Testatina-Tradizione2013

 

 

GIOVANNI GUIDA

Università Roma Tre

 

Compravendita e suggestioni in tema di superamento del principio di relatività degli effetti del contratto*

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ABSTRACT: Contrat de vente et principe de la relativité des effets du contrat

 

L’auteur examine le thème du «dogme» de la relativité des effets du contrat, qui est expressément codifié dans de nombreuses juridictions européennes, même si est souvent contesté de la part de la doctrine en ce qui concerne sa substance, mais sa valeur en tant que principe générale n'a jamais été mise en question. Un point de vue important sur ces profils brièvement mentionnés, à propos de l'expérience italienne, semble être constitué par la réflexion, notamment jurisprudentielle, sur le contrat de vente. Cet angle de vue semble toutefois encore plus important si nous considérons le point de vue de la réflexion de la jurisprudence romaine et, en particulier, le rôle du principe de la bonne foi.

 

 

1. Il “dogma” della relatività degli effetti del contratto, espressamente codificato in molti degli ordinamenti europei[1] sulla scia della previsione dell’art. 1165 del Code civil, viene, come noto, spesso messo in discussione da parte della dottrina per quanto attiene la sua effettiva portata, pur non essendone posta in dubbio la valenza di principio generale[2].

Si è, in particolare, evidenziato come il fenomeno di erosione dell’effettivo ambito applicativo di questo principio risulti direttamente connesso a due fenomeni, solo apparentemente tra loro contrastanti, ma che in realtà conducono al medesimo risultato: da una parte, l’ampliamento dei casi di responsabilità extracontrattuale da contratto; dall’altra, il riconoscimento ai terzi, intrinsecamente estranei al contratto, di rimedi o eccezioni contrattuali[3]. Le cause di questo fenomeno appaiono correttamente poter essere ricondotte alla circostanza che la considerazione eccessivamente rigorosa del principio di relatività determina una contraddizione non facilmente superabile: da un lato la necessità di favorire il traffico giuridico non può non determinare la necessità che si individuino delle eccezioni alla rigorosa applicazione di tale principio, dall’altro, il principio stesso non offre alcuno strumento che permetta di ordinare in modo sistematico e coerente le menzionate e necessarie eccezioni[4].

Un punto di osservazione privilegiato su questi profili ora solo sommariamente richiamati, per quanto riguarda l’esperienza italiana, appare costituito dalla riflessione, specie giurisprudenziale, concernente il contratto di vendita.

In questo senso, senza dubbio, interessante appare la giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Cassazione italiana relativa alle cosiddette “vendite a catena”. Tali vendite, molto frequenti nella pratica, si sviluppano mediante alienazioni successive di un bene mobile, con la presenza, dunque, di un numero elevato di parti contraenti intermedie, che vanno a formare gli anelli della catena. In riferimento a questa fattispecie può registrarsi come la Suprema Corte abbia affermato:

a) che, in caso di vizi del bene, spettano all'acquirente due azioni; delle quali una contrattuale sorge solo nei confronti del diretto venditore, in quanto l'autonomia di ciascuna vendita non gli consente di rivolgersi contro i precedenti venditori, restando salva l'azione di rivalsa del rivenditore nei confronti del venditore intermedio; l’altra azione, extracontrattuale, risulta esperibile dal compratore contro il produttore, per il danno sofferto in dipendenza dei vizi che rendono la cosa pericolosa, anche quando tale danno si sia verificato dopo il passaggio della cosa nella altrui sfera giuridica[5];

b) che in caso di evizione del bene[6], vi sarebbe un intensificarsi del regime garantistico che lega i successivi venditori, con la conseguenza che il venditore finale potrebbe convenire in giudizio oltre al venditore diretto anche i venditori precedenti risalendo la “catena” fino al primo dante causa; pur riconoscendosi che tra azione principale ed il rapporto obbligatorio che sta alla base della successiva domanda di regresso non si costituisce alcun vincolo di interdipendenza, si considera, tuttavia, che tra le parti delle successive vendite sia stata pattuita, anche tacitamente, una cessione delle azioni spettanti nei confronti del proprio dante causa, che determinerebbe la trasmissione a ogni acquirente dei diritti inerenti a tale garanzia; ne deriva, dunque, che il subacquirente evitto, invece che contro il proprio alienante, possa agire iure proprio nei confronti del primo venditore o di uno dei precedenti venditori, facendo valere un rapporto di “garanzia impropria”; può qui rilevarsi come, attraverso quella che potremmo definire una fictio, ovvero il considerarsi inclusa nelle successive vendite una clausola tacita di cessione dei diritti di garanzia, pur facendosi salva l’autonomia delle singole vendite, si giunge ad affermare una sorta di ‘ultrattività’ della garanzia per evizione, risultando il primo venditore ‘responsabile’ nei confronti di un soggetto estraneo rispetto all’originario rapporto contrattuale.

Sempre in materia di vendita, ma relativamente al regime della garanzia per i vizi del bene, più di recente, la Cassazione ha avuto di modo di affermare[7] che il produttore del bene viziato, pur essendo terzo rispetto il contratto di compravendita, riconosciuta l'esistenza del vizio delle cose prodotte, può assumersi, nei confronti del compratore, l'autonoma obbligazione di riparare il bene viziato[8]. In questo caso, dunque, l’efficacia del contratto appare indiretta: la vendita, infatti, può considerarsi l’occasione che giustifica l’assunzione da parte del produttore dell’autonoma obbligazione di eliminare il vizio riscontrato nel bene.

 

 

2. – Anche dal limitato angolo visuale costituito dal contratto di vendita si può, dunque, ottenere una prima conferma delle conclusioni sopra sommariamente richiamate, cui perviene la dottrina in riferimento alla perimetrazione degli effetti del principio di relatività del contratto. Quest’angolo visuale appare, però, ancor più significativo se ci spostiamo nell’ottica della riflessione giurisprudenziale romana.

Prima di venire ad affrontare la questione centrale di questo intervento appare, in vero, necessaria una breve premessa di metodo. Alla base di questo approfondimento non vi è l’idea di voler ricostruire in modo più o meno superficiale “genealogie” di un istituto attuale, adottando una visione maldestramente “evoluzionista” del diritto, ma quella, efficacemente evidenziata da Letizia Vacca secondo cui «la storia del diritto deve avere anche piena consapevolezza del presente e anzi deve porsi l’obiettivo di contribuire a formare la consapevolezza del moderno giurista europeo per la costruzione del futuro»[9].

Allo stesso modo giova fin da subito ricordare, richiamando nozioni generali senza dubbio note, come nella riflessione della giurisprudenza romana non si sia stato compiuto mai un approfondimento generale sul tema della relatività degli effetti del contratto, ma i giuristi, in coerenza con l’approccio casistico loro proprio, si siano limitati a riconoscere l’invalidità della stipulazione in favore del terzo, sulla base del principio dell’interesse. In questo senso appare chiaro il celeberrimo frammento di Ulpiano, D. 45.1.38.17, tratto dal commento ad Sabinum[10].

Nel frammento il giurista ricorda come nessuno possa stipulare a favore di un altro, salvo il caso dello schiavo che stipuli a favore del dominus o del filius a favore del pater. Ciò in quanto la sponsio stipulatio, ovvero il contratto verbale oggetto della disamina del giurista, persegue lo scopo che ciascuno acquisti per sé ciò che gli interessa; con la conseguenza, dice il giurista, che a me non interessa che si dia ad un terzo (inventae sunt enim huiusmodi obligationes ad hoc, ut unusquisque sibi adquirat quod sua interest: ceterum ut alii detur, nihil interest mea). Ulpiano puntualizza, poi, che quest’ultimo obiettivo appare realizzabile prevedendosi la stipulazione di una pena, ovvero prevedendosi che, se non sarà fatto come promesso, la stipulatio risulterà inadempiuta anche nei confronti di chi non vi abbia interesse. Ciò in quanto, nel caso si pattuisca una pena, non si valuta se vi sia un interesse, ma soltanto quanto si è stipulato e a quale condizione. Come si evince chiaramente dalla testimonianza ulpianea, il principio ‘alteri stipulari nemo potest’ appare giustificato, a sua volta, dal principio dell’interesse[11] (inventae sunt enim huiusmodi obligationes ad hoc, ut unusquisque sibi adquirat quod sua interest): questo collegamento consentiva ai giuristi romani di superare tale divieto, ogniqualvolta vi potesse, comunque, essere in concreto un interesse dello stipulante alla conclusione del contratto. Si pensi, ad esempio, al caso di chi si fosse obbligato a costruire un edificio ed avesse successivamente, mediante stipulatio, impegnato un altro soggetto a realizzare l’originaria prestazione nei confronti del primo promissario[12].

Sempre a livello pratico deve registrarsi come fin dall’epoca classica furono individuati dei modi attraverso cui poter aggirare il divieto in esame.  In questo senso appare emblematica la possibilità di utilizzare la delegatio solvendi, con la quale il creditore autorizzava il debitore a eseguire la prestazione ad un terzo[13]. Un maggior ampliamento delle deroghe al principio ‘alteri stipulari nemo potest’ risulta essersi formalizzato nel periodo del Principato, quando, sulla base di valutazioni equitative, si ammise l’esperibilità da parte di terzi di azioni, spesso in via utile, relative a diritti relativi a patti conclusi in loro favore dalle parti. Volendo esemplificare, appare chiaro in questo senso il riconoscimento della possibilità che con un patto si potesse prevedere che il depositario restituisse il bene ad un terzo, invece che all’originario depositante[14].

In epoca giustinianea si generalizza, infine, il rilievo del principio dell’interesse che viene a costituire il parametro in base al quale valutare l’applicabilità del principio ‘alteri stipulari nemo potest’. In questo senso appaiono chiare le Istituzioni di Giustiniano[15] ove si afferma espressamente la piena validità della stipulazione in favore del terzo cum eius interesset’. Dell’evoluzione ora sommariamente richiamata, com’è altresì noto, viene fornita una diversa lettura da Pothier, sotto l’influenza dei principi giusnaturalisti. Il dogma della libertà individuale non può che avere come immediata conseguenza nelle parole di Pothier che «il terzo non può essere vincolato da una volontà che non ha concorso a formare»[16], escludendosi, dunque, che il negozio possa produrre non solo naturalmente effetti negativi nei confronti del terzo, ma anche effetti positivi.

L’influenza di questa ‘lettura’ sulle codificazioni ottocentesche è nota. Merita, a mio avviso, di essere, invece, evidenziato come la riflessione della giurisprudenza romana su questi profili non possa essere compressa nella generalizzazione del principio ‘alteri stipulari nemo potest’, la cui effettiva ed originaria portata la dottrina, come ora sommariamente evidenziato, ho già avuto modo di precisare.

In quest’ottica, come precedentemente anticipato, un punto di osservazione privilegiato appare fornito, alla luce anche delle suggestioni ricavabili dalla giurisprudenza italiana, dal contratto di compravendita.

 

 

3. L’emptio venditio consensuale, genuina invenzione romana preceduta unicamente dalla vendita a contanti[17], si sviluppa non prima dell’introduzione del processo formulare e, nello specifico, dei iudicia bonae fidei, data l’inidoneità del precedente sistema processuale a fornire un’adeguata tutela alla fattispecie in esame: non prima, quindi, della fine del III secolo a.C. e l’inizio del II secolo a.C.[18].

Molto dibattuta appare, in dottrina, l’individuazione della corretta perimetrazione delle obbligazioni gravanti sulle parti contrattuali ed, in particolare, sul venditore. Per quanto qui maggiormente interessa, può ricordarsi come gli esiti della riflessione della dottrina tradizionale[19] sono felicemente compendiabili con le parole di Arangio-Ruiz. Secondo l’illustre Maestro, «l’emptio et venditio è un contratto consensuale e bilaterale in virtù del quale una delle parti si obbliga a trasmettere all’altra il pacifico godimento di qualcosa, detta merce, mentre l’altra parte si obbliga a trasferire alla prima la proprietà di una somma di denaro, detta prezzo»[20].

E’ stato merito della dottrina più recente[21] l’aver evidenziato come, in realtà, nelle fonti appaia individuabile un contenuto più complesso delle obbligazioni gravanti sul venditore che è tenuto a ‘praestare rem’, come efficacemente testimoniato in D. 19.1.11 pr.-1 [22]. In altre parole, dal consenso sulla causa sinallagmatica di scambio della cosa contro il prezzo, sorge, sotto la spinta propulsiva della buona fede, un’obbligazione complessa gravante sul venditore che è tenuto ad assicurare l’appartenenza esclusiva del bene acquistato al compratore. Si tratta, quindi, di uno schema neutro che riesce non solo a soddisfare la pluralità di esigenze della prassi commerciale – tenuto conto, ad esempio, della circostanza che il dominium ex iure Quiritium è istituto proprio dei soli cittadini romani e che il regime di circolazione dei beni differisce a seconda della natura del bene venduto[23] –, ma anche, come vedremo, a garantire un’efficace protezione agli interessi del compratore.

 

 

4. Alla luce delle coordinate ora sommariamente richiamate, vorrei, in primo luogo, richiamare l’attenzione su alcuni profili connessi con il tema più generale della responsabilità adiettizia. Non è, naturalmente, questa la sede per poter neppure tentare di approcciare un argomento così complesso come quello relativo all’inquadramento delle azioni adiettizie[24], oscillandosi in dottrina tra i due poli opposti della loro riconducibilità nel paradigma della rappresentanza e la tesi che nega ogni assimilazione tra i due fenomeni. Ai nostri fini può ricordarsi come con l’espressione ‘azioni adiettizie’ ci si riferisca, in realtà, a cinque diverse azioni[25] esperibili nei confronti del proponente o dell’avente potestà nel caso in cui a concludere il negozio fosse stato un soggetto a potestà o un preposto. L’ambito applicativo di tali azioni è quello dei rapporti commerciali, caratterizzati per l’abitualità e la professionalità del loro svolgimento e per l’organizzazione di uomini e beni apprestata per la loro realizzazione[26]. Proprio la valorizzazione della stretta connessione funzionale tra responsabilità adiettizia e organizzazione imprenditoriale, permette, a mio avviso condivisibilmente, di condurre tale responsabilità al di fuori della categoria della rappresentanza negoziale[27], trovando il suo fondamento nel principio del rischio (periculum)[28]. Dalle fonti[29], sulle quali per ragioni di tempo non ci si può in questa sede soffermare, emerge in modo chiaro come:

- il rapporto contrattuale intercorra in modo diretto tra sottoposto/preposto e altri contraenti;

- la responsabilità del proponente discende oggettivamente dalla sua posizione a capo della struttura imprenditoriale, a cui si ricollega il rapporto contrattuale fra sottoposto e controparti. 

In altre parole, nel contesto di un sistema economico globalizzato come quello proprio dell’esperienza romana dei primi due secoli d.C., ci si trova di fronte, con un felice parallelo proposto da Pietro Cerami[30], ad una situazione non dissimile da quella attuale dei contratti dei consumatori, in cui il contraente forte è colui che svolge l’incarico di preposto-agente, mentre il consumatore-contraente debole è il soggetto che viene con lui a negoziare. Emblematica di questa linea di politica del diritto è, senza dubbio, la riflessione giurisprudenziale avvenuta nei primi due secoli del Principato sulle modalità di tutela del ‘compratore-consumatore’ di schiavi, animali da tiro e greggi nei confronti dell’imprenditore per le vendite effettuate con i suoi agenti, in caso di evizione o di vizi del bene acquistato.

Al riguardo può, allora, farsi riferimento ad una chiarissima testimonianza del giurista Paolo, riportata in D. 14.3.17 pr.[31].

Il giurista afferma il principio che nel caso qualcuno sia stato preposto a comprare o vendere schiavi o animali, contro colui che lo ha preposto, ovvero l’imprenditore, compete non solo l’azione institoria, una delle cinque azioni adiettizie, ma anche, per l’intero, le azioni redibitoria e quella relativa alla stipulazione per evizione.

A monte della vendita vi è, dunque, una praepositio institoria volta allo svolgimento di negotiationes aventi ad oggetto, come visto, la vendita di schiavi, giumenti o bestiami. La precisazione sull’oggetto dell’attività imprenditoriale svolta dal preposto del dominus è molto importante nell’individuazione delle garanzie che possono essere fatte valere dal compratore. Il sistema di tutela in caso di vizi del bene, almeno fino alla sistematizzazione giustinianea, è, infatti, complesso e influenzato dalla dialettica ius civile/ius honorarium e dalla tipologia del bene trasferito. Il regime generale di garanzia[32] prevedeva che il compratore potesse esperire l’azione contrattuale, actio empti, nei casi in cui la cosa non corrispondesse ai requisiti dichiarati anche non formalmente al momento della vendita dal venditore o presentasse dei vizi dolosamente da quest’ultimo taciuti. Al di fuori di questi casi, se il venditore fosse stato in buona fede, il compratore non aveva alcuna tutela, salvo che non fossero state aggiunte specifiche stipulazioni, che facevano sorgere una responsabilità oggettiva in capo al venditore. Questo quadro cambia, come evidenziato dalla dottrina più recente[33], a partire dalla giurisprudenza adrianea: è merito del giurista Giuliano[34] l’aver ammesso l’esperibilità dell’azione contrattuale anche nei confronti del venditore in buona fede, per ottenere la differenza tra il prezzo pagato e quello che il compratore avrebbe pagato se avesse conosciuto il vizio, nel caso in cui la rilevanza oggettiva del vizio fosse tale da renderlo inidoneo alla sua normale utilizzazione economica. A questo sistema si affianca un regime speciale riguardante, come nel caso del passo in esame, le vendite degli schiavi e degli animali effettuate nei mercati. I magistrati che avevano giurisdizione su queste vendite, gli edili curuli, introdussero due azioni che potevano essere esperite dal compratore in caso di vizio occulto del bene acquistato: l’azione redhibitoria, diretta alla restituzione del prezzo pagato a fronte della restituzione dello schiavo, e l’azione aestimatoria, volta ad ottenere una riduzione del prezzo o la restituzione della differenza del prezzo pagato e l’effettivo valore dello schiavo, alla luce dei vizi riscontrati.

Tornando ad analizzare D. 14.3.17 pr., dobbiamo soffermarci sulle conseguenze derivanti dalla praepositio con riferimento alla tutela dei terzi che avessero concluso un negozio con il preposto. Paolo, nella seconda parte del frammento, ricorda prima la regola generale della responsabilità illimitata del preponente verso i terzi per i negozi da loro conclusi con l’institor[35], poi introduce il principio, ai nostri fini più importante, in base al quale il preponente poteva essere chiamato a rispondere in solidum anche con l’azione redhibitoria, che, come visto, spettava al compratore tenuto conto del tipo di bene acquistato. E’ evidente come questo secondo principio determini un chiaro superamento del principio di relatività del contratto: ragioni equitative, riassumibili nella necessità di apprestare una tutela effettiva ed ampia al compratore-consumatore, spingono il giurista a far valere le garanzie proprie del contratto di vendita nei confronti di un soggetto che non è ‘parte’ del contratto, in quanto quest’ultimo è stato concluso tra il preposto e l’acquirente. Da segnalare, infine, come questa responsabilità si aggiunga a quella già affermata e connessa al rapporto di preposizione.

 

 

5. Se, dunque, già nella disciplina specifica concernente la responsabilità adiettizia vi sono chiare indicazioni nel senso del superamento della relatività degli effetti del contratto, passerò ora ad esaminare due ulteriori testimonianze dalle quali appare emergere ancor più chiaramente come i giuristi romani ammettessero che un contratto concluso fra due soggetti potesse produrre in qualche modo effetto nella sfera giuridica di un terzo[36].

Il primo caso ci è ricordato in un passo del giurista Ulpiano, D. 19.1.13.30 [37], che riporta l’opinione di Tuberone, un giurista collocabile nella metà del I secolo a.C. La fattispecie analizzata nel responso si sostanzia in una vendita di un bene locato, nella quale il venditore, attraverso una specifica pattuizione, riserva al conduttore il diritto, per un dato tempo, di continuare a godere del bene locato. Il compratore, dunque, si impegna a consentire che l’originario contratto di locazione intercorrente con il venditore continui a produrre i suoi effetti: ne deriva che, al momento del passaggio della proprietà, il venditore assume il ruolo di locatore di un bene altrui e non nasce alcun rapporto contrattuale tra compratore e conduttore, in quanto, come appena visto, continua a produrre i suoi effetti l’originario contratto di locazione. Secondo il giurista, se il compratore impedisce il godimento del conduttore, il venditore-locatore potrà agire nei confronti del compratore con l’azione contrattuale di vendita, ovvero l’actio empti. La ratio sottesa a questa prima conclusione appare chiara: il compratore con il suo comportamento viola una precisa disposizione contrattuale e il suo inadempimento legittima l’esperimento da parte del venditore del rimedio contrattuale. Il venditore-locatore, com’è evidente, avrà tutto l’interesse a far valere la responsabilità del compratore: egli stesso potrebbe, infatti, essere chiamato dal conduttore a rispondere per l’inadempimento alla propria obbligazione di garantire il godimento del bene locato.

Nell’ultima parte del frammento, Ulpiano richiama l’opinione di Tuberone, in relazione al caso specifico costituito dal fatto che il bene oggetto di vendita fosse costituito da un fondo, venendosi, dunque, a configurare un contratto di affitto. In riferimento a questa fattispecie, il secondo giurista ritiene che, nel caso in cui il colono produca un danno al fondo, il compratore potrà esperire l’azione contrattuale nei confronti del venditore per costringerlo ad agire con l’azione di locazione contro il colono, in modo che lo stesso venditore dia successivamente al compratore tutto quello che avrà conseguito con la menzionata azione.

Prima di evidenziare l’importanza della soluzione elaborata da Tuberone ed il suo fondamento, appare opportuno ricordare come, a dispetto di quanto potrebbe far intendere il brocardo latino ‘emptio non tollit locatum’, spesso utilizzato nella civilistica attuale, il diritto romano non conobbe un principio analogo a quello che connota la vigente disciplina della locazione in tema di opponibilità del contratto di locazione al compratore del bene locato, il quale subentra nell’originario contratto. Per diritto romano, come ricorda chiaramente Gaio[38], se il venditore-locatore decide di vendere il bene oggetto di locazione, il conduttore non potrà opporre il pregresso rapporto di locazione al compratore del bene, ma potrà agire nei soli confronti del locatore, che, con la vendita, ha impedito l’uti frui del bene locato. Proprio per evitare questa responsabilità, come ci ricorda Ulpiano nel passo in esame, il venditore inseriva un’apposita pattuizione nella vendita, in modo che il compratore consentisse la prosecuzione della locazione.

Tornando, ora, ad esaminare l’opinione di Tuberone, come chiaramente evidenziato da Carlo Augusto Cannata[39], essa presenta diversi profili da chiarire:

a) individuazione della giustificazione dell’esperibilità dell’actio locati da parte del venditore-locatore, nei confronti del conduttore, che ha provocato i danni al fondo locato; il venditore, infatti, non è più proprietario del fondo nel momento in cui vengono arrecati allo stesso i danni e, quindi, non ha un interesse diretto ad agire nei confronti del conduttore;

b) identificazione del fondamento dell’esperibilità dell’actio empti nei confronti del venditore da parte dell’acquirente, proprietario del bene nel momento in cui questo viene danneggiato dal conduttore.

Per quanto attiene al primo quesito, la legittimazione del venditore per agire ex locato contro il conduttore appare fondarsi proprio sull’interesse dell’acquirente: il venditore potrà agire in giudizio lamentando la lesione dell’interesse dell’acquirente e a tale interesse sarà, poi, parametrato il risarcimento pecuniario, che l’attore dovrà successivamente trasferire al soggetto effettivamente danneggiato.

L’evidenziazione che la legittimazione ad agire ex locato in capo al venditore contro il conduttore si fondi esclusivamente sull’interesse del compratore, in mancanza del quale il venditore non potrebbe agire, permette di ipotizzare una risposta anche al secondo quesito. Al momento della vendita, infatti, il venditore non si è assunto alcun obbligo di garantire il compratore contro i danni eventualmente causati dal conduttore, ma tale obbligo di protezione sorge in base alla buona fede, che regge la disciplina della compravendita. Sarebbe, infatti, contrario alla buona fede che il compratore non potesse ottenere dal venditore, dal soddisfacimento di un cui interesse origina la vicenda, di essere tenuto indenne dagli svantaggi che tale situazione ha determinato, attraverso l’esperimento di un’azione la cui legittimazione compete al solo venditore, pur sulla base di un interesse proprio del compratore[40].

 

 

6. Il secondo frammento sul quale voglio brevemente concentrare l’attenzione è D. 21.2.39 pr., tratto dai Digesta di Giuliano[41]. Il giurista adrianeo affronta il caso di un minore di venticinque anni che vende un proprio fondo a Tizio e questo, a sua volta, lo rivende a Seio. Perfezionatisi gli atti di trasferimento, il minore conviene in giudizio Tizio e Seio affermando di essere stato raggirato e chiedendo al pretore di far venire meno gli effetti delle alienazioni, mediante un’in integrum restitutio.

Al fine di una piena comprensione della soluzione offerta dal giurista, giova brevemente ricordare come a partire da circa il 200 a.C. i ragazzi al di sotto dei venticinque anni godettero di una particolare forma di protezione; lo sviluppo economico di quest’epoca e la conseguente complessità che poteva connotare le relative transazioni, resero impellente, infatti, l’introduzione di una forma di tutela degli adolescenti in relazione ai raggiri di cui potessero essere vittima a causa della loro naturale inesperienza; questa esigenza fu soddisfatta dalla lex Laetoria, che concesse una specifica azione contro chi avesse negoziato con un minore di venticinque anni, raggirandolo. Il pretore, successivamente, intervenne a perfezionare questo sistema di protezione, riconoscendo al minore la possibilità di difendersi, con un’apposita exceptio contro le pretese giudiziarie avanzate dal soggetto che lo avesse raggirato e, nel caso il negozio avesse già prodotto i suoi effetti, concedendo al minore una restitutio in integrum, ovvero uno strumento che permetteva di eliminare tali effetti. I rimedi pretori ora ricordati avevano l’ulteriore vantaggio che il minore non dovesse dimostrare il raggiro subito, essendo sufficiente la prova dell’esistenza di un pregiudizio patrimoniale[42].

Tornando ad analizzare il frammento di Giuliano, il giurista afferma che correttamente Seio, ovvero il secondo acquirente del bene venduto dal minore, aveva richiesto al pretore che gli fosse concessa contro Tizio in via utile un’azione relativa alla stipulazione di garanzia per evizione. Il giurista adrianeo fonda questa decisione sulla considerazione che se il pretore deciderà di accogliere la richiesta del minore di porre nel nulla la prima vendita, l’equità richiede che il secondo acquirente, Seio, sia posto in condizione di poter esperire nei confronti del proprio venditore, Tizio, il rimedio previsto in caso di evizione. Cerchiamo di cogliere la ratio sottesa al responso giulianeo. A seguito del provvedimento del pretore di reintegrazione, il minore riotterrà il bene oggetto della prima vendita “fraudolenta” e sarà tenuto alla restituzione a Tizio del prezzo pattuito. Considerando che presupposto per poter ottenere il provvedimento di restitutio in integrum è, come visto, la verifica di un pregiudizio patrimoniale per il minore, se ne può dedurre che il prezzo pagato da Tizio al minore non rispecchi l’effettivo valore del bene acquistato e certamente risulta più basso di quello che Seio ha pagato a Tizio. Con la conseguenza che, senza il rimedio prospettato da Giuliano, Seio, obbligato alla restituzione del bene acquistato al minore, subirà un danno patrimoniale, in quanto avrebbe potuto conseguire esclusivamente il prezzo pattuito tra il minore e Tizio. A questo punto può ben cogliersi perché il giurista richiami la disciplina in tema di evizione: il provvedimento pretorile di restituzione al minore del bene acquistato pone Seio in una posizione analoga a quella in cui si sarebbe trovato se avesse subito l’evizione del bene. Considerato che in quest’ultimo caso Seio avrebbe potuto conseguire dal proprio venditore Tizio, con l’azione contrattuale (actio empti), il risarcimento dell’interesse a non essere privato del bene acquistato, pari almeno al prezzo pagato, appare equo che il pretore conceda a Seio uno strumento che gli consenta di ottenere un risultato equivalente a quello che avrebbe conseguito, se si fosse potuto far valere direttamente la responsabilità per evizione. La possibilità che si configuri un caso di evizione è esclusa dalla causa per la quale Seio viene a perdere il bene, ovvero l’aver accettato, durante la causae cognitio, che il provvedimento pretorio producesse immediatamente effetti anche nei suoi confronti; conseguentemente il pretore, al fine di accordare il giusto ristoro a Seio, dovrà concedergli un’actio utilis de evictione, ovvero un’azione modellata su quella legata alla responsabilità per evizione, ma con un ambito applicativo più ampio di quello normalmente proprio di tale azione[43].

Come efficacemente evidenziato da Cannata, «il contratto che produce effetti rispetto al terzo è la compravendita intervenuta fra il minore e Tizio, ed essa produce tali effetti in quanto viziato dalla circumscriptio. Il meccanismo qui è particolare: la circumscriptio che vizia il contratto, fa sì che questo possa essere oggetto di restitutio in integrum, ma la restitutio in integrum, in casi come questo, è concessa a favore del minore rispetto alla situazione che il contratto ha creato, e non con riguardo alle parti del contratto come tali»[44].

Questa soluzione appare, del resto, pienamente coerente con i principi che reggono, specie nell’ottica giulianea, la responsabilità per evizione. Nella prospettiva del praestare rem quale contenuto dell’obbligazione del venditore, muta il titolo per il quale il venditore è chiamato a rispondere in caso di evizione: non più in qualità di garante, ma in qualità di debitore inadempiente all’obbligazione principale di praestare rem. La concessione al compratore dell’actio empti deve essere letta, allora, in considerazione del risultato che il venditore è tenuto ad assicurare al compratore quale corrispettivo del prezzo, ovvero la realizzazione della causa sinallagmatica dell’accordo, che comporta l’acquisto definitivo del bene al compratore, dipendente dal trasferimento del venditore, quale corrispettivo del pagamento del prezzo[45].

 

 

7. Proprio il richiamo al praestare rem permette, a mio avviso, di fare un ulteriore passo avanti e ricomporre in modo coerente le soluzioni finora esaminate. La ricostruzione in termini di praestare rem dell’obbligazione del venditore, infatti, risponde all’analoga esigenza che spinge, nei passi sopra esaminati, a superare la regola che vuole che gli effetti del contratto siano limitati ai soli contraenti. Il bonum et aequum, quale criterio tecnico che impone la tutela dell’equilibrio delle obbligazioni contrattuali nei giudizi di buona fede, determina che venga salvaguardato il principio della corrispettività delle prestazioni. Ciò determina, in via esemplificativa, che, come nel primo caso esaminato, la garanzia per vizi contrattualmente gravante solo sul venditore/preposto possa essere fatta valere anche nei confronti dell’imprenditore preponente, che è il soggetto che indirettamente beneficia del contratto, di cui è parte formalmente il suo preposto. Allo stesso modo, Giuliano, come abbiamo appena visto nell’ultima fonte esaminata, reputa che il secondo acquirente di un bene alienato da un minore di venticinque anni debba essere messo in condizione di poter esperire un’azione che ristabilisca la corrispettività delle prestazioni, anche se la causa che ha fatto venire meno tale corrispettività deriva da un altro rapporto contrattuale.

Insomma il ‘filo rosso’ che lega le soluzioni esaminate, nelle quali appare evidente il superamento del principio della relatività degli effetti del contratto, e che le giustifica è la buona fede[46] ed, in particolare, il ruolo che la stessa svolge nella compravendita, e la cui concretizzazione è affidata all’interpretazione dei giuristi nella valutazione dell’interdipendenza delle obbligazioni reciproche. La forza espansiva del principio di buona fede è tale da far sì che il compratore possa conseguire tutte le utilità programmate e da consentire una dissociazione tra attuazione degli effetti giuridici principali e soddisfazione degli interessi dedotti in contratto, proiettando, dunque, i suoi effetti anche su soggetti terzi rispetto all’originario contratto.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

* Il presente contributo costituisce la rivisitazione in lingua italiana della relazione tenuta al Convegno “L'effet relatif du contrat”, 11èmes Journées d’étude Poitiers-Roma TRE "Jean Beauchard 2013", svoltosi presso l’Università di Poitiers dal 21 al 22 giugno 2013.

 

[1] Direttamente in Spagna (c.c. del 1889, artt. 1091 e 1257, comma 1) ed Italia (art. 1372, comma 4, c.c.). Indirettamente, come precipitato implicito del sistema in Germania e nel diritto inglese (dottrina del “privity of contract”).

 

[2] Su questi profili, cfr. in particolare E. Moscati, I rimedi contrattuali a favore dei terzi, in Riv. dir. civ., 2003, 134 ss.

 

[3] Così E. Moscati, I rimedi, cit., 358.

 

[4] In questi termini A. Gambaro, Gli effetti del contratto rispetto ai terzi, in Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del IV Congresso Internazionale ARISTEC. Roma 13-16 settembre 1999, a cura di L. Vacca, Torino, 2001, 340.

 

[5] Cass. civ., 17 gennaio 2009, n. 26514; Cass. civ., 15 aprile 2002, n. 5428; Cass. civ., 6 settembre 2000, n. 11756.

 

[6] Cass., 6 marzo 1969, n. 705, in Mass. Giust. civ., 1969, 359; Cass., 6 agosto 1965, n. 1871, in Giust. civ., 1966, I, 1176; Cass., 4 agosto 1949, n. 2164, in Giur. it., 1950, I, 399. In dottrina cfr., in particolare, G. Gorla, La compravendita e la permuta, in Trattato di diritto civile, diretto da VASSALLI, 1937, 115 ss.; D. Rubino, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da CICU e MESSINEO, 1962, 739 ss. Più di recente cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, M. Mullace, Vendita a catena: della tutela del compratore, in I contratti, 2001, 172 ss.

 

[7] La Suprema Corte si è pronunciata a seguito della domanda di una cooperativa, che aveva acquistato da una società alcune elettropompe per lo smaltimento di acqua. La merce si dimostrò inidonea all'uso e, pertanto, la cooperativa agì in giudizio nei confronti della società venditrice per la risoluzione della compravendita, la restituzione del prezzo ed il risarcimento del danno. La venditrice chiamava in garanzia la società produttrice delle elettropompe. Il Giudice di primo grado, ritenuto che la produttrice fosse estranea al contratto di compravendita, accoglieva la domanda dell'acquirente nei confronti della venditrice, dichiarando la risoluzione del contratto. La società venditrice impugnava la sentenza e la Corte d'appello, nell’accogliere il gravame, ha riconosciuto la responsabilità della società produttrice, condannandola al risarcimento dei danni subiti dall'acquirente, con decisione successivamente confermata dai giudici di legittimità.

 

[8] Cass. civ., 12 ottobre 2009, n. 21621, in Diritto e Giustizia, 2009, 10, 43 ss., con nota di C. Garufi, a cui si rinvia per un approfondimento sulla questione affrontata dalla Suprema Corte.

 

[9] L. Vacca, Cultura giuridica e armonizzazione del diritto europeo, in Europa e dir. priv. 7, 2004, 65-66.

 

[10] D. 45.1.38.17 (Ulp. 49 ad Sab.) Alteri stipulari nemo potest, praeterquam si servus domino, filius patri stipuletur: inventae sunt enim huiusmodi obligationes ad hoc, ut unusquisque sibi adquirat quod sua interest: ceterum ut alii detur, nihil interest mea. Plane si velim hoc facere, poenam stipulari conveniet, ut, si ita factum non sit, ut comprehensum est, committetur stipulatio etiam ei, cuius nihil interest: poenam enim cum stipulatur quis, non illud inspicitur, quid intersit, sed quae sit quantitas quaeque condicio stipulationis.

 

[11] In questo senso H. Ankum, Une nouvelle hypothèse sur l’origine de la règle alteri dari stipulari nemo potest, in études Macqueron, Aix-en-Provence, 1970, 21 ss.; altra parte della dottrina ha, invece, messo in luce come l’emersione del principio in esame sarebbe da riferirsi alla struttura stessa del processo civile romano che, essendo caratterizzato da una condanna pecuniaria, avrebbe richiesto che fosse lo stipulante, in veste di attore, a doverla richiedere, avendovi interesse. Su questi profili può rinviarsi alle attente considerazioni svolte da P.M. Vecchi, La stipulazione a favore di terzi da figura eccezionale a strumento generale, in Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del IV Congresso Internazionale ARISTEC, cit., 275 ss.; I. Ferranti, Causa e tipo nel contratto a favore di terzo, Milano, 2005, 9 ss.

 

[12] D. 45.1.38.21 (Ulp. 49 ad Sab.): Si quis insulam faciendam promiserit aut conduxerit, deinde ab aliquo insulam stipulatori fieri stipulatus sit: aut si quis, cum promisisset Titio fundum Maevium daturum aut, si is non dedisset, poenam se daturum, stipulatus a Maevio fuerit fundum Titio datu iri: item si quis id locaverit faciendum quod ipse conduxerit: constat habere eum utilem ex locato actionem. Su cui cfr. da ultimo F. Mattioli, Il contratto a favore di terzo. Spunti per una comparazione diacronica dal diritto romano al «Draft Common Frame of Reference», in Riv. diritto romano, 2010, 2 s.

 

[13] D. 46.3.10 (Paul. 4 ad Sab.) Quod stipulatus ita sum "mihi aut Titio", Titius nec petere nec novare nec acceptum facere potest, tantumque ei solvi potest.

 

[14] C.I. 3.42.8 [Impp. Diocl. et Max., a. 293] Si res tuas commodavit aut deposuit is, cuius precibus meministi, adversus tenentem ad exhibendum vel vindicatione uti potes. 1. Quod si pactus sit, ut tibi restituantur, si quidem ei qui deposuit successisti, iure hereditario depositi actione uti non prohiberis: si vero nec civili nec honorario iure ad te hereditas eius pertinet, intellegis nullam te ex eius pacto contra quem supplicas actionem stricto iure habere: utilis autem tibi propter aequitatis rationem dabitur depositi actio.

 

[15] I. 3.19.20 Sed si quis stipuletur alii, cum eius interesset, placuit stipulationem valere. nam si is qui pupilli tutelam administrare coeperat, cessit administratione contutori suo et stipulatus est, rem pupilli salvam fore, quoniam interest stipulatoris fieri quod stipulatus est, cum obligatus futurus esset pupillo si male res gesserit, tenet obligatio. ergo et si quis procuratori suo dari stipulatus sit, stipulatio vires habebit. et si creditori suo, quod sua interest, ne forte vel poena committatur, vel praedia distrahantur quae pignori data erant, valet stipulatio.

 

[16] J.R. Pothier, Traité des Obligations, I, Paris, 1768, 108.

 

[17] C. A. Cannata, La compravendita consensuale romana: significato di una struttura, in Vendita e trasferimento della proprietà nella prospettiva storico–comparatistica. Atti del Congresso Internazionale, 17–21 aprile 1990, Pisa–Viareggio–Lucca, I, a cura di L. Vacca, Milano, 1991, 75.

 

[18] Sulla datazione concordano V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano, Napoli, 1954, 46, e M. Talamanca, voce Vendita in generale (dir. rom.), in Enciclopedia del diritto, XLVI, Milano, 1993, 305. Evidenzia, in particolare, l’importanza del ruolo del pretore nella formalizzazione del nuovo schema processuale A. Fernández de Buján, La compraventa en Derecho romano de obligaciones, in Estudios Homenaje al Profesor José Luis Murga Gener, Madrid, 1994, 552.

 

[19] Che fa leva su una famosa testimonianza paolina, cfr. D. 19.4.1 pr. (Paul. 32 ad ed.): […] multum differunt praestationes. Emptor enim, nisi nummos accipientis fecerit, tenetur ex vendito, venditori sufficit ob evictionem se obligare, possessionem tradere et purgari dolo malo: itaque, si evicta res non sit, nihil debet; […].

 

[20] V. Arangio-Ruiz, Compravendita, cit., 88. Nello stesso senso cfr., in particolare, P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, Ristampa corretta della X edizione a cura di GIULIANO BONFANTE e di GIULIANO CRIFÒ, con una prefazione di Emilio Albertario e una nota di lettura di Giuliano Crifò, [Opere complete di Pietro Bonfante, X] Milano, 1987, 390, ritiene che: «La compravendita obbligatoria è un contratto consensuale bilaterale, per cui uno dei contraenti (il venditore) promette all’altro (il compratore) di cedergli per sempre il possesso di una cosa e prestar la garanzia del possesso stesso, ovvero trasmettergli qualunque diritto, dietro promessa di ricevere un corrispettivo in denaro (pretium)».

 

[21] Non può non rinviarsi alle ricerche condotte da Letizia Vacca, cfr., da ultimo, Ead., Garanzia e responsabilità nella vendita. Tradizione romanistica e problemi dommatici attuali, in Ead., Garanzia e responsabilità. Concetti romani e dogmatiche attuali, Padova, 2010, 299 ss.

 

[22] D. 19.1.11.2 (Ulp. 32 ad ed.): Et in primis ipsam rem praestare venditorem oportet, id est tradere <et, si mancipi est, mancipio dare>: quae res, si quidem dominus fuit venditor, facit et emptorem dominum, si non fuit, tantum evictionis nomine venditorem obligat, si modo pretium est numeratum aut eo nomine satisfactum. emptor autem nummos venditoris facere cogitur. Per un inquadramento generale del frammento si rinvia a G. Rossetti, Interdipendenza delle obbligazioni e “risoluzione” della “emptio venditio”: alcune soluzioni casistiche della giurisprudenza classica, in La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni, a cura di L. Garofalo, II, Padova, 2007, 28 ss.

 

[23] Com’è stato, infatti, messo efficacemente in luce da Letizia Vacca, la costruzione dell’obbligazione di praestare rem è «avvenuta collegando in modo simmetrico la struttura del contratto ai differenti modi di trasferimento reale delle res mancipi e nec mancipi», cfr. L. Vacca, Annotazioni in tema di vendita e trasferimento della proprietà, in Incontro con Giovanni Pugliese. 18 aprile 1991, Milano, 1992, 43 ss. [ora in Appartenenza e circolazione dei beni. Modelli classici e giustinianei, a cura di L. Vacca, Padova, 2006, 167 ss., da cui la citazione, 172]. I giuristi romani, quindi, hanno costruito il contratto di vendita separando gli effetti del mero consenso da quelli del trasferimento reale; hanno, però, mantenuto il collegamento fra i due momenti, considerando in modo unitario il negozio finalizzato sempre al trasferimento della proprietà. Con la conseguenza evidente che «la vendita di res mancipi comporta fra cittadini romani l’obbligazione di compiere la mancipatio … La traditio e la mancipatio poste in essere emptionis causa sono considerate espressione non solo di una comune volontà di trasferire e di ricevere il bene, ma di un consenso sulla causa sinallagmatica di scambio della cosa contro il prezzo, causa che per il suo particolare atteggiarsi non è scindibile dall’atto reale, nel senso che gli effetti di quest’ultimo sono tipicamente dipendenti dalla vendita», così L. Vacca, Annotazioni, cit., 173.

 

[24] Cfr. al riguardo, per tutti, M. Miceli, Sulla struttura formulare delle ‘actiones adiecticiae qualitatis’, Torino, 2001, 45 ss.; G. Coppola Bisazza, Dallo iussum domini alla contemplatio domini. Contributo allo studio della rappresentanza, Milano, 2008, 183 ss.; M. Miceli, Studi sulla «rappresentanza» nel diritto romano, I, Milano, 2008, 31 ss., a cui si rinvia anche per i necessari approfondimenti bibliografici.

 

[25] Si tratta delle seguenti azioni: actio exercitoria, actio institoria, actio de peculio et de in rem verso e actio quod iussu.

 

[26] P. Cerami.-A. Di Porto- A. Petrucci, Diritto commerciale romano. Profilo storico, Torino, 2004, 40 ss.

 

[27] Come rilevato da A. Di Porto, Il diritto commerciale romano. Una «zona d’ombra» nella storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof. F. Gallo, Napoli, 1997, 423.

 

[28] Come ricordato da P. Cerami, Dal contrahere al negotiari, in Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del IV Congresso Internazionale ARISTEC, cit., 180.

 

[29] Cfr. D. 14.3.1 (Ulp. 28 ad ed.) Aequum praetori visum est, sicut commoda sentimus ex actu institorum, ita etiam obligari nos ex contractibus ipsorum et conveniri. Sed non idem facit circa eum qui institorem praeposuit, ut experiri possit: sed si quidem servum proprium institorem habuit, potest esse securus adquisitis sibi actionibus: si autem vel alienum servum vel etiam hominem liberum, actione deficietur: ipsum tamen institorem vel dominum eius convenire poterit vel mandati vel negotiorum gestorum. Marcellus autem ait debere dari actionem ei qui institorem praeposuit in eos, qui cum eo contraxerint; D. 14.1.1 pr. (Ulp. 28 ad ed.) Utilitatem huius edicti patere nemo est qui ignoret. Nam cum interdum ignari, cuius sint condicionis vel quales, cum magistris propter navigandi necessitatem contrahamus, aequum fuit eum, qui magistrum navi imposuit, teneri, ut tenetur, qui institorem tabernae vel negotio praeposuit, cum sit maior necessitas contrahendi cum magistro quam institore. Quippe res patitur, ut de condicione quis institoris dispiciat et sic contrahat: in navis magistro non ita, nam interdum locus tempus non patitur plenius deliberandi consilium; D. 14.4.1 pr. (Ulp. 29 ad ed.) Huius quoque edicti non minima utilitas est, ut dominus, qui alioquin in servi contractibus privilegium habet (quippe cum de peculio dumtaxat teneatur, cuius peculii aestimatio deducto quod domino debetur fit), tamen, si scierit servum peculiari merce negotiari, velut extraneus creditor ex hoc edicto in tributum vocatur; D. 15.1.1.pr.-2 (Ulp. 29  ad ed.) Ordinarium praetor arbitratus est prius eos contractus exponere eorum qui alienae potestati subiecti sunt, qui in solidum tribuunt actionem, sic deinde ad hunc pervenire, ubi de peculio datur actio. 1. Est autem triplex hoc edictum: aut enim de peculio aut de in rem verso aut quod iussu hinc oritur actio. 2. Verba autem edicti talia sunt: "Quod cum eo, qui in alterius potestate esset, negotium gestum erit". Su questi frammenti si rinvia, in particolare, a P. Cerami, Dal contrahere al negotiari, cit., 181 ss.

 

[30] P. Cerami, Dal contrahere al negotiari, cit., 182.

 

[31] D. 14.3.17 pr. (Paul. 30 ad ed.) Si quis mancipiis vel iumentis pecoribusve emendis vendendisque praepositus sit, non solum institoria competit adversus eum qui praeposuit, sed etiam redhibitoria vel ex stipulatu duplae simplaeve in solidum actio danda est.

 

[32] Cfr. per tutti V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano, cit., 360.

 

[33] L. Vacca, Ancora sull’estensione dell’ambito di applicazione dell’actio empti in età classica, in Ead., Garanzia e responsabilità. Concetti romani e dogmatiche attuali, cit., 97 ss.

 

[34] D.19.1.13 pr. (Ulp. 32 ad ed.) Iulianus libro quinto decimo inter eum, qui sciens quid aut ignorans vendidit, differentiam facit in condemnatione ex empto: ait enim, qui pecus morbosum aut tignum vitiosum vendidit, si quidem ignorans fecit, id tantum ex empto actione praestaturum, quanto minoris essem empturus, si id ita esse scissem: si vero sciens reticuit et emptorem decepit, omnia detrimenta, quae ex ea emptione emptor traxerit, praestaturum ei: sive igitur aedes vitio tigni corruerunt, aedium aestimationem, sive pecora contagione morbosi pecoris perierunt, quod interfuit idonea venisse erit praestandum.

 

[35] Su cui cfr. R. Ortu, Note in tema di organizzazione e attività dei venaliciarii, in Diritto @ Storia, II, 2003 = http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Ortu-Venaliciarii.htm .

 

[36] Per un approfondimento su questi profili e per ulteriori riscontri testuali si rinvia a C.A. Cannata,  Profili romanistici, in Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del IV Congresso Internazionale ARISTEC, cit., 35 ss.

 

[37] D. 19.1.13.30 (Ulp. 32 ad ed.): Si venditor habitationem exceperit, ut inquilino liceat habitare, vel colono ut perfrui liceat ad certum tempus, magis esse servius putabat ex vendito esse actionem: denique tubero ait, si iste colonus damnum dederit, emptorem ex empto agentem cogere posse venditorem, ut ex locato cum colono experiatur, ut quidquid fuerit consecutus, emptori reddat.

 

[38] D. 19.2.25.1 (Gai 10 ad ed. prov.) Qui fundum fruendum vel habitationem alicui locavit, si aliqua ex causa fundum vel aedes vendat, curare debet, ut apud emptorem quoque eadem pactione et colono frui et inquilino habitare liceat: alioquin prohibitus is aget cum eo ex conducto. Su cui cfr. A. Ambrosini, Emptio non tollit locatum, in Annali Univ. Camerino, 1926, I, 21 ss.

 

[39] C.A. Cannata, Profili romanistici, cit., 42 ss.

 

[40] Ciò non esclude, naturalmente, che la pretesa del compratore nei confronti del venditore che questi agisca contro il conduttore possa essere soddisfatta dal venditore cedendo al primo l’azione. Su questa possibilità cfr. C.A. Cannata,  Profili romanistici, cit., 44.

 

[41] D. 21.2.39 pr. (Iul. 57 dig.): Minor viginti quinque annis fundum vendidit Titio, eum Titius Seio: minor se in ea venditione circumscriptum dicit et impetrat cognitionem non tantum adversus Titium, sed etiam adversus Seium: Seius postulabat apud praetorem utilem sibi de evictione [stipulationem] <actionem> in Titium dari: ego dandam putabam. Respondi: iustam rem Seius postulat: nam si ei fundus praetoria cognitione ablatus fuerit, aequum erit per eundem praetorem et [evictionem] restitui. Si riporta il testo nella versione emendata da Cannata, cfr. Id.,  Profili romanistici, cit., 48.

 

[42] Su questi profili si può rinviare, senz’altro, a V. Mannino, Introduzione alla storia del diritto privato dei Romani, II ed., Torino, 2011, 231 ss.; nonché per i necessari approfondimenti bibliografici a S. Di Salvo, «Lex Laetoria». Minore età e crisi sociale tra il III e il II a.C., Napoli, 1979, passim.

 

[43] Per l’inquadramento delle actiones utiles cfr. V. Mannino, Introduzione, cit., 109.

 

[44] C.A. Cannata,  Profili romanistici, cit., 49. Il contenuto di D. 21.2.39 pr. (Iul. 57 dig.) appare meglio apprezzabile richiamando una testimonianza di Ulpiano. Cfr. D. 4.4.13.1 (Ulp. 11 ad ed.) Interdum autem restitutio et in rem datur minori, id est adversus rei eius possessorem, licet cum eo non sit contractum. Ut puta rem a minore emisti et alii vendidisti: potest desiderare interdum adversus possessorem restitui, ne rem suam perdat vel re sua careat, et hoc vel cognitione praetoria vel rescissa alienatione dato in rem iudicio. Pomponius quoque libro vicensimo octavo scribit Labeonem existimasse, si minor viginti quinque annis fundum vendidit et tradidit, si emptor rursus eum alienavit, si quidem emptor sequens scit rem ita gestam, restitutionem adversus eum faciendam: si ignoravit et prior emptor solvendo esset, non esse faciendam: sin vero non esset solvendo, aequius esse minori succurri etiam adversus ignorantem, quamvis bona fide emptor est. Ulpiano ricorda che la restitutio in integrum può essere concessa al minore anche in rem, ovvero tenendo conto esclusivamente della situazione in se stessa, pur non essendo intercorso alcun contratto tra il minore e il possessore del bene. Facendo un esempio analogo a quello sopra esaminato da Giuliano, Ulpiano afferma che l’esperimento della restitutio in integrum in favore del minore poteva comportare due esiti differenti: il possessore poteva dare spontaneamente attuazione all’ordine del magistrato, così come avvenuto nel caso riportato da Giuliano, oppure, in caso di mancato adempimento spontaneo, il pretore avrebbe concesso al minore di rivendicare la cosa, attraverso l’introduzione di apposita fictio nella formula dell’azione petitoria. Su questi profili, anche per i necessari richiami bibliografici, cfr. in particolare, E. Stolfi, Studi sui "Libri ad edictum" di Pomponio: Contesti e pensiero, II, Torino, 2001, 269 ss.

 

[45] L. Vacca, Sulla responsabilità «ex empto» del venditore nel caso di evizione secondo la giurisprudenza tardo-classica, in L. Vacca, Garanzia e responsabilità. Concetti romani e dogmatiche attuali, cit., 44 ss.

 

[46] Soprattutto alla luce delle idee di Pedio, così come approfondite da Ulpiano nel famosissimo D. 2.14.1.3 (Ulp. 4 ad ed.), su cui cfr. da ultimo L. Garofalo, Contratto, obbligazione e convenzione in Sesto Pedio, in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 339 ss. Circoscrivendo questo approfondimento alla sola categoria contrattuale nella quale è inseribile l’emptio venditio, ovvero quella protetta da giudizi di buona fede, nel caso in cui si producesse una discrasia tra quanto originariamente previsto e quanto successivamente realizzatosi, era sempre possibile un intervento integrativo delle parti volto a modificare l’originaria conventio «assieme all’atto contrattuale che ne rappresentava la traduzione», venendosi ad incidere direttamente sul contenuto dell’obbligazione e potendosi, in sede processuale, «dare attuazione piena all’accordo modificato, senza problema alcuno». Nel caso, invece, fosse intervenuto direttamente il giudice, non essendo le parti addivenute al suddetto accordo modificativo, dovendo, comunque, «dare attuazione alla bona fides, ossia agli interessi conformi alla correttezza commerciale», era tenuto a giungere ad una «valutazione del dovere giuridico del convenuto equitativamente sostenibile» così V. Mannino, Considerazioni sulla “strategia rimediale”: buona fede ed exceptio doli generalis, in Europa e dir. priv., 9 (2006), 1296 ss. Volendo, per un momento, verificare questo orientamento alla luce delle fonti analizzate in materia di evizione, un ottimo riscontro del ruolo centrale svolto dalla buona fede è, senza dubbio, rinvenibile in D. 19.1.11.18 (Ulp. 32 ad ed.): emblematica in questo senso non può che essere l’affermazione di Giuliano «neque enim bonae fidei contractus hac patitur conventione, ut emptor rem amitteret et pretium venditor retineret», su cui cfr. in particolare L. Vacca, Buona fede e sinallagma, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, a cura di L. Garofalo, IV, Padova, 2003, 349 s., che evidenzia come nel pensiero di Giuliano «l’operatività del sinallagma rileva nel momento dello svolgimento del contratto … [e] impone che si mantenga l’equilibrio fra le prestazioni».