Università
di Sassari
Studi
sull’iniuria: l’edictum de convicio
SOMMARIO: 1. Convicium
facere: la dottrina.
– 2. Convicium nel
linguaggio comune. – 3. Convicium nella terminologia edittale. –
4. Adversus
bonos mores. – 5. Istigazione al delitto – 6. Animus iniuriandi. – Abstract.
Secondo
la dottrina prevalente l’editto De convicio sarebbe stato emanato
dal pretore intorno alla fine del II sec. a.C.[1]: tale data,
approssimativa, viene desunta da alcuni frammenti della Rhetorica ad
Herennium. Come è noto, infatti, la composizione dell’opera
– o almeno del suo primo libro – risale all’88 a.C.[2] e in essa il convicium
è espressamente indicato quale fattispecie di iniuria[3], accanto alle pulsationes.
La promessa edittale si ritrova in D.
47.10.15.2 (Ulp. 57 ad ed.), in cui
leggiamo:
Ait
praetor: ‘qui adversus bonos mores convicium cui fecisse cuiusve opera
factum esse dicetur, quo adversus bonos mores convicium fieret in eum iudicium
dabo[4].
Le fattispecie previste dal pretore sono due:
il convicium facere e l’istigazione: inizieremo la trattazione
partendo dal convicium facere, mentre ci occuperemo
dell’istigazione, che si realizza con modalità diverse, in un
momento successivo[5].
Dal passo si evince che non ogni forma di convicium
era ritenuta illecita, ma solo quella adversus
bonos mores. Il fatto delittuoso si sostanziava, quindi, in un
comportamento che, comunemente accettato, diventava illecito solo nella misura
in cui si poneva in contrasto con i boni
mores.
Questo
contrasto accomuna la fattispecie in esame ad altre forme di iniuria, anch’esse represse in sede edittale[6] e per le quali si pone il medesimo problema di
ricostruire il comportamento illecito punito, individuando i casi in cui la
condotta del presunto colpevole andava ad infrangersi contro i boni mores, giustificandone, in
conseguenza, la punizione per mezzo dell’actio iniuriarum.
Sulla
base della distinzione labeoniana tra le diverse modalità di attuazione
dell’iniuria, descritte
in D. 47.10.1.1 (Ulp. 57 ad ed.)[7], possiamo innanzitutto constatare che il convicium rappresentava
una forma di iniuria verbis[8], ossia di un illecito
posta in essere per mezzo di parole, come provano i passi di Ulpiano a
commento del testo edittale, volti a chiarire il modo in cui dovevano essere
proferite le parole in questione.
In D.
47.10.15.4 (Ulp. 57 ad ed.) leggiamo:
Convicium autem dicitur vel a
concitatione vel a conventu, hoc est a collatione vocum. Cum enim in unum
complures voces conferuntur, convicium appellatur quasi convocium.
Nel
passo sono indicati i termini concitatio e conventus come origini
della parola convicium, i quali rinvierebbero, a detta di Ulpiano, alla collatio
vocum, ossia al confluire di più voci in una.
L’opinione
maggioritaria segue l’idea di Mommsen[9], secondo il quale il
significato originario di convicium, e, dunque, il contenuto proprio
della condotta punita dall’editto, consisteva in un’offesa fatta in
un pubblico assembramento davanti alla casa di una persona, cioè
un’offesa perpetrata con clamore e in gruppo. Per sostenere queste
conclusioni, il Mommsen si fondava innanzitutto su D. 47.10.15.4, che
riporterebbe l’etimologia della parola, e su due glosse festine[10] nelle quali è
evidente la connessione di convicium con vox. L’eminente
studioso ritenne che, successivamente, attraverso un indebolimento e una
generalizzazione di significato, il termine convicium sia giunto ad
indicare la semplice ingiuria verbale, senza più riferimento al gruppo e
allo schiamazzo.
Dal
punto di vista di Thiel[11], il convicium
si differenzia dalla comune offesa all’onore per il modo in cui viene
posto in essere: le fattispecie considerate, infatti, sono più gravi a
causa dello schiamazzo, che comporta necessariamente pubblicità
dell’offesa. Secondo il Thiel, quindi, si ha un’ipotesi di convicium
quando si offenda qualcuno in modo pubblicamente rumoroso, mettendo in atto
schiamazzi e generando scandalo. A queste condizioni la condotta illecita
offendeva il buon costume, non solo l’onore di una singola persona, e per
questo motivo il convicium venne tenuto distinto dalla semplice iniuria.
Anche
David Daube[12] individua nel convicium
la parola diffamatoria pronunciata rumorosamente (cum vociferatione)
in gruppo (in coetu)[13]. Egli si rifà,
in particolare, a due passi della Rhetorica ad Herennium[14] dove, per dare un
esempio di iniuria, si parla di pulsatio e convicium: da
questi passi l’A. ritiene possibile dedurre che il pericolo del convicium
non stava tanto nella violazione dell’ordine pubblico, quanto nel
pubblico disvalore attribuito alla personalità dell’uomo che
veniva colpito dal comportamento illecito.
Matteo
Marrone[15], seguendo Mommsen e
Daube, sostiene che il convicium consisteva nella diffamazione
pronunciata con clamore da un gruppo (attruppamento). Il convicium, che
letteralmente vuol dire riunione di più voci, si sostanziava
nello schiamazzo ingiurioso effettuato da un gruppo numeroso di persone presso
l’abitazione di qualcuno, durante il quale si proclamavano ad alta voce i
torti e le colpe della vittima. Questo tipo di comportamento era un uso
talmente diffuso nell’antica Roma che il pretore vi rivolse la propria
attenzione, comminando una pena pecuniaria privata contro gli autori di un convicium
adversus bonos mores.
Sulla
stessa linea originariamente tracciata da Mommsen ritroviamo ancora Paul
Huvelin[16], il quale ritiene
che, per configurare il convicium, fosse necessaria una pluralità
di delinquenti, oppure una persona in mezzo ad altre o in aggiunta ad altre. La
più antica configurazione edittale non era, secondo lo studioso, una
forma di diffamazione verbale, ma una rumorosa manifestazione di
ostilità o una specie di concerto scandaloso che traeva origine dal
folklore popolare.
Il convicium,
per Paul Huvelin, presupponeva la cooperazione, la pluralità, il fatto
che necessariamente più persone fossero riunite: come si desume da D.
47.10.15.4 e D. 47.10.15.11 [17], non si applicava
alla persona che da sola facesse vociferatio, nel senso di clamore. Il
significato di convicium nel linguaggio comune era quello di urla,
schiamazzi, grida, e l’uso si estese alla riunione davanti ad una casa
per fare frastuono e offendere gli abitanti con un concerto ostile e
scandaloso.
Roland
Wittman[18] sostiene
anch’egli la necessaria presenza di una pluralità di persone, e
afferma che Ulpiano, in D. 47.10.15.4 [19],
si è limitato a prospettare un quadro delle etimologie del termine convicium:
la prima vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione
vocum; la seconda quasi convocium. Secondo il Wittmann, Ulpiano pare
optare per quest’ultima perché più aderente alla natura del
convicium dei suoi tempi, cioè l’offesa verbale.
Jose
Santa Cruz e Alvaro D’Ors[20] ritengono che il
concorso di più persone fosse essenziale per questo tipo di delitto
anche se, come emerge da D. 47.10.15.12 [21],
non era necessario che la voce offensiva fosse proferita da più persone
insieme, bastava che lo fosse anche da una. I due studiosi riportano la
repressione del convicium come esempio di dematerializzazione
dell’iniuria, che da lesione fisica era diventata offesa morale e
aggravio alla persona: l’etimologia del termine, a loro avviso e sulla
base di D. 47.10.15.4 [22], è data da collatio
vocum.
Per
Arrigo Diego Manfredini[23], il quale ha dedicato
ampio spazio al convicium in un’opera sulla diffamazione verbale,
in D. 47.10.15.4 [24] l’unica
locuzione con cui si esprime un’interpretazione etimologica è convicium
appellatur quasi convocium, mentre le altre parole, concitatio, conventus,
e collatio vocum, descrivono il convicium dal punto di vista
semplicemente fattuale. Il convicium adversus bonos mores è la collatio
vocum che deriva da concitatio o da un conventus: è
questa, probabilmente, la più
antica nozione edittale di convicium,
cioè il rumoroso strepito che
deriva da più grida che si confondono in una, e l’ipotesi è
che si trattasse di grida che si levavano dalla folla in segno di protesta
contro magistrati o personaggi politici, per lo più nel corso di contiones: situazione che avrebbe determinato l’intervento del pretore[25].
Per tale ragione, i più antichi casi di convicium adversus bonos mores non avevano nulla a che vedere con la diffamazione
attraverso parole offensive, essendo esclusivamente intesi come una forma di seditio.
Lo studioso ritiene che la nozione di convicium presente nella trattazione ulpianea dimostri
un’interferenza tra regole e concezioni del passato e quelle in vigore al tempo
di Ulpiano. Il giurista, infatti, vi arriva non attraverso una prospettiva
storica consapevolmente scelta, ma indirettamente, attraverso il commento dei
precedenti commentatori ad edictum. Sarebbe questa la ragione per cui nel passo in esame la
locuzione convicium facere descrive forme rumorose di protesta
individuale, senza la pronuncia di maledicta. Fu solo dopo
l’età ciceroniana, aggiunge l’A., che si sarebbe giunti a
concepire il convicium come pronuncia di maledictum gravemente
offensivo della persona.
Anche
l’opinione di Elemer Polay[26] confluisce nella
dottrina dominante. Lo studioso afferma che Ulpiano in D. 47.10.15.4 si occupa
solo dell’etimologia della parola convicium, termine che
indicherebbe la denigrazione realizzata o attraverso la concitazione (concitatio)
o il raggruppamento (conventus), che è come dire la denigrazione
commessa da più grida unite insieme (conferre).
Secondo
George Lincoln Hendrickson[27], invece, per la
realizzazione della condotta repressa dall’editto non era necessaria la
partecipazione di più persone. Egli si oppone all’opinione
maggioritaria secondo cui dal frammento di Ulpiano più volte citato si
ricava che solo un gruppo può mettere in atto il convicium,
evidenziando la differenza che esiste tra vel a concitatione vel a conventu,
e hoc est a collatione vocum. La concitatio individuerebbe il
caso del singolo che, sobillatore e istigatore di una folla, può essere
colpevole di convicium indipendentemente dalla partecipazione del
gruppo.
Il termine convicium nel linguaggio
comune[41] significa insieme di grida[42], e generalmente è usato per indicare lo
schiamazzo e il clamore prodotto da persone[43] o da animali[44]. E’, inoltre, molto ricorrente un
significato più particolare, il convicium come rimprovero oppure
motteggio, entrambi a voce alta[45]. Infine, è possibile notare come, dal
significato di rimprovero ad alta voce, il termine convicium finisca per
indicare il rimprovero aspro e la critica in sé considerati[46], non solo senza che vi sia alcun riferimento
all’alto tono della voce, ma, addirittura, quando si parla di tacitum
convicium, indicando un
atteggiamento di biasimo verso qualcuno, attuato senza l’uso della voce,
ma attraverso l’espressione del volto o col pensiero[47].
Pare evidente che la caratteristica originaria
del convicium fosse data essenzialmente dalla modalità con cui le
voci e i versi erano prodotti, cioè con un tono alto, e di conseguenza
dal baccano da questi provocato, in evidente correlazione con l’elemento vox
che compare nel termine composto convicium. Solo successivamente con
esso si andò ad indicare il rimprovero, la critica, l’offesa o lo
scherno, come se l’attenzione si fosse, ad un certo punto, spostata dal
fastidio connesso con la modalità di attuazione del convicium, il
frastuono prodotto dalle grida o dallo strepitio, al fastidio e
all’asprezza prodotti dal contenuto delle parole pronunciate.
Tornando al nostro editto, si rafforza, a
questo punto, l’idea che il comportamento in esso contemplato rappresenti
qualcosa di ben più articolato della semplice ingiuria verbale[48]. Dai passi successivi a quello analizzato in
precedenza, D. 47.10.15.4, emergono con chiarezza le sue connessioni sia col
significato originario di schiamazzo, sia con l’accezione di convicium
quale parola dal contenuto aspro, e quindi offensivo.
In D.
47.10.15.5, Ulpiano afferma:
Sed quod adicitur a praetore: “adversus bonos mores”,
ostendit, non omnem in unum collatam vociferationem praetorem notare, sed eam,
quae bonis moribus improbatur, quaeque ad infamiam vel iniuram alicuius
spectaret.
Si
introduce in questo passo un altro fondamentale elemento della condotta
punibile, la contrarietà ai boni mores, di cui si parlerà
in seguito. Per il momento risulta rilevante il fatto che Ulpiano affermi,
nella sostanza, che il convicium facere è una vociferatio in
unam collatam: il termine vociferatio indica il gridare ad alta voce[49] e, ancora una volta,
la collatio in unam vale a sottolineare il confluire in un unico vociare
di una pluralità di grida che promanano da più persone.
L’identità
tra convicium e vociferatio è ribadita da Ulpiano in modo
esplicito in D. 47.10.15.8:
Fecisse convicium non tantum is
videtur, qui vociferatus est, verum is quoque, qui concitavit ad vociferationem
alios vel qui summisit ut vociferentur.
In
questo passo si stabilisce un dato importante, in quanto viene ammessa la
punibilità non solo dell’autore del convicium, ma anche
dell’istigatore, di cui si tratterà successivamente. E però
è un altro il punto importante: difatti, in questo contesto, si
stabilisce con certezza che il convicium si concretizza nella pronunzia
di parole ad alta voce. Il giurista non si limita a fare dei riferimenti allo
schiamazzo, ma utilizza direttamente il sostantivo vociferatio e il
verbo corrispondente (vociferor)
come sinonimi, rispettivamente, di convicium e della forma
verbale convicior.
Quanto
sin qui affermato è ulteriormente ribadito dal nostro giurista in D.
47.10.15.11:
Ex his apparet non omne maledictum
convicium esse: sed id solum, quod cum vociferatione dictum est.
In
questo passo si prospetta, dunque, la natura delle parole con cui si inveisce a
gran voce contro qualcuno: perché si abbia convicium si deve
avere un maledictum, cioè un insulto. Il termine indica
generalmente lo sparlare, il dir male[50],
ma quando è indirizzato in modo diretto ad una persona, assume il
significato di oltraggio[51] e lo ritroviamo
insieme a convicium anche in alcune fonti letterarie[52].
Si
arriva, infine, al passo contenuto in D. 47.10.15.12, che, nella discussione
dottrinale, ha avuto grande importanza ai fini di una più corretta
interpretazione del primo passo indagato, il D. 47.10.15.4. In D. 47.10.15.12
Ulpiano afferma:
Sive unus, sive plures dixerint, quod in coetu dictum est,
convicium est, quod autem non in coetum, nec vociferatione dicitur, convicium
non proprie dicitur, sed infamandi causa dictum.
Il
testo senza dubbio ammette la possibilità che anche il singolo possa
fare convicium, cosa già anticipata, tra l’altro, in D.
47.10.15.8 relativo all’estensione della responsabilità
all’istigatore e al sobillatore del convicium, tuttavia la
presenza del gruppo, (in coetu)[53],
è determinante perché si abbia proprio il convicium e non
un’altra forma di iniuria verbis, insieme, e non alternativamente,
alla vociferazione.
Quanto
espresso in questo passo consente di considerare, così come affermato
dall’opinione maggioritaria, che nella realizzazione di un convicium,
è necessaria la presenza del gruppo; tuttavia non se ne possono
accettare le estreme conseguenze, per cui solo il gruppo può esserne
l’autore[54]. D’altra parte,
questa riflessione ci accosta ad Hendrikson[55],
ma solo nella misura in cui si ammette che il singolo individuo possa facere
convicium, senza che, però, si debba accettare l’ipotesi della
totale assenza del gruppo.
Alla
luce delle riflessioni sin qui svolte è possibile, dunque, ricostruire
il comportamento punito dall’editto: il convicium facere
consisteva nel proferimento di insulti, contro una persona, ad alta voce o da
parte di un gruppo, per mezzo di più voci unite in una unica, o da parte
di un singolo membro del gruppo.
Il
testo dell’editto, riprodotto, come abbiamo visto, in D. 47.10.15.2 (Ulp.
57, ad ed.)[56], dispone che il convicium
facere, così come ricostruito nel precedente paragrafo, debba essere
realizzato adversus bonos mores.
Si
pone, dunque, il concreto problema di dare una sostanza ai boni mores ai
quali fa riferimento l’editto, in modo che sia possibile verificare
quando, contravvenendo ad essi, si realizza la condotta repressa dal pretore.
Questo
è quanto specificato da Ulpiano in D. 47.10.15.5 (Ulp. 57 ad ed.),
in cui si legge:
La
parte che va da quaeque ad infamiam sino alla fine del passo è da
Elmer Polay[57] ritenuta interpolata:
tale inserzione, ad avviso dello studioso, altererebbe il senso originario
della clausola edittale e la sua eliminazione sarebbe necessaria per evitare
una confusione tra la l’editto de convicio e l’editto ne
quid infamandi causa fiat.
Il
sospetto del Polay non ha ragion d’essere poiché, nella parte in
questione Ulpiano intende semplicemente precisare il contenuto della condotta
punibile attraverso l’editto speciale: non una qualsiasi manifestazione
rumorosa di voci era suscettibile di essere perseguita, ma solo quella che era contra
bonos mores ed era diretta a recare offesa ad una persona determinata.
In
particolare, sebbene si tratti di un concetto ampio, Ulpiano, trattando di
questo editto, si riferisce ai boni mores in un significato ben
definito. Infatti in D. 47.10.15.6, Ulp. 57 ad ed., si legge:
Idem ait: “adversus bonos
mores” sic accipiendum, non eius, qui fecit, sed generaliter accipiendum
adversus bonos mores huius civitatis.
Ulpiano precisa che non si tratta di una concezione
di ʺbuoni costumiʺ
di tipo soggettivo, dipendente dal punto di vista dell’autore del delitto, bensì di un principio oggettivo che si
riferisce alla civitas e si traduce nell’insieme delle norme sociali generalmente rispettate.
Non si spiega, a questo punto, la
necessità di ricorrere ad un’ipotesi di interpolazione come fa
Hernst Rudolf Mezger[58], secondo il quale la parte da non eius
a generaliter accipiendum sarebbe da espungere dal testo, poiché,
rappresentando una ripetizione, la sua eliminazione renderebbe il testo
maggiormente comprensibile.
In realtà il testo risulta, come la
maggior parte degli studiosi sostiene al riguardo[59], perfettamente comprensibile senza ricorrere
ad alcuna ipotesi di interpolazione. Il punto cruciale, invece, consiste nella
necessità di ricercare, nella realtà concreta della civitas, dati che potrebbero consentirci di
distinguere tra manifestazioni di convicium facere lecite e non lecite.
In linea generale possiamo dire che il termine mos
ricorre nelle fonti giuridiche romane in due sensi: quello di consuetudine o
diritto consuetudinario, e quello di costume sociale e morale[60].
Il valore di mos come costume è certamente il
più antico, ma è anche di minore rilievo giuridico. Quella del
costume non è propriamente la sfera del diritto, e solo in taluni casi
l’ordinamento giuridico ne avverte il riflesso o vi fa esplicito
riferimento.
Tuttavia assume una sua specifica rilevanza, che in qualche modo
ha degli effetti anche nel diritto, nell’istituto del regime morum di competenza dei censori:
questi magistrati, a seguito del cosiddetto iudicium de moribus, che
essi conducevano sull’esempio di un procedimento giudiziario, colpivano
con la loro nota chi avesse tenuto una condotta riprovevole nella vita
pubblica, familiare o privata: così ogni mancanza
nell’amministrare la cosa pubblica, l’inadempimento dei doveri
religiosi, l’abuso nell’esercizio della patria potestas o
del potere maritale, e ogni atto immorale.
Tuttavia, cercare di fissare il concetto di
contrarietà ai boni mores nell’esame dei comportamenti
puniti dal nostro editto è difficile poiché, come afferma Matteo
Marrone[62], in ogni valutazione si dovrà tener
conto di modi di pensare mutevoli nel tempo, propri di un determinato periodo e
non di un altro.
L’uso dei versi fescennini e dei carmina
triumphalia, di versi, cioè, caratterizzati da spregiudicatezza e
licenziosità del linguaggio, che comunque ledevano la reputazione e
l’onore della persona cui erano rivolti, era probabilmente ammesso
perché l’obiettivo di fondo non era l’intento di danneggiare
o amareggiare qualcuno, ma l’esigenza di ristabilire l’equilibrio
turbato[63]. Per questo la tradizione, la consuetudine, la
religione giustificavano la licentia fescennina e quella militare. Ma il
fenomeno di abbandonarsi facilmente ai frizzi, alla satira, alle offese lesive
della personalità morale della vittima, non si manifestava solamente
nelle feste campestri, nelle nozze o nei trionfi militari, ma anche durante
banchetti, nei bagni pubblici, nel foro, in aule di tribunali nel corso di
processi privati e pubblici, durante dibattiti politici in senato, dinanzi ad
assemblee non qualificate. E non solo si parlava in prosa e in versi, ma si
scriveva sui muri, si compilavano libelli diffamatori, si componevano satire,
epigrammi e commedie.
Secondo
l’A. l’ordinamento romano, sin dalla fine del II sec. a.C.,
cominciò gradualmente, in virtù dell’intervento pretorio, a
reprimere le offese alla reputazione e all’onore, ma richiese sempre la
presenza, nella fattispecie offensiva, di determinati elementi.
L’A. individua un primo requisito di
carattere negativo: la non conformità al vero dell’affermazione o
dell’insinuazione a carico della persona offesa. Sulla base di ciò
egli reputa che non si reprimessero le affermazioni ingiuriose se non quando
erano false e che la diffamazione fosse punita solo se quanto si lasciava
credere e le voci che si spargevano non fossero vere.
Lo studioso ritiene che alla radice di
ciò stia un motivo che va ricercato fuori dai testi giuridici: gli
antichi scrittori mostrano di considerare la cattiva fama di un cittadino come
una sorta di condanna popolare. Il popolo, sia pure in maniera non formale,
giudica i propri membri, e se ritiene qualcuno indegno, lo condanna alla
cattiva reputazione, nei casi più gravi lo mette al bando della
società. Il convicium, in particolare, può addirittura
essere considerato alla stregua di vera e propria esecuzione della condanna
sostanzialmente e contestualmente pronunciata dal popolo. Secondo Matteo
Marrone il convicium continuò ad essere lecito purché
giustificato, ovvero purché compiuto nei confronti di una persona
indegna, di un individuo che avesse in sostanza meritato quella condanna
popolare, di cui il convicium era al contempo la pronunzia e
l’esecuzione: il magistrato sarebbe intervenuto per correggere ingiuste
condanne pronunciate, sostanzialmente se non formalmente, da “organi non
statali”, una sorta di appello ad un organo ufficiale avverso una
sentenza popolare.
Perché si avesse offesa morale
giuridicamente illecita, e pertanto punita, occorreva che l’offesa
stessa, diretta o indiretta, consistesse nell’attribuzione di un atto o
di una condizione tale da far temere alla vittima la diminuzione o
l’annullamento della sua buona fama. Non era necessario che
l’offeso effettivamente patisse il danno cui l’offensore lo aveva
esposto, bastava che l’azione dell’offensore fosse a ciò idonea,
il che avveniva quando l’offesa aveva luogo pubblicamente (via pubblica,
foro, in giudizio) in modo che altri sentissero e vedessero.
Anche Fritz Raber[64] concorda nel ritenere che i boni mores a
cui si riferisce Ulpiano fossero quelli sentiti come tali dalla società
romana, richiamando il giurista un ordinamento che sta dietro o sopra al
diritto, per concretizzare un concetto elastico.
Nel contesto del nostro delitto i boni mores
rappresenterebbero un criterio oggettivo: sono buoni i costumi ritenuti tali
dalla comunità, riscontrabili attraverso l’esperienza. Pertanto il
convicium adversus bonos mores viene punito perché l’agente
si è comportato contro ciò che nella civitas romana viene
concepito come buono: si tratta di un sistema di valori che sta al di fuori del
diritto e che assume rilevanza giuridica in quanto si riflette
nell’opinione comune.
Tuttavia, come spiegato da Ulpiano in D.
47.10.15.5, solo gli schiamazzi diretti ad offendere qualcuno configuravano un convicium
adversus bonos mores, anche se quanto detto non significa che il convicium
non posto in essere contro i boni mores rimanesse impunito.
Secondo l’opinione di Arrigo Diego
Manfredini[65], il fatto che, all’epoca cui si
riferisce l’editto sul convicium, i boni mores erano
apprezzati non alla luce di criteri speculativi, ma di ciò che
praticamente era riconosciuto corrispondente al bene comune, ci induce a
ritenere che solo in età classica siano prevalsi nella valutazione dei boni
mores elementi subiettivi.
Il
pretore offriva tutela solo contro alcuni tipi di convicium, in particolare,
alle forme di convicium contrarie ai boni mores della civitas,
come si evince da D. 47.10.15.6, e l’A. analizza, nel quadro delle fonti
letterarie, fatti e accadimenti tipici, insistentemente descritti con il
termine convicium, al fine di poterli, in qualche modo, prospettare come
possibili casi di convicium adversus bonos mores. In questo quadro
risalterebbe di notevole interesse l’uso ciceroniano, soprattutto, di convicium
indicante i casi di contestazione di personaggi politici da parte di una folla[66].
Secondo
l’A. questo gruppo di testimonianze ci da l’esempio dei fatti a
cui, probabilmente, si riferiva il pretore nell’emanare l’editto De
convicio adversus bonos mores: forme di contestazione di gruppo, di
protesta ostile manifestata con grida, schiamazzi, erano senza dubbio adversus
bonos mores se dirette a magistrati o personaggi politici illustri nel
corso di contiones. Anche se dal punto di vista della vittima si
trattava di un fatto diffamatorio, venivano in luce la violazione
dell’ordine pubblico e il carattere sedizioso, e tali manifestazioni di ostilità contro i principes civitatis erano considerate obiettivamente contrarie
ai boni mores.
In accordo con quanto detto da Matteo Marrone,
sul fatto che i Romani si abbandonavano con facilità a scherzi e
insulti, lesivi del decoro e della reputazione, ed esponevano i propri
concittadini al ridicolo e allo scherno in circostanze particolari che ne
ammettevano la legittimità, l’A. riporta numerose fonti che
attestano la presenza di fenomeni che, assimilabili al convicium, erano
accettati.
Si trattava, in primo luogo, dei più
antichi fenomeni dell’obvagulatio e del pipulus, attestati
nelle commedie di Plauto[67], ma anche di quello della commisatio,
la serenata notturna di amanti ubriachi davanti alla porta dell’amata[68].
In fonti classiche troviamo indicate col
termine convicium le forme di canti estemporanei a contenuto osceno e
satirico che rappresentano sopravvivenze degli antichi fescennini: gli obscenis
convicia rustica dictis che avevano luogo nelle feste campestri[69], i festa convicia dei matrimoni[70] e del trionfo del comandante[71], i canentium nocturna convicia che
rimandano alla commisatio, essendo appunto serenate notturne di brigate
di amanti[72].
In generale si parla di convicia in cui
l’asperitas verborum cessit[73]: cioè convicia di tipo faceto
che urbanitas nominatur, come dice Cicerone[74]:
maledictio
autem nihil habet propositi praeter contumeliam, quae si petulantius iactatur,
convicium, si facetius urbanitas nominatur.
A questo punto diventa centrale nella nostra
riflessione una fonte che parla espressamente di convicium facere contra
bonos mores. Si tratta di una passo di una Controversia di Seneca il
Retore, in cui, alla stregua della Rhetorica ad Herennium, il convicium
è affiancato alla pulsatio come forme di iniuria, ma con
l’inciso relativo ai boni mores:
Sen.
Reth., Contr. 10.1: INIVRIARVM
SIT ACTIO. Quidam, cum haberet filium et
divitem inimicum, occisus (in)spoliatus inventus est. Adulescens sordidatus
divitem sequebatur. Dives eduxit in ius eum et postulavit, ut, si quid
suspicaretur, accusaret se. Pauper ait: 'accusabo, cum potero' et nihilominus
sordidatus divitem sequebatur. Cum peteret honores dives, repulsus accusat
iniuriarum pauperem; 10.9: LATRO sic divisit: an in re iniuria sit. nulla,
inquit, iniuria est. sordidatus sum; (nonne omnes lugentes? te secutus sum;)
quam multi faciunt! Omnia
iniuriae genera comprehensa sic: pulsare non licet, convicium facere contra
bonos mores non licet. (Hoc loco SCAVRVS dixit: nova formula iniuriarum
componitur: 'quod ille contra bonos mores (tac)uit'.) Etiamsi in re iniuria
est, an, si non malo animo facit, tutus sit; an malo animo faciat. Hoc
Latro in duas quaestiones divisit: an, si credidit ab hoc patrem suum occisum
et propter hoc secutus est, ignoscendum illi sit. Deinde, an
crediderit. GALLIO illam fecit primam quaestionem, an, quod licet cuique facere
si facit, iniuria(ru)m non teneatur. Licet, inquit,
flere, licet ambulare qua velis, licet vestem quam velis sumere. Nihil, inquit, licet
in alienam invidiam facere. Sordidatus es: non queror, sed si sordes tuae
invidiam mihi concitant, queror[75].
Il caso in questione concerne la concessione
dell’actio iniuriarum:
un tale, che aveva un nemico ricco, fu ucciso, ma non derubato. Dopo
l’omicidio, il giovane figlio della persona assassinata iniziò a
seguire dappertutto, vestendosi a lutto, il ricco. Questi, sconfitto alle
elezioni a causa di tale implicita accusa, lo citò in giudizio,
accusandolo d’ingiurie.
L’atto di seguire silenziosamente ed insistentemente
una persona, avendo indosso abiti laceri, con capelli lunghi, barba incolta,
rappresentava un’ipotesi ricadente sotto l’editto Ne quid
infamandi causa fiat[76], ed era tale da importare per chi lo subisse
un pregiudizio. Essendo questo non un atto burlesco, ma una indiretta e
maliziosa accusa di omicidio, la vittima era esposta al rischio, se avesse
presentato una candidatura per una carica pubblica, che il magistrato
competente la respingesse, oltre al rischio di essere accusata e condannata per
omicidio in un giudizio pubblico.
Per quanto ci riguarda, il riferimento al convicium
è utilizzato per affermare che solo le ingiurie previste dalla legge
sono punite, trattandosi di iniuria in re, cioè di ingiuria
oggettiva: questo confermerebbe che l’elemento dei boni mores
è da considerarsi come un elemento oggettivo rilevabile in base alle
circostanze di fatto, sganciato da qualsiasi valutazione di tipo soggettivo.
Alla luce di questo, il riferimento all’infamia o all’invidia
contenuto in D. 47.10.15.5 (Ulp. 57 ad ed.)[77] starebbe ad indicare che la contrarietà
ai boni mores è insita in quei comportamenti o circostanze di
fatto determinanti non la mera offesa verbale, ma l’offesa attributiva di
un fatto o una situazione giuridica rilevanti in senso negativo per la
reputazione dell’offeso.
In questo senso infatti, nel passo di Seneca,
nella parte in cui si discute sulla possibilità di accusare per ingiurie
chi fa una cosa che a tutti è lecita fare, si ammette la
possibilità di esperire l’actio iniurarum ogni qual volta
un comportamento lecito suscita, nei confronti della persona verso cui è
tenuto, l’invidia della gente, produce, cioè, un effetto
negativo sul suo buon nome, e in un certo senso, su tutto ciò che
è ad esso connesso.
Raccogliendo quanto sino ad ora è emerso
dalle fonti e dall’interpretazione che di esse hanno dato i diversi
Autori che si sono occupati del tema, possiamo dire che per boni mores
nel contesto della repressione del convicium dobbiamo intendere non un
sistema speculativo e astratto, ma l’insieme di quei valori, derivanti
dall’esperienza e dalla tradizione etico-sociale della civitas, il
cui rispetto garantiva la dignità, la buona reputazione e il decoro dei
singoli cittadini.
Dalla clausola edittale sin qui analizzata
emerge un dato estremamente importante: in D. 47.10.15.2 (Ulp. 57 ad ed.),
il frammento che propone il testo dell’editto, leggiamo che è
punito non solo l’autore dell’atto illecito, ma anche colui il
quale ne fosse l’istigatore:
Ait praetor: ‘qui adversus bonos
mores convicium cui fecisse cuiusve opera factum esse dicetur, quo adversus
bonos mores convicium fieret in eum iudicium dabo.
Nel
passo si dice che l’azione è concessa anche contro colui ad opera
del quale sia stato fatto convicium adversus bonos mores contro
qualcuno: l’enunciato è abbastanza generico perché il
termine opera[78] ha vari significati,
e ipoteticamente andrebbe a coprire tutta una serie di attività che
avrebbero come obiettivo quello di fare in modo che qualcuno venisse offeso nel
modo specificato dall’editto.
Il
passo di commento di Ulpiano risulta, per tale ragione, di grande aiuto,
poiché il nostro giurista in D. 47.10.15.8 (57 ad ed.) precisa
che:
Fecisse convicium non tantum is
videtur, qui vociferatus est, verum is quoque, qui concitavit ad vociferationem
alios vel qui summisit ut vociferentur.
In
primo luogo si parla di qui concitavit alios ad vociferationem: si
è già avuto modo di analizzare il sostantivo concitatio[79], ma occorre qui riflettere
meglio sul verbo concitare: esso significa spingere qualcuno a fare
qualcosa, e nel caso in esame alla vociferatio. Ma non si tratta di una
semplice istigazione, dato che il verbo ha come primo significato quello di
agitare, eccitare e infiammare[80]. Per tale ragione, se
dobbiamo pensare ad una attività atta ad infiammare gli animi, dobbiamo
pensare ad un’opera estremamente provocatoria, ad una
modalità di incitamento che comporti nel concitatore stesso una intensa
agitazione.
Secondo
Fritz Raber[82], la formulazione
generica della punibilità dell’istigazione, in base alla quale
è punito colui la cui opera porta al convicium, consente
di punire non solo chi avesse incitato altri al convicium facere, ma
anche chi avesse offerto il suo aiuto. L’A. basa la sua convinzione su di
un passo delle Pauli Sententiae, in cui si parla di istigazione ope
consiliove[83], evidentemente
interpretando opera come aiuto, e consilium come semplice
istigazione.
Secondo
il parere di Arrigo Diego Manfredini[84],
la possibilità che fosse punito l’istigatore confermerebbe la sua
ipotesi che la prima nozione edittale
di convicium adversus bonos mores fosse relativa a chi facesse la sua parte
in manifestazioni collettive di protesta pubblica, cioè a chi
partecipasse alla vociferatio in
unum collatam. Infatti, dato che
simili fatti implicavano ordinariamente una pluralità di persone e
dovevano per lo più essere provocati da un sobillatore, risulta spiegata
la formulazione della clausola edittale ove, accanto al singolo partecipante
del convicium, espressamente si menziona il sobillatore,
o l’occulto mandante.
In realtà quello che possiamo affermare con
certezza è che, nel caso del convicium, viene affermata in modo esplicito una regola che
vale per l’iniuria
in generale, in qualsiasi modo essa
venga posta in essere. In D. 47.10.11.3 (Ulp. 57 ad ed.)
leggiamo infatti:
Si mandatu meo facta sit alicui
iniuria, plerique aiunt, tam me, qui mandavi, quam eum, qui suscepit,
iniuriarum teneri.
Alla
luce di questo, e rapportando la punibilità dell’istigazione al convicium
con quella dell’iniuria in generale, è difficile concordare
con Fritz Raber[85] circa la
punibilità anche del semplice suggerimento (consilium) nella
commissione del delitto[86], di cui in
realtà si avrebbe notizia solo nelle Pauli Sententiae, che, come
è noto, riportano la configurazione dell’iniuria repressa extra
ordinem e non edittale[87].
Per
quanto riguarda l’animus iniuriandi, cioè l’elemento
soggettivo che necessariamente deve essere presente in ogni forma di iniuria[88], ricordiamo la
precisazione di Ulpiano (57 ad ed.):
D. 47.10.15.9 “Cui”
non sine causa adiectum est: nam si incertae personae convicium fiat, nulla
executio est.
La
necessità di precisare che la persona offesa dovesse essere determinata
discende, ovviamente, dal fatto che, per le modalità stesse in cui si
poneva in essere il convicium, era anche possibile effettuare uno
schiamazzo dai contenuti offensivi in modo generico, senza che, quindi, fosse
identificabile un destinatario vero e proprio. Chiaramente in questo caso, non
essendo leso l’interesse di un soggetto determinato, domandare la tutela
promessa da questo editto non sarebbe stato possibile.
Come
sostiene Fritz Raber[89], infatti, il convicium
contro una persona incerta non sarebbe stato punibile perché sarebbe
mancato il legittimato ad agire.
Secondo
Elmer Polay[90] il contenuto di
questo passo altro non è che la conferma di quanto già affermato
in D. 47.10.15.5 (Ulp. 57 ad ed.) in cui, come abbiamo visto, si afferma
che non omne in unum collatam vociferationem praetorem notare, sed eam,
(...) quaeque ad infamiam vel iniuriam alicuis spectaret; per tale ragione
in D. 47.10.15.9 (Ulp. 57 ad ed.) si riconfermerebbe la necessità
di un soggetto passivo ben determinato, il cui buon nome venisse leso dal
delitto[91].
Secondo
il parere di Arrigo Diego Manfredini[92],
in D. 47.10.15.9 (Ulp. 57 ad ed.) vi sono tracce di un criterio che
circoscriveva l’illiceità all’insulto nominativo: secondo lo
studioso dal passo si ricava un vago indizio di tale criterio, che si rafforza,
tuttavia, alla luce del confronto con due passi della Rhetorica ad Herennium[93], i quali sembrano
attestare due casi di esercizio di actio iniuriarum ex convicio[94].
Sulla
base di quanto abbiamo sin qui osservato, i casi riportati nella Rhetorica
ad Herennium rientrerebbero nel convicium adversus bonos mores: sarebbero soddisfatti, infatti, sia
il requisito della vociferatio, poiché si presume che le parole
dette sulla scena siano proferite con un tono della voce decisamente elevato,
sia il requisito della pluralità di persone, in coetu, con cui si
concretizza la pubblicità dell’offesa. Tuttavia non si può
restringere l’applicazione dell’editto ai soli casi in cui
l’offesa è nominativa, cioè ai casi in cui è
indicato espressamente il nome della persona a cui ci si riferisce: il passo si
limita a dire che la persona deve essere certa, nel senso di determinata, e
questo poteva essere chiaro anche senza necessariamente dover pronunciare il
nome del soggetto preso di mira.
Ciò
è confermato da D. 47.10.18.3 (Paul. 55 ad ed.), che si riferisce
all’iniuria in generale, in cui leggiamo:
Si iniuria mihi fiat ab eo, cui sim
ignotus, aut si qui putet, me Lucium Titium esse, cum sim Caius Seius,
praevalet quod principale est, iniuriam eum mihi facere velle, nam certus ego
sum, licet ille putat me alium esse quam sum, ed ideo iniuriarum habeo.
Dal
passo emerge che l’animus iniuriandi coincide con la
volontà di offendere una persona determinata, a prescindere dal fatto
che sia nota all’offensore la sua vera identità, e per tale
ragione è legittimo supporre che anche nel convicium il dolo
soggettivo operasse in questo modo e che il requisito della determinatezza
della persona offesa fosse indipendente dalla conoscenza
dell’identità dell’offeso, cosa che, invece, l’insulto
nominativo avrebbe necessariamente presupposto.
D’altra
parte, però, dobbiamo ritenere che fosse necessario un richiamo
nominativo o altri elementi specifici da cui dedurre chi fosse la persona
offesa, nel caso di convicium fatto nei confronti di una persona
assente, possibilità ammessa in D. 47.10.15.7 (Ulp. 57 ad ed.),
in cui Ulpiano riporta il pensiero di Labeone, e nel quale si legge:
Convicium non tantum praesenti, verum
absenti quoque fieri posse Labeo scribit. Proinde si quis ad domum tuam venerit
te absente, convicium factum esse dicitur. Idem et si ad stationem vel tabernam
ventum sit, probari oportere.
Labeone
ammette la possibilità che si possa commettere convicium sia nei
confronti di una persona presente sia in assenza della persona offesa: questa
seconda possibilità sollevava problemi dal punto di vista dell’animus
iniuriandi, in quanto rendeva sfuggente il requisito della determinatezza
della persona offesa che abbiamo visto richiamato in D. 47.10.15.9. Tuttavia,
se il convicium veniva commesso in casa dell’offeso, è
chiaro che il soggetto passivo del delitto si deduceva dal luogo in cui si
metteva in atto il convicium; per gli altri casi, invece, cioè
quelli relativi alla stazione di posta o alla locanda, trattandosi di luoghi
pubblici, era più difficile, a causa, appunto, dell’assenza
dell’offeso, capire quale fosse la persona determinata verso cui il convicium
era rivolto. Probabilmente in tal caso l’unico convicium represso
era quello in cui l’animus iniuriandi si palesasse attraverso un
insulto nominativo.
The a. analyses
the edict de convicio, one of the
special edict de iniuriis, in which iniuria delict has been extended till
comprehend, beside the injury to physical integrity, the injury to moral
integrity: contumelia. In the edict,
the sanctioned behaviour represented one of the many ways to cause contumelia in a subject, but only if
committed adversus bonos mores.
However, the word convicium, had
different meanings, that’s why, in order to reconstruct the exact edictal
terminology, the a. considered also its use in common speech. Now that has been
clarified in what convicum consists,
it is necessary to identify which are the elements that get a convicium allowed by the law into an adversus bons mores act, which is
punishable with the actio iniuriarum
concession. The work ends with a consideration about iniuria delict general rule, in which even instigation is
punishable and the subject must be aimed by the so called animus iniurandi, that is to say the intent to cause iniuria.
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
[1] Il
delitto di iniuria, risalente
all’età più antica della civitas e represso sin dalle XII Tavole, estese, con il tempo, il
suo ambito di applicazione, tanto che il concetto originario coincidente con
l’offesa all’integrità fisica andò a ricomprendere
anche le offese morali, arrecate all’onore e al decoro della persona.
L’estensione della fattispecie avvenne, in particolare, grazie
all’elaborazione giurisprudenziale e all’attività edittale
del pretore, il quale affiancò ad un editto generale, De iniuriis aestumandis, i cosiddetti
editti speciali De iniuriis. I
singoli editti speciali, De convicio, De adtemptata pudicitia, Ne quid infamandi
causa fiat, De iniuriis
quae servis fiunt, De noxali
iniuriarum actione, Si ei, qui in alterius potestate erit, iniuria
facta esse dicetur, De contrario iniuriarum iudicio,
contemplavano singolarmente diverse offese morali ed erano accomunati dal medesimo
rimedio processuale, l’actio
iniuriarum. Sullo sviluppo del delitto di iniuria, l’elaborazione giurisprudenziale ad esso connessa e
la cronologia degli editti si veda il mio: Edictum
de adtemptata pudicitia, in Diritto @ Storia 9 (2010) < http://www.dirittoestoria.it/9/Tradizione-Romana/Fusco-Edictum-adtemptata-pudicitia.htm
>, § 1 e, in particolare, A.
Milazzo, il cui recente lavoro, Iniuria. Alle origini
dell’offesa morale come categoria giuridica, Roma 2011, soffermandosi
sull’analisi della repressione contenuta nelle XII Tavole, offre una ben
nutrita bibliografia in materia e delinea nuovi spunti riflessivi.
[2] Per la
datazione della Rhet. Her. all’88 a.C. vedi G. Thiele, in GGA 2 (1895) 733; J. Brzoska,
in RE 4.I (1900) 1698; C. Bione, I più antichi trattati di arte retorica in lingua latina, in
Annali della R. Scuola Normale Superiore
di Pisa, Filosofia-filologia 21 (1910); F.
Marx, Prolegomena, Tuebner,
Leipzig 1923, 153-155; A. Gwynn, Roman Education from Cicero to Quintilian,
Oxford 1926, 66; W. Warde Fowler,
Roman Essays and Interpretations,
Oxford 1929, 91-98; D. Matthes, ʻHermagoras von Temonsʼ, in Lustrum 3 (1958)
82 nt. 2; M. Fuhrmann, Das systematische Lehrbuch, Ein Beitrag zur
Geschichte der Wissenschaften in der Antike, Göttingen 1960, 41 n. 1; J. Adamietz, Ciceros de inventione und die Rhetorik ad Herennium, diss. Marburg 1960, 8 ss.; M.L. Clarke, Rhetoric at Rome, A Historical Survey2, London 1962, 14, G. Calboli, Cornificiana 2. L’autore
e la tendenza politica della Rhetorica ad Herennium, in Atti della Accademia delle Scienze di
Bologna, Classe di Scienze Morali, Memorie 51-52 (1963-1964) 8, 25; Id., Cornifici Rhetorica ad Herennium, Bologna 1969, 12-17. Propongono
una datazione relativamente bassa, con spostamento del termine ante quem al 75 o al 70 e il termine post quem fisso all’86: W. Kroll, Der Text des Cornificius, in Philologus
90 (1935) 63; M.I. Henderson, Process ʻde
repetundisʼ, in JRS XLI (1951) 73 nt.18; E. Gabba, Origini della guerra sociale e la vita politica romana dopo l’89
A.C., in Athenaeum 32 (1954) 321
nt. 2. Resta isolata l’opinione di A.E.
Douglas, Clausulae in the Rhetorica ad Herennium as Evidence of Its
Date, in CQ 54 (1960) 65 ss., il quale indica gli anni 50 come la
data più probabile di composizione dell’opera.
[3] Rhet.
ad Her. 2.26.41. Cfr. anche 1.14.24, 2.13.19. Su
questi passi vedi infra.
[4] Vedi
O. Lenel, Edictum Perpetuum, Leipzig 1927, § 191.
[5] Vedi infra § 3.
[6] Vedi
nt. 1.
[7] Iniuriam autem fieri Labeo ait aut re aut
verbis: re, quotiens manus inferuntur: verbis autem, quotiens non manus
inferuntur, convicium fit. Nel passo vengono spiegate
le diverse modalità di attuazione del delitto proponendo una
bipartizione dal lato attivo: re o verbis.
[8] Come
confermato da Coll. 2.5.4: Fit autem iniuria vel in corpore, dum
caedimus, vel verbis, dum convicium patimur, vel cum dignitas laeditur, ut cum
matronae vel praetextatae comites abducuntur. Iniuriarum actio aut legitima est
aut honoraria.
[9] Th. Mommsen, Römisches Strafrecht,
Leipzig 1899, trad. fr. Le droit pénal romain, Paris 1907,
106-107.
[10] Fest.,
p. 190 L., s.v. occentassint: Occentassint antiqui dicebant quod nunc
convicium facerint dicimus, quod id clare et cum quodam canore fit ut procul
exaudiri possit. Quod turpe habetur, quia non sine causa fieri putatur; Non. (L.89); convicium dictum est quasi e vicis logi, in
quis secondum ignobilitatem loci maledictis et dictis turpis cavilletur.
[11] K. Thiel, Iniuria und Beleidigung. Ein Vorarbeit zur
Bestimmung des Begriffes der Beleidigung, Breslau 1905, 103.
[12] D. Daube, “Ne quid infamandi
causa fiat”. The
Roman Law of Defamation, in Atti
Congr. Internaz. Dir. Rom. e Stor. Dir. III, Verona 1948, 415.
[13] D. 47.10.15.12: Sive unus, sive plures dixerint, quod in coetu dictum est, convicium
est, quod autem non in coetum, nec vociferatione dicitur, convicium non proprie
dicitur, sed infamandi causa dictum.
[14] Rhet. ad Her. 2.26.41: Item vitiosum est falsis aut vulgaribus
definitionibus uti. Falsae sunt huiusmodi, ut si quis dicat iniuriam esse
nullam, nisi quae ex pulsatione aut convicio constet; 4.25.35: Item:
“Iniuriae sunt, quae aut pulsatione corpus aut convicio auris aut aliqua
turpitudine vitam cuiuspiam violant”.
[15] M. Marrone, Considerazioni in tema di iniuria, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, 479.
[16] P. Huvelin,
La notion de “l’iniuria” dans les très ancien droit
romain, Roma 1971, 60-102.
[17] D. 47.10.15.11: Ex his apparet non omne maledictum
convicium esse: sed id solum, quod cum vociferatione dictum est.
[18] R. Wittmann,
Die Entwicklungslinien der klassischen Injurienklage,
in ZSS 91 (1974) 303-304.
[19] Convicium autem dicitur vel a concitatione vel a
conventu, hoc est a collatione vocum. Cum enim in unum complures voces
conferuntur, convicium appellatur quasi convocium.
[20] J. Santa Cruz Teijeiro
- A. D’Ors, A proposito
de los edictos especiales “De iniuriis”, in AHDE 49
(1979) 656. Vedi anche di J. Santa Cruz Teijeiro, La iniuria en el derecho
romano, in Studi
Sanfilippo II, Milano 1982, 523-538.
[21] Sive unus, sive plures dixerint, quod in coetu
dictum est, convicium est, quod autem non in coetum, nec vociferatione dicitur,
convicium non proprie dicitur, sed infamandi causa dictum.
[22]
Convicium autem dicitur vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione
vocum. Cum enim in unum complures voces conferuntur, convicium appellatur quasi
convocium
[23] A.D. Manfredini, La diffamazione verbale
nel diritto romano. Età repubblicana, Milano 1979, 49-90.
[24]
Convicium autem dicitur vel a concitatione vel a conventu, hoc est a collatione
vocum. Cum enim in unum complures voces conferuntur, convicium appellatur quasi
convocium.
[25] Manfredini riporta queste fonti
letterarie nelle quali il convicium è indicato come
l’insieme di grida che si levavano durante le contiones: Cic., Verr.
2.158; 5.141; Cic., Rosc. Com. 30; Asconio, in Corn., p. 58 Cic.
[26] E. Polay,
Iniuria types in Roman Law, Budapest 1986, 102-105; 145-147.
[27] G. L.
Hendrickson, Convicium, in Class. Phil.
XXI (1926) 114; Id., Verbal
injury, magic, or erotic comus?, in Class. Phil. XX (1925)
293.
[28] F. Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüche,
Wien-Köln-Graz, 1969, 23-39.
[29] Sive
unus, sive plures dixerint, quod in coetu dictum est, convicium est, quod autem
non in coetum, nec vociferatione dicitur, convicium non proprie dicitur, sed
infamandi causa dictum.
[30] Convicium autem dicitur vel a concitatione vel a
conventu, hoc est a collatione vocum. Cum enim in unum complures voces
conferuntur, convicium appellatur quasi convocium.
[31] K.E. Georges, F. Calonghi, s.v.
concitatio, in Dizionario
della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino, Torino 1966.
[32] Di concitatio
animi si parla in: Cic., De div.
1.80; Cic., Tusc. 4.10.24.
[33] Georges, Calonghi, s.v. concito, as, avi,
atum, are, in Dizionario
della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.
[34] Cic., Epist.
ad fam. 14.13.1; Val. Max. 4.1.12, 9.3.8; Quint., Instit. 11.3.7.
[35] Georges, Calonghi, s.v. conventus, in
Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.
[36] In
queste fonti il termine indica un insieme di persone convocate in un luogo:
Hor., Sat. 7.22; Liv. 33.35.1; 45.33.3; Cic., De dom. 54.; Verr.
2. 2.32; 2.34; 5.140; Paul. Diac., s.v. conventus (L.36).
[37] Georges, Calonghi, s.v.convenio, in Dizionario
della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.
[38] Manfredini, La diffamazione verbale
nel diritto romano cit., 69.
[39] Georges, Calonghi, s.v. confero, in Dizionario della lingua
latina: latino-italiano, italiano-latino cit.
[40] Georges, Calonghi, s.v. collatio, in Dizionario della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.
[41] La
ricerca del significato nella lingua corrente si rivela preziosa anche per
l’iniuria generale, così
come dimostrato da Milazzo,
Iniuria cit., 99-174.
[42] A. Ernout, A.
Meillet, s.v. convicium, in Dictionnaire
ètymologique de la langue latine, Paris 1979.
[43] Si
veda in tal senso l’uso di convicium nelle commedie di Plauto, in
cui è spesso in correlazione col verbo clamo e il sostantivo clamor:
Plaut., Bacch. 871-874;
Merc. 59; 234; Most. 615; ed anche Sen. phil., Epist. ad Luc.
58.7; Ov., Met., 11.597; Petr., Satyr. 10.16; 66.4; 136.8; Prop., Eleg.
1.6.11; Aus., Epist. 5.5.
[44] Si
tratta di animali il cui verso è particolarmente rumoroso: pappagalli,
rane e cicale. Sen. Phil., Epist. ad Luc. 51.12;
Pap. Stat., Silv. 2.4.11; Ov., Met.
6.378; Colum. 10.12; Phaed. 1.6.5; 3.16.3; Iuv. 3.238.
[45] Nel
senso di rimprovero, critica si vedano: Cic., Pro Cluent. 74; Pro
Cael. 6; Epist. ad Att.; Verr. 2.158; Sen. Phil., De ira
2.25.4; Consol. ad Marc. 10.2; Cons. ad Pol. 15.8; De const.
sapient. 13.2; De vit. 17.3; Prop., Eleg. 3.8.11; Ov., Met.
5.655; 6.361; 6.377; 9.302; Ann. Luc., Phars. 7.723, 9.186; Svet., Div.
Iul. 49.1. Nel significato di scherno si veda: Petr., Satyr. 58.1; 129.10; Hor., Serm. 1.5.11;
Sen. Phil., Medea 113; De const. sap. 11.3; 18.4; Ann. Luc., Phars.
2.367; Pap. Stat., Silv. 5.5.66; Theb. 1.283; Apul., Flor.
12.
[46] Cic., Pro Cael. 30; Pro Quinct.
62; Val. Max. 7.3.5; Sen. Phil., De benef.
5.15.2; 6.42.1; 7.8.3; 7.25.2; De vit. 18.1; Epist. ad Luc. 58.7;
108.9; Plin. Sec., Epist. 6.12.5; Quint., Instit. 6.2.14; Plin. Mai., Nat. hist. 20.252; Ov., Am. 3.3.41; Epist.
ex Pont. 2.6.7; 4.14.39; Her. 18.211; 21.79; Met. 1.755;
4.543; 6.210; Svet., Tib. 28.1; 54.2; Nero 39.1; 41.1; Apul., Apol.
25.
[47] Epist. ad Cic. serv. 16.26.1; Seneca Rhet., Controv. 2.2;
Val. Max. 4.3.14; Ov., Am. 1.7.20.
[48] Come
afferma G. Pugliese, Studi
sull’iniuria, Milano 1941, 53 «occorre tenere presente che il convicium
non è propriamente un ingiuria verbale, ma qualcosa di più
caratteristico, una figura tipicamente romana».
[49] Vedi
le seguenti fonti letterarie: Liv. 22.43.3; 42.53.1; Cic., Verr.
2.5.156b; Sen. Rhet., Controv. 1.5.36;
Sen. Phil., De clem. 1.7.4; Phaed. 11157; Ps. Quint., Decl. maior. 4.19.
[50] ThLL, VIII, 167.
[51] Plaut., Pers. 275; Ter., Adelph.
15; Cic., De dom. 94.68.27; Pro Plan. 57.28.18; Pro Cael.
23.79.292; Pro Font. 37.41.11; Pro reg. Deiot. 28.113.12; Sen. Phil., De benef. 1.11.6; 3.16.1; 6.32.1; De const. 17.2.5; Quint., Instit.
6.3.46; Plin. Mai., Nat. Hist. 30.89; Svet., Vita Ter. 4.5.
[52] Ter., Andr. 754; Cic., Pro Mur. 13.7.5, 7;
Sen. Phi., De const. 11.3.6; Quint., Decl. Min. 328.2.
[53] ThLL, III, 1140.
[54] Mommsen, Le droit pénal romain cit., 106-107; Daube, Ne quid infamandi causa fiat.
The law of defamation cit., 415; Marrone, Considerazioni in tema di iniuria cit., 479; Huvelin, La notion de
“l’iniuria” dans les très ancien droit romain
cit., 60-102; Manfredini, La
diffamazione verbale nel diritto romano cit., 49-90; Polay, Iniuria types in Roman Law
cit., 102-105; 145-147.
[55] Hendrickson, Convicium cit., 114; Id., Verbal injury, magic, or erotic
comus? cit., 293.
[56] Ait praetor: ‘qui adversus bonos
mores convicium cui fecisse cuiusve opera factum esse dicetur, quo adversus
bonos mores convicium fieret: in eum iudicium dabo’.
[57] Polay, Iniuria types in Roman Law cit.,
104-105.
[58] H.R. Mezger,
Stipulation und letztwillige Verügung „contra bonos mores“,
in Klassischen-römischen und nachklassischen Recht, Göttingen
1930, 18-25.
[59] Daube, Ne quid infamandi causa fiat. The law
of defamation cit., 415; Marrone,
Considerazioni in tema di iniuria
cit., 479; Huvelin, La
notion de “l’iniuria” dans les très ancien droit
romain cit., 99; Raber, Grundlagen
Klassischer Injurienansprüche cit., 26; Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano
cit., 80.
[60] J. Plescia, The development of the Doctrine of
Boni Mores in Roman Law, in RIDA 33-35 (1986-1988) 266-310.
[61] Sul
riferimento ai boni mores
nell’ambito del Digesto, ed in particolare negli editti speciali de iniuriis si veda il mio: Edictum de adtemptata pudicita cit.,
§ 5.
[62]
Considerazioni in tema di iniuria cit., 480; Id., Recensione
a F. Raber, Grundlagen klassischer Injurienanspruche, in IURA 22
(1971) 154-161.
[63]
Nell’opinione del Marrone (Considerazioni
in tema di iniuria cit.,
480) ciò era dovuto alla Nemesi: nell’antichità era diffusa
l’idea secondo cui la Nemesi era una legge fatale, equilibratrice delle
vicende umane, per cui si determinava un rigido alternarsi di fatti positivi e
negativi; per questo gli antichi, i Romani, in occasioni felici o periodi buoni
si adoperavano a provocare un malanno, un dispiacere o un fatto negativo, in
modo da ristabilire l’equilibrio e attuare la legge della Nemesi. Quindi
mortificando il marito, il trionfatore, l’agricoltore fortunato, si
attuava la legge della Nemesi: la mortificazione, l’esposizione al
ridicolo e al sospetto, in tal caso, rappresentavano il male che, compensando
il bene già ottenuto, allontanava altro male.
[64]
Grundlagen Klassischer Injurienansprüche cit., 25.
[65] Manfredini, La diffamazione verbale
nel diritto romano cit., 65-66. Questa idea di boni mores è
ripresa dall’A. in Qui commutant cum feminis vestem, in RIDA
32 (1985) 266. Vedi inoltre, sul punto: P.
Leuregans, Testamenti factio non privati sed publici iuris est,
in RHD 53 (1975) 249.
[66] Cic., Epist. ad Att.
2.18.1; Epist. ad fam. 1.5b; Verr. 2.158; 5.141; Asc., in Corn.
58 Cic.; Pro Rosc.
30.
[67] Aul. 446; Poen. 31; Curc. 147.
[68] Prop., Eleg. 2.29.1; Ov., Fast.
5.339; Pers., Sat. 5.165.
[69] Ov., Met. 14.522.
[70] Sen. Phil., Med. 113; Luc., Phars.
2.369.
[71] Mart., Epigr. 7.8.7.
[72] Sen. Phil., Epist. 51.12.
[73] Ov., Met.
14.526.
[74] Pro
Cael. 6.
[75] Per il
riferimento al delitto di iniuria
nelle fonti retoriche si veda F.
Lanfranchi, Il diritto nei retori romani, Milano 1938, 334-344; S.F. Bonner, Roman Declamation in
the Late Republic and Early Empire, Liverpool 1994, 115-116. Per un
inquadramento dell’opera di Seneca il Retore, e quindi della sua
utilità per l’obiettivo del nostro studio, si veda: E. Migliario, Contesti cronologici e
riflessioni storiche nelle suasoriae senecane, in La cultura
storica nei primi due secoli dell’Impero romano, a cura di L. Troiani, G. Zecchini, Roma 2005,
99-110; Id., Cultura politica
e scuole di retorica a Roma in età augustea, in Retorica ed
educazione delle élites nell'antica Roma, a cura di F. Gasti, E. Romano, Como-Pavia 2008; Retorica e Storia. Una lettura delle
Suasoriae di Seneca Padre, Bari 2007.
[76] D.
47.10.15.25-33 (Ulp. 57 ad ed.);
Lenel, EP cit., § 193.
[77] D.
47.10.15.5 (Ulp. 57 ad ed.): Sed quod adicitur a Praetore:
“adversus bonos mores”, ostendit, non omnem in unum collatam
vociferationem Praetorem notare, sed eam, quae bonis moribus improbatur,
quaeque ad infamiam vel invidiam alicuis spectaret.
[78] Georges, Calonghi, s.v. opera, in Dizionario della lingua
latina: latino-italiano, italiano-latino, cit.
[79] Vedi supra.
Il termine indica la concitazione ed eccitamento ed in senso traslato tumulto e
agitazione; ThLL, III, 1578.
[80] ThLL,
III, 1580.
[81] Georges, Calonghi, s.v.submitto, is, mis,
missum, ere, in Dizionario
della lingua latina: latino-italiano, italiano-latino cit.
[82] Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüche cit.,
28-29.
[83] Paul. Sent.
5.4.20: Non tantum is, qui maledictum aut convicium ingesserit, iniurarum
convictus famosus efficitur, sed et is, cuius ope consiliove factum esse
dicitur.
[84] Manfredini, La diffamazione verbale
nel diritto romano cit., 126.
[85] Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüche
cit., 28-29.
[86] Anche
secondo Polay, Iniuria types
in Roman Law cit., 102-105, la punibilità si estende pure al
suggerimento.
[87] Balzarini, “De iniuria extra
ordinem statui” cit., 167-173.
[88] A
proposito dell’animus iniuriandi si
veda il mio Edictum de adtemptata
puditicia cit., § 7 e Milazzo,
Iniuria cit., 55-62.
[89] Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüche, cit., 28-29.
[90] Polay, Iniuria types in Roman Law cit.,
102-105.
[91] Alle
medesime conclusioni giunge M.J. Bravo
Bosch, El elemento subjetivo en el
ʻEdictum de convicioʼ, in BIDR 103-104 (2000-2001) 465-481; Id., A propósito de la protección
del honor de la persona, in RGDR
8 (2007) 29-52; Id., La protección del honor de la
persona: el edicto de convicio, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana 17 (2009)
745-794.
[92] La
diffamazione verbale nel diritto romano cit., 126.
[93] Rhet. ad Her. 1.14.24: Mimus quidam
nominatim Accium poetam conpellavit in scaena. Cum eo Accius iniuriarum agit.
Hic nihil aliud defendit nisi licere nominari eum, cuius nomine scripta dentur
agenda; 2.13.19: Caelius iudex absolvit iniuriarum eum, qui Lucilium
poetam in scaenam nominatim laeserat, P. Mucius eum, qui L. Accium poetam
nominaverat, condemnavit.
[94]
Sostengono questo anche Huvelin, La
notion de “l’iniuria” dans les très ancien droit
romain cit., 84, Wittmann, Die
Entwicklungslinien
der klassischen Injurienklage cit., 303-304.