta Asiae Minoris Antiqua III, nr. 197, 123-129; S. Hagel-K. Tomaschitz, Repertorium der
westkilikischen Inschriften nach den Scheden der kleinasiatischen Kommission
der österreichischen Akademie der
Wissenschaften, Wien 1998, 198 s.; tr. fr. in A. Chastagnol, La fin
du monde antique. De Stilicon à Justinien (Ve siècle et début Vie), Paris 1976, nr. 128, 330-331.
[138] Per le
vicende della condanna dell’archimandrita Eutiche, e la politica religiosa di
Teodosio II, vedi G. Barone-Adesi,
Intorno ad una costituzione di Teodosio II (C. I, 1, 3), in RISG 18,
1974, 45-77, spec. 46-50.
[139] PLRE
II, v. Macedonius 5, 698.
[140] Acta conciliorum
Œcumenicorum, II.1.1, ed. E.
Schwartz, Berolini-Lipsiae 1933, 152: Makedovnio" oJ lamprovtato" tribou'no" notavrio" to; a{gion eujaggevlion prosfevrwn ei'pen· Crh; pavnta ta; keleusqevnta para; th'" aujtw'n eujsebeiva" eijpei'n me. ejkevleusen toivnun tou;" to; thnikau'ta parovnta" aJgiwtavtou" ejpiskovpou" meq! o{rkou eijpei'n eij ajlhqei'" eijsin tw'n uJpomnhmavtwn ajnaginwskomevnwn aiJ kataqevsei" aiJ para; eJkatevrou tou' mevrou" proenecqei'sai. Basivleio" oJ eujlabevstato" ejpivskopo" th'" Seleukevwn ejkklhsiva" ei'Jpen· Mevcri nu'n o{rkon oujk i[smen prosenecqevnta ejpiskovpoi", ajlla; kai; ejntevtaltai hJmi'n para; tou' swth'ro" Cristou' mh; ojmovsai mhvte ejn tw'i oujranw'i, o{ti qrovno" ejsti;n tou' qeou', mhvte ejn th'i gh'i, o{ti uJpopovdiovn ejstin tw'n podw'n aujtou', mhvte eij" th;n kefalh;n th;n eJautou' tina; ojmovsai, o{ti oujdei;" duvnatai trivca tw'n uJpo; tou' qeou' dhmiourghqeisw'n aujto;" poih'sai. e{kasto" de; wJ" qusiasthrivwi parestw;" to;n tou' qeou' fovbon e[cwn pro; ojfqalmw'n kai; to; eJautou' suneido;" fulavttwn kaqaro;n tw'i qew'i tw'n o[ntwn aujtw'i ejn mnhvmhi oujde;n e[cei paralei'yai. @O megaloprepevstato" patrivkio" Flwrevntio" eij'pen· @W" a{pax ei[rhtai, tw'n dehvsewn hJ ajnavgnwsi" parakolouqhvsei. Vedi
anche la versione latina, Acta
conciliorum Œcumenicorum, II.3.1, 135 s.: macedonivs VC
tribvnvs notarivs et referendarivs proferens SCM evangelium D: Oportet omnia quæ mandata sunt ab eorum pietate,
dicere me. iussit igitur eos qui dudum præsentes fuerunt, sanctissimos
episcopos sub sacramento dicere si ueræ sunt legendorum monumentorum
professiones ab utraque parte illatæ. basilivs
REV EPS selevciensivm ecclesiae D:
Hactenus iuramentum episcopis nescimus oblatum, sed et præceptum est nobis a
domino Christo non iurandum neque per cælum, qui thronus dei est, neque per
terram, quia scabellum pedum dei est, neque per caput suum quemquam iurare,
quia nullus potest unum capillum, qui a deo creati sunt, ipse facere.
unusquisque uero sicut ante altare stans dei timorem habens præ oculis et
propriam conscientiam mundam seruans deo, quod in memoriam retinet, nullatenus
habet intermittere. magnificentis̅
patricivs d̅: Sicut semel dictum est,
precum lectio sequatur. secondo M. Calamari, Ricerche sul giuramento nel diritto canonico,
cit., 172, Basilio avrebbe addotto questo argomento «per opportunismo e per
resistenza al potere civile allo scopo di evitare la prestazione del
giuramento, piuttostoché una vera affermazione teorica».
[141] epistula 2: Cornelius episcopus Rufo coepiscopo in domino salutem. Exigit dilectio
tua, frater karissime, ut ex auctoritate sedis apostolicae tuis deberemus consultibus
respondere. ... Sacramentum autem hactenus a summis sacerdotibus vel reliquis
exigi nisi pro fide recta minime cognovimus, nec sponte eos iurasse repperimus.
Summopere ergo sanctus Iacobus apostolus
prohibens sacramentum loquitur dicens: Ante omnia,
fratres mei, nolite iurare neque per caelum neque per terram neque aliud
quodcumque iuramentum. Sit
autem sermo vester: est est, non non, ut non sub iuditio decidatis.
Et dominus in evangelio ait: Audistis quia dictum est antiquis: Non
periurabis, reddes autem domino iuramenta tua. Ego autem dico vobis, non iurare
omnino: neque per caelum, quia thronus dei est, neque per terram, quia
scabellum est pedum eius, neque per Hierosolimam, quia civitas magni regis est;
neque per capud tuum iuraveris, quia non potes unum capillum album facere aut
nigrum. Sid autem sermo vester: est est,
non non. Quod autem his abundantius est, a malo est, id est ab exigente et a iurante. Haec, frater
karissime, ipse dominus prohibet, id est non debere iurare; haec apostoli maxime
omnes, hec sancti viri praedecessores nostri qui huic sanctae universali
apostolicae ecclesiae praefuerunt ante nos, haec prophetae et reliqui sancti
doctores per universum mundum dispersi ad praedicandum iuramenta fieri vetant.
Quorum nos exempla si coeperimus aenumerare aut in scedula hac inserere, ante
sufficeret diei hora quam eorum exemplorum de hac causa prohibita. Quae nos
sanctorum sequentes apostolorum eorumque successorum iura firmamus et
sacramenta incauta fieri prohibemus. Unde et ipse dominus in tabulis lapideis
quas Moysi dedit, propria manu scripsit dicens: Vide ne assumas nomen dei tui in vanum, et reliqua. Nos
autem, ut paulo superius praelibavimus, sacramentum episcopis nescimus oblatum,
nec umquam fieri debet, quoniam, ut supra memoratum est, praeceptum nobis a
domino non iurandum, neque per
caelum, quia thronus dei est, neque per terram, quia scabellum pedum eius est,
neque per capud suum, quia nullus potest unum capillum creare. Unusquisque enim sicut ante altare stans dei
timorem habet prae oculis, et propriam conscientiam mundam servat deo, quod in
memoriam retinet, nullatenus habet intermittere, quoniam os quod mentitur occidit animam ...
(Decretales Pseudo-Isidorianae et Capitula Angilramni, ed.
P. Hinschius, cit., 172 s.).
[142] Decret. Grat. Pars II, C. II, q. 5, cc.
1-3.
[143] In materia rimando all’opera collettanea Fortschritt durch Fälschungen? Ursprung,
Gestalt und Wirkungen der pseudoisidorischen Fälschungen. Beiträge zum gleichnamigen Symposium an der Universität
Tübingen vom 27. und 28. Juli
2001, (Monumenta Germaniae
Historica. Studien und Texte 31),
a cura di W. Hartmann-G. Schmitz,
Hannover 2002. Vedi anche K.
Zechiel-Eckes, v. Pseudoisidorische
Dekretalen, in Lexikon der
Kirchengeschichte, II, Freiburg-Basel-Wien 2001, coll. 1345-1349
(bibl. ivi).
[144] Mansi
1, coll. 814-816, attribuisce con certezza l’epistola al pontefice.
[145] Gli
atti del concilio di Calcedonia testimoniano che lo stesso Basilio chiese ad
altri vescovi di deporre con modalità simili, ma non uguali, a quelle del
giuramento: Basilius reverendissimus
episcopus Seleuciæ Isauriæ dixit: Precor magnificentiam vestram, singulos
metropolitanos episcopos, & Lycaoniæ, & Phrygiæ, & Pergensem, &
ceteros venire huc, & præsentibus sacrosanctis evangeliis dicere, si non
post damnationem beati Flaviani omnibus nobis trittibus effectis ... (Mansi
6, coll. 829 s.).
[146] Nella versio latina edita da Rustico l’atto di
giurare è reso con il termine sacramentum, Actio IIII.61 s.: pascasinvs vir REV EPS vicarivs sedis apostolicae D: Si
præcipit gloria uestra et iubetis illis aliquid præstari humanitatis,
fideiussoribus datis non exeant de ista ciuitate, quamdiu Alexandria episcopum
accipiat. magnificenT et gloriosissimi
ivdices et amplissimus senatus DD: Sanctissimi Pascasini episcopi sit firmum iudicium. unde permanentes
in proprio habitu reuerentissimi episcopi Ægyptiorum aut dent fideiussores, si
hoc illis est possibile, aut per sacramenta eis credatur quia expectant
ordinationem futuri episcopi magnæ ciuitatis Alexandriæ (Acta conciliorum Œcumenicorum, II.3.2, ed. E. Schwartz, Berolini-Lipsiae 1936, 119 [378]),
mentre nel testo in lingua greca si utilizza il vocabolo ejxwmosiva: Paskasi'no" oJ eujlabevstato" ejpivskopo" topothrhth;" tou' ajpostolikou' qrovnou ei'jpen· Eij prostavttei hJ uJmeteJra ejxousiva kai; keleuvetev tiv pote aujtoi'" parasceqh'nai filanqrwpiva" ejcovmenon, ejgguva" dovtwsan o{ti oujk ejxevrcontai tauvth" th'" povlew" e{w" ou'J hJ jAlexandrevwn ejpivskopon devxhtai. OiJ megaloprepevstatoi kai; ejndoxovtatoi a[rconte" kai; hJ uJperfuh;" sivgklhto" ei'pon· JH tou' oJsiwtavtou ejpiskovpou Paskasivnou yh'fo" bebaiva e[stw. o{qen mevnonte" ejpi; toi' oijkeivou schvmato" oiJ eujlabevstatoi ejpivskopoi tw'n Aijguptivwn h] ejgguva" parevxousin, eij tou'to aujtoi'" dunatovn, h] ejxwmosivai katapisteuqhvsontai ajnamevnonte" th;n ceirotonivan tou' ejsomevnou ejpiskovpou th'" jAlexandrevwn megalopovlew" (Acta conciliorum
Œcumenicorum, II.1.3, ed. E. Schwartz, Berolini-Lipsiae 1935, 114 [310]). Gli atti relativi all’episodio si ritrovano anche in Photius, Syntagma
canonum 10.7 (PG 104, coll. 829 e 832).
[147] Un
caso esemplare, che attesta l’importanza del giuramento quale strumento per supportare
le proprie asserzioni nell’ambito delle controversie teologiche, si rinviene
nel 336, quando, poco prima della sua morte, Ario fu reintegrato
dall’imperatore Costantino dopo aver giurato sull’ortodossia della sua
dottrina. L’episodio viene descritto da Atanasio, patriarca di Alessandria,
nella sua lettera ad Serapionem, De morte Arii 2, PG 25, coll. 685 e
687.
[148] Per la
generalizzazione e l’ampia diffusione postclassica e giustinianea del
giuramento e le motivazioni culturali che stanno alla base di questo fenomeno
vedi, ad es., con varie posizioni di cui, per economia del discorso, non posso
rendere conto: B. Biondi, II giuramento decisorio nel processo civile
romano, Palermo 1913 [rist. an., Studia
Juridica 31, Roma 1970], 88 e nt. 3, 115-121; Id., Il diritto romano
cristiano, III, cit., 393, 404-411; A. Calore,
«Tactis Evangeliis», in Il gesto nel rito e nel cerimoniale dal
mondo antico ad oggi, a cura di S. Bertelli-M. Centanni, Firenze 1995,
53-99; A.
Calore, «Iuro per deum
omnipotentem ...»: il giuramento dei
funzionari imperiali all’epoca di Giustiniano, in Seminari di storia e di diritto. II «Studi sul giuramento nel mondo
antico», a cura di A. Calore, Milano 1998, 110-112; S. Puliatti, Officium iudicis e certezza del diritto in età giustinianea,
in Legislazione, cultura giuridica,
prassi dell’Impero d’Oriente in età giustinianea tra passato e futuro, Atti del Convegno – Modena, 21-22 maggio
1998, a cura di S. Puliatti-A. Sanguinetti, Milano 2000, 61-85; F. Zuccotti, Il
giuramento nel mondo giuridico e religioso antico, cit., 99. Vedi anche E. Nardi, Scritture
‘terribili’, in Studi in onore di C.
Sanfilippo, II, Milano 1982, 431-468, per i giuramenti giustinianei.
[149] Vedi ad
es.: C. 1.4.19 = C. 1.55.11 del 505, C. 1.4.27.1 = C. 5.70.7.5 del 530.
[150]
L’esempio più rilevante di questo giuramento, definito da E.V. Maltese, Giurare a Bisanzio, cit., 127, come «il giuramento
cristiano-bizantino per eccellenza», si rinviene nella formula annessa alla
Nov. 8, sul giuramento dei funzionari (per la cui analisi rimando da ultimo ad
A. Calore: «Tactis Evangeliis», cit., 55-58,
«Iuro per deum omnipotentem
...»: il giuramento dei funzionari
imperiali all’epoca di Giustiniano, cit., 107-126; cfr. anche S. Puliatti, Officium iudicis e certezza del diritto in età giustinianea,
cit., 74-76). Vedi ancora, ad es.: C. 2.58(59).1 del 529; C. 4.1.12.5 del 529,
dove si legge: ... sive sub ipso iudice praestari oportet
iuramentum sive in domibus, sive sacris scripturis tactis sive in sacrosanctis
oratoriis; Nov. 72.8
e Nov. 74.5 pr. del 538.
Questa pratica viene
menzionata nel IV sec. da Joannes Chrysostomus, Homiliae de Statuis ad populum Antiochenum habitae XV.5 (PG 49,
col. 160): Su; de; eij mhde;n e{teron, aujto; gou'n to; biblivon aijdevsqhti o} proteivnei" eij" o{rkon, kai; to; Eujaggevlion, o} meta; cei'ra" lambavnwn keleuvei" ojmnuei" ojmnuvnai, ajnavptuxon, kai; ajkouvsa" tiv peri; o{rkwn oJ Cristo;" ejkei' dialevgetai, frivxon, kai; ajpovsthqi ... Oujc ou{tw stevnw kai; dakruvw sfazomevnou" ajkouvwn tina;" ejn tai'" oJdoi'", wJ" stevnw kai; dakruvw kai; frivttw, ejpeida;n i[dw tina; plhsivon th'" trapevzh" tauvth" ejlqovnta, kai; ta;" cei'ra" qevnta, kai; tw'n Eujaggelivwn aJfavmenon kai; ojmnuvonta (tr.
lat.: Tu vero si nihil aliud, saltem
librum ipsum reverere, quem in juramentum porrigis: et Evangelium, quod intra
manus capiens jurare jubes, explica, et audiens quid ibi Christus de juramentis
disserat, horresce et desiste. ... Non ita gemo et deploro quospiam in viis
jugulatos audiens, sicut genio et lacrymis prosequor et horresco, cum video
quempiam prope mensam hanc venientem, et manus imponentem, et Evangeliis
contactis jurantem).
A proposito del giuramento sui
Vangeli, o su altre cose sacre, C.
Bertolini, Il
giuramento nel diritto privato romano, cit., 25, afferma che a esso
«fu attribuita come una forza fisica od, a meglio dire, irresistibile e si
stimò che anche colla sola presenza di quei sacri oggetti, dovessero manifestarsi
le cose occulte in modo meraviglioso e disparire gli errori e le iniquità». Per
la generalizzazione dell’uso di toccare i Vangeli nei giuramenti “che
contavano” rimando a E. Nardi, Scritture ‘terribili’, cit., spec.
463-468.
[151] Sul giuramento in età romana e su alcune
fattispecie particolari, vedi, senza presunzione di esaustività: E. von Lasaulx, Der Eid bei den Römern,
Würzburg 1844; H.A.A. Danz, Der sakrale Schutz im römischen
Rechtsverkehr. Beiträge zur
Geschichte der Entwickelung des Rechts bei den Römern, Jena 1857; C. Bertolini, Il giuramento nel diritto privato
romano, cit., bibl. risalente a VII-XI; Th. Kiesselbach, Beitrag zur Lehre vom römischen Eide
nach den Fragmenten in den Pandekten, in Jahrbücher für die Dogmatik des heutigen römischen und
deutschen Privatrechts 4, 1861, 321-365; é.
Cuq, v. Jusjurandum, in Dictionnaire des antiquités grecques et
romaines, III.1, ed. Ch.
Daremberg-Edm. Saglio, Paris 1900, 769-775;
L.
Debray, Contribution à l’étude du serment
nécessaire, in NRH
32, 1908, 125-160, 344-368, 437-461; B. Biondi,
II giuramento decisorio nel processo
civile romano, cit.; Id., Il diritto romano cristiano, III, cit.,
391-412; [A.] Steinwenter, v. Iusiurandum, in P.-W., 10.1, 1917, coll.
1253-1260; G. Provera, Contributi allo studio del iusiurandum in
litem, Torino 1953; F. Crosara,
“Jurata voce”. Saggi sul giuramento nel
nome dei re e degli imperatori dall’antichità pagana al Medio Evo cristiano.
Parte I: Oriente, Grecia e Roma, Napoli 1958, 71-135 [estratto da AUCAM 23, 1957, 369-433]; L. Chiazzese, Jusiurandum in litem, Milano 1958;
L. Amirante, v. Giuramento (Diritto romano), in NDI, 7, 1961, 937-942; Id., Dubbi e riflessioni in tema di «iusiurandum in iudicio», in Studi in onore di E. Betti, III, Milano
1962, 15-39; G. Broggini, Sulle origini del iusiurandum in litem,
in Studi in onore di E. Betti, II,
Milano 1962, 117-155 (ora in Id.,
Coniectanea. Studi di diritto romano,
Milano 1966, 187-226); S. Tondo, Il ‘sacramentum militiae’ nell’ambiente
culturale romano-italico, in SDHI 29,
1963, 1-123; P. Herrmann, Der römische Kaisereid. Untersuchungen zu seiner Herkfunt und
Entwicklung,
Göttingen 1968, 50 ss.; R. Bonini,
Il “iusiurandum a moriente de modo
substantiae suae praestitum” (Nov. Iust. 48), in Archivio
giuridico “Filippo Serafini” 177, 1969, 115-124 (= in Studi in onore di G. Grosso, V, Torino 1972, 139-148); D. Simon, Untersuchungen zum justinianischen
Zivilprozess, München 1969, 315-348; R.
Beare, The Meaning of the Oath by
the Safety of the Roman Emperor, in The
American Journal of Philology 99.1, 1978, 106-110; F. Zuccotti, Il giuramento nel mondo giuridico e religioso antico,
cit., ivi ampia nota bibliografica a 115-126; A. Izzo, Il giuramento deferito dal giudice nel processo formulare, in Parti e giudici nel processo dai diritti
antichi all’attualità, a cura di C. Cascione-E. Germino-C. Masi Doria,
Napoli 2006, 97-112. Per le testimonianze papirologiche vedi specialmente: L. Wenger, Der Eid in der griechischen Papyrusurkunden,
in ZSS RA 36, 1902,
158-274; E. Seidl, Der Eid in römisch-ägyptischen
Provinzialrecht, I, München
1933, II, München 1935; Z.M. Packman, Notes on Papyrus Texts with the Roman
Imperial Oath, in Zeitschrift für
Papyrologie und Epigraphik 89, 1991, 91-102; Id., Regnal Formulas in
Document Date and in the Imperial Oath, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 91, 1992, 61-76; Id., Still
Further Notes on Papyrus Documents with the Imperial Oath, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik
100, 1994, 207-210.
[152] Per
apprezzare meglio la norma riporto tutto il testo di C. 1.3.25: (Imp. Marcianus A. Constantino p.p.) Cum clericis in iudicium vocatis pateat episcopalis
audientia, volentibus tamen actoribus, si actor disceptationem sanctissimi
archiepiscopi noluerit experiri, eminentissimae tuae sedis examen contra
catholicos sub viro reverentissimo archiepiscopo huius urbis clericos
constitutos vel contra reverentissimum oeconomum tam de ipsius quam de
ecclesiasticis negotiis sibimet noverit expetendum neque in ullo alio foro vel
apud quemquam alterum iudicem eosdem clericos litibus inretire et civilibus vel
criminalibus negotiis temptet innectere. 1. Memorati
autem reverentissimi clerici orthodoxarum ecclesiarum, quae sub viro religioso
antistite huius inclitae urbis sunt, in causa, in qua vel ipsi vel
procuratores, quos pro se dederint, sententiarum auctoritate pulsantur,
exsecutoribus, per quos coeperint conveniri, fideiussorem sacratissimae huius
urbis ecclesiae oeconomum vel defensorem praebeant, qui usque ad quinquaginta
libras auri fideiussor existat. 1a. Ipse vero reverentissimus oeconomus almae
huius urbis ecclesiae lite pulsatus fideiussorem pro se non praebeat, utpote
qui et aliorum clericorum fideiussor futurus est, sed fidei suae committatur.
1b. Quod si
lis diversorum (excepto reverentissimo oeconomo) clericorum, quae agitanda sit,
memoratam summam videtur excedere, clericus lite pulsatus det exsecutori pro
residua quantitate cautionem suam: cui nullum tamen insertum erit iusiurandum,
quia ecclesiasticis regulis et canone a beatissimis episcopis antiquitus
instituto clerici iurare prohibentur. 2. Statuimus autem, ut exsecutoribus idem
reverentissimus oeconomus vel alii diversi clerici sub beatissimo archiepiscopo
huius splendidissimae civitatis sententiarum tuarum auctoritate commoniti
solidos duos tantummodo dent pro commonitione sua et pro institutione
procuratoris, si per eum voluerint litigare. 3. Quod circa alios quoque diversos apparitores
eminentiae tuae in his, quae ex consuetudine praebentur officio, observari in
causis praedictorum clericorum iubemus, ut litis sumptus vel expensae a
clericis pauciores humanioresve praestentur (a. 456?). Secondo M.R. Cimma, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a
Giustiniano, Torino 1989, 134 nt. 6, i negotia
ecclesiastica a cui la costituzione fa riferimento si devono intendere come
«le controversie aventi ad oggetto il patrimonio ecclesiastico». P. Collinet, La procédure par libelle,
Paris 1932, 152 nt. 1, avanza l’ipotesi che il testo possa essere interpolato.
[153] Per
gli strumenti che garantiscono la presenza in giudizio del convenuto rimando da
ultimo ad A. Trisciuoglio, Fideiussio iudicio sistendi causa e idoneità
del fideiussore nel diritto giustinianeo e nella tradizione romanistica,
Napoli 2009, 19 ss.; vedi anche 31-34 per un’analisi della costituzione di
Marciano.
[154] Il
ricorso alla cautio iuratoria si
ritrova sia nella legislazione imperiale - vedi ad es., C. 1.49.1.1 (a. 479);
C. 12.1.17 (a. 485-486?); C. 12.19.12 pr. (di Anastasio, s.d.); C.
12.21(22).8.1 (a. 484) - sia nella normativa secondaria, quale ad es., gli
editti del prefetto del pretorio Archelao (la cui prefettura venne detenuta
negli anni 524-527) ai numeri 28, 30, 31.2 del Codex Bodleianus Roe 18 pubblicato da C.E. Zachariae, Anekdota, cit., 276 s., per il cui
commento rimando ad A. Trisciuoglio in
Edicta praefectorum praetorio, cit.,
rispettivamente a 102 s., 107 s., 109 s.
[155] J. Cujacius, nelle sue riflessioni al commentario
all’editto del giurista Paolo, evidenzia
una certa similitudine tra l’esonero di giurare per vestali e flamen Dialis, e quello per i clerici
cristiani espresso nella costituzione di Marciano: «Unde pars illa edicti apud
Gel. 10. cap. 15. Sacerdotem vestalem et
Flaminem Dialem in omni mea jurisdic. jurare non cogam. Quod et de Flamine Diali refert Festus et Livius 31. Et Plutarch.
rationem reddit in problematis. Attamen Flamines illos sub Tiberio et Cajo
legimus apud Dionem 58. jurasse non quidem publice in curia, sed ijdiva, privatim. Et ideo videntur posse adjungi iis, ad quos l. 15. hoc tit. ait, domum mitti
oportere ad jurandum, nec in forum eos compelli debere jurandi causa.
Invenio similiter clericis nostris omne jusjurandum
remitti, l. cum clericis, C. de Episcop. et cleric. etiam
jusjurandum de calumnia, quod tamen ibi negat Accursius ex constitutione
Henrici 2. Imperatoris, quæ et illius l. cum
clericis mentionem facit, cap. 1.
ext. de juramento calumniæ» (In lib. XVIII. Pauli ad edictum commentarii,
in Opera ad parisiensem Fabrotianam
editionem, V, Prati 1838, col. 350); cfr. anche quanto espresso nel suo
commento alle Decretali di Gregorio IX: «Id tamen genus
jurisjurandi, imo et omne jusjurandum in cap.
1. ostenditur interdici clericis, ex Constitutione Henrici Secundi
Imperatoris, ... atque ita, quod jam ante Marcianus Imperator constituerat
specialiter de clericis Orientalibus, vel Constantinopolitanis tantum, ut nullo
adficerentur jurejurando, vel adigerentur ... id generaliter porrigitur ab
Henrico Imper. et Honorio Pontifice etiam ad clericos Occidentales, et monachos
etiam, qui non sunt clerici totius Orbis Christiani, ita ut nemo per se
quicquam jurare cogatur, vel possit ultro, inconsulto, ... sed per alium jurare
possit ... sicut olim cum Flamini Diali, et Sacerdoti Vestali jurare fas
nunquam erat» (In tit. VI
lib. II Decretalium Gregorii noni commentarii, in Opera ad parisiensem
Fabrotianam editionem, X, Prati 1840, col. 1187). L. Desanti, Vestali e vergini cristiane, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, VIII,
Napoli 1990, 479 s., richiama l’annotazione di Cujacio, e afferma che la norma
di Marciano presenta «una forte analogia con una disposizione attribuita
all’editto perpetuo, che avrebbe dispensato Vestali e Flamen Dialis dal giuramento».
[156] Acta conciliorum
Œcumenicorum, II.1.2, ed. E.
Schwartz, Berolini-Lipsiae 1933, c. 18, 161 [357]. Questa condanna è richiamata
nel c. 34 del Concilio in Trullo nel
691-692, Canones Apostolorum et
Conciliorum veterum selecti, ed.
H.Th. Bruns, I.1, cit., 48.
[157] B. Biondi, Il diritto romano cristiano, III, cit., 412: «Comunque di fronte a
questa netta posizione della Chiesa rispetto al giuramento degli ecclesiastici,
non si può dubitare della attendibilità del precedente canonico richiamato da
Marciano, sebbene possa essere dubbia la identificazione». Così espressa
l’argomentazione del Biondi appare però una petizione di principio.
[158] B. Biondi, Il diritto romano cristiano, III, cit., 411.
[159] L.
Wenger, Canon in den römischen Rechtsquellen
und in den Papyri. Eine
Wortstudie, Wien-Leipzig 1942, 84-87.
[160] F.G. Savagnone, Studi sul diritto romano ecclesiastico, in Annali del Seminario Giuridico della R. Università di Palermo 14,
1930, 136.
[161] F.G. Savagnone, Studi sul diritto romano ecclesiastico, cit., 137.
[162] E. Seidl, Der Eid in römisch-ägyptischen Provinzialrecht, II, cit., 38.
[163] J. Gaudemet,
L’Église dans l’Empire romain (IVe-Ve siècles), Paris
[1958], 576.
[164] C.
2.58(59).2 pr.: (Imp. Iustinianus A.
Iuliano pp.) ... necessarium duximus et praesentem legem
ponere, per quam sancimus in omnibus litibus, quae fuerint post praesentem
legem inchoatae, non aliter neque actorem neque fugientem in primordio litis
exercere certamina, nisi post narrationem et responsionem, antequam utriusque
partis advocati sacramentum legitimum praestent, ipsae principales personae
subeant iusiurandum. et actor quidem iuret non calumniandi animo litem movisse,
sed existimando bonam causam habere: reus autem non aliter suis adlegationibus
utatur, nisi prius et ipse iuraverit, quod putans se bona instantia uti ad
reluctandum pervenerit ...;
la norma è riprodotta in Bas. 7.14.20.
Per questo giuramento rimando,
tra gli ultimi, a:
J.G. Camiñas, Régimen jurídico del iusiurandum calumniae, in SDHI 60, 1994, 457-468; N. Sarti, Maximum dirimendarum
causarum remedium. Il giuramento di
calunnia nella dottrina civilistica dei secoli XI-XIII, Milano 1995; M. Jasonni, Il giuramento, cit., 109-114.
[165] Questa
norma viene richiamata anche in Nov. 49.3 pr. del 537: !Epeidh; de; hJmei'" uJpe;r eujlabeiva" tw'n dikazomevnwn hjboulhvqhmen eujqu;" ejn prooimivoi" th'" divkh" ojmnuvnai tou;" me;n diwvkonta" wJ" ouj sukofantou'nte" ejpavgousi ta;" divka", tou;" de; feuvgonta" wj" oi[ontai th;n ajpologivan meta; tou' pro"hvkonto" poiei'sqai ajll! oujc e{neken filoneikiva", kai; tou'ton koino;n ejqevmeqa to;n novmon kata; panto;" pro"wvpou pantavpasin oujdeni; tou'to sugcwrhvsante" ...
(tr. lat.: Quoniam vero ad religionem
litigantium augendam statim in primordio litis iurare voluimus actores quidem
se non per calumniam lites deferre, reos autem se putare defensionem sese uti
decet facturos esse nec vero contentionis causa, atque hanc legem communem
adversus omnem personam tulimus nemini omnino id permittentes ...).
[166] Heinricus divina pietate secundus Romanorum
imperator augustus omnibus. Quoniam legibus cautum est, ut nemo clericorum
iurare praesumat, alibi vero reperitur scriptum, ut omnes principales personae
in primo litis exordio subeant iuramentum calumpniae, nonnullis legisperitis
res venit in dubium: utrum clerici iusiurandum praestare debeant, aut alii
personae hoc offitium liceat delegare. Quia enim illud constitutionis edictum,
ubi clerici iurare prohibentur, a Marciano augusto Constantino praefecto
praetorio de Constantinopolitanis clericis promulgatum fuisse videtur, idcirco
ad alios clericos pertinere non creditur. Ut ergo ista dubietas ab omnibus
penitus auferatus, nos illam divi Marciani constitutionem ita interpretari
decrevimus, ut ad omnium ecclesiarum clericos generaliter pertinere iudicetur.
Nam cum divus Iustinianus iure decreverit, ut canones patrum vim legum habere
opporteat, et in nonnullis patrum canonibus reperiatur, ut clerici iurare non
audeant, dignum est, ut totus clericalis ordo a praestando iuramento immunis
esse procul dubio censeatur. Quapropter nos, utriusque divinae videlicet et
humanae legis intentione servata, decernimus et imperiali auctoritate
inretractabiliter diffinimus, ut non episcopus, non presbiter, non cuiuscumque
ordinis clericus, non abbas, non aliquis monachus vel sanctimonialis in
quacumque controversia sive criminali sive civili iusiurandum compellatur qualibet
ratione subire, set suis idoneis advocatis hoc officium liceat delegare. Dat.
III. Non. Aprilis in civitate Arimino (Monumenta
Germaniae Historica, Leges IV.1. Constitutiones et Acta publica imperatorum
et regum, ed. L. Weiland, Hannoverae 1893, 96 s.).
[167] Per la
costituzione vedi da ultimi: E. Cortese,
Lex, aequitas, utrumque ius nella
prima civilistica, in “Lex et
iustitia” nell’utrumque ius: radici antiche e prospettive attuali. Atti del VII
Colloquio internazionale romanistico-canonistico, (12-14 maggio 1988), a
cura di A. Ciani-G. Diurni, Città del Vaticano 1989, 96 s.; Id., Il
diritto nella storia medievale, I. L’alto medio evo, Roma 1995, 386 s.; N.
Sarti, Maximum dirimendarum causarum remedium. Il giuramento di calunnia nella dottrina civilistica dei secoli
XI-XIII, cit., 73-77; L. Loschiavo, Summa Codicis Berolinensis. Studio ed
edizione di una composizione ‘a mosaico’, Frankfurt am Main 1996, 131-137.
[168] Così: N. Sarti, Maximum dirimendarum
causarum remedium. Il
giuramento di calunnia nella dottrina civilistica dei secoli XI-XIII, cit., 77; L. Loschiavo, Summa
Codicis Berolinensis, cit., 132.
[169]
Honorius II, epistolae et privilegia 110
(PL 166, coll. 1311 s.); vedi anche Regesta
pontificum romanorum, II, ed. Ph. Jaffé, Leipzig 1885 [rist. anast.
Graz 1956], 839, nr. 7401 (5316).
[170] Decretal. Gregor. IX 2.7.1 (Corpus Iuris Canonici, II, cit., ed. A.
Friedberg, coll. 265 s.).
[171] Per la
discussione dei glossatori civilisti in materia vedi L. Loschiavo, Summa
Codicis Berolinensis, cit., 132-137. Per il giuramento nelle Decretali
medievali vedi M.
Jasonni, Il giuramento,
cit., 96-109.
[172] Photius, Syntagma
canonum 9.27 (PG 104, col. 776), testo infra
a nt. 174.
[173] Scholium a Photii Nomocanon 9.2 (PG
104, col. 1120).
[174] Photius, Syntagma
canonum 9.27, PG 104, col. 776: Ouj movnon e;piorkei'n kwluvetai klhriko;", ajlla; kaqovlou ojmnuvnai· ei'rhtai ga;r tou' kwvd. bibl. a v, tivt. g,v diavt. ke,v o{ti oiJ klhrikoi; dikazovmenoi didovasin ejgguva" mevcri n v litrw'n· eij de; to; pra'gma uJperbaivnei, oJmologivan ejpi; tw' uJperbaivnonti poiou'sin ajnwvmoton· diovti kai; oiJ novmoi kai; oij kanovne", kwluvousi klhriko;n ojmnuvein: eij kai; ta; mavlista ei[rhtai bibl. tw' aujtw', tivt. ib v, diavt. g v, o{ti dei' tou;" pros: feuvgonta", protrepomevnou" kai; o{rkon ejpi; thv avsfaleiva lambavnonta", ajpotivqesqai a{per ejpifevrontai o{plia: kai; hJ z v diavt. tou' aujtou' bibl. fhsi;n, o{ti ejan e[stin uJpovnoia peri; klhrikou' wJ" e[conto" pravgmata tou' prosfeuvgonto", keleuvsei tou' ejpiskovpou ojmnuvei (tr. lat., col. 775: Non
modo pejerare, verum etiam jurare in universum clericis prohibetur. Dicitur
enim lib. I cod. tit. 3, const. 25, quod clerici litigantes, fidejussiones dent
usque ad quinquaginta libras [auri] et si res [hanc summam] excedat, pro
exsuperanti cautionem injurati faciant: eo quod et leges et canones clericum
jurare prohibeant, quanquam [vel] maxime dicatur eodem lib. tit. 12, const. 3, quod oporteat eos qui [ad ecclesias]
confugiunt, admonitos, et de securitate jurejurando accepto, deponere quæ [in
illas] intulerint arma: et constit. 6, ejusdem XII lib. dicat: Quod si suspicio
sit de clerico, tanquam res [aliquas] confuge habeat, jussu
episcopi sui juret). Vedi anche l’ed.
di I.B. Pitra, Iuris ecclesiastici
Graecorum historia et monumenta, II, Romae 1868, 560.
[175] Per le
problematiche inerenti alla redazione di questa costituzione, vedi specialmente
F. De Marini Avonzo, La pubblicazione in Alessandria di una legge
di Teodosio II, in Annali della
Facoltà di Giurisprudenza di Genova. Scritti in onore di C. Castello, 20,
Genova 1984-1985, 85-94 (ora in Ead.,
Dall’impero cristiano al medioevo. Studi
sul diritto tardoantico, Goldbach 2001, 83-92).
[176] In
materia di diritto di asilo nelle chiese, senza presunzione di completezza,
vedi: B. Biondi, Il diritto romano cristiano. I. Orientamento religioso della legislazione,
Milano 1952, 387-391; G. Crifò,
v. Asilo (diritto di), in ED, 3, 1958, 191-197, spec. 196 s.; A.D.
Manfredini, ‘Ad ecclesiam
confugere’, ‘ad statuas confugere’, nell’età di Teodosio I, in Atti dell’Accademia Romanistica
Costantiniana, VI, Città di Castello 1986, 39-58; G. Barone-Adesi, «Servi
fugitivi in ecclesia». Indirizzi cristiani e legislazione imperiale, in Atti dell’Accademia Romanistica
Costantiniana, VIII, Napoli 1990, 695-741; A. Ducloux, Ad ecclesiam confugere. Naissance du droit d’asile dans les églises (Ive – milieu Ve s.), Paris 1994; A.D. Manfredini, Debitori pubblici e privati «in ecclesias confugientes» da Teodosio a
Giustiniano, in Rivista di Diritto
Romano 2, 2002,
http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano02manfredini.pdf;
M. Melluso, In tema di servi fugitivi in ecclesia in epoca giustinianea. Le Bullae
Sanctae Sophiae, in Dialogues d’histoire
ancienne 28.1, 2002, 61-92; C.
Traulsen, Das sakrale Asyl in der
alten Welt: zur Schutzfunktion des Heiligen von König Salomo bis zum Codex
Theodosianus, Tübingen 2004, 267-310.
[177] Mansi 5, coll. 437-446; Corpus Legum ab Imperatoribus Romanis ante Iustinianum
latarum quae extra constitutionum Codices supersunt,
ed. G.F. Haenel, Lipsiae 1857, 242-245; Acta conciliorum Œcumenicorum, I.1.4, ed. E.
Schwartz, Berolini-Lipsiae 1927, 61-65
(già in E. Schwartz, Anhang II. Basiliko;" novmo" peri; tw'n prosfeugovntwn ejn ejkklhsivai, in F. von Woess,
Das Asylwesen Ägyptens in der
Ptolemäerzeit und die spätere Entwicklung, München 1923, 253-272).
[178] C. 1.12.3.3: Tou;" de; meta; o{plwn ta;" aJgiva" ejkklhsiva" katalambavnonta" prohgoumevnw" me;n mh; poiei'n tou'to uJpomimnhvskomen·
eja;n de; ejn oiJwdhvpote
tovpw
th'" ejkklhsiva" h] ejnto;" tou' naou' h] peri; to;n nao;n h] kai; ejkto;" touvtou tugcavnwsin, paracrh'ma ta; o{pla aujqentiva tou' ejpiskovpou para; movnwn tw'n klhrikw'n aujsthrovteron ajnagkazomevnou" ajpotivqesqai prostavttomen, didomevnh" aujtoi'" ejlpivdo" kai; o{rkou, wJ" th' qrhskeiva ma'llon h] th' tw'n o{plwn ejpikouriva ojcurwqhvsontai (tr. lat.: Eos vero,
qui cum armis sacras ecclesias occupant, ne hoc faciant, praemonemus. quod si
in quovis ecclesiae loco sive infra templum sive circa templum sive etiam extra
hoc sint, statim eos, ut arma deponant, auctoritate episcopi a solis clericis
severius conveniri praecipimus, data eis fiducia et iuramento, quod religione
magis quam armorum praesidio muniantur).
[179] C. Th. 9.45.4.3: (Impp.
Theod(osius) et Val(entini)anus AA. Antiocho ppo) Hos vero, qui templa cum armis ingredi
audent, ne hoc faciant, praemonemus; dein si telis cincti quovis ecclesiae loco
vel ad templi saepta vel circa vel extra sint, statim eos, ut arma deponant,
auctoritate episcopi a solis clericis severius conveniri praecipimus, data eis
fiducia, quod religionis nomine melius quam armorum praesidio muniantur ...
[180] Come nota il Krueger ad
C. 1.12.3.3, al posto della parola “giuramento” negli atti efesini v’è il
termine qavrsou": eja;n dev tina maniva tuflwvttousa paroxuvnh tw'n hJmetevrwn perii>dei'n ti qespismavtwn ejn oiJwdhvpote tovpw th'" ejkklhsiva", h] ejnto;" tou' naou', h] peri; to;n nao;n, h] kai; ejkto;" touvtou tugcavnonta, paracrh'ma tou'ton ta; o{pla aujqentiva tou' ejpiskovpou para; movnwn tw'n klhrikw'n, kai; aujsthrovtera uJpe;r th'" aujtw'n swthriva", ajpotivqesqai katanagkasqh'nai prostavttomen. dedomevnh" aujtoi'" ejlpivdo" kai; qavrsou", wJ" th' qrhskeiva ma'llon h] th' tw'n o{plwn ejpikouriva ojcurwqhvsontai = Quod si quisquam
furiis actus aliquod istorum nostrorum decretorum in quocunque ecclesiastico loco
violaverit, sive id fiat extra templum, sive intra templum, sive etiam circa
templum, iubemus, ut confestim episcopi auctoritate a solis clericis arma
deponere compellatur, et severius etiam pro sua salute, spe illi data atque
fiducia, quod religione ac pietate securius munietur, quam armorum praesidio (ed.
G.F. Haenel, cit., 243 e 245).
[181] Già C. Bertolini, che nelle sue note a F. Glück, Commentario alle Pandette, XII, Milano 1905, 354 nt. d, affermava il
divieto di giurare per gli ecclesiastici «sotto l’impero della religione
cristiana», citando tra le eccezioni C. 1.12.6.7 e C. 1.12.3.3, e osservava
«per quest’ultima legge che la corrispondente del Codice Teodosiano, 9, 45, 4,
non parla di giuramento».
[182] Per
un’analisi particolareggiata della norma rimando, da ultimo ad A.D. Manfredini, Debitori pubblici e privati «in ecclesias confugientes» da Teodosio a
Giustiniano, cit., 310-316.
[183] Così A.D. Manfredini, Debitori pubblici e privati «in ecclesias confugientes» da Teodosio a
Giustiniano, cit., 315: «L’interpretazione più plausibile, soprattutto per
la chiamata in causa dell’antistite del luogo, secondo noi è che ci si
riferisca a persone interne alla chiesa, soprattutto chierici, che si siano
prestati a tenere presso di sé i beni mobili del fuggiasco».
[184] Nella
sua traduzione del § in esame, lo stesso A.D.
Manfredini, Debitori pubblici e
privati «in ecclesias confugientes» da Teodosio a Giustiniano, cit., 315,
appare dubbioso: «se talora (durante le
ricerche delle cose mobili intra fines, di cui si sta trattando) vien detto che
i beni sono stati dati a deposito o in custodia, vogliamo che vi sia una
cautela nell’indagare tanto grande che, se siano considerati nascosti presso
qualcuno sulla base di un semplice sospetto, per autorità del venerabile
antistite, gli sia ordinato di dare giustificazioni anche dalla sua coscienza
(anche attraverso il giuramento?)».
Nella costituzione il
riferimento al giuramento, che però non è prestato da chierici, si rinviene soltanto
in C. 1.12.6.9(5): Sane
si servus aut colonus vel adscripticius, familiaris sive libertus et huiusmodi
aliqua persona domestica vel condicioni subdita conquassatis rebus certis atque
subtractis aut se ipsum furatus ad sacrosancta se contulerit loca, statim a
religiosis oeconomis sive defensoribus, ubi primum hoc scire potuerint, per eos
videlicet ad quos pertinent, ipsis praesentibus pro ecclesiastica disciplina et
qualitate commissi aut ultione competenti aut intercessione humanissima
procedente, remissione veniae et sacramenti interveniente securi ad locum
statumque proprium revertantur, rebus, quas secum habuerint, reformandis.
diutius enim eos intra ecclesiam non convenit commorari, ne patronis seu
dominis per ipsorum ab sentiam obsequia iusta denegentur et ipsi per incommodum
ecclesiae egentium et pauperum alantur expensis.
[185] Glossa
a Conscientia: Nota quem se debere per sacramentum purgare ... (Codicis DN. Iustiniani sacratissimi
principis P.P. Augusti, repetitae praelectionis, libri XII. Accursii
commentarijs, & multorum veterum ac recentiorum iurisprudentium
annotationibus tam ad textum, quam ad glossas, recens illustrati, mendisque
quam plurimis passim repurgati: additis & restitutis quibusdam Graecis
constitutionibus ..., editio postrema, Venetiis 1574, nt. u, col. 136). Nella glossa Accursio elenca un ampio numero di
passi del Corpus iuris civilis, in
cui nella maggior parte si rinviene l’imposizione di un giuramento, o la
richiesta di dimostrazione di innocenza, come, ad esempio, D. 48.1.5 pr. (Ulpianus 8 disputationum: Is
qui reus factus est purgare se debet nec ante potest accusare, quam fuerit
excusatus: constitutionibus enim observatur, ut non relatione criminum, sed
innocentia reus purgetur);
C. 4.1.3 del 286 (In bonae fidei contractibus nec non etiam in aliis causis inopia
probationum per iudicem iureiurando causa cognita res decidi potest);
C. 6.30.22.10 del 531 (Licentia danda creditoribus seu legatariis
vel fideicommissariis, si maiorem putaverint esse substantiam a defuncto
derelictam, quam heres in inventario scripsit, quibus voluerint legitimis modis
quod superfluum est approbare, vel per tormenta forsitan servorum
hereditariorum secundum anteriorem nostram legem, quae de quaestione servorum
loquitur, vel per sacramentum illius, si aliae probationes defecerint, ut
undique veritate exquisita neque lucrum neque damnum aliquod heres ex huiusmodi
sentiat hereditate ...), ma in nessuno di essi si trova una frase
pari a “de sua etiam conscientia satisfacere”.
[186] A. Díaz-Bautista, Les garanties bancaires dans la législation de Justinien, in Rida 29, 3a s., 1982, 171 e
nt. 27, afferma come nelle Novelle giustinianee il termine ejgguvh non indica soltanto «le
type le plus simple de garantie, correspondant, non entièrement, à la fideiussio romaine, mais qu’il est
utilisé aussi pour se référer à la garantie personnelle en général», e quindi
cita tra gli esempi Nov. 123.21.2.
[187] Nov. 123.21.2: Eij dev ti" uJpe;r crhmatikh'" aijtiva" katav tino" tw'n mnhmoneuqevntwn pro"wvpwn ejnagwgh;n e[coi tinav, kai; oJ ejpivskopo" uJpevrqhtai metaxu; aujtw'n dikavsai, a[deian oJ ejnavgwn ejcevtw tw' politikw' a[rconti pro"ievnai, ou{tw mevntoige i{na to; aijtiaqe;n prov"wpon mhdeni; provpw ajnagkavzhtai ejgguhth;n didovnai, ajlla; movnon oJmologivan a[neu o{rkou meta; uJpoqhvkh" tw'n ijdivwn pragmavtwn ejktivqesqai ... (tr. lat.: Si quis autem de pecuniaria causa contra aliquam
ex memoratis personis actionem aliquam habeat, et episcopus inter eos iudicare
differat, liceat actori civilem praesidem adire, ita tamen
ut persona accusata nullo modo cogatur fideiussorem dare, sed tantummodo
promissionem sine iureiurando cum hypotheca suarum rerum edere ...); la norma è inserita in Bas. 3.1.37.2.
[188] B. Biondi, Il diritto romano cristiano, III, cit., 411 s., afferma che oltre
alla norma di Marciano anche «In altri casi il giuramento è imposto, sempre in
conformità ai canones»; l’A. afferma
come in Nov. 123.21.2 non si richiami la fonte ecclesiastica che ne stabilisce
il principio, «sebbene poco dopo, a proposito della giurisdizione del vescovo
si ricordino le sacrae regulae».
[189] Nov.
123.1 pr.: Qespivzomen toivnun, oJsavki" a]n creiva gevnhtai ejpivskopon ceirotonhqh'nai, tou;" klhrikou;" kai; tou;" prwvtou" th'" povlew", h'J" mevllei oJ ejpivskopo" ceirotonei'sqai, ejpi; trisi; pro"wvpoi" yhfivsmata poiei'n prokeimevnwn tw'n aJgivwn eujaggelivwn kinduvnw tw'n ijdivwn yucw'n »kai; e{kaston aujtw'n o'mnuvnai kata; tw'n qeivwn logivwn, kai; ejggravfein ejn aujtoi'"¼ levgonta" ... (Sancimus igitur, ut quoties episcopum creari
opus sit, clerici et primores civitatis, cuius episcopus creandus est, de tribus
personis decreta faciant propositis sanctis evangeliis periculo animarum suarum
[et unusquisque eorum per sancta
evangelia iuret, atque in iis scribat],
dicentes ...). Cfr. anche il caput 34 dove si prescrive che la nomina dell’abate o dell’archimandrita
debba essere fatta con dichiarazione alla presenza delle Sacre Scritture.
[190] ed.
R. Schoell-G. Kroll ad h. l.
[191] Nov. 137.2: ... o{rkon de; uJpevcein kai; aujto;n to;n ceirotonouvmenon kata; tw'n qeivwn grafw'n, wJ" ou[te di j eJautou' ou[te di j eJtevrou pro"wvpou devdwkev ti h] uJpevsceto oujde; meta; tau'ta dwvsei h] aujtw' tw' ceirotonou'nti aujto;n h] toi'" ta; yhfivsmata eij" aujto;n poihsamevnoi" h]
eJtevrw tw'n pavntwn tini; uJpe;r th'" eij" aujto;n genhsomevnh" ceirotoniva" ... (tr. lat.: ... Iusiurandum autem ipse
quoque qui creatur per sacras scripturas praestet, neque per se neque per aliam
personam se quicquam dedisse aut promisisse neque posthac daturum esse aut ipsi
qui eum creat aut iis qui decreta pro eo fecerunt, aut alii omnium ulli pro ordinatione in ipsum conferenda
facienda ...). L’intero caput II della
Novella è riportato, con qualche modifica nella parte iniziale, in Bas. 3.1.8;
vedi anche lo scholium a Photii Nomocanon 1.23 (PG 104, coll.
1004 s.).
[192] Nov.
137 praef.: ... oiJ ga;r tou;" iJerou;" kanovna" fulavttonte" th'" tou' despovtou qeou' bohqeiva" ajxiou'ntai, kai; oiJ touvtou" parabaivnonte" aujtoi; eJautou;" th' katakrivsei uJpobavllousi. meivzoni de; uJpovkeintai katakrivsei oiJ oJsiwvtatoi ejpivskopoi, oi'J" pepivsteutai kai; zhtei'n tou;" kanovna" kai; fulavttein ei[per ti touvtwn parabainovmenon ajnekdivkhton kataleifqeivh. tw'n ouj'n qeivwn kanovnwn mh; parafulacqevntwn diafovrou" pro"eleuvsei" ejdexavmeqa kata; klhrikw'n te kai; monacw'n, kai; tinwn ejpiskovpwn wJ" mh; kata; tou;" qeivou" kanovna" biouvntwn, kai; a[lloi de; eu{rhntai mhde; aujth;n th;n th'" aJgiva" pro"komidh'" h] tou' aJgivou baptivsmato" pro"euch;n ejpistavmenoi (tr.
lat.: ... Qui enim sacros canones observant,
domini dei auxilio digni habentur, quique eos violant, se ipsi condemnationi
subiciunt. Maiori vero condemnationi subiecti sunt sanctissimi episcopi, quibus
commissum est ut et in canones inquirant et caveant, si qua eorum violatio
relinquatur impunita. Sacris igitur canonibus non observatis varias contra
clericos et monachos et episcopos nonnullos interpellationes accepimus, ut qui
non secundum sacros canones vivant; atque alii quoque inventi sunt, qui ne
ipsam quidem sanctae oblationis vel sancti baptismatis precationem sciant).
[193] Nov.
137.2: Toi'" ou'jn uJpo; tw'n qeivwn kanovnwn oJrisqei'sin ajkolouqou'nte" to;n parovnta poiouvmeqa novmon, dij ou'J qespivzomen, oJsavki" creiva gevnhtai ejpivskopon ceirotonhqh'nai, sunievnai tou;" klhrikou;" kai; tou;" prwvtou" th'" povlew" h'J" mevllei ejpivskopo" ceirotonei'sqai, kai; prokeimevnwn tw'n aJgivwn eujaggelivwn ejpi; trisi; pro"wvpoi"
yhfivsmata poiei'n, kai; e{kaston aujtw'n ojmnuvnai kata; tw'n qeivwn ... (tr. lat.: Sequentes igitur ea quae a sacris canonibus
statuta sunt, praesentem legem facimus, per quam sancimus, ut quoties episcopum
creari opus sit, clerici et primores civitatis, cuius episcopus creandus est,
conveniant, et propositis sanctis evangeliis de tribus personis decreta
faciant, et unusquisque eorum per sancta eloquia iuret ...).
[194] Cfr.
Nov. 137.1.
[195]
Prochir. 28.1-2, ed. C.E. Zachariae, Heidelbergae 1837, 155 s.
[196] Il
richiamo ai sacri canoni si rinviene in Prochir. 28.3, dove si riporta Nov.
137.3, in caso si istituisca un’accusa contro l’ordinazione: kai; eij euJreqh' oJ ceirotonouvmeno" uJpaivtio" kata; novmou" h] kanovna", kwluevsqw ... (tr. lat.: ... Et
si ordinandus inveniatur culposus secundum leges aut canones, prohibeatur ...),
ed. C.E. Zachariae, cit., 156.
[197] Un
ulteriore esempio di giuramento di ecclesiastici nella legislazione
giustinianea è dato da Nov. 120.7.1 del 544, relativa alla vendita di beni
ecclesiastici: ... eij dev ti" ejk tw'n eijrhmevnwn eujagw'n oi[kwn tw'n te ejn th' basilivdi povlei tw'n te ejn tai'" ejparcivai" o[ntwn (ejxhrhmevvvvvnh" th'" aJgiwtavth" megavlh" ejkklhsiva" th'" basilivdo" povlew") kth'sin e[coi polloi'" dhmosivoi" televsmasi bebarhmevnhn, ejx h'J" oujdemiva eij"avgetai prov"odo" tw' eujagei' oi[kw, a[deian parevcomen toi'" tou' aujtou' eujagou'" oi[kou dioikhtai'" th;" toiauvthn kth'sin ejkpoiei'n oiJwdhvpote provpw boulhqei'en pro;" to; lusitele;" tou' aujtou' eujagou'" oi[kou, uJpomnhmavtwn dhladh; kai; ejpi; th' toiauvth ejkpoihvsei prattomevnwn par! ejkeivnoi", ajf! wJ'n oiJ dioikhtai; tw'n toiouvtwn tovpwn probavllontai h] ceirotonou'ntai, kai; ojmnuvntwn ejpi; tw'n aJgivwn grafw'n tw'n proestwvtwn tou' toiouvtou eujagou'" oi[kou kai; tou' pleivono" mevrou" tw'n ejn aujtw' leitourgouvntwn, wJ" ou[te kata; prodosivan ou[te pro;" cavrin h] oiJandhvpote perigrafh;n hJ ejkpoivhsi" givnetai, ajlla; dia; to; fulacqh'nai to; ajblabe;" tw' aujtw' eujagei' oi[kw ...
(tr. lat.: ... Quodsi quae ex praedictis venerabilibus
domibus tam quae in regia civitate quam quae in provinciis sunt (excepta
sanctissima maiore ecclesia regiae civitatis) possessionem habeat multis
publicis tributis praegravatam, ex qua nullus reditus venerabili domus
proveniat, facultatem concedimus eiusdem venerabilis domus administratoribus
talem possessionem quocumque modo velint ad utilitalem eiusdem venerabilis
domus alienandi, ut scilicet monumenta in tali quoque alienatione conficiantur
apud illos, a quibus administratores eiusmodi locorum designantur aut creantur,
iurentque per sacras scripturas ii qui praesunt tali venerabili domui et maior
pars eorum qui in ea ministeria obeunt, neque per prodilionem neque ad gratiam
aut ad ullam circumscriptionem fieri alienationem, sed ut venerabili domui
indemnitas servetur ...).
[198] Per
una bibliografia sull’argomento vedi, tra i più recenti: S. Puliatti, Ricerche sulle Novelle di Giustino II. La legislazione imperiale da
Giustiniano I a Giustino II, II. Problemi
di diritto privato e di legislazione e politica religiosa, Milano 1991,
209-214; C. Capizzi, Giustiniano I tra politica e religione,
Soveria Mannelli 1994, 97 ss.; L. De
Giovanni, Istituzioni scienza
giuridica codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia,
Roma 2007, 427 s.
[199] Vedi
l’attestazione del giuramento prestato dal pontefice il 15 agosto del 550: Juravit beatissimus papa Vigilius domino
piissimo imperatori, in præsentia nostra, id est, mei episcopi Cæsareæ
Cappadociæ Theodori, et mei patricii Cethegi, per virtutem sanctorum clavorum
ex quibus crucifixus est Dominus Deus noster Jesus Christus, et per sancta
quatuor Evangelia, ita per istam virtutem sancti freni, et per ista sancta
quatuor Evangelia: quod cum pietate vestra uno animo, una voluntate, hoc velle,
hoc conari, ita agere, quantum possumus, ut ista tria capitula, id est,
Theodorum Mopsuestenum cum scriptis suis, et epistolam quæ dicitur Ibæ, et
conscripta Theodoreti contra orthodoxam fidem et contra duodecim capitula
sancti Cyrilli dicta, condemnentur et anathematizentur; et nihil pro his
capitulis, neque per me, neque per eos quibus credere possum, ex ordine
clericatus, aut laicis, contra voluntatem pietatis vestræ aut agere, aut loqui,
aut consilia dare secretius. Et si quis mihi aliquid contrarium dixerit, aut de
istis capitulis, aut de fide, aut contra rempublicam, istum sine mortis
periculo pietati vestræ manifestabo, et quæ mihi locutus est: ita ut propter
locum meum personam meam non prodas: et me ista custodiente erga pietatem
vestram, honorem meum in omnibus servare promisisti; sed et personam
opinionemque meam custodire, et cum Dei adjutorio defendere; sed et privilegia
Ecclesiæ meæ servare. Sed et chartulæ istæ nulli ostendantur, nihilominus
promisistis. Promitto præterea quod in ista causa trium capitulorum, quodcunque
debet fieri communiter tractamus; et quod utile nobis visum fuerit, hoc
faciamus cum adjutorio Dei. Datum est hoc juramentum quintodecimo die mensis
Augusti, indictione XIII, imperii domini nostri Justiniani anno 23, novies post
consulatum Basilii viri clarissimi. Ego Theodorus misericordia Dei episcopus
Cæsareæ Cappadociæ, huic chartulæ juramenti testis subscripsi. Flavius
Cethegus vir patricius huic chartulæ juramenti testis subscripsi (PL 69, coll. 121 s.).