Testatina-Tradizione2013

 

 

foto diritto@storiaStefania fusco

Università di Sassari

 

Studi sull’iniuria: l’edictum de convicio

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SOMMARIO: 1. Convicium facere: la dottrina. – 2. Convicium nel linguaggio comune. – 3. Convicium nella terminologia edittale. – 4. Adversus bonos mores. – 5. Istigazione al delitto – 6. Animus iniuriandi. – Abstract.

 

 

 

1. – Convicium facere: la dottrina

 

Secondo la dottrina prevalente l’editto De convicio sarebbe stato emanato dal pretore intorno alla fine del II sec. a.C.[1]: tale data, approssimativa, viene desunta da alcuni frammenti della Rhetorica ad Herennium. Come è noto, infatti, la composizione dell’opera – o almeno del suo primo libro – risale all’88 a.C.[2] e in essa il convicium è espressamente indicato quale fattispecie di iniuria[3], accanto alle pulsationes.

La promessa edittale si ritrova in D. 47.10.15.2 (Ulp. 57 ad ed.), in cui leggiamo:

 

Ait praetor: ‘qui adversus bonos mores convicium cui fecisse cuiusve opera factum esse dicetur, quo adversus bonos mores convicium fieret in eum iudicium dabo[4].

 

Le fattispecie previste dal pretore sono due: il convicium facere e l’istigazione: inizieremo la trattazione partendo dal convicium facere, mentre ci occuperemo dell’istigazione, che si realizza con modalità diverse, in un momento successivo[5].

Dal passo si evince che non ogni forma di convicium era ritenuta illecita, ma solo quella adversus bonos mores. Il fatto delittuoso si sostanziava, quindi, in un comportamento che, comunemente accettato, diventava illecito solo nella misura in cui si poneva in contrasto con i boni mores.

Questo contrasto accomuna la fattispecie in esame ad altre forme di iniuria, anch’esse represse in sede edittale[6] e per le quali si pone il medesimo problema di ricostruire il comportamento illecito punito, individuando i casi in cui la condotta del presunto colpevole andava ad infrangersi contro i boni mores, giustificandone, in conseguenza, la punizione per mezzo dell’actio iniuriarum.

Sulla base della distinzione labeoniana tra le diverse modalità di attuazione dell’iniuria, descritte in D. 47.10.1.1 (Ulp. 57 ad ed.)[7], possiamo innanzitutto constatare che il convicium rappresentava una forma di iniuria verbis[8], ossia di un illecito posta in essere per mezzo di parole, come provano i passi di Ulpiano a commento del testo edittale, volti a chiarire il modo in cui dovevano essere proferite le parole in questione.

In D. 47.10.15.4 (Ulp. 57 ad ed.) leggiamo:

 

Convicium autem dicitur vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione vocum. Cum enim in unum complures voces conferuntur, convicium appellatur quasi convocium.

 

Nel passo sono indicati i termini concitatio e conventus come origini della parola convicium, i quali rinvierebbero, a detta di Ulpiano, alla collatio vocum, ossia al confluire di più voci in una.

Tuttavia non è ben chiaro se si dovesse necessariamente trattare di voci promananti da più persone o di più voci emesse dalla stessa persona, ed è infatti questo il punto discusso dalla dottrina.

L’opinione maggioritaria segue l’idea di Mommsen[9], secondo il quale il significato originario di convicium, e, dunque, il contenuto proprio della condotta punita dall’editto, consisteva in un’offesa fatta in un pubblico assembramento davanti alla casa di una persona, cioè un’offesa perpetrata con clamore e in gruppo. Per sostenere queste conclusioni, il Mommsen si fondava innanzitutto su D. 47.10.15.4, che riporterebbe l’etimologia della parola, e su due glosse festine[10] nelle quali è evidente la connessione di convicium con vox. L’eminente studioso ritenne che, successivamente, attraverso un indebolimento e una generalizzazione di significato, il termine convicium sia giunto ad indicare la semplice ingiuria verbale, senza più riferimento al gruppo e allo schiamazzo.

Dal punto di vista di Thiel[11], il convicium si differenzia dalla comune offesa all’onore per il modo in cui viene posto in essere: le fattispecie considerate, infatti, sono più gravi a causa dello schiamazzo, che comporta necessariamente pubblicità dell’offesa. Secondo il Thiel, quindi, si ha un’ipotesi di convicium quando si offenda qualcuno in modo pubblicamente rumoroso, mettendo in atto schiamazzi e generando scandalo. A queste condizioni la condotta illecita offendeva il buon costume, non solo l’onore di una singola persona, e per questo motivo il convicium venne tenuto distinto dalla semplice iniuria.

Anche David Daube[12] individua nel convicium la parola diffamatoria pronunciata rumorosamente (cum vociferatione) in gruppo (in coetu)[13]. Egli si rifà, in particolare, a due passi della Rhetorica ad Herennium[14] dove, per dare un esempio di iniuria, si parla di pulsatio e convicium: da questi passi l’A. ritiene possibile dedurre che il pericolo del convicium non stava tanto nella violazione dell’ordine pubblico, quanto nel pubblico disvalore attribuito alla personalità dell’uomo che veniva colpito dal comportamento illecito.

Matteo Marrone[15], seguendo Mommsen e Daube, sostiene che il convicium consisteva nella diffamazione pronunciata con clamore da un gruppo (attruppamento). Il convicium, che letteralmente vuol dire riunione di più voci, si sostanziava nello schiamazzo ingiurioso effettuato da un gruppo numeroso di persone presso l’abitazione di qualcuno, durante il quale si proclamavano ad alta voce i torti e le colpe della vittima. Questo tipo di comportamento era un uso talmente diffuso nell’antica Roma che il pretore vi rivolse la propria attenzione, comminando una pena pecuniaria privata contro gli autori di un convicium adversus bonos mores.

Sulla stessa linea originariamente tracciata da Mommsen ritroviamo ancora Paul Huvelin[16], il quale ritiene che, per configurare il convicium, fosse necessaria una pluralità di delinquenti, oppure una persona in mezzo ad altre o in aggiunta ad altre. La più antica configurazione edittale non era, secondo lo studioso, una forma di diffamazione verbale, ma una rumorosa manifestazione di ostilità o una specie di concerto scandaloso che traeva origine dal folklore popolare.

Il convicium, per Paul Huvelin, presupponeva la cooperazione, la pluralità, il fatto che necessariamente più persone fossero riunite: come si desume da D. 47.10.15.4 e D. 47.10.15.11 [17], non si applicava alla persona che da sola facesse vociferatio, nel senso di clamore. Il significato di convicium nel linguaggio comune era quello di urla, schiamazzi, grida, e l’uso si estese alla riunione davanti ad una casa per fare frastuono e offendere gli abitanti con un concerto ostile e scandaloso.

Roland Wittman[18] sostiene anch’egli la necessaria presenza di una pluralità di persone, e afferma che Ulpiano, in D. 47.10.15.4 [19], si è limitato a prospettare un quadro delle etimologie del termine convicium: la prima vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione vocum; la seconda quasi convocium. Secondo il Wittmann, Ulpiano pare optare per quest’ultima perché più aderente alla natura del convicium dei suoi tempi, cioè l’offesa verbale.

Jose Santa Cruz e Alvaro D’Ors[20] ritengono che il concorso di più persone fosse essenziale per questo tipo di delitto anche se, come emerge da D. 47.10.15.12 [21], non era necessario che la voce offensiva fosse proferita da più persone insieme, bastava che lo fosse anche da una. I due studiosi riportano la repressione del convicium come esempio di dematerializzazione dell’iniuria, che da lesione fisica era diventata offesa morale e aggravio alla persona: l’etimologia del termine, a loro avviso e sulla base di D. 47.10.15.4 [22], è data da collatio vocum.

Per Arrigo Diego Manfredini[23], il quale ha dedicato ampio spazio al convicium in un’opera sulla diffamazione verbale, in D. 47.10.15.4 [24] l’unica locuzione con cui si esprime un’interpretazione etimologica è convicium appellatur quasi convocium, mentre le altre parole, concitatio, conventus, e collatio vocum, descrivono il convicium dal punto di vista semplicemente fattuale. Il convicium adversus bonos mores è la collatio vocum che deriva da concitatio o da un conventus: è questa, probabilmente, la più antica nozione edittale di convicium, cioè il rumoroso strepito che deriva da più grida che si confondono in una, e l’ipotesi è che si trattasse di grida che si levavano dalla folla in segno di protesta contro magistrati o personaggi politici, per lo più nel corso di contiones: situazione che avrebbe determinato l’intervento del pretore[25].

Per tale ragione, i più antichi casi di convicium adversus bonos mores non avevano nulla a che vedere con la diffamazione attraverso parole offensive, essendo esclusivamente intesi come una forma di seditio.

Lo studioso ritiene che la nozione di convicium presente nella trattazione ulpianea dimostri un’interferenza tra regole e concezioni del passato e quelle in vigore al tempo di Ulpiano. Il giurista, infatti, vi arriva non attraverso una prospettiva storica consapevolmente scelta, ma indirettamente, attraverso il commento dei precedenti commentatori ad edictum. Sarebbe questa la ragione per cui nel passo in esame la locuzione convicium facere descrive forme rumorose di protesta individuale, senza la pronuncia di maledicta. Fu solo dopo l’età ciceroniana, aggiunge l’A., che si sarebbe giunti a concepire il convicium come pronuncia di maledictum gravemente offensivo della persona.

Anche l’opinione di Elemer Polay[26] confluisce nella dottrina dominante. Lo studioso afferma che Ulpiano in D. 47.10.15.4 si occupa solo dell’etimologia della parola convicium, termine che indicherebbe la denigrazione realizzata o attraverso la concitazione (concitatio) o il raggruppamento (conventus), che è come dire la denigrazione commessa da più grida unite insieme (conferre).

Secondo George Lincoln Hendrickson[27], invece, per la realizzazione della condotta repressa dall’editto non era necessaria la partecipazione di più persone. Egli si oppone all’opinione maggioritaria secondo cui dal frammento di Ulpiano più volte citato si ricava che solo un gruppo può mettere in atto il convicium, evidenziando la differenza che esiste tra vel a concitatione vel a conventu, e hoc est a collatione vocum. La concitatio individuerebbe il caso del singolo che, sobillatore e istigatore di una folla, può essere colpevole di convicium indipendentemente dalla partecipazione del gruppo.

Infine, Fritz Raber[28], vicino in parte a George Lincoln Hendrickson e in parte a Theodor Mommsen, sostiene che l’azione configurante convicium facere poteva essere posta in essere sia da una sola persona, sia da più persone: secondo lo studioso non si può dire se una semplice offesa in pubblico senza vociferatio si potesse qualificare come convicium, ma di regola dovremmo ritenere che si aveva convicium quando l’oltraggio fosse avvenuto con voce veemente. Per lo studioso non si richiedeva necessariamente che fosse commesso da più persone, ma ne bastava una, tanto che da D.47.10.15.4 egli deduce che il requisito coincidente con l’offendere ad alta voce (vociferatio), era alternativo a quello che fosse compiuto innanzi a più persone (in coetu). La possibilità che anche una sola persona potesse fare convicium è confermata da D. 47.10.15.12 [29], in cui i requisiti di cum vociferatione e in coetu si possono intendere come riferiti non necessariamente a una pluralità di soggetti, essendovi sive unus all’inizio del testo. In conclusione l’A. ritiene che il colpevole del convicium contro i buoni costumi potesse offendere sia insieme ad altre persone, sia individualmente.

Per quanto riguarda, invece, il diritto classico, Fritz Raber afferma che dapprima il convicium venne a significare offesa verbale di fronte a più persone pronunciata da un singolo, fino a corrispondere, aderendo all’idea di Theodor Mommsen, alla semplice iniuria verbis (che prescindeva dalla presenza del gruppo), a causa di una generalizzazione della fattispecie.

Nel passo analizzato dai diversi Autori, D. 47.10.15.4 [30], come si è visto, l’intento di una ricostruzione etimologica di convicium da parte di Ulpiano è evidente, e tuttavia tale considerazione non può portare ad escluderne una qualche rilevanza dal punto di vista del suo significato più tecnico.

Il giurista afferma, nella prima parte del testo, che il convicium, identificabile con una collatio vocum, è così definito sia dalla concitatio, sia dal conventus: convicium autem dicitur vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione vocum.

Il termine concitatio[31] significa concitazione, intensa come agitazione interiore. Esso rappresenta, quindi, un moto individuale dell’animo[32]. Tuttavia in senso traslato e in relazione al verbo concito[33], da cui deriva, viene ad assumere il significato di stimolo da cui proviene l’agitazione. Per tale ragione è molto spesso usato per indicare l’incitamento di una moltitudine[34], e, come si avrà conferma trattando dell’istigazione al convicium facere, rappresenta il mezzo con cui si incita un gruppo, rinviando quindi, necessariamente, alla presenza di una pluralità di persone.

Il termine conventus[35], che indica generalmente una adunanza di persone, è spesso utilizzato per indicare una folla radunata per uno scopo preciso[36], in linea con il significato del verbo convenio[37], da cui deriva.

Il significato dei due termini, concitatio e conventus, anche ammettendo che Ulpiano, come afferma Manfredini[38], li usi per descrivere il convicium dal punto di vista fattuale e fenomenico, rivela una base comune rappresentata dalla pluralità di persone, elemento che fa da sfondo al termine convicium inteso come collatio vocum. Questo in linea con il prosieguo del passo in cui il giurista aggiunge che quando complures voces in unum conferuntur, è come se dicessimo convocium: sarebbe difficile pensare che le complures voces che confluiscono in una si riferiscano alle voci promananti da una sola persona: infatti il verbo confero[39], che significa riunire, e collatio[40] che dal primo deriva, indicando l’atto del raccogliere, implica il mettere insieme una pluralità di cose.

Quello che pare emergere, quindi, da D. 47.10.15.4, è che per il convicium facere fosse necessaria la presenza di un gruppo di persone, le cui voci si fondessero in una, producendo, in tal modo, quello schiamazzo e quelle grida che la condotta punita dall’editto aveva in comune, come si vedrà, con il primo significato del termine convicium nel linguaggio comune.

 

 

2. – Convicium nel linguaggio comune

 

Il termine convicium nel linguaggio comune[41] significa insieme di grida[42], e generalmente è usato per indicare lo schiamazzo e il clamore prodotto da persone[43] o da animali[44]. E’, inoltre, molto ricorrente un significato più particolare, il convicium come rimprovero oppure motteggio, entrambi a voce alta[45]. Infine, è possibile notare come, dal significato di rimprovero ad alta voce, il termine convicium finisca per indicare il rimprovero aspro e la critica in sé considerati[46], non solo senza che vi sia alcun riferimento all’alto tono della voce, ma, addirittura, quando si parla di tacitum convicium, indicando un atteggiamento di biasimo verso qualcuno, attuato senza l’uso della voce, ma attraverso l’espressione del volto o col pensiero[47].

Pare evidente che la caratteristica originaria del convicium fosse data essenzialmente dalla modalità con cui le voci e i versi erano prodotti, cioè con un tono alto, e di conseguenza dal baccano da questi provocato, in evidente correlazione con l’elemento vox che compare nel termine composto convicium. Solo successivamente con esso si andò ad indicare il rimprovero, la critica, l’offesa o lo scherno, come se l’attenzione si fosse, ad un certo punto, spostata dal fastidio connesso con la modalità di attuazione del convicium, il frastuono prodotto dalle grida o dallo strepitio, al fastidio e all’asprezza prodotti dal contenuto delle parole pronunciate.

 

 

3. – Convicium nella terminologia edittale

 

Tornando al nostro editto, si rafforza, a questo punto, l’idea che il comportamento in esso contemplato rappresenti qualcosa di ben più articolato della semplice ingiuria verbale[48]. Dai passi successivi a quello analizzato in precedenza, D. 47.10.15.4, emergono con chiarezza le sue connessioni sia col significato originario di schiamazzo, sia con l’accezione di convicium quale parola dal contenuto aspro, e quindi offensivo.

In D. 47.10.15.5, Ulpiano afferma:

 

Sed quod adicitur a praetore: “adversus bonos mores”, ostendit, non omnem in unum collatam vociferationem praetorem notare, sed eam, quae bonis moribus improbatur, quaeque ad infamiam vel iniuram alicuius spectaret.

 

Si introduce in questo passo un altro fondamentale elemento della condotta punibile, la contrarietà ai boni mores, di cui si parlerà in seguito. Per il momento risulta rilevante il fatto che Ulpiano affermi, nella sostanza, che il convicium facere è una vociferatio in unam collatam: il termine vociferatio indica il gridare ad alta voce[49] e, ancora una volta, la collatio in unam vale a sottolineare il confluire in un unico vociare di una pluralità di grida che promanano da più persone.

L’identità tra convicium e vociferatio è ribadita da Ulpiano in modo esplicito in D. 47.10.15.8:

 

Fecisse convicium non tantum is videtur, qui vociferatus est, verum is quoque, qui concitavit ad vociferationem alios vel qui summisit ut vociferentur.

 

In questo passo si stabilisce un dato importante, in quanto viene ammessa la punibilità non solo dell’autore del convicium, ma anche dell’istigatore, di cui si tratterà successivamente. E però è un altro il punto importante: difatti, in questo contesto, si stabilisce con certezza che il convicium si concretizza nella pronunzia di parole ad alta voce. Il giurista non si limita a fare dei riferimenti allo schiamazzo, ma utilizza direttamente il sostantivo vociferatio e il verbo corrispondente (vociferor) come sinonimi, rispettivamente, di convicium e della forma verbale convicior.

Quanto sin qui affermato è ulteriormente ribadito dal nostro giurista in D. 47.10.15.11:

 

Ex his apparet non omne maledictum convicium esse: sed id solum, quod cum vociferatione dictum est.

 

In questo passo si prospetta, dunque, la natura delle parole con cui si inveisce a gran voce contro qualcuno: perché si abbia convicium si deve avere un maledictum, cioè un insulto. Il termine indica generalmente lo sparlare, il dir male[50], ma quando è indirizzato in modo diretto ad una persona, assume il significato di oltraggio[51] e lo ritroviamo insieme a convicium anche in alcune fonti letterarie[52].

Si arriva, infine, al passo contenuto in D. 47.10.15.12, che, nella discussione dottrinale, ha avuto grande importanza ai fini di una più corretta interpretazione del primo passo indagato, il D. 47.10.15.4. In D. 47.10.15.12 Ulpiano afferma:

 

Sive unus, sive plures dixerint, quod in coetu dictum est, convicium est, quod autem non in coetum, nec vociferatione dicitur, convicium non proprie dicitur, sed infamandi causa dictum.

 

Il testo senza dubbio ammette la possibilità che anche il singolo possa fare convicium, cosa già anticipata, tra l’altro, in D. 47.10.15.8 relativo all’estensione della responsabilità all’istigatore e al sobillatore del convicium, tuttavia la presenza del gruppo, (in coetu)[53], è determinante perché si abbia proprio il convicium e non un’altra forma di iniuria verbis, insieme, e non alternativamente, alla vociferazione.

Quanto espresso in questo passo consente di considerare, così come affermato dall’opinione maggioritaria, che nella realizzazione di un convicium, è necessaria la presenza del gruppo; tuttavia non se ne possono accettare le estreme conseguenze, per cui solo il gruppo può esserne l’autore[54]. D’altra parte, questa riflessione ci accosta ad Hendrikson[55], ma solo nella misura in cui si ammette che il singolo individuo possa facere convicium, senza che, però, si debba accettare l’ipotesi della totale assenza del gruppo.

Alla luce delle riflessioni sin qui svolte è possibile, dunque, ricostruire il comportamento punito dall’editto: il convicium facere consisteva nel proferimento di insulti, contro una persona, ad alta voce o da parte di un gruppo, per mezzo di più voci unite in una unica, o da parte di un singolo membro del gruppo.

 

 

4. – Adversus bonos mores

 

Il testo dell’editto, riprodotto, come abbiamo visto, in D. 47.10.15.2 (Ulp. 57, ad ed.)[56], dispone che il convicium facere, così come ricostruito nel precedente paragrafo, debba essere realizzato adversus bonos mores.

Si pone, dunque, il concreto problema di dare una sostanza ai boni mores ai quali fa riferimento l’editto, in modo che sia possibile verificare quando, contravvenendo ad essi, si realizza la condotta repressa dal pretore.

Questo è quanto specificato da Ulpiano in D. 47.10.15.5 (Ulp. 57 ad ed.), in cui si legge:

 

Sed quod adicitur a praetore: “adversus bonos mores”, ostendit, non omnem in unum collatam vociferationem praetorem notare, sed eam, quae bonis moribus improbatur, quaeque ad infamiam vel invidiam alicuius spectaret.

 

La parte che va da quaeque ad infamiam sino alla fine del passo è da Elmer Polay[57] ritenuta interpolata: tale inserzione, ad avviso dello studioso, altererebbe il senso originario della clausola edittale e la sua eliminazione sarebbe necessaria per evitare una confusione tra la l’editto de convicio e l’editto ne quid infamandi causa fiat.

Il sospetto del Polay non ha ragion d’essere poiché, nella parte in questione Ulpiano intende semplicemente precisare il contenuto della condotta punibile attraverso l’editto speciale: non una qualsiasi manifestazione rumorosa di voci era suscettibile di essere perseguita, ma solo quella che era contra bonos mores ed era diretta a recare offesa ad una persona determinata.

In particolare, sebbene si tratti di un concetto ampio, Ulpiano, trattando di questo editto, si riferisce ai boni mores in un significato ben definito. Infatti in D. 47.10.15.6, Ulp. 57 ad ed., si legge:

 

Idem ait: “adversus bonos mores” sic accipiendum, non eius, qui fecit, sed generaliter accipiendum adversus bonos mores huius civitatis.

 

Ulpiano precisa che non si tratta di una concezione di ʺbuoni costumiʺ di tipo soggettivo, dipendente dal punto di vista dellautore del delitto, bensì di un principio oggettivo che si riferisce alla civitas e si traduce nell’insieme delle norme sociali generalmente rispettate.

Non si spiega, a questo punto, la necessità di ricorrere ad un’ipotesi di interpolazione come fa Hernst Rudolf Mezger[58], secondo il quale la parte da non eius a generaliter accipiendum sarebbe da espungere dal testo, poiché, rappresentando una ripetizione, la sua eliminazione renderebbe il testo maggiormente comprensibile.

In realtà il testo risulta, come la maggior parte degli studiosi sostiene al riguardo[59], perfettamente comprensibile senza ricorrere ad alcuna ipotesi di interpolazione. Il punto cruciale, invece, consiste nella necessità di ricercare, nella realtà concreta della civitas, dati che potrebbero consentirci di distinguere tra manifestazioni di convicium facere lecite e non lecite.

In linea generale possiamo dire che il termine mos ricorre nelle fonti giuridiche romane in due sensi: quello di consuetudine o diritto consuetudinario, e quello di costume sociale e morale[60].

Il valore di mos come costume è certamente il più antico, ma è anche di minore rilievo giuridico. Quella del costume non è propriamente la sfera del diritto, e solo in taluni casi l’ordinamento giuridico ne avverte il riflesso o vi fa esplicito riferimento.

Tuttavia assume una sua specifica rilevanza, che in qualche modo ha degli effetti anche nel diritto, nell’istituto del regime morum di competenza dei censori: questi magistrati, a seguito del cosiddetto iudicium de moribus, che essi conducevano sull’esempio di un procedimento giudiziario, colpivano con la loro nota chi avesse tenuto una condotta riprovevole nella vita pubblica, familiare o privata: così ogni mancanza nell’amministrare la cosa pubblica, l’inadempimento dei doveri religiosi, l’abuso nell’esercizio della patria potestas o del potere maritale, e ogni atto immorale.

La nota censoria comportava la ignominia e aveva conseguenze giuridiche, se non nella sfera privatistica, in quella del diritto pubblico: l’espulsione dal senato o dalla classe dei cavalieri, il trasferimento a una classe inferiore, l’imposizione di una multa[61].

Tuttavia, cercare di fissare il concetto di contrarietà ai boni mores nell’esame dei comportamenti puniti dal nostro editto è difficile poiché, come afferma Matteo Marrone[62], in ogni valutazione si dovrà tener conto di modi di pensare mutevoli nel tempo, propri di un determinato periodo e non di un altro.

L’uso dei versi fescennini e dei carmina triumphalia, di versi, cioè, caratterizzati da spregiudicatezza e licenziosità del linguaggio, che comunque ledevano la reputazione e l’onore della persona cui erano rivolti, era probabilmente ammesso perché l’obiettivo di fondo non era l’intento di danneggiare o amareggiare qualcuno, ma l’esigenza di ristabilire l’equilibrio turbato[63]. Per questo la tradizione, la consuetudine, la religione giustificavano la licentia fescennina e quella militare. Ma il fenomeno di abbandonarsi facilmente ai frizzi, alla satira, alle offese lesive della personalità morale della vittima, non si manifestava solamente nelle feste campestri, nelle nozze o nei trionfi militari, ma anche durante banchetti, nei bagni pubblici, nel foro, in aule di tribunali nel corso di processi privati e pubblici, durante dibattiti politici in senato, dinanzi ad assemblee non qualificate. E non solo si parlava in prosa e in versi, ma si scriveva sui muri, si compilavano libelli diffamatori, si componevano satire, epigrammi e commedie.

Secondo l’A. l’ordinamento romano, sin dalla fine del II sec. a.C., cominciò gradualmente, in virtù dell’intervento pretorio, a reprimere le offese alla reputazione e all’onore, ma richiese sempre la presenza, nella fattispecie offensiva, di determinati elementi.

L’A. individua un primo requisito di carattere negativo: la non conformità al vero dell’affermazione o dell’insinuazione a carico della persona offesa. Sulla base di ciò egli reputa che non si reprimessero le affermazioni ingiuriose se non quando erano false e che la diffamazione fosse punita solo se quanto si lasciava credere e le voci che si spargevano non fossero vere.

Lo studioso ritiene che alla radice di ciò stia un motivo che va ricercato fuori dai testi giuridici: gli antichi scrittori mostrano di considerare la cattiva fama di un cittadino come una sorta di condanna popolare. Il popolo, sia pure in maniera non formale, giudica i propri membri, e se ritiene qualcuno indegno, lo condanna alla cattiva reputazione, nei casi più gravi lo mette al bando della società. Il convicium, in particolare, può addirittura essere considerato alla stregua di vera e propria esecuzione della condanna sostanzialmente e contestualmente pronunciata dal popolo. Secondo Matteo Marrone il convicium continuò ad essere lecito purché giustificato, ovvero purché compiuto nei confronti di una persona indegna, di un individuo che avesse in sostanza meritato quella condanna popolare, di cui il convicium era al contempo la pronunzia e l’esecuzione: il magistrato sarebbe intervenuto per correggere ingiuste condanne pronunciate, sostanzialmente se non formalmente, da “organi non statali”, una sorta di appello ad un organo ufficiale avverso una sentenza popolare.

Perché si avesse offesa morale giuridicamente illecita, e pertanto punita, occorreva che l’offesa stessa, diretta o indiretta, consistesse nell’attribuzione di un atto o di una condizione tale da far temere alla vittima la diminuzione o l’annullamento della sua buona fama. Non era necessario che l’offeso effettivamente patisse il danno cui l’offensore lo aveva esposto, bastava che l’azione dell’offensore fosse a ciò idonea, il che avveniva quando l’offesa aveva luogo pubblicamente (via pubblica, foro, in giudizio) in modo che altri sentissero e vedessero.

Anche Fritz Raber[64] concorda nel ritenere che i boni mores a cui si riferisce Ulpiano fossero quelli sentiti come tali dalla società romana, richiamando il giurista un ordinamento che sta dietro o sopra al diritto, per concretizzare un concetto elastico.

Nel contesto del nostro delitto i boni mores rappresenterebbero un criterio oggettivo: sono buoni i costumi ritenuti tali dalla comunità, riscontrabili attraverso l’esperienza. Pertanto il convicium adversus bonos mores viene punito perché l’agente si è comportato contro ciò che nella civitas romana viene concepito come buono: si tratta di un sistema di valori che sta al di fuori del diritto e che assume rilevanza giuridica in quanto si riflette nell’opinione comune.

Tuttavia, come spiegato da Ulpiano in D. 47.10.15.5, solo gli schiamazzi diretti ad offendere qualcuno configuravano un convicium adversus bonos mores, anche se quanto detto non significa che il convicium non posto in essere contro i boni mores rimanesse impunito.

Secondo l’opinione di Arrigo Diego Manfredini[65], il fatto che, all’epoca cui si riferisce l’editto sul convicium, i boni mores erano apprezzati non alla luce di criteri speculativi, ma di ciò che praticamente era riconosciuto corrispondente al bene comune, ci induce a ritenere che solo in età classica siano prevalsi nella valutazione dei boni mores elementi subiettivi.

Il pretore offriva tutela solo contro alcuni tipi di convicium, in particolare, alle forme di convicium contrarie ai boni mores della civitas, come si evince da D. 47.10.15.6, e l’A. analizza, nel quadro delle fonti letterarie, fatti e accadimenti tipici, insistentemente descritti con il termine convicium, al fine di poterli, in qualche modo, prospettare come possibili casi di convicium adversus bonos mores. In questo quadro risalterebbe di notevole interesse l’uso ciceroniano, soprattutto, di convicium indicante i casi di contestazione di personaggi politici da parte di una folla[66].

Secondo l’A. questo gruppo di testimonianze ci da l’esempio dei fatti a cui, probabilmente, si riferiva il pretore nell’emanare l’editto De convicio adversus bonos mores: forme di contestazione di gruppo, di protesta ostile manifestata con grida, schiamazzi, erano senza dubbio adversus bonos mores se dirette a magistrati o personaggi politici illustri nel corso di contiones. Anche se dal punto di vista della vittima si trattava di un fatto diffamatorio, venivano in luce la violazione dell’ordine pubblico e il carattere sedizioso, e tali manifestazioni di ostilità contro i principes civitatis erano considerate obiettivamente contrarie ai boni mores.

In accordo con quanto detto da Matteo Marrone, sul fatto che i Romani si abbandonavano con facilità a scherzi e insulti, lesivi del decoro e della reputazione, ed esponevano i propri concittadini al ridicolo e allo scherno in circostanze particolari che ne ammettevano la legittimità, l’A. riporta numerose fonti che attestano la presenza di fenomeni che, assimilabili al convicium, erano accettati.

Si trattava, in primo luogo, dei più antichi fenomeni dell’obvagulatio e del pipulus, attestati nelle commedie di Plauto[67], ma anche di quello della commisatio, la serenata notturna di amanti ubriachi davanti alla porta dell’amata[68].

In fonti classiche troviamo indicate col termine convicium le forme di canti estemporanei a contenuto osceno e satirico che rappresentano sopravvivenze degli antichi fescennini: gli obscenis convicia rustica dictis che avevano luogo nelle feste campestri[69], i festa convicia dei matrimoni[70] e del trionfo del comandante[71], i canentium nocturna convicia che rimandano alla commisatio, essendo appunto serenate notturne di brigate di amanti[72].

In generale si parla di convicia in cui l’asperitas verborum cessit[73]: cioè convicia di tipo faceto che urbanitas nominatur, come dice Cicerone[74]:

 

maledictio autem nihil habet propositi praeter contumeliam, quae si petulantius iactatur, convicium, si facetius urbanitas nominatur.

 

A questo punto diventa centrale nella nostra riflessione una fonte che parla espressamente di convicium facere contra bonos mores. Si tratta di una passo di una Controversia di Seneca il Retore, in cui, alla stregua della Rhetorica ad Herennium, il convicium è affiancato alla pulsatio come forme di iniuria, ma con l’inciso relativo ai boni mores:

 

Sen. Reth., Contr. 10.1: INIVRIARVM SIT ACTIO. Quidam, cum haberet filium et divitem inimicum, occisus (in)spoliatus inventus est. Adulescens sordidatus divitem sequebatur. Dives eduxit in ius eum et postulavit, ut, si quid suspicaretur, accusaret se. Pauper ait: 'accusabo, cum potero' et nihilominus sordidatus divitem sequebatur. Cum peteret honores dives, repulsus accusat iniuriarum pauperem; 10.9: LATRO sic divisit: an in re iniuria sit. nulla, inquit, iniuria est. sordidatus sum; (nonne omnes lugentes? te secutus sum;) quam multi faciunt! Omnia iniuriae genera comprehensa sic: pulsare non licet, convicium facere contra bonos mores non licet. (Hoc loco SCAVRVS dixit: nova formula iniuriarum componitur: 'quod ille contra bonos mores (tac)uit'.) Etiamsi in re iniuria est, an, si non malo animo facit, tutus sit; an malo animo faciat. Hoc Latro in duas quaestiones divisit: an, si credidit ab hoc patrem suum occisum et propter hoc secutus est, ignoscendum illi sit. Deinde, an crediderit. GALLIO illam fecit primam quaestionem, an, quod licet cuique facere si facit, iniuria(ru)m non teneatur. Licet, inquit, flere, licet ambulare qua velis, licet vestem quam velis sumere. Nihil, inquit, licet in alienam invidiam facere. Sordidatus es: non queror, sed si sordes tuae invidiam mihi concitant, queror[75].

 

Il caso in questione concerne la concessione dell’actio iniuriarum: un tale, che aveva un nemico ricco, fu ucciso, ma non derubato. Dopo l’omicidio, il giovane figlio della persona assassinata iniziò a seguire dappertutto, vestendosi a lutto, il ricco. Questi, sconfitto alle elezioni a causa di tale implicita accusa, lo citò in giudizio, accusandolo d’ingiurie.

L’atto di seguire silenziosamente ed insistentemente una persona, avendo indosso abiti laceri, con capelli lunghi, barba incolta, rappresentava un’ipotesi ricadente sotto l’editto Ne quid infamandi causa fiat[76], ed era tale da importare per chi lo subisse un pregiudizio. Essendo questo non un atto burlesco, ma una indiretta e maliziosa accusa di omicidio, la vittima era esposta al rischio, se avesse presentato una candidatura per una carica pubblica, che il magistrato competente la respingesse, oltre al rischio di essere accusata e condannata per omicidio in un giudizio pubblico.

Per quanto ci riguarda, il riferimento al convicium è utilizzato per affermare che solo le ingiurie previste dalla legge sono punite, trattandosi di iniuria in re, cioè di ingiuria oggettiva: questo confermerebbe che l’elemento dei boni mores è da considerarsi come un elemento oggettivo rilevabile in base alle circostanze di fatto, sganciato da qualsiasi valutazione di tipo soggettivo. Alla luce di questo, il riferimento all’infamia o all’invidia contenuto in D. 47.10.15.5 (Ulp. 57 ad ed.)[77] starebbe ad indicare che la contrarietà ai boni mores è insita in quei comportamenti o circostanze di fatto determinanti non la mera offesa verbale, ma l’offesa attributiva di un fatto o una situazione giuridica rilevanti in senso negativo per la reputazione dell’offeso.

In questo senso infatti, nel passo di Seneca, nella parte in cui si discute sulla possibilità di accusare per ingiurie chi fa una cosa che a tutti è lecita fare, si ammette la possibilità di esperire l’actio iniurarum ogni qual volta un comportamento lecito suscita, nei confronti della persona verso cui è tenuto, l’invidia della gente, produce, cioè, un effetto negativo sul suo buon nome, e in un certo senso, su tutto ciò che è ad esso connesso.

Raccogliendo quanto sino ad ora è emerso dalle fonti e dall’interpretazione che di esse hanno dato i diversi Autori che si sono occupati del tema, possiamo dire che per boni mores nel contesto della repressione del convicium dobbiamo intendere non un sistema speculativo e astratto, ma l’insieme di quei valori, derivanti dall’esperienza e dalla tradizione etico-sociale della civitas, il cui rispetto garantiva la dignità, la buona reputazione e il decoro dei singoli cittadini.

 

 

5. – Istigazione al delitto

 

Dalla clausola edittale sin qui analizzata emerge un dato estremamente importante: in D. 47.10.15.2 (Ulp. 57 ad ed.), il frammento che propone il testo dell’editto, leggiamo che è punito non solo l’autore dell’atto illecito, ma anche colui il quale ne fosse l’istigatore:

 

Ait praetor: ‘qui adversus bonos mores convicium cui fecisse cuiusve opera factum esse dicetur, quo adversus bonos mores convicium fieret in eum iudicium dabo.

 

Nel passo si dice che l’azione è concessa anche contro colui ad opera del quale sia stato fatto convicium adversus bonos mores contro qualcuno: l’enunciato è abbastanza generico perché il termine opera[78] ha vari significati, e ipoteticamente andrebbe a coprire tutta una serie di attività che avrebbero come obiettivo quello di fare in modo che qualcuno venisse offeso nel modo specificato dall’editto.

Il passo di commento di Ulpiano risulta, per tale ragione, di grande aiuto, poiché il nostro giurista in D. 47.10.15.8 (57 ad ed.) precisa che:

 

Fecisse convicium non tantum is videtur, qui vociferatus est, verum is quoque, qui concitavit ad vociferationem alios vel qui summisit ut vociferentur.

 

In primo luogo si parla di qui concitavit alios ad vociferationem: si è già avuto modo di analizzare il sostantivo concitatio[79], ma occorre qui riflettere meglio sul verbo concitare: esso significa spingere qualcuno a fare qualcosa, e nel caso in esame alla vociferatio. Ma non si tratta di una semplice istigazione, dato che il verbo ha come primo significato quello di agitare, eccitare e infiammare[80]. Per tale ragione, se dobbiamo pensare ad una attività atta ad infiammare gli animi, dobbiamo pensare ad un’opera estremamente provocatoria, ad una modalità di incitamento che comporti nel concitatore stesso una intensa agitazione.

Si parla, subito dopo, di qui summisit ut vociferentur: la questione si fa qui completamente diversa, poiché il verbo submitto significa letteralmente cedere, abbassarsi, in generale mandare di nascosto, sottomettere qualcuno, ed, infine, parlare a bassa voce[81]. L’attività dell’istigatore diventa, in tal caso, l’opposto di quella caratterizzante il concitatore, non è manifesta ed accorata, ma si concretizza nel sobillare alla vociferatio in modo subdolo, con un tono della voce basso, quasi segretamente.

Tuttavia, se da un lato è punito in una condizione di correità accanto all’autore del convicium facere, anche il mandante, sia che si abbandoni a gesti di incitamento plateali, sia che ricorra a metodi più subdoli, non basta di per sé l’attività di incitare al convicium per incorrere nelle previsione edittale. In più vi è la necessità che l’istigazione vada a buon fine, come apprendiamo da D. 47.10.15.10 (Ulp. 57 ad ed.), in cui si legge:

 

Si curaverit quis convicium alicui fieri, non tamen factum sit, non tenebitur.

 

Secondo Fritz Raber[82], la formulazione generica della punibilità dell’istigazione, in base alla quale è punito colui la cui opera porta al convicium, consente di punire non solo chi avesse incitato altri al convicium facere, ma anche chi avesse offerto il suo aiuto. L’A. basa la sua convinzione su di un passo delle Pauli Sententiae, in cui si parla di istigazione ope consiliove[83], evidentemente interpretando opera come aiuto, e consilium come semplice istigazione.

Secondo il parere di Arrigo Diego Manfredini[84], la possibilità che fosse punito l’istigatore confermerebbe la sua ipotesi che la prima nozione edittale di convicium adversus bonos mores fosse relativa a chi facesse la sua parte in manifestazioni collettive di protesta pubblica, cioè a chi partecipasse alla vociferatio in unum collatam. Infatti, dato che simili fatti implicavano ordinariamente una pluralità di persone e dovevano per lo più essere provocati da un sobillatore, risulta spiegata la formulazione della clausola edittale ove, accanto al singolo partecipante del convicium, espressamente si menziona il sobillatore, o l’occulto mandante.

In realtà quello che possiamo affermare con certezza è che, nel caso del convicium, viene affermata in modo esplicito una regola che vale per l’iniuria in generale, in qualsiasi modo essa venga posta in essere. In D. 47.10.11.3 (Ulp. 57 ad ed.) leggiamo infatti:

 

Si mandatu meo facta sit alicui iniuria, plerique aiunt, tam me, qui mandavi, quam eum, qui suscepit, iniuriarum teneri.

 

Alla luce di questo, e rapportando la punibilità dell’istigazione al convicium con quella dell’iniuria in generale, è difficile concordare con Fritz Raber[85] circa la punibilità anche del semplice suggerimento (consilium) nella commissione del delitto[86], di cui in realtà si avrebbe notizia solo nelle Pauli Sententiae, che, come è noto, riportano la configurazione dell’iniuria repressa extra ordinem e non edittale[87].

 

 

6. – Animus iniuriandi

 

Per quanto riguarda l’animus iniuriandi, cioè l’elemento soggettivo che necessariamente deve essere presente in ogni forma di iniuria[88], ricordiamo la precisazione di Ulpiano (57 ad ed.):

 

D. 47.10.15.9 “Cui” non sine causa adiectum est: nam si incertae personae convicium fiat, nulla executio est.

 

La necessità di precisare che la persona offesa dovesse essere determinata discende, ovviamente, dal fatto che, per le modalità stesse in cui si poneva in essere il convicium, era anche possibile effettuare uno schiamazzo dai contenuti offensivi in modo generico, senza che, quindi, fosse identificabile un destinatario vero e proprio. Chiaramente in questo caso, non essendo leso l’interesse di un soggetto determinato, domandare la tutela promessa da questo editto non sarebbe stato possibile.

Come sostiene Fritz Raber[89], infatti, il convicium contro una persona incerta non sarebbe stato punibile perché sarebbe mancato il legittimato ad agire.

Secondo Elmer Polay[90] il contenuto di questo passo altro non è che la conferma di quanto già affermato in D. 47.10.15.5 (Ulp. 57 ad ed.) in cui, come abbiamo visto, si afferma che non omne in unum collatam vociferationem praetorem notare, sed eam, (...) quaeque ad infamiam vel iniuriam alicuis spectaret; per tale ragione in D. 47.10.15.9 (Ulp. 57 ad ed.) si riconfermerebbe la necessità di un soggetto passivo ben determinato, il cui buon nome venisse leso dal delitto[91].

Secondo il parere di Arrigo Diego Manfredini[92], in D. 47.10.15.9 (Ulp. 57 ad ed.) vi sono tracce di un criterio che circoscriveva l’illiceità all’insulto nominativo: secondo lo studioso dal passo si ricava un vago indizio di tale criterio, che si rafforza, tuttavia, alla luce del confronto con due passi della Rhetorica ad Herennium[93], i quali sembrano attestare due casi di esercizio di actio iniuriarum ex convicio[94].

Nei passi in questione si parla della diffamazione verbale perpetrata sulla scena ai danni dei poeti Accio e Lucilio: il caso è sostanzialmente identico, ognuno dei due poeti è stato offeso nominativamente durante uno spettacolo da un mimo, con conseguente esercizio da parte di entrambi dell’actio iniuriarum, ma in un caso il giudice condannò il mimo, nell’altro no.

L’A. ritiene che la diversa pronunzia del giudice per un medesimo fatto sia imputabile all’incertezza della prassi determinata in quel momento dal mutamento della originaria nozione edittale di convicium, che da grida di protesta collettiva si trasforma in un insulto orale. Lo studioso riflettendo sulla natura dell’actio iniuriarum, quale actio in bonum et aequum concepta, ritiene assai probabile che, pur essendovi i requisiti del convicium in entrambi i casi, vi fossero circostanze tali da far sì che nel caso di Lucilio non si pronunciasse alcuna condanna. Tuttavia è bene precisare che il criterio del bonum et aequum rappresentava un elemento al quale il giudice doveva fare riferimento prioritariamente in caso di condemnatio, per quantificare la pena pecuniaria: vi dovettero essere, quindi, altri motivi per cui nel caso di Lucilio non si arrivò ad una condanna.

Sulla base di quanto abbiamo sin qui osservato, i casi riportati nella Rhetorica ad Herennium rientrerebbero nel convicium adversus bonos mores: sarebbero soddisfatti, infatti, sia il requisito della vociferatio, poiché si presume che le parole dette sulla scena siano proferite con un tono della voce decisamente elevato, sia il requisito della pluralità di persone, in coetu, con cui si concretizza la pubblicità dell’offesa. Tuttavia non si può restringere l’applicazione dell’editto ai soli casi in cui l’offesa è nominativa, cioè ai casi in cui è indicato espressamente il nome della persona a cui ci si riferisce: il passo si limita a dire che la persona deve essere certa, nel senso di determinata, e questo poteva essere chiaro anche senza necessariamente dover pronunciare il nome del soggetto preso di mira.

Ciò è confermato da D. 47.10.18.3 (Paul. 55 ad ed.), che si riferisce all’iniuria in generale, in cui leggiamo:

 

Si iniuria mihi fiat ab eo, cui sim ignotus, aut si qui putet, me Lucium Titium esse, cum sim Caius Seius, praevalet quod principale est, iniuriam eum mihi facere velle, nam certus ego sum, licet ille putat me alium esse quam sum, ed ideo iniuriarum habeo.

 

Dal passo emerge che l’animus iniuriandi coincide con la volontà di offendere una persona determinata, a prescindere dal fatto che sia nota all’offensore la sua vera identità, e per tale ragione è legittimo supporre che anche nel convicium il dolo soggettivo operasse in questo modo e che il requisito della determinatezza della persona offesa fosse indipendente dalla conoscenza dell’identità dell’offeso, cosa che, invece, l’insulto nominativo avrebbe necessariamente presupposto.

D’altra parte, però, dobbiamo ritenere che fosse necessario un richiamo nominativo o altri elementi specifici da cui dedurre chi fosse la persona offesa, nel caso di convicium fatto nei confronti di una persona assente, possibilità ammessa in D. 47.10.15.7 (Ulp. 57 ad ed.), in cui Ulpiano riporta il pensiero di Labeone, e nel quale si legge:

 

Convicium non tantum praesenti, verum absenti quoque fieri posse Labeo scribit. Proinde si quis ad domum tuam venerit te absente, convicium factum esse dicitur. Idem et si ad stationem vel tabernam ventum sit, probari oportere.

 

Labeone ammette la possibilità che si possa commettere convicium sia nei confronti di una persona presente sia in assenza della persona offesa: questa seconda possibilità sollevava problemi dal punto di vista dell’animus iniuriandi, in quanto rendeva sfuggente il requisito della determinatezza della persona offesa che abbiamo visto richiamato in D. 47.10.15.9. Tuttavia, se il convicium veniva commesso in casa dell’offeso, è chiaro che il soggetto passivo del delitto si deduceva dal luogo in cui si metteva in atto il convicium; per gli altri casi, invece, cioè quelli relativi alla stazione di posta o alla locanda, trattandosi di luoghi pubblici, era più difficile, a causa, appunto, dell’assenza dell’offeso, capire quale fosse la persona determinata verso cui il convicium era rivolto. Probabilmente in tal caso l’unico convicium represso era quello in cui l’animus iniuriandi si palesasse attraverso un insulto nominativo.

 

 

Abstract

 

The a. analyses the edict de convicio, one of the special edict de iniuriis, in which iniuria delict has been extended till comprehend, beside the injury to physical integrity, the injury to moral integrity: contumelia. In the edict, the sanctioned behaviour represented one of the many ways to cause contumelia in a subject, but only if committed adversus bonos mores. However, the word convicium, had different meanings, that’s why, in order to reconstruct the exact edictal terminology, the a. considered also its use in common speech. Now that has been clarified in what convicum consists, it is necessary to identify which are the elements that get a convicium allowed by the law into an adversus bons mores act, which is punishable with the actio iniuriarum concession. The work ends with a consideration about iniuria delict general rule, in which even instigation is punishable and the subject must be aimed by the so called animus iniurandi, that is to say the intent to cause iniuria.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

[1] Il delitto di iniuria, risalente all’età più antica della civitas e represso sin dalle XII Tavole, estese, con il tempo, il suo ambito di applicazione, tanto che il concetto originario coincidente con l’offesa all’integrità fisica andò a ricomprendere anche le offese morali, arrecate all’onore e al decoro della persona. L’estensione della fattispecie avvenne, in particolare, grazie all’elaborazione giurisprudenziale e all’attività edittale del pretore, il quale affiancò ad un editto generale, De iniuriis aestumandis, i cosiddetti editti speciali De iniuriis. I singoli editti speciali, De convicio, De adtemptata pudicitia, Ne quid infamandi causa fiat, De iniuriis quae servis fiunt, De noxali iniuriarum actione, Si ei, qui in alterius potestate erit, iniuria facta esse dicetur, De contrario iniuriarum iudicio, contemplavano singolarmente diverse offese morali ed erano accomunati dal medesimo rimedio processuale, l’actio iniuriarum. Sullo sviluppo del delitto di iniuria, l’elaborazione giurisprudenziale ad esso connessa e la cronologia degli editti si veda il mio: Edictum de adtemptata pudicitia, in Diritto @ Storia 9 (2010) < http://www.dirittoestoria.it/9/Tradizione-Romana/Fusco-Edictum-adtemptata-pudicitia.htm >, § 1 e, in particolare, A. Milazzo, il cui recente lavoro, Iniuria. Alle origini dell’offesa morale come categoria giuridica, Roma 2011, soffermandosi sull’analisi della repressione contenuta nelle XII Tavole, offre una ben nutrita bibliografia in materia e delinea nuovi spunti riflessivi.

 

[2] Per la datazione della Rhet. Her. all’88 a.C. vedi G. Thiele, in GGA 2 (1895) 733; J. Brzoska, in RE 4.I (1900) 1698; C. Bione, I più antichi trattati di arte retorica in lingua latina, in Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, Filosofia-filologia 21 (1910); F. Marx, Prolegomena, Tuebner, Leipzig 1923, 153-155; A. Gwynn, Roman Education from Cicero to Quintilian, Oxford 1926, 66; W. Warde Fowler, Roman Essays and Interpretations, Oxford 1929, 91-98; D. Matthes, ʻHermagoras von Temonsʼ, in Lustrum 3 (1958) 82 nt. 2; M. Fuhrmann, Das systematische Lehrbuch, Ein Beitrag zur Geschichte der Wissenschaften in der Antike, Göttingen 1960, 41 n. 1; J. Adamietz, Ciceros de inventione und die Rhetorik ad Herennium, diss. Marburg 1960, 8 ss.; M.L. Clarke, Rhetoric at Rome, A Historical Survey2, London 1962, 14, G. Calboli, Cornificiana 2. L’autore e la tendenza politica della Rhetorica ad Herennium, in Atti della Accademia delle Scienze di Bologna, Classe di Scienze Morali, Memorie 51-52 (1963-1964) 8, 25; Id., Cornifici Rhetorica ad Herennium, Bologna 1969, 12-17. Propongono una datazione relativamente bassa, con spostamento del termine ante quem al 75 o al 70 e il termine post quem fisso all’86: W. Kroll, Der Text des Cornificius, in Philologus 90 (1935) 63; M.I. Henderson, Process ʻde repetundisʼ, in JRS XLI (1951) 73 nt.18; E. Gabba, Origini della guerra sociale e la vita politica romana dopo l’89 A.C., in Athenaeum 32 (1954) 321 nt. 2. Resta isolata l’opinione di A.E. Douglas, Clausulae in the Rhetorica ad Herennium as Evidence of Its Date, in CQ 54 (1960) 65 ss., il quale indica gli anni 50 come la data più probabile di composizione dell’opera.

 

[3] Rhet. ad Her. 2.26.41. Cfr. anche 1.14.24, 2.13.19. Su questi passi vedi infra.

 

[4] Vedi O. Lenel, Edictum Perpetuum, Leipzig 1927, § 191.

 

[5] Vedi infra § 3.

 

[6] Vedi nt. 1.

 

[7] Iniuriam autem fieri Labeo ait aut re aut verbis: re, quotiens manus inferuntur: verbis autem, quotiens non manus inferuntur, convicium fit. Nel passo vengono spiegate le diverse modalità di attuazione del delitto proponendo una bipartizione dal lato attivo: re o verbis.

 

[8] Come confermato da Coll. 2.5.4: Fit autem iniuria vel in corpore, dum caedimus, vel verbis, dum convicium patimur, vel cum dignitas laeditur, ut cum matronae vel praetextatae comites abducuntur. Iniuriarum actio aut legitima est aut honoraria.

 

[9] Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, trad. fr. Le droit pénal romain, Paris 1907, 106-107.

 

[10] Fest., p. 190 L., s.v. occentassint: Occentassint antiqui dicebant quod nunc convicium facerint dicimus, quod id clare et cum quodam canore fit ut procul exaudiri possit. Quod turpe habetur, quia non sine causa fieri putatur; Non. (L.89); convicium dictum est quasi e vicis logi, in quis secondum ignobilitatem loci maledictis et dictis turpis cavilletur.

 

[11] K. Thiel, Iniuria und Beleidigung. Ein Vorarbeit zur Bestimmung des Begriffes der Beleidigung, Breslau 1905, 103.

 

[12] D. Daube, “Ne quid infamandi causa fiat”. The Roman Law of Defamation, in Atti Congr. Internaz. Dir. Rom. e Stor. Dir. III, Verona 1948, 415.

 

[13] D. 47.10.15.12: Sive unus, sive plures dixerint, quod in coetu dictum est, convicium est, quod autem non in coetum, nec vociferatione dicitur, convicium non proprie dicitur, sed infamandi causa dictum.

 

[14] Rhet. ad Her. 2.26.41: Item vitiosum est falsis aut vulgaribus definitionibus uti. Falsae sunt huiusmodi, ut si quis dicat iniuriam esse nullam, nisi quae ex pulsatione aut convicio constet; 4.25.35: Item: “Iniuriae sunt, quae aut pulsatione corpus aut convicio auris aut aliqua turpitudine vitam cuiuspiam violant”.

 

[15] M. Marrone, Considerazioni in tema di iniuria, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, 479.

 

[16] P. Huvelin, La notion de “l’iniuria” dans les très ancien droit romain, Roma 1971, 60-102.

 

[17] D. 47.10.15.11: Ex his apparet non omne maledictum convicium esse: sed id solum, quod cum vociferatione dictum est.

 

[18] R. Wittmann, Die Entwicklungslinien der klassischen Injurienklage, in ZSS 91 (1974) 303-304.

 

[19] Convicium autem dicitur vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione vocum. Cum enim in unum complures voces conferuntur, convicium appellatur quasi convocium.

 

[20] J. Santa Cruz Teijeiro - A. D’Ors, A proposito de los edictos especiales “De iniuriis”, in AHDE 49 (1979) 656. Vedi anche di J. Santa Cruz Teijeiro, La iniuria en el derecho romano, in Studi Sanfilippo II, Milano 1982, 523-538.

 

[21] Sive unus, sive plures dixerint, quod in coetu dictum est, convicium est, quod autem non in coetum, nec vociferatione dicitur, convicium non proprie dicitur, sed infamandi causa dictum.

 

[22] Convicium autem dicitur vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione vocum. Cum enim in unum complures voces conferuntur, convicium appellatur quasi convocium

 

[23] A.D. Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano. Età repubblicana, Milano 1979, 49-90.

 

[24] Convicium autem dicitur vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione vocum. Cum enim in unum complures voces conferuntur, convicium appellatur quasi convocium.

 

[25] Manfredini riporta queste fonti letterarie nelle quali il convicium è indicato come l’insieme di grida che si levavano durante le contiones: Cic., Verr. 2.158; 5.141; Cic., Rosc. Com. 30; Asconio, in Corn., p. 58 Cic.

 

[26] E. Polay, Iniuria types in Roman Law, Budapest 1986, 102-105; 145-147.

 

[27] G. L. Hendrickson, Convicium, in Class. Phil. XXI (1926) 114; Id., Verbal injury, magic, or erotic comus?, in Class. Phil. XX (1925) 293.

 

[28] F. Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüche, Wien-Köln-Graz, 1969, 23-39.

 

[29] Sive unus, sive plures dixerint, quod in coetu dictum est, convicium est, quod autem non in coetum, nec vociferatione dicitur, convicium non proprie dicitur, sed infamandi causa dictum.

 

[30] Convicium autem dicitur vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione vocum. Cum enim in unum complures voces conferuntur, convicium appellatur quasi convocium.

 

[31] K.E. Georges, F. Calonghi, s.v. concitatio, in Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino, Torino 1966.

 

[32] Di concitatio animi si parla in: Cic., De div. 1.80; Cic., Tusc. 4.10.24.

 

[33] Georges, Calonghi, s.v. concito, as, avi, atum, are, in Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.

 

[34] Cic., Epist. ad fam. 14.13.1; Val. Max. 4.1.12, 9.3.8; Quint., Instit. 11.3.7.

 

[35] Georges, Calonghi, s.v. conventus, in Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.

 

[36] In queste fonti il termine indica un insieme di persone convocate in un luogo: Hor., Sat. 7.22; Liv. 33.35.1; 45.33.3; Cic., De dom. 54.; Verr. 2. 2.32; 2.34; 5.140; Paul. Diac., s.v. conventus (L.36).

 

[37] Georges, Calonghi, s.v.convenio, in Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.

 

[38] Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano cit., 69.

 

[39] Georges, Calonghi, s.v. confero, in Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.

 

[40] Georges, Calonghi, s.v. collatio, in Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.

 

[41] La ricerca del significato nella lingua corrente si rivela preziosa anche per l’iniuria generale, così come dimostrato da Milazzo, Iniuria cit., 99-174.

 

[42] A. Ernout, A. Meillet, s.v. convicium, in Dictionnaire ètymologique de la langue latine, Paris 1979.

 

[43] Si veda in tal senso l’uso di convicium nelle commedie di Plauto, in cui è spesso in correlazione col verbo clamo e il sostantivo clamor: Plaut., Bacch. 871-874; Merc. 59; 234; Most. 615; ed anche Sen. phil., Epist. ad Luc. 58.7; Ov., Met., 11.597; Petr., Satyr. 10.16; 66.4; 136.8; Prop., Eleg. 1.6.11; Aus., Epist. 5.5.

 

[44] Si tratta di animali il cui verso è particolarmente rumoroso: pappagalli, rane e cicale. Sen. Phil., Epist. ad Luc. 51.12; Pap. Stat., Silv. 2.4.11; Ov., Met. 6.378; Colum. 10.12; Phaed. 1.6.5; 3.16.3; Iuv. 3.238.

 

[45] Nel senso di rimprovero, critica si vedano: Cic., Pro Cluent. 74; Pro Cael. 6; Epist. ad Att.; Verr. 2.158; Sen. Phil., De ira 2.25.4; Consol. ad Marc. 10.2; Cons. ad Pol. 15.8; De const. sapient. 13.2; De vit. 17.3; Prop., Eleg. 3.8.11; Ov., Met. 5.655; 6.361; 6.377; 9.302; Ann. Luc., Phars. 7.723, 9.186; Svet., Div. Iul. 49.1. Nel significato di scherno si veda: Petr., Satyr. 58.1; 129.10; Hor., Serm. 1.5.11; Sen. Phil., Medea 113; De const. sap. 11.3; 18.4; Ann. Luc., Phars. 2.367; Pap. Stat., Silv. 5.5.66; Theb. 1.283; Apul., Flor. 12.

 

[46] Cic., Pro Cael. 30; Pro Quinct. 62; Val. Max. 7.3.5; Sen. Phil., De benef. 5.15.2; 6.42.1; 7.8.3; 7.25.2; De vit. 18.1; Epist. ad Luc. 58.7; 108.9; Plin. Sec., Epist. 6.12.5; Quint., Instit. 6.2.14; Plin. Mai., Nat. hist. 20.252; Ov., Am. 3.3.41; Epist. ex Pont. 2.6.7; 4.14.39; Her. 18.211; 21.79; Met. 1.755; 4.543; 6.210; Svet., Tib. 28.1; 54.2; Nero 39.1; 41.1; Apul., Apol. 25.

 

[47] Epist. ad Cic. serv. 16.26.1; Seneca Rhet., Controv. 2.2; Val. Max. 4.3.14; Ov., Am. 1.7.20.

 

[48] Come afferma G. Pugliese, Studi sull’iniuria, Milano 1941, 53 «occorre tenere presente che il convicium non è propriamente un ingiuria verbale, ma qualcosa di più caratteristico, una figura tipicamente romana».

 

[49] Vedi le seguenti fonti letterarie: Liv. 22.43.3; 42.53.1; Cic., Verr. 2.5.156b; Sen. Rhet., Controv. 1.5.36; Sen. Phil., De clem. 1.7.4; Phaed. 11157; Ps. Quint., Decl. maior. 4.19.

 

[50] ThLL, VIII, 167.

 

[51] Plaut., Pers. 275; Ter., Adelph. 15; Cic., De dom. 94.68.27; Pro Plan. 57.28.18; Pro Cael. 23.79.292; Pro Font. 37.41.11; Pro reg. Deiot. 28.113.12; Sen. Phil., De benef. 1.11.6; 3.16.1; 6.32.1; De const. 17.2.5; Quint., Instit. 6.3.46; Plin. Mai., Nat. Hist. 30.89; Svet., Vita Ter. 4.5.

 

[52] Ter., Andr. 754; Cic., Pro Mur. 13.7.5, 7; Sen. Phi., De const. 11.3.6; Quint., Decl. Min. 328.2.

 

[53] ThLL, III, 1140.

 

[54] Mommsen, Le droit pénal romain cit., 106-107; Daube, Ne quid infamandi causa fiat. The law of defamation cit., 415; Marrone, Considerazioni in tema di iniuria cit., 479; Huvelin, La notion de “l’iniuria” dans les très ancien droit romain cit., 60-102; Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano cit., 49-90; Polay, Iniuria types in Roman Law cit., 102-105; 145-147.

 

[55] Hendrickson, Convicium cit., 114; Id., Verbal injury, magic, or erotic comus? cit., 293.

 

[56] Ait praetor: ‘qui adversus bonos mores convicium cui fecisse cuiusve opera factum esse dicetur, quo adversus bonos mores convicium fieret: in eum iudicium dabo’.

 

[57] Polay, Iniuria types in Roman Law cit., 104-105.

 

[58] H.R. Mezger, Stipulation und letztwillige Verügung „contra bonos mores“, in Klassischen-römischen und nachklassischen Recht, Göttingen 1930, 18-25.

 

[59] Daube, Ne quid infamandi causa fiat. The law of defamation cit., 415; Marrone, Considerazioni in tema di iniuria cit., 479; Huvelin, La notion de “l’iniuria” dans les très ancien droit romain cit., 99; Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüche cit., 26; Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano cit., 80.

 

[60] J. Plescia, The development of the Doctrine of Boni Mores in Roman Law, in RIDA 33-35 (1986-1988) 266-310.

 

[61] Sul riferimento ai boni mores nell’ambito del Digesto, ed in particolare negli editti speciali de iniuriis si veda il mio: Edictum de adtemptata pudicita cit., § 5.

 

[62] Considerazioni in tema di iniuria cit., 480; Id., Recensione a F. Raber, Grundlagen klassischer Injurienanspruche, in IURA 22 (1971) 154-161.

 

[63] Nell’opinione del Marrone (Considerazioni in tema di iniuria cit., 480) ciò era dovuto alla Nemesi: nell’antichità era diffusa l’idea secondo cui la Nemesi era una legge fatale, equilibratrice delle vicende umane, per cui si determinava un rigido alternarsi di fatti positivi e negativi; per questo gli antichi, i Romani, in occasioni felici o periodi buoni si adoperavano a provocare un malanno, un dispiacere o un fatto negativo, in modo da ristabilire l’equilibrio e attuare la legge della Nemesi. Quindi mortificando il marito, il trionfatore, l’agricoltore fortunato, si attuava la legge della Nemesi: la mortificazione, l’esposizione al ridicolo e al sospetto, in tal caso, rappresentavano il male che, compensando il bene già ottenuto, allontanava altro male.

 

[64] Grundlagen Klassischer Injurienansprüche cit., 25.

 

[65] Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano cit., 65-66. Questa idea di boni mores è ripresa dall’A. in Qui commutant cum feminis vestem, in RIDA 32 (1985) 266. Vedi inoltre, sul punto: P. Leuregans, Testamenti factio non privati sed publici iuris est, in RHD 53 (1975) 249.

 

[66] Cic., Epist. ad Att. 2.18.1; Epist. ad fam. 1.5b; Verr. 2.158; 5.141; Asc., in Corn. 58 Cic.; Pro Rosc. 30.

 

[67] Aul. 446; Poen. 31; Curc. 147.

 

[68] Prop., Eleg. 2.29.1; Ov., Fast. 5.339; Pers., Sat. 5.165.

 

[69] Ov., Met. 14.522.

 

[70] Sen. Phil., Med. 113; Luc., Phars. 2.369.

 

[71] Mart., Epigr. 7.8.7.

 

[72] Sen. Phil., Epist. 51.12.

 

[73] Ov., Met. 14.526.

 

[74] Pro Cael. 6.

 

[75] Per il riferimento al delitto di iniuria nelle fonti retoriche si veda F. Lanfranchi, Il diritto nei retori romani, Milano 1938, 334-344; S.F. Bonner, Roman Declamation in the Late Republic and Early Empire, Liverpool 1994, 115-116. Per un inquadramento dell’opera di Seneca il Retore, e quindi della sua utilità per l’obiettivo del nostro studio, si veda: E. Migliario, Contesti cronologici e riflessioni storiche nelle suasoriae senecane, in La cultura storica nei primi due secoli dell’Impero romano, a cura di L. Troiani, G. Zecchini, Roma 2005, 99-110; Id., Cultura politica e scuole di retorica a Roma in età augustea, in Retorica ed educazione delle élites nell'antica Roma, a cura di F. Gasti, E. Romano, Como-Pavia 2008; Retorica e Storia. Una lettura delle Suasoriae di Seneca Padre, Bari 2007.

 

[76] D. 47.10.15.25-33 (Ulp. 57 ad ed.); Lenel, EP cit., § 193.

 

[77] D. 47.10.15.5 (Ulp. 57 ad ed.): Sed quod adicitur a Praetore: “adversus bonos mores”, ostendit, non omnem in unum collatam vociferationem Praetorem notare, sed eam, quae bonis moribus improbatur, quaeque ad infamiam vel invidiam alicuis spectaret.

 

[78] Georges, Calonghi, s.v. opera, in Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino, cit.

 

[79] Vedi supra. Il termine indica la concitazione ed eccitamento ed in senso traslato tumulto e agitazione; ThLL, III, 1578.

 

[80] ThLL, III, 1580.

 

[81] Georges, Calonghi, s.v.submitto, is, mis, missum, ere, in Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.

 

[82] Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüche cit., 28-29.

 

[83] Paul. Sent. 5.4.20: Non tantum is, qui maledictum aut convicium ingesserit, iniurarum convictus famosus efficitur, sed et is, cuius ope consiliove factum esse dicitur.

 

[84] Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano cit., 126.

 

[85] Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüche cit., 28-29.

 

[86] Anche secondo Polay, Iniuria types in Roman Law cit., 102-105, la punibilità si estende pure al suggerimento.

 

[87] Balzarini, “De iniuria extra ordinem statui” cit., 167-173.

 

[88] A proposito dell’animus iniuriandi si veda il mio Edictum de adtemptata puditicia cit., § 7 e Milazzo, Iniuria cit., 55-62.

 

[89] Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüche, cit., 28-29.

 

[90] Polay, Iniuria types in Roman Law cit., 102-105.

 

[91] Alle medesime conclusioni giunge M.J. Bravo Bosch, El elemento subjetivo en el ʻEdictum de convicioʼ, in BIDR 103-104 (2000-2001) 465-481; Id., A propósito de la protección del honor de la persona, in RGDR 8 (2007) 29-52; Id., La protección del honor de la persona: el edicto de convicio, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana 17 (2009) 745-794.

 

[92] La diffamazione verbale nel diritto romano cit., 126.

 

[93] Rhet. ad Her. 1.14.24: Mimus quidam nominatim Accium poetam conpellavit in scaena. Cum eo Accius iniuriarum agit. Hic nihil aliud defendit nisi licere nominari eum, cuius nomine scripta dentur agenda; 2.13.19: Caelius iudex absolvit iniuriarum eum, qui Lucilium poetam in scaenam nominatim laeserat, P. Mucius eum, qui L. Accium poetam nominaverat, condemnavit.

 

[94] Sostengono questo anche Huvelin, La notion de “l’iniuria” dans les très ancien droit romain cit., 84, Wittmann, Die Entwicklungslinien der klassischen Injurienklage cit., 303-304.