Università Roma Tre
Compravendita e suggestioni
in tema di superamento del principio di relatività degli effetti del contratto*
ABSTRACT: Contrat
de vente et principe de la relativité des effets du contrat
L’auteur examine
le thème du «dogme» de la relativité des effets du contrat, qui est
expressément codifié dans de nombreuses juridictions européennes, même si est
souvent contesté de la part de la doctrine en ce qui concerne sa substance,
mais sa valeur en tant que principe générale n'a jamais été mise en question.
Un point de vue important sur ces profils brièvement mentionnés, à propos de
l'expérience italienne, semble être constitué par la réflexion, notamment
jurisprudentielle, sur le contrat de vente. Cet angle de
vue semble toutefois encore plus important si nous considérons le point de vue
de la réflexion de la jurisprudence romaine et, en particulier, le rôle du
principe de la bonne foi.
1. – Il “dogma” della
relatività degli effetti del contratto, espressamente codificato in molti degli
ordinamenti europei[1] sulla scia della
previsione dell’art. 1165 del Code civil, viene, come noto, spesso messo in
discussione da parte della dottrina per quanto attiene la sua effettiva
portata, pur non essendone posta in dubbio la valenza di principio generale[2].
Si è, in particolare, evidenziato come il fenomeno di erosione
dell’effettivo ambito applicativo di questo principio risulti direttamente
connesso a due fenomeni, solo apparentemente tra loro contrastanti, ma che in realtà
conducono al medesimo risultato: da una parte, l’ampliamento dei casi di
responsabilità extracontrattuale da contratto; dall’altra, il riconoscimento ai
terzi, intrinsecamente estranei al contratto, di rimedi o eccezioni
contrattuali[3]. Le cause di questo
fenomeno appaiono correttamente poter essere ricondotte alla circostanza che la
considerazione eccessivamente rigorosa del principio di relatività determina
una contraddizione non facilmente superabile: da un lato la necessità di
favorire il traffico giuridico non può non determinare la necessità che si
individuino delle eccezioni alla rigorosa applicazione di tale principio,
dall’altro, il principio stesso non offre alcuno strumento che permetta di
ordinare in modo sistematico e coerente le menzionate e necessarie eccezioni[4].
Un punto di osservazione privilegiato su questi profili ora solo
sommariamente richiamati, per quanto riguarda l’esperienza italiana, appare
costituito dalla riflessione, specie giurisprudenziale, concernente il
contratto di vendita.
In questo senso, senza dubbio, interessante appare la
giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Cassazione italiana relativa
alle cosiddette “vendite a catena”. Tali vendite, molto frequenti nella pratica,
si sviluppano mediante alienazioni successive di un bene mobile, con la
presenza, dunque, di un numero elevato di parti contraenti intermedie, che
vanno a formare gli anelli della catena. In riferimento a questa fattispecie
può registrarsi come la Suprema Corte abbia affermato:
a) che, in caso di vizi del bene, spettano all'acquirente due
azioni; delle quali una contrattuale sorge solo nei confronti del diretto
venditore, in quanto l'autonomia di ciascuna vendita non gli consente di
rivolgersi contro i precedenti venditori, restando salva l'azione di rivalsa
del rivenditore nei confronti del venditore intermedio; l’altra azione,
extracontrattuale, risulta esperibile dal compratore contro il produttore, per
il danno sofferto in dipendenza dei vizi che rendono la cosa pericolosa, anche
quando tale danno si sia verificato dopo il passaggio della cosa nella altrui
sfera giuridica[5];
b) che in caso di evizione del bene[6], vi
sarebbe un intensificarsi del regime garantistico che lega i successivi
venditori, con la conseguenza che il venditore finale potrebbe convenire in
giudizio oltre al venditore diretto anche i venditori precedenti risalendo la
“catena” fino al primo dante causa; pur riconoscendosi che tra azione
principale ed il rapporto obbligatorio che sta alla base della successiva
domanda di regresso non si costituisce alcun vincolo di interdipendenza, si
considera, tuttavia, che tra le parti delle successive vendite sia stata
pattuita, anche tacitamente, una cessione delle azioni spettanti nei confronti
del proprio dante causa, che determinerebbe la trasmissione a ogni acquirente
dei diritti inerenti a tale garanzia; ne deriva, dunque, che il subacquirente
evitto, invece che contro il proprio alienante, possa agire iure proprio nei confronti del primo venditore
o di uno dei precedenti venditori, facendo valere un rapporto di “garanzia
impropria”; può qui rilevarsi come, attraverso quella che potremmo definire una
fictio, ovvero il considerarsi
inclusa nelle successive vendite una clausola tacita di cessione dei diritti di
garanzia, pur facendosi salva l’autonomia delle singole vendite, si giunge ad
affermare una sorta di ‘ultrattività’ della garanzia per evizione, risultando
il primo venditore ‘responsabile’ nei confronti di un soggetto estraneo rispetto
all’originario rapporto contrattuale.
Sempre in materia di vendita, ma relativamente al regime della
garanzia per i vizi del bene, più di recente, la Cassazione ha avuto di modo di
affermare[7] che il
produttore del bene viziato, pur essendo terzo rispetto il contratto di
compravendita, riconosciuta l'esistenza del vizio delle cose prodotte, può
assumersi, nei confronti del compratore, l'autonoma obbligazione di riparare il
bene viziato[8]. In questo caso, dunque, l’efficacia
del contratto appare indiretta: la vendita, infatti, può considerarsi
l’occasione che giustifica l’assunzione da parte del produttore dell’autonoma
obbligazione di eliminare il vizio riscontrato nel bene.
2. – Anche dal limitato angolo visuale costituito dal contratto di
vendita si può, dunque, ottenere una prima conferma delle conclusioni sopra
sommariamente richiamate, cui perviene la dottrina in riferimento alla
perimetrazione degli effetti del principio di relatività del contratto. Quest’angolo
visuale appare, però, ancor più significativo se ci spostiamo nell’ottica della
riflessione giurisprudenziale romana.
Prima di venire ad affrontare la questione centrale di questo
intervento appare, in vero, necessaria una breve premessa di metodo. Alla base
di questo approfondimento non vi è l’idea di voler ricostruire in modo più o
meno superficiale “genealogie” di un istituto attuale, adottando una visione
maldestramente “evoluzionista” del diritto, ma quella, efficacemente
evidenziata da Letizia Vacca secondo cui «la storia del diritto deve avere
anche piena consapevolezza del presente e anzi deve porsi l’obiettivo di
contribuire a formare la consapevolezza del moderno giurista europeo per la
costruzione del futuro»[9].
Allo stesso modo giova fin da subito ricordare, richiamando
nozioni generali senza dubbio note, come nella riflessione della giurisprudenza
romana non si sia stato compiuto mai un approfondimento generale sul tema della
relatività degli effetti del contratto, ma i giuristi, in coerenza con
l’approccio casistico loro proprio, si siano limitati a riconoscere
l’invalidità della stipulazione in favore del terzo, sulla base del principio
dell’interesse. In questo senso appare chiaro il celeberrimo frammento di
Ulpiano, D. 45.1.38.17, tratto dal commento ad
Sabinum[10].
Nel frammento il giurista ricorda come nessuno possa stipulare a
favore di un altro, salvo il caso dello schiavo che stipuli a favore del dominus o del filius a favore del pater.
Ciò in quanto la sponsio stipulatio,
ovvero il contratto verbale oggetto della disamina del giurista, persegue lo
scopo che ciascuno acquisti per sé ciò che gli interessa; con la conseguenza,
dice il giurista, che a me non interessa che si dia ad un terzo (inventae
sunt enim huiusmodi obligationes ad hoc, ut unusquisque sibi adquirat quod sua
interest: ceterum ut alii detur, nihil interest mea). Ulpiano puntualizza, poi, che quest’ultimo
obiettivo appare realizzabile prevedendosi la stipulazione di una pena, ovvero
prevedendosi che, se non sarà fatto come promesso, la stipulatio risulterà inadempiuta anche nei confronti di chi non vi
abbia interesse. Ciò in quanto, nel caso si pattuisca una pena, non si valuta
se vi sia un interesse, ma soltanto quanto si è stipulato e a quale condizione.
Come si evince chiaramente dalla testimonianza ulpianea, il principio ‘alteri stipulari nemo potest’ appare
giustificato, a sua volta, dal principio dell’interesse[11]
(inventae sunt enim huiusmodi
obligationes ad hoc, ut unusquisque sibi adquirat quod sua interest):
questo collegamento consentiva ai giuristi romani di superare tale divieto,
ogniqualvolta vi potesse, comunque, essere in concreto un interesse dello
stipulante alla conclusione del contratto. Si pensi, ad esempio, al caso di chi
si fosse obbligato a costruire un edificio ed avesse successivamente, mediante stipulatio, impegnato un altro soggetto
a realizzare l’originaria prestazione nei confronti del primo promissario[12].
Sempre a livello pratico deve
registrarsi come fin dall’epoca classica furono individuati dei modi attraverso
cui poter aggirare il divieto in esame.
In questo senso appare emblematica la possibilità di utilizzare la delegatio solvendi, con la quale il
creditore autorizzava il debitore a eseguire la prestazione ad un terzo[13].
Un maggior ampliamento delle deroghe al principio ‘alteri stipulari nemo potest’ risulta essersi formalizzato nel
periodo del Principato, quando, sulla base di valutazioni equitative, si ammise
l’esperibilità da parte di terzi di azioni, spesso in via utile, relative a
diritti relativi a patti conclusi in loro favore dalle parti. Volendo
esemplificare, appare chiaro in questo senso il riconoscimento della
possibilità che con un patto si potesse prevedere che il depositario
restituisse il bene ad un terzo, invece che all’originario depositante[14].
In epoca giustinianea si generalizza,
infine, il rilievo del principio dell’interesse che viene a costituire il
parametro in base al quale valutare l’applicabilità del principio ‘alteri stipulari nemo potest’. In questo
senso appaiono chiare le Istituzioni di Giustiniano[15]
ove si afferma espressamente la piena validità della stipulazione in favore del
terzo ‘cum eius interesset’.
Dell’evoluzione ora sommariamente richiamata, com’è altresì noto, viene fornita
una diversa lettura da Pothier, sotto l’influenza dei principi giusnaturalisti.
Il dogma della libertà individuale non può che avere come immediata conseguenza
nelle parole di Pothier che «il terzo non può essere vincolato da una volontà
che non ha concorso a formare»[16],
escludendosi, dunque, che il negozio possa produrre non solo naturalmente
effetti negativi nei confronti del terzo, ma anche effetti positivi.
L’influenza di questa ‘lettura’ sulle
codificazioni ottocentesche è nota. Merita, a mio avviso, di essere, invece,
evidenziato come la riflessione della giurisprudenza romana su questi profili
non possa essere compressa nella generalizzazione del principio ‘alteri stipulari nemo potest’, la cui
effettiva ed originaria portata la dottrina, come ora sommariamente
evidenziato, ho già avuto modo di precisare.
In quest’ottica, come precedentemente
anticipato, un punto di osservazione privilegiato appare fornito, alla luce
anche delle suggestioni ricavabili dalla giurisprudenza italiana, dal contratto
di compravendita.
3.
– L’emptio venditio consensuale, genuina
invenzione romana preceduta unicamente dalla vendita a contanti[17],
si sviluppa non prima dell’introduzione del processo formulare e, nello
specifico, dei iudicia bonae fidei, data l’inidoneità del precedente sistema
processuale a fornire un’adeguata tutela alla fattispecie in esame: non prima,
quindi, della fine del III secolo a.C. e l’inizio del II secolo a.C.[18].
Molto dibattuta appare, in dottrina,
l’individuazione della corretta perimetrazione delle obbligazioni gravanti
sulle parti contrattuali ed, in particolare, sul venditore. Per quanto qui
maggiormente interessa, può ricordarsi come gli esiti della riflessione della
dottrina tradizionale[19]
sono felicemente compendiabili con le parole di Arangio-Ruiz. Secondo
l’illustre Maestro, «l’emptio et
venditio è un contratto consensuale e bilaterale in virtù del quale una
delle parti si obbliga a trasmettere all’altra il pacifico godimento di
qualcosa, detta merce, mentre l’altra parte si obbliga a trasferire alla prima
la proprietà di una somma di denaro, detta prezzo»[20].
E’ stato merito della dottrina più
recente[21]
l’aver evidenziato come, in realtà, nelle fonti appaia individuabile un
contenuto più complesso delle obbligazioni gravanti sul venditore che è tenuto
a ‘praestare rem’, come efficacemente
testimoniato in D. 19.1.11 pr.-1 [22].
In altre parole, dal consenso sulla causa sinallagmatica di scambio della cosa
contro il prezzo, sorge, sotto la spinta propulsiva della buona fede,
un’obbligazione complessa gravante sul venditore che è tenuto ad assicurare
l’appartenenza esclusiva del bene acquistato al compratore. Si tratta, quindi,
di uno schema neutro che riesce non solo a soddisfare la pluralità di esigenze
della prassi commerciale – tenuto conto, ad esempio, della circostanza che il dominium ex iure Quiritium è istituto
proprio dei soli cittadini romani e che il regime di circolazione dei beni
differisce a seconda della natura del bene venduto[23]
–, ma anche, come vedremo, a garantire un’efficace protezione agli interessi
del compratore.
4.
– Alla
luce delle coordinate ora sommariamente richiamate, vorrei, in primo luogo,
richiamare l’attenzione su alcuni profili connessi con il tema più generale
della responsabilità adiettizia. Non è, naturalmente, questa la sede per poter
neppure tentare di approcciare un argomento così complesso come quello relativo
all’inquadramento delle azioni adiettizie[24],
oscillandosi in dottrina tra i due poli opposti della loro riconducibilità nel
paradigma della rappresentanza e la tesi che nega ogni assimilazione tra i due
fenomeni. Ai nostri fini può ricordarsi come con l’espressione ‘azioni
adiettizie’ ci si riferisca, in realtà, a cinque diverse azioni[25]
esperibili nei confronti del proponente o dell’avente potestà nel caso in cui a
concludere il negozio fosse stato un soggetto a potestà o un preposto. L’ambito
applicativo di tali azioni è quello dei rapporti commerciali, caratterizzati
per l’abitualità e la professionalità del loro svolgimento e per
l’organizzazione di uomini e beni apprestata per la loro realizzazione[26].
Proprio la valorizzazione della stretta connessione funzionale tra
responsabilità adiettizia e organizzazione imprenditoriale, permette, a mio
avviso condivisibilmente, di condurre tale responsabilità al di fuori della
categoria della rappresentanza negoziale[27],
trovando il suo fondamento nel principio del rischio (periculum)[28].
Dalle fonti[29],
sulle quali per ragioni di tempo non ci si può in questa sede soffermare,
emerge in modo chiaro come:
- il rapporto contrattuale intercorra
in modo diretto tra sottoposto/preposto e altri contraenti;
- la responsabilità del proponente
discende oggettivamente dalla sua posizione a capo della struttura
imprenditoriale, a cui si ricollega il rapporto contrattuale fra sottoposto e
controparti.
In altre parole, nel contesto di un
sistema economico globalizzato come quello proprio dell’esperienza romana dei
primi due secoli d.C., ci si trova di fronte, con un felice parallelo proposto
da Pietro Cerami[30],
ad una situazione non dissimile da quella attuale dei contratti dei
consumatori, in cui il contraente forte è colui che svolge l’incarico di
preposto-agente, mentre il consumatore-contraente debole è il soggetto che
viene con lui a negoziare. Emblematica di questa linea di politica del diritto è,
senza dubbio, la riflessione giurisprudenziale avvenuta nei primi due secoli
del Principato sulle modalità di tutela del ‘compratore-consumatore’ di
schiavi, animali da tiro e greggi nei confronti dell’imprenditore per le
vendite effettuate con i suoi agenti, in caso di evizione o di vizi del bene
acquistato.
Al riguardo può, allora, farsi
riferimento ad una chiarissima testimonianza del giurista Paolo, riportata in
D. 14.3.17 pr.[31].
Il giurista afferma il principio che
nel caso qualcuno sia stato preposto a comprare o vendere schiavi o animali,
contro colui che lo ha preposto, ovvero l’imprenditore, compete non solo
l’azione institoria, una delle cinque azioni adiettizie, ma anche, per
l’intero, le azioni redibitoria e quella relativa alla stipulazione per evizione.
A monte della vendita vi è, dunque, una
praepositio institoria volta allo
svolgimento di negotiationes aventi
ad oggetto, come visto, la vendita di schiavi, giumenti o bestiami. La
precisazione sull’oggetto dell’attività imprenditoriale svolta dal preposto del
dominus è molto importante
nell’individuazione delle garanzie che possono essere fatte valere dal
compratore. Il sistema di tutela in caso di vizi del bene, almeno fino alla
sistematizzazione giustinianea, è, infatti, complesso e influenzato dalla
dialettica ius civile/ius honorarium e
dalla tipologia del bene trasferito. Il regime generale di garanzia[32]
prevedeva che il compratore potesse esperire l’azione contrattuale, actio empti, nei casi in cui la cosa non
corrispondesse ai requisiti dichiarati anche non formalmente al momento della
vendita dal venditore o presentasse dei vizi dolosamente da quest’ultimo
taciuti. Al di fuori di questi casi, se il venditore fosse stato in buona fede,
il compratore non aveva alcuna tutela, salvo che non fossero state aggiunte
specifiche stipulazioni, che facevano sorgere una responsabilità oggettiva in
capo al venditore. Questo quadro cambia, come evidenziato dalla dottrina più
recente[33],
a partire dalla giurisprudenza adrianea: è merito del giurista Giuliano[34]
l’aver ammesso l’esperibilità dell’azione contrattuale anche nei confronti del
venditore in buona fede, per ottenere la differenza tra il prezzo pagato e
quello che il compratore avrebbe pagato se avesse conosciuto il vizio, nel
caso in cui la rilevanza oggettiva del vizio fosse tale da renderlo inidoneo
alla sua normale utilizzazione economica. A questo sistema si affianca un
regime speciale riguardante, come nel caso del passo in esame, le vendite degli
schiavi e degli animali effettuate nei mercati. I magistrati che avevano
giurisdizione su queste vendite, gli edili curuli, introdussero due azioni che
potevano essere esperite dal compratore in caso di vizio occulto del bene
acquistato: l’azione redhibitoria,
diretta alla restituzione del prezzo pagato a fronte della restituzione dello
schiavo, e l’azione aestimatoria,
volta ad ottenere una riduzione del prezzo o la restituzione della differenza
del prezzo pagato e l’effettivo valore dello schiavo, alla luce dei vizi
riscontrati.
Tornando ad analizzare D. 14.3.17 pr.,
dobbiamo soffermarci sulle conseguenze derivanti dalla praepositio con riferimento alla tutela dei terzi che avessero
concluso un negozio con il preposto. Paolo, nella seconda parte del frammento,
ricorda prima la regola generale della responsabilità illimitata del preponente
verso i terzi per i negozi da loro conclusi con l’institor[35], poi introduce il principio, ai nostri
fini più importante, in base al quale il preponente poteva essere chiamato a
rispondere in solidum anche con
l’azione redhibitoria, che, come
visto, spettava al compratore tenuto conto del tipo di bene acquistato. E’
evidente come questo secondo principio determini un chiaro superamento del
principio di relatività del contratto: ragioni equitative, riassumibili nella
necessità di apprestare una tutela effettiva ed ampia al
compratore-consumatore, spingono il giurista a far valere le garanzie proprie
del contratto di vendita nei confronti di un soggetto che non è ‘parte’ del
contratto, in quanto quest’ultimo è stato concluso tra il preposto e
l’acquirente. Da segnalare, infine, come questa responsabilità si aggiunga a
quella già affermata e connessa al rapporto di preposizione.
5.
– Se,
dunque, già nella disciplina specifica concernente la responsabilità adiettizia
vi sono chiare indicazioni nel senso del superamento della relatività degli
effetti del contratto, passerò ora ad esaminare due ulteriori testimonianze
dalle quali appare emergere ancor più chiaramente come i giuristi romani
ammettessero che un contratto concluso fra due soggetti potesse produrre in
qualche modo effetto nella sfera giuridica di un terzo[36].
Il primo caso ci è ricordato in un
passo del giurista Ulpiano, D. 19.1.13.30 [37],
che riporta l’opinione di Tuberone, un giurista collocabile nella metà del I
secolo a.C. La fattispecie analizzata nel responso si sostanzia in una vendita
di un bene locato, nella quale il venditore, attraverso una specifica
pattuizione, riserva al conduttore il diritto, per un dato tempo, di continuare
a godere del bene locato. Il compratore, dunque, si impegna a consentire che
l’originario contratto di locazione intercorrente con il venditore continui a
produrre i suoi effetti: ne deriva che, al momento del passaggio della
proprietà, il venditore assume il ruolo di locatore di un bene altrui e non
nasce alcun rapporto contrattuale tra compratore e conduttore, in quanto, come
appena visto, continua a produrre i suoi effetti l’originario contratto di
locazione. Secondo il giurista, se il compratore impedisce il godimento del
conduttore, il venditore-locatore potrà agire nei confronti del compratore con
l’azione contrattuale di vendita, ovvero l’actio
empti. La ratio sottesa a questa
prima conclusione appare chiara: il compratore con il suo comportamento viola
una precisa disposizione contrattuale e il suo inadempimento legittima
l’esperimento da parte del venditore del rimedio contrattuale. Il
venditore-locatore, com’è evidente, avrà tutto l’interesse a far valere la
responsabilità del compratore: egli stesso potrebbe, infatti, essere chiamato
dal conduttore a rispondere per l’inadempimento alla propria obbligazione di
garantire il godimento del bene locato.
Nell’ultima parte del frammento,
Ulpiano richiama l’opinione di Tuberone, in relazione al caso specifico costituito
dal fatto che il bene oggetto di vendita fosse costituito da un fondo,
venendosi, dunque, a configurare un contratto di affitto. In riferimento a
questa fattispecie, il secondo giurista ritiene che, nel caso in cui il colono
produca un danno al fondo, il compratore potrà esperire l’azione contrattuale
nei confronti del venditore per costringerlo ad agire con l’azione di locazione
contro il colono, in modo che lo stesso venditore dia successivamente al
compratore tutto quello che avrà conseguito con la menzionata azione.
Prima di evidenziare l’importanza della
soluzione elaborata da Tuberone ed il suo fondamento, appare opportuno
ricordare come, a dispetto di quanto potrebbe far intendere il brocardo latino
‘emptio non tollit locatum’, spesso
utilizzato nella civilistica attuale, il diritto romano non conobbe un
principio analogo a quello che connota la vigente disciplina della locazione in
tema di opponibilità del contratto di locazione al compratore del bene locato,
il quale subentra nell’originario contratto. Per diritto romano, come ricorda
chiaramente Gaio[38],
se il venditore-locatore decide di vendere il bene oggetto di locazione, il
conduttore non potrà opporre il pregresso rapporto di locazione al compratore
del bene, ma potrà agire nei soli confronti del locatore, che, con la vendita,
ha impedito l’uti frui del bene
locato. Proprio per evitare questa responsabilità, come ci ricorda Ulpiano nel
passo in esame, il venditore inseriva un’apposita pattuizione nella vendita, in
modo che il compratore consentisse la prosecuzione della locazione.
Tornando, ora, ad esaminare l’opinione
di Tuberone, come chiaramente evidenziato da Carlo Augusto Cannata[39],
essa presenta diversi profili da chiarire:
a) individuazione della giustificazione
dell’esperibilità dell’actio locati
da parte del venditore-locatore, nei confronti del conduttore, che ha provocato
i danni al fondo locato; il venditore, infatti, non è più proprietario del
fondo nel momento in cui vengono arrecati allo stesso i danni e, quindi, non ha
un interesse diretto ad agire nei confronti del conduttore;
b) identificazione del fondamento
dell’esperibilità dell’actio empti nei
confronti del venditore da parte dell’acquirente, proprietario del bene nel
momento in cui questo viene danneggiato dal conduttore.
Per quanto attiene al primo quesito, la
legittimazione del venditore per agire ex
locato contro il conduttore appare fondarsi proprio sull’interesse
dell’acquirente: il venditore potrà agire in giudizio lamentando la lesione
dell’interesse dell’acquirente e a tale interesse sarà, poi, parametrato il
risarcimento pecuniario, che l’attore dovrà successivamente trasferire al
soggetto effettivamente danneggiato.
L’evidenziazione che la legittimazione
ad agire ex locato in capo al
venditore contro il conduttore si fondi esclusivamente sull’interesse del
compratore, in mancanza del quale il venditore non potrebbe agire, permette di
ipotizzare una risposta anche al secondo quesito. Al momento della vendita,
infatti, il venditore non si è assunto alcun obbligo di garantire il compratore
contro i danni eventualmente causati dal conduttore, ma tale obbligo di
protezione sorge in base alla buona fede, che regge la disciplina della
compravendita. Sarebbe, infatti, contrario alla buona fede che il compratore
non potesse ottenere dal venditore, dal soddisfacimento di un cui interesse
origina la vicenda, di essere tenuto indenne dagli svantaggi che tale
situazione ha determinato, attraverso l’esperimento di un’azione la cui
legittimazione compete al solo venditore, pur sulla base di un interesse
proprio del compratore[40].
6.
– Il
secondo frammento sul quale voglio brevemente concentrare l’attenzione è D.
21.2.39 pr., tratto dai Digesta di
Giuliano[41].
Il giurista adrianeo affronta il caso di un minore di venticinque anni che vende
un proprio fondo a Tizio e questo, a sua volta, lo rivende a Seio.
Perfezionatisi gli atti di trasferimento, il minore conviene in giudizio Tizio
e Seio affermando di essere stato raggirato e chiedendo al pretore di far
venire meno gli effetti delle alienazioni, mediante un’in integrum restitutio.
Al fine di una piena comprensione della
soluzione offerta dal giurista, giova brevemente ricordare come a partire da
circa il 200 a.C. i ragazzi al di sotto dei venticinque anni godettero di una
particolare forma di protezione; lo sviluppo economico di quest’epoca e la
conseguente complessità che poteva connotare le relative transazioni, resero
impellente, infatti, l’introduzione di una forma di tutela degli adolescenti in
relazione ai raggiri di cui potessero essere vittima a causa della loro
naturale inesperienza; questa esigenza fu soddisfatta dalla lex Laetoria, che concesse una specifica
azione contro chi avesse negoziato con un minore di venticinque anni,
raggirandolo. Il pretore, successivamente, intervenne a perfezionare questo
sistema di protezione, riconoscendo al minore la possibilità di difendersi, con
un’apposita exceptio contro le
pretese giudiziarie avanzate dal soggetto che lo avesse raggirato e, nel caso
il negozio avesse già prodotto i suoi effetti, concedendo al minore una restitutio in integrum, ovvero uno
strumento che permetteva di eliminare tali effetti. I rimedi pretori ora
ricordati avevano l’ulteriore vantaggio che il minore non dovesse dimostrare il
raggiro subito, essendo sufficiente la prova dell’esistenza di un pregiudizio
patrimoniale[42].
Tornando ad analizzare il frammento di
Giuliano, il giurista afferma che correttamente Seio, ovvero il secondo
acquirente del bene venduto dal minore, aveva richiesto al pretore che gli
fosse concessa contro Tizio in via utile un’azione relativa alla stipulazione
di garanzia per evizione. Il giurista adrianeo fonda questa decisione sulla
considerazione che se il pretore deciderà di accogliere la richiesta del minore
di porre nel nulla la prima vendita, l’equità richiede che il secondo
acquirente, Seio, sia posto in condizione di poter esperire nei confronti del
proprio venditore, Tizio, il rimedio previsto in caso di evizione. Cerchiamo di
cogliere la ratio sottesa al responso
giulianeo. A seguito del provvedimento del pretore di reintegrazione, il minore
riotterrà il bene oggetto della prima vendita “fraudolenta” e sarà tenuto alla
restituzione a Tizio del prezzo pattuito. Considerando che presupposto per
poter ottenere il provvedimento di restitutio
in integrum è, come visto, la verifica di un pregiudizio patrimoniale per
il minore, se ne può dedurre che il prezzo pagato da Tizio al minore non
rispecchi l’effettivo valore del bene acquistato e certamente risulta più basso
di quello che Seio ha pagato a Tizio. Con la conseguenza che, senza il rimedio
prospettato da Giuliano, Seio, obbligato alla restituzione del bene acquistato
al minore, subirà un danno patrimoniale, in quanto avrebbe potuto conseguire
esclusivamente il prezzo pattuito tra il minore e Tizio. A questo punto può ben
cogliersi perché il giurista richiami la disciplina in tema di evizione: il
provvedimento pretorile di restituzione al minore del bene acquistato pone Seio
in una posizione analoga a quella in cui si sarebbe trovato se avesse subito
l’evizione del bene. Considerato che in quest’ultimo caso Seio avrebbe potuto
conseguire dal proprio venditore Tizio, con l’azione contrattuale (actio empti), il risarcimento
dell’interesse a non essere privato del bene acquistato, pari almeno al prezzo
pagato, appare equo che il pretore conceda a Seio uno strumento che gli
consenta di ottenere un risultato equivalente a quello che avrebbe conseguito,
se si fosse potuto far valere direttamente la responsabilità per evizione. La
possibilità che si configuri un caso di evizione è esclusa dalla causa per la
quale Seio viene a perdere il bene, ovvero l’aver accettato, durante la causae cognitio, che il provvedimento
pretorio producesse immediatamente effetti anche nei suoi confronti;
conseguentemente il pretore, al fine di accordare il giusto ristoro a Seio,
dovrà concedergli un’actio utilis de
evictione, ovvero un’azione modellata su quella legata alla responsabilità
per evizione, ma con un ambito applicativo più ampio di quello normalmente
proprio di tale azione[43].
Come efficacemente evidenziato da
Cannata, «il contratto che produce effetti rispetto al terzo è la compravendita
intervenuta fra il minore e Tizio, ed essa produce tali effetti in quanto
viziato dalla circumscriptio. Il
meccanismo qui è particolare: la circumscriptio
che vizia il contratto, fa sì che questo possa essere oggetto di restitutio in integrum, ma la restitutio in integrum, in casi come
questo, è concessa a favore del minore rispetto alla situazione che il
contratto ha creato, e non con riguardo alle parti del contratto come tali»[44].
Questa soluzione appare, del resto,
pienamente coerente con i principi che reggono, specie nell’ottica giulianea,
la responsabilità per evizione. Nella prospettiva del praestare rem quale
contenuto dell’obbligazione del venditore, muta il titolo per il quale il
venditore è chiamato a rispondere in caso di evizione: non più in qualità di
garante, ma in qualità di debitore inadempiente all’obbligazione principale di praestare
rem. La concessione al compratore
dell’actio empti deve essere letta, allora, in considerazione del
risultato che il venditore è tenuto ad assicurare al compratore quale
corrispettivo del prezzo, ovvero la realizzazione della causa sinallagmatica
dell’accordo, che comporta l’acquisto definitivo del bene al compratore,
dipendente dal trasferimento del venditore, quale corrispettivo del pagamento
del prezzo[45].
7.
– Proprio
il richiamo al praestare rem
permette, a mio avviso, di fare un ulteriore passo avanti e ricomporre in modo
coerente le soluzioni finora esaminate. La ricostruzione in termini di praestare rem dell’obbligazione del
venditore, infatti, risponde all’analoga esigenza che spinge, nei passi sopra
esaminati, a superare la regola che vuole che gli effetti del contratto siano
limitati ai soli contraenti. Il bonum et
aequum, quale criterio tecnico che impone la tutela dell’equilibrio delle
obbligazioni contrattuali nei giudizi di buona fede, determina che venga
salvaguardato il principio della corrispettività delle prestazioni. Ciò determina,
in via esemplificativa, che, come nel primo caso esaminato, la garanzia per
vizi contrattualmente gravante solo sul venditore/preposto possa essere fatta
valere anche nei confronti dell’imprenditore preponente, che è il soggetto che
indirettamente beneficia del contratto, di cui è parte formalmente il suo
preposto. Allo stesso modo, Giuliano, come abbiamo appena visto nell’ultima
fonte esaminata, reputa che il secondo acquirente di un bene alienato da un
minore di venticinque anni debba essere messo in condizione di poter esperire
un’azione che ristabilisca la corrispettività delle prestazioni, anche se la
causa che ha fatto venire meno tale corrispettività deriva da un altro rapporto
contrattuale.
Insomma il ‘filo rosso’ che lega le
soluzioni esaminate, nelle quali appare evidente il superamento del principio
della relatività degli effetti del contratto, e che le giustifica è la buona
fede[46] ed, in particolare, il ruolo che la
stessa svolge nella compravendita, e la cui concretizzazione è affidata all’interpretazione
dei giuristi nella valutazione dell’interdipendenza delle obbligazioni
reciproche. La forza espansiva del principio di buona fede è tale da far sì che
il compratore possa conseguire tutte le utilità programmate e da consentire una
dissociazione tra attuazione degli effetti giuridici principali e soddisfazione
degli interessi dedotti in contratto, proiettando, dunque, i suoi effetti anche
su soggetti terzi rispetto all’originario contratto.
[Per la pubblicazione degli
articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa,
il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind].
* Il presente contributo costituisce la
rivisitazione in lingua italiana della relazione tenuta al Convegno “L'effet relatif du contrat”, 11èmes
Journées d’étude Poitiers-Roma TRE "Jean Beauchard 2013", svoltosi
presso l’Università di Poitiers dal 21 al 22 giugno 2013.
[1] Direttamente in Spagna (c.c. del 1889, artt.
1091 e 1257, comma 1) ed Italia (art. 1372, comma 4, c.c.). Indirettamente,
come precipitato implicito del sistema in Germania e nel diritto inglese
(dottrina del “privity of contract”).
[2] Su questi profili, cfr. in particolare E. Moscati, I rimedi contrattuali a favore dei terzi, in Riv. dir. civ., 2003, 134 ss.
[4] In questi termini A. Gambaro, Gli
effetti del contratto rispetto ai terzi, in Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva
storico-comparatistica. Atti del IV Congresso Internazionale ARISTEC. Roma
13-16 settembre 1999, a cura di L. Vacca,
Torino, 2001, 340.
[5] Cass. civ., 17 gennaio 2009, n. 26514; Cass. civ.,
15 aprile 2002, n. 5428; Cass. civ., 6 settembre 2000, n. 11756.
[6] Cass., 6 marzo 1969, n. 705, in Mass.
Giust. civ., 1969, 359; Cass., 6 agosto 1965, n. 1871, in Giust. civ.,
1966, I, 1176; Cass., 4 agosto 1949, n. 2164, in Giur. it., 1950, I,
399. In dottrina cfr., in particolare, G. Gorla,
La compravendita e la permuta, in Trattato di diritto civile,
diretto da VASSALLI, 1937, 115 ss.; D. Rubino,
in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da CICU e MESSINEO,
1962, 739 ss. Più di recente cfr., anche per ulteriori riferimenti
bibliografici, M. Mullace, Vendita a catena: della tutela del
compratore, in I contratti, 2001,
172 ss.
[7] La Suprema Corte si è pronunciata a seguito
della domanda di una cooperativa, che aveva acquistato da una società alcune
elettropompe per lo smaltimento di acqua. La merce si dimostrò inidonea all'uso
e, pertanto, la cooperativa agì in giudizio nei confronti della società
venditrice per la risoluzione della compravendita, la restituzione del prezzo
ed il risarcimento del danno. La venditrice chiamava in garanzia la società
produttrice delle elettropompe. Il Giudice di primo grado, ritenuto che la
produttrice fosse estranea al contratto di compravendita, accoglieva la domanda
dell'acquirente nei confronti della venditrice, dichiarando la risoluzione del
contratto. La società venditrice impugnava la sentenza e la Corte d'appello,
nell’accogliere il gravame, ha riconosciuto la responsabilità della società
produttrice, condannandola al risarcimento dei danni subiti dall'acquirente,
con decisione successivamente confermata dai giudici di legittimità.
[8] Cass. civ., 12 ottobre 2009, n. 21621, in Diritto e Giustizia, 2009, 10, 43 ss.,
con nota di C. Garufi, a cui si
rinvia per un approfondimento sulla questione affrontata dalla Suprema Corte.
[9] L. Vacca,
Cultura giuridica e armonizzazione del diritto europeo, in Europa e
dir. priv. 7, 2004, 65-66.
[10] D. 45.1.38.17 (Ulp. 49 ad Sab.) Alteri stipulari nemo potest, praeterquam si
servus domino, filius patri stipuletur: inventae sunt enim huiusmodi
obligationes ad hoc, ut unusquisque sibi adquirat quod sua interest: ceterum ut
alii detur, nihil interest mea. Plane si velim hoc facere, poenam stipulari
conveniet, ut, si ita factum non sit, ut comprehensum est, committetur stipulatio
etiam ei, cuius nihil interest: poenam enim cum stipulatur quis, non illud
inspicitur, quid intersit, sed quae sit quantitas quaeque condicio
stipulationis.
[11] In questo senso H. Ankum, Une nouvelle
hypothèse sur l’origine de la règle alteri dari stipulari nemo potest, in études
Macqueron, Aix-en-Provence, 1970, 21 ss.; altra parte della dottrina ha,
invece, messo in luce come l’emersione del principio in esame sarebbe da
riferirsi alla struttura stessa del processo civile romano che, essendo
caratterizzato da una condanna pecuniaria, avrebbe richiesto che fosse lo
stipulante, in veste di attore, a doverla richiedere, avendovi interesse. Su
questi profili può rinviarsi alle attente considerazioni svolte da P.M. Vecchi, La stipulazione a favore di terzi da figura eccezionale a strumento
generale, in Gli effetti del
contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva storico-comparatistica.
Atti del IV Congresso Internazionale ARISTEC, cit., 275 ss.; I. Ferranti,
Causa
e tipo nel contratto a favore di terzo, Milano, 2005, 9 ss.
[12] D. 45.1.38.21 (Ulp. 49 ad Sab.): Si quis insulam
faciendam promiserit aut conduxerit, deinde ab aliquo insulam stipulatori fieri
stipulatus sit: aut si quis, cum promisisset Titio fundum Maevium daturum aut,
si is non dedisset, poenam se daturum, stipulatus a Maevio fuerit fundum Titio
datu iri: item si quis id locaverit faciendum quod ipse conduxerit: constat
habere eum utilem ex locato actionem. Su cui cfr. da ultimo F. Mattioli, Il contratto a favore di terzo. Spunti per una comparazione diacronica
dal diritto romano al «Draft Common Frame of Reference», in Riv. diritto romano, 2010, 2 s.
[13] D. 46.3.10 (Paul. 4 ad Sab.) Quod stipulatus ita
sum "mihi aut Titio", Titius nec petere nec novare nec acceptum
facere potest, tantumque ei solvi potest.
[14] C.I. 3.42.8 [Impp. Diocl. et Max., a. 293] Si res tuas commodavit aut deposuit is,
cuius precibus meministi, adversus tenentem ad exhibendum vel vindicatione uti
potes. 1. Quod si pactus sit, ut tibi
restituantur, si quidem ei qui deposuit successisti, iure hereditario depositi
actione uti non prohiberis: si vero nec civili nec honorario iure ad te
hereditas eius pertinet, intellegis nullam te ex eius pacto contra quem supplicas
actionem stricto iure habere: utilis autem tibi propter aequitatis rationem
dabitur depositi actio.
[15] I. 3.19.20 Sed
si quis stipuletur alii, cum eius interesset, placuit stipulationem valere. nam
si is qui pupilli tutelam administrare coeperat, cessit administratione
contutori suo et stipulatus est, rem pupilli salvam fore, quoniam interest
stipulatoris fieri quod stipulatus est, cum obligatus futurus esset pupillo si
male res gesserit, tenet obligatio. ergo et si quis procuratori suo dari stipulatus
sit, stipulatio vires habebit. et si creditori suo, quod sua interest, ne forte
vel poena committatur, vel praedia distrahantur quae pignori data erant, valet
stipulatio.
[17] C. A. Cannata,
La compravendita consensuale romana:
significato di una struttura, in
Vendita e trasferimento della proprietà nella prospettiva
storico–comparatistica. Atti del
Congresso Internazionale, 17–21 aprile 1990, Pisa–Viareggio–Lucca, I, a
cura di L. Vacca, Milano, 1991,
75.
[18] Sulla datazione concordano V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano,
Napoli, 1954, 46, e M. Talamanca, voce Vendita in generale
(dir. rom.), in Enciclopedia del
diritto,
XLVI, Milano, 1993, 305. Evidenzia, in particolare,
l’importanza del ruolo del pretore nella formalizzazione del nuovo schema
processuale A. Fernández de
Buján, La compraventa en Derecho romano de obligaciones, in Estudios
Homenaje al Profesor José Luis Murga Gener, Madrid, 1994, 552.
[19] Che fa leva su una famosa testimonianza
paolina, cfr. D. 19.4.1 pr. (Paul. 32 ad ed.): […] multum differunt
praestationes. Emptor enim, nisi nummos accipientis fecerit, tenetur ex
vendito, venditori sufficit ob evictionem se obligare, possessionem tradere et
purgari dolo malo: itaque, si evicta res non sit, nihil debet; […].
[20] V. Arangio-Ruiz,
Compravendita, cit., 88. Nello stesso senso cfr., in particolare, P. Bonfante,
Istituzioni di
diritto romano, Ristampa corretta della X edizione a cura di GIULIANO BONFANTE
e di GIULIANO CRIFÒ, con una prefazione di Emilio Albertario e una nota di
lettura di Giuliano Crifò, [Opere complete di Pietro Bonfante, X] Milano, 1987,
390, ritiene che: «La
compravendita obbligatoria è un contratto consensuale bilaterale, per cui uno
dei contraenti (il venditore) promette all’altro (il compratore) di cedergli
per sempre il possesso di una cosa e prestar la garanzia del possesso stesso,
ovvero trasmettergli qualunque diritto, dietro promessa di ricevere un
corrispettivo in denaro (pretium)».
[21] Non può non rinviarsi alle ricerche condotte
da Letizia Vacca, cfr., da ultimo, Ead., Garanzia e responsabilità nella vendita.
Tradizione romanistica e problemi dommatici attuali, in Ead., Garanzia e responsabilità. Concetti romani e dogmatiche attuali, Padova, 2010, 299 ss.
[22] D. 19.1.11.2 (Ulp. 32 ad ed.): Et in primis ipsam rem praestare venditorem
oportet, id est tradere <et, si mancipi est, mancipio dare>: quae res, si
quidem dominus fuit venditor, facit et emptorem dominum, si non fuit, tantum
evictionis nomine venditorem obligat, si modo pretium est numeratum aut eo
nomine satisfactum. emptor autem nummos venditoris facere cogitur. Per un
inquadramento generale del frammento si rinvia a G. Rossetti, Interdipendenza delle obbligazioni e
“risoluzione” della “emptio venditio”: alcune soluzioni casistiche della
giurisprudenza classica, in La compravendita e l’interdipendenza delle
obbligazioni, a cura di L. Garofalo,
II, Padova, 2007, 28 ss.
[23] Com’è stato, infatti, messo efficacemente in
luce da Letizia Vacca, la costruzione dell’obbligazione di praestare rem è
«avvenuta collegando in modo simmetrico la struttura del contratto ai
differenti modi di trasferimento reale delle res mancipi e nec
mancipi», cfr. L. Vacca, Annotazioni in tema di vendita e
trasferimento della proprietà, in Incontro
con Giovanni Pugliese. 18 aprile 1991, Milano, 1992, 43 ss. [ora in Appartenenza e circolazione dei beni.
Modelli classici e giustinianei, a cura di L. Vacca, Padova, 2006, 167 ss., da cui la citazione, 172]. I
giuristi romani, quindi, hanno costruito il contratto di vendita separando gli
effetti del mero consenso da quelli del trasferimento reale; hanno, però,
mantenuto il collegamento fra i due momenti, considerando in modo unitario il
negozio finalizzato sempre al trasferimento della proprietà. Con la conseguenza
evidente che «la vendita di res mancipi comporta fra cittadini romani
l’obbligazione di compiere la mancipatio … La traditio e la
mancipatio poste in essere emptionis causa sono considerate
espressione non solo di una comune volontà di trasferire e di ricevere il bene,
ma di un consenso sulla causa sinallagmatica di scambio della cosa contro il
prezzo, causa che per il suo particolare atteggiarsi non è scindibile dall’atto
reale, nel senso che gli effetti di quest’ultimo sono tipicamente dipendenti
dalla vendita», così L. Vacca, Annotazioni, cit., 173.
[24] Cfr. al riguardo, per tutti, M. Miceli, Sulla struttura formulare delle ‘actiones adiecticiae qualitatis’,
Torino, 2001, 45 ss.; G. Coppola Bisazza,
Dallo iussum domini alla
contemplatio domini. Contributo allo studio della rappresentanza, Milano,
2008, 183 ss.; M. Miceli, Studi sulla «rappresentanza» nel diritto
romano, I, Milano, 2008, 31 ss., a cui si rinvia anche per i necessari
approfondimenti bibliografici.
[25] Si tratta delle seguenti azioni: actio exercitoria, actio institoria, actio de
peculio et de in rem verso e actio
quod iussu.
[26] P.
Cerami.-A. Di Porto- A. Petrucci, Diritto
commerciale romano. Profilo storico, Torino, 2004, 40 ss.
[27] Come rilevato da A. Di Porto, Il
diritto commerciale romano. Una «zona d’ombra» nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, in Nozione formazione e interpretazione del
diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof. F.
Gallo, Napoli, 1997, 423.
[28] Come ricordato da P. Cerami, Dal
contrahere al negotiari, in Gli
effetti del contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva
storico-comparatistica. Atti del IV Congresso Internazionale ARISTEC, cit.,
180.
[29] Cfr. D. 14.3.1 (Ulp. 28 ad ed.) Aequum praetori visum est,
sicut commoda sentimus ex actu institorum, ita etiam obligari nos ex
contractibus ipsorum et conveniri. Sed non idem facit circa eum qui institorem
praeposuit, ut experiri possit: sed si quidem servum proprium institorem
habuit, potest esse securus adquisitis sibi actionibus: si autem vel alienum
servum vel etiam hominem liberum, actione deficietur: ipsum tamen institorem
vel dominum eius convenire poterit vel mandati vel negotiorum gestorum.
Marcellus autem ait debere dari actionem ei qui institorem praeposuit in eos,
qui cum eo contraxerint; D. 14.1.1 pr. (Ulp. 28 ad
ed.) Utilitatem huius edicti patere
nemo est qui ignoret. Nam cum interdum ignari, cuius sint condicionis vel
quales, cum magistris propter navigandi necessitatem contrahamus, aequum fuit
eum, qui magistrum navi imposuit, teneri, ut tenetur, qui institorem tabernae
vel negotio praeposuit, cum sit maior necessitas contrahendi cum magistro quam
institore. Quippe res patitur, ut de
condicione quis institoris dispiciat et sic contrahat: in navis magistro non
ita, nam interdum locus tempus non patitur plenius deliberandi consilium; D. 14.4.1 pr. (Ulp. 29 ad ed.) Huius quoque edicti non minima utilitas est, ut dominus, qui alioquin
in servi contractibus privilegium habet (quippe cum de peculio dumtaxat
teneatur, cuius peculii aestimatio deducto quod domino debetur fit), tamen, si
scierit servum peculiari merce negotiari, velut extraneus creditor ex hoc
edicto in tributum vocatur; D. 15.1.1.pr.-2 (Ulp. 29 ad ed.) Ordinarium praetor arbitratus est prius eos contractus exponere eorum
qui alienae potestati subiecti sunt, qui in solidum tribuunt actionem, sic
deinde ad hunc pervenire, ubi de peculio datur actio. 1. Est autem triplex hoc edictum: aut enim de
peculio aut de in rem verso aut quod iussu hinc oritur actio. 2. Verba
autem edicti talia sunt: "Quod cum eo, qui in alterius potestate esset,
negotium gestum erit". Su questi frammenti si rinvia, in particolare,
a P. Cerami, Dal contrahere al negotiari, cit., 181 ss.
[31] D. 14.3.17 pr. (Paul. 30 ad ed.) Si quis mancipiis vel
iumentis pecoribusve emendis vendendisque praepositus sit, non solum institoria
competit adversus eum qui praeposuit, sed etiam redhibitoria vel ex stipulatu
duplae simplaeve in solidum actio danda est.
[33] L.
Vacca, Ancora sull’estensione dell’ambito di applicazione dell’actio empti in
età classica, in Ead., Garanzia e responsabilità. Concetti romani e
dogmatiche attuali, cit., 97 ss.
[34] D.19.1.13 pr. (Ulp. 32 ad ed.) Iulianus libro quinto
decimo inter eum, qui sciens quid aut ignorans vendidit, differentiam facit in
condemnatione ex empto: ait enim, qui pecus morbosum aut tignum vitiosum
vendidit, si quidem ignorans fecit, id tantum ex empto actione praestaturum,
quanto minoris essem empturus, si id ita esse scissem: si vero sciens reticuit
et emptorem decepit, omnia detrimenta, quae ex ea emptione emptor traxerit,
praestaturum ei: sive igitur aedes vitio tigni corruerunt, aedium
aestimationem, sive pecora contagione morbosi pecoris perierunt, quod interfuit
idonea venisse erit praestandum.
[35] Su cui cfr. R.
Ortu, Note in tema di
organizzazione e attività dei venaliciarii, in Diritto @ Storia, II, 2003 = http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Ortu-Venaliciarii.htm .
[36] Per un approfondimento su questi profili e per
ulteriori riscontri testuali si rinvia a C.A.
Cannata, Profili
romanistici, in Gli effetti del
contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva storico-comparatistica.
Atti del IV Congresso Internazionale ARISTEC, cit., 35 ss.
[37] D. 19.1.13.30 (Ulp. 32 ad ed.): Si venditor habitationem exceperit, ut
inquilino liceat habitare, vel colono ut perfrui liceat ad certum tempus, magis
esse servius putabat ex vendito esse actionem: denique tubero ait, si iste
colonus damnum dederit, emptorem ex empto agentem cogere posse venditorem, ut
ex locato cum colono experiatur, ut quidquid fuerit consecutus, emptori reddat.
[38] D. 19.2.25.1 (Gai 10 ad ed. prov.) Qui fundum
fruendum vel habitationem alicui locavit, si aliqua ex causa fundum vel aedes
vendat, curare debet, ut apud emptorem quoque eadem pactione et colono frui et
inquilino habitare liceat: alioquin prohibitus is aget cum eo ex conducto.
Su cui cfr. A. Ambrosini, Emptio non tollit locatum, in Annali Univ. Camerino, 1926, I, 21 ss.
[40] Ciò non esclude, naturalmente, che la pretesa
del compratore nei confronti del venditore che questi agisca contro il
conduttore possa essere soddisfatta dal venditore cedendo al primo l’azione. Su
questa possibilità cfr. C.A. Cannata, Profili romanistici, cit., 44.
[41] D. 21.2.39 pr. (Iul. 57 dig.): Minor viginti quinque
annis fundum vendidit Titio, eum Titius Seio: minor se in ea venditione
circumscriptum dicit et impetrat cognitionem non tantum adversus Titium, sed
etiam adversus Seium: Seius postulabat apud praetorem utilem sibi de evictione
[stipulationem] <actionem> in Titium dari: ego dandam putabam. Respondi:
iustam rem Seius postulat: nam si ei fundus praetoria cognitione ablatus
fuerit, aequum erit per eundem praetorem et [evictionem] restitui. Si
riporta il testo nella versione emendata da Cannata, cfr. Id., Profili
romanistici, cit., 48.
[42] Su questi profili si può rinviare, senz’altro,
a V. Mannino, Introduzione alla storia del diritto privato dei Romani, II ed.,
Torino, 2011, 231 ss.; nonché per i necessari approfondimenti bibliografici a
S. Di Salvo, «Lex Laetoria». Minore età e crisi sociale tra il III e il II a.C.,
Napoli, 1979, passim.
[44] C.A.
Cannata, Profili
romanistici, cit., 49. Il contenuto di D. 21.2.39 pr. (Iul. 57 dig.) appare meglio apprezzabile
richiamando una testimonianza di Ulpiano. Cfr. D. 4.4.13.1 (Ulp. 11 ad ed.) Interdum autem restitutio et in rem datur minori, id est adversus rei
eius possessorem, licet cum eo non sit contractum. Ut puta rem a minore emisti
et alii vendidisti: potest desiderare interdum adversus possessorem restitui,
ne rem suam perdat vel re sua careat, et hoc vel cognitione praetoria vel
rescissa alienatione dato in rem iudicio. Pomponius quoque libro vicensimo octavo
scribit Labeonem existimasse, si minor viginti quinque annis fundum vendidit et
tradidit, si emptor rursus eum alienavit, si quidem emptor sequens scit rem ita
gestam, restitutionem adversus eum faciendam: si ignoravit et prior emptor
solvendo esset, non esse faciendam: sin vero non esset solvendo, aequius esse
minori succurri etiam adversus ignorantem, quamvis bona fide emptor est. Ulpiano
ricorda che la restitutio in integrum può
essere concessa al minore anche in rem,
ovvero tenendo conto esclusivamente della situazione in se stessa, pur non
essendo intercorso alcun contratto tra il minore e il possessore del bene.
Facendo un esempio analogo a quello sopra esaminato da Giuliano, Ulpiano
afferma che l’esperimento della restitutio
in integrum in favore del minore poteva comportare due esiti differenti: il
possessore poteva dare spontaneamente attuazione all’ordine del magistrato,
così come avvenuto nel caso riportato da Giuliano, oppure, in caso di mancato
adempimento spontaneo, il pretore avrebbe concesso al minore di rivendicare la
cosa, attraverso l’introduzione di apposita fictio
nella formula dell’azione petitoria. Su questi profili, anche per i necessari
richiami bibliografici, cfr. in particolare, E.
Stolfi, Studi sui "Libri ad
edictum" di Pomponio: Contesti e pensiero, II, Torino, 2001, 269 ss.
[45] L.
Vacca, Sulla responsabilità «ex empto» del venditore nel caso di
evizione secondo la giurisprudenza tardo-classica, in L. Vacca, Garanzia e responsabilità. Concetti romani e dogmatiche attuali,
cit., 44 ss.
[46] Soprattutto alla luce
delle idee di Pedio, così come approfondite da Ulpiano nel famosissimo D.
2.14.1.3 (Ulp. 4 ad ed.), su cui cfr. da ultimo L.
Garofalo, Contratto,
obbligazione e convenzione in Sesto Pedio, in Le dottrine del
contratto nella giurisprudenza romana,
a cura di A. Burdese,
Padova, 2006, 339 ss.
Circoscrivendo questo approfondimento alla sola categoria contrattuale nella
quale è inseribile l’emptio venditio, ovvero quella protetta da giudizi
di buona fede, nel caso in cui si producesse una discrasia tra quanto
originariamente previsto e quanto successivamente realizzatosi, era sempre
possibile un intervento integrativo delle parti volto a modificare l’originaria
conventio «assieme all’atto contrattuale che ne rappresentava la traduzione»,
venendosi ad incidere direttamente sul contenuto dell’obbligazione e potendosi,
in sede processuale, «dare attuazione piena all’accordo modificato, senza
problema alcuno». Nel caso, invece, fosse intervenuto direttamente il giudice,
non essendo le parti addivenute al suddetto accordo modificativo, dovendo,
comunque, «dare attuazione alla bona fides, ossia agli interessi
conformi alla correttezza commerciale», era tenuto a giungere ad una «valutazione
del dovere giuridico del convenuto equitativamente sostenibile» così V. Mannino, Considerazioni sulla “strategia rimediale”: buona fede ed exceptio doli
generalis, in Europa e dir. priv.,
9 (2006), 1296 ss. Volendo, per un momento, verificare questo orientamento alla
luce delle fonti analizzate in materia di evizione, un ottimo riscontro del
ruolo centrale svolto dalla buona fede è, senza dubbio, rinvenibile in D.
19.1.11.18 (Ulp. 32 ad ed.): emblematica in questo senso non può che
essere l’affermazione di Giuliano «neque enim bonae fidei contractus hac
patitur conventione, ut emptor rem amitteret et pretium venditor retineret», su cui cfr. in particolare L. Vacca, Buona fede e sinallagma, in Il
ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e
contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto
Burdese, a cura di L. Garofalo,
IV, Padova, 2003, 349 s., che evidenzia come nel pensiero di Giuliano
«l’operatività del sinallagma rileva nel momento dello svolgimento del
contratto … [e] impone che si mantenga l’equilibrio fra le prestazioni».