Università
di Cagliari
‘Querela inofficiosi testamenti’ e ‘iudicatum’:
problemi e prospettive tra II e III secolo *
SOMMARIO: 1. Note
minime sulla configurabilità di una ‘giurisdizione
costitutiva’ nell’esperienza romana classica. - 2. Il fieri del ius ‘ex sententia iudicis’ nella prospettiva di Paolo. - 3. La svolta antoniniana: la regolarità del
contraddittorio come presupposto per l’auctoritas rei iudicatae. – 4. Caducazione soggettivamente parziale del
testamento e meccanismi di conformazione all’auctoritas rei iudicatae. - 5. La
progressiva elaborazione di un iudicium
rescindens ‘costitutivo’ nell’esperienza classica della cognitio extra ordinem. – Abstract.
È noto come si discuta,
in dottrina, in ordine alla natura della querela
inofficiosi testamenti: come sia, specificamente, controverso se la tutela
avverso il testamento inofficioso possa o meno accostarsi, per certi versi,
all’attuale nozione di ‘giurisdizione costitutiva’, stante la
natura lato sensu impugnatoria del
rimedio[1].
La questione appare di vivo interesse, tanto più ove si consideri che,
come normalmente si ritiene, il processo classico – quello, per
intenderci, dell’ordo iudiciorum
privatorum – non parrebbe mostrare al suo interno vere e proprie
figure di tutela costitutiva: o, meglio, non parrebbe conoscerle sul piano del ius civile, potendosi al limite
ravvisare una situazione tendenzialmente analoga a quella che connota
l’esperienza contemporanea nel rapporto tra la restitutio in integrum pretoria, e la concessione di un’actio sul presupposto di essa.
Quanto rilevato impone,
peraltro, una prima ricognizione, innanzitutto terminologica, del contesto di
riferimento.
Si è parlato di
‘giurisdizione costitutiva’: ciò che, nei rapporti fra
privati, va oggi ricondotto al precetto di cui all’art. 2908 cod. civ., a
mente del quale, «nei casi previsti dalla legge, l’autorità
giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici,
con effetto tra le parti, i loro eredi e aventi causa».
Se questi sono i termini, a noi
ben noti, della questione, ha mai il diritto romano conosciuto un qualcosa di
analogo già sul piano del ius
civile? Se si eccettua la peculiarità della in iure cessio, in cui il risultato attributivo non rappresenta un
‘esito’ processuale, ma consegue semmai ad una
‘condotta’ processuale – il cedere – cui è riconosciuta progressivamente natura
negoziale[2],
la risposta, a mio parere, va ricercata proprio all’interno della
disciplina, innanzitutto processuale, della querela inofficiosi testamenti. E
difatti, qualunque idea si abbia sulle origini – centumvirali o pretorie
– della nostra figura di tutela, per età classica la querela
– si è autorevolmente osservato, nell’alveo di una
riflessione ottimamente avviata, in particolare, dal Marrone[3]
– «porta alla caduta del testamento e all’apertura della
successione ab intestato»,
avendo funzione rescindente; e, specificamente, «la rescissione ha valore
nell’ambito stesso del ius civile,
senza che ci sia necessità di ricorrere a rimedi pretori»[4].
Ed è appunto su questi
profili – che a mio avviso concorrono con la restitutio in integrum ad individuare il principium, nella scienza giuridica europea, della
‘giurisdizione costitutiva’ delle moderne codificazioni – che
dovremo ora soffermarci. Al riguardo, converrà esaminare, innanzitutto,
alcuni passi in cui la querela
inofficiosi testamenti appare riferibile al contesto processuale del lege agere centumvirale, per poi
vagliare alcune specifiche ipotesi in cui essa sembra proposta nell’alveo
della cognitio extra ordinem.
Innanzitutto, una risposta agli
interrogativi che ci siamo or ora posti può essere forse data ove si
tenti di indagare sull’idea per cui, nel caso dell’impugnazione del
testamento davanti al collegio centumvirale, ius ex sententia iudicis fit: un’espressione, questa, che
già ha suscitato una certa attenzione in dottrina[5],
e che ritroviamo – con specifica attenzione per il nostro tema
d’indagine – in un passo delle Quaestiones
di Paolo. Essa, quasi istintivamente, non può non indurci alla
percezione di una certa qual assonanza con il verbum legis contemporaneo codificato nell’art. 2908 cod.
civ.: in quel potere, oggi genericamente attribuito all’autorità
giudiziaria, di costituire modificare o estinguere rapporti giuridici
riecheggia, a mio parere, l’idea che in determinati contesti sia in fin
dei conti la sententia iudicis a ius facere.
Esaminiamo, allora,
Paul. 2 quaest. D. 5.2.17.1: Cum contra
testamentum ut inofficiosum iudicatur, testamenti factionem habuisse defunctus
non creditur. non idem probandum est, si herede non respondente secundum
praesentem iudicatum sit: hoc enim casu non creditur ius ex sententia iudicis
fieri: et ideo libertates competunt et legata petuntur.
Proviamo ora a ripercorrere il
ragionamento del giurista.
Nel momento in cui viene
pronunciata una sentenza contra
testamentum, in quanto inofficiosum,
non si ritiene – non creditur
– che il defunto avesse la testamenti
factio; tuttavia, non è lo stesso nell’ipotesi in cui la
sentenza sia favorevole al querelante in un contesto contumaciale,
perché in questo caso la sententia
iudicis non è idonea a ius
facere. Ne consegue – conclude il giurista, dovendosi ritenere
classica anche questa parte del passo[6]
– che spettano le libertà, ed i legati possono essere pretesi.
Va, innanzitutto, evidenziato
come la disciplina della querela non possa
non risentire del fatto che il processo centumvirale rappresentava una
‘radice attuale’, ancora in epoca imperiale, del lege agere quiritario, il cui esito
– come ha dimostrato il Marrone – si risolveva in una sentenza
dotata di «efficacia pregiudiziale illimitata»[7].
Ci troviamo qui di fronte,
peraltro, ad una distinzione – quella che fa leva sulla partecipazione o
meno dell’heres scriptus al
processo – introdotta dai divi
fratres[8], e
quindi ad un contesto ascrivibile agli anni 161-169 [9].
Specificamente, a seguito della sponsio
praeiudicialis prodromica alla legis
actio per condictionem, od al limite a quella per iudicis postulationem[10],
si deve ritenere che la fattispecie riguardasse l’heres scriptus che contestasse la lite onde evitare le sanzioni
– quali che fossero – per l’indefensio[11],
ma non partecipasse poi alla fase apud
iudicem del processo centumvirale: la parte contumace, nel contesto del lege agere, perdeva, infatti, la lite
senza alcuno specifico controllo – diremmo oggi – ‘di
merito’[12], sicché
l’intervento imperiale doveva avere la funzione di evitare possibili
frodi processuali in danno dei legatari e dei servi manomessi.
Su questi punti avremo modo di
ritornare nel prossimo paragrafo: per il momento, è significativo
osservare come il dato testuale rilevante per comprendere il ragionamento di
Paolo s’incentri sul significato da attribuirsi al credere, correlabile al fieri
del ius in forza della sententia.
Superando – lo si diceva
– i sospetti al tenore del testo pervenutoci[13],
è nell’alveo della correlazione tra ‘credere’ e ‘fieri’
che si coglie l’elaborazione concettuale di una consapevole distinzione,
di recente evidenziata[14],
tra pazzia ‘vera’ e pazzia ‘artificiosa’, di per
sé implicante una difficoltà tendenzialmente irrisolta sul piano
del riconoscimento e dell’elaborazione concettuale della figura
d’invalidità rilevante. Ed allora, il complessivo andamento del
discorso di Paolo mi pare in linea con l’idea per cui,
«formalmente, la sentenza Cvirale di inofficiosità era una
sentenza dichiarativa di nullità; sostanzialmente, rescindeva un
testamento sino allora valido»[15].
Ma di quest’ultimo aspetto
discuteremo a conclusione della nostra indagine. Quanto sinora emerso,
nondimeno, ci porta ad intuire almeno un ulteriore punto nevralgico: la tutela
esperita può considerarsi solo formalmente in personam, avuto riguardo all’oportere conseguente alla sponsio
praeiudicialis; nondimeno, sul piano della sua funzione sostanziale, essa
si configura contra testamentum, ed il convenuto –
diremmo oggi, l’intimato che risulti controinteressato alla demolizione
dell’atto – è individuato in base alla qualità di
erede testamentario. È dunque in conseguenza della sentenza che il
testamento vien meno, e ciò non già perché difetti
senz’altro la testamenti factio,
posto che, in tal caso, il testamento risulterebbe ipso iure affetto da invalidità originaria ed immediata[16];
ma perché non può farsi affidamento (habuisse … non creditur) sulla sua configurabilità.
Va evidenziato,
d’altronde, come altro sia dire ‘testamenti factionem habuisse non creditur’, altro ‘testamenti factionem non habuisse creditur’:
il giurista non afferma che il de cuius
‘non avesse’ la capacità di testare, ma semmai che
‘non si ritiene’ che l’avesse: ed in questo, specificamente,
mi paiono particolarmente illuminanti le espressioni che figurano in due testi
normalmente ricordati a dimostrazione dell’opponibilità, in linea
di principio, della sentenza centumvirale agli onorati testamentari ed ai servi manomessi, dove i fideicommissa ab intestato data non sono
dovuti quia crederetur quasi furiosus
testamentum facere non potuisse, in quanto l’attribuzione proviene quasi a demente[17].
Per cogliere appieno le
implicazioni sottese dal ragionamento di Paolo è necessario, nondimeno,
approfondire un ulteriore profilo dell’impostazione del giurista.
Esaminiamo, al riguardo, il principium
del frammento delle Quaestiones da
cui abbiamo avviato le nostre riflessioni:
Paul. 2 quaest. D. 5.2.17 pr.: Qui repudiantis animo
non venit ad accusationem inofficiosi testamenti, partem non facit his qui
eandem querellam movere volunt. unde si de inofficioso testamento patris alter
ex liberis exheredatis ageret, quia rescisso testamento alter quoque ad
successionem ab intestato vocatur, et ideo universam hereditatem non recte
vindicasset: hic si optinuerit, uteretur rei iudicatae auctoritate, quasi
centumviri hunc solum filium in rebus humanis esse nunc, cum facerent
intestatum, crediderint.
Al di là della innegabile
difficoltà linguistica del passo, che si presenta sconnesso e
contraddittorio in verosimile esito di problematiche manipolazioni, è
ben possibile leggere, nel suo fondo classico, i tratti essenziali della
fattispecie esaminata: si tratta di un’ipotesi in cui a determinarsi a
non mobilitare il processo è l’uno di due liberi exheredati, che repudiantis
animo non venit ad accusationem
inofficiosi testamenti. In sostanza, uno dei due figli del testatore
intende rispettare la volontà del padre: egli, cioè, non intende dolersi
del testamento che ne dispone l’exheredatio,
sicché solo il fratello, pure exheredatus,
propone la querela. Una volta che la
domanda di quest’ultimo sia accolta, sorge la questione di diritto su cui
Paolo si sofferma: giova al fratello querelante la rinuncia
all’impugnazione, che si risolve in sostanziale rinuncia a
‘divenire’ erede, dell’altro?
La risposta di Paolo emerge tra
notevoli difficoltà testuali.
È verosimile che la
criticità del testo, a seguire l’esegesi del Voci[18],
consegua ad un tentativo di superare, in sede compilatoria, le tracce di un ius controversum che avrebbe
contrapposto all’opinione di Papiniano – proclive a ritenere che,
qualora di due exheredati agisca uno
solo di essi, questi possa conseguire non già l’intera
eredità, ma unicamente la propria quota[19]
– a quella di Paolo, la quale appare semmai orientata, come si diceva,
nel senso che exheredatus partem non
facit ogni qual volta egli «non voglia o non possa ottenere la sua
quota»[20], con
conseguente operatività del meccanismo dell’accrescimento.
Su un punto, in particolare,
trovo convincente la lettura del Voci: il passo, secondo l’insigne
Autore, «riguarda la rinuncia di uno tra gli eredi necessari. Questa
rinuncia giova agli altri: exheredatus
non facit partem»[21].
Il che impone, peraltro, alcune precisazioni.
Se questa è, infatti,
l’elaborazione paolina del caso, a mio parere è come se il
giurista dicesse che l’alter ex
liberis exheredatis che agisce nel disinteresse implicante repudium del fratello a rigore non
rivendicherebbe recte l’universa hereditas, in quanto
l’esito dell’impugnazione, travolgendo l’intero testamento,
determinerebbe la chiamata ab intestato
anche di quest’ultimo; nondimeno, la sentenza centumvirale
presenterà un’auctoritas rei
iudicatae che ha qui un valore soggettivo ‘pregnante’, nel
senso che – pur se implicitamente – il iudicatum individua inequivocabilmente il vincitore non soltanto
come destinatario della vocazione legittima, ma più precisamente come
unico soggetto cui la stessa possa dirsi riferibile.
Consegue, cioè, al
giudicato il fatto che egli debba considerarsi giuridicamente l’unico
figlio del testatore[22]:
l’animus repudiantis del
fratello, in altre parole, fa di quest’ultimo un semplice terzo, al quale
è come tale opposta l’auctoritas
rei iudicatae[23].
Si spiega così
l’apparente contraddizione – conseguenza, a mio parere, di un
infelice rimaneggiamento, che peraltro non sembra precludere
l’intelligenza del passo, piuttosto che di un diretto intervento
compilatorio dovuto alla condivisione, negli ambienti giustinianei, della
posizione di Papiniano[24]
– tra l’universam hereditatem
non recte vindicare ed il rei
iudicatae auctoritate uti. Ed allora, proprio perché Paolo va alla
ricerca di un percorso euristico suscettibile di giustificare la sua distanza, in
ragione della peculiarità della fattispecie esaminata, dalla lettura di
Papiniano, in questo caso è come se i centumviri abbiano fatto affidamento – crediderint – sul fatto che il querelante fosse l’unico
figlio del de cuius, nel momento in
cui lo hanno reso intestato[25].
Ancora una volta, dunque, l’argomentazione del giurista – tutta
interna al ius civile, nella
prospettiva dell’individuazione dei confini del giudicato e della
conformazione ad esso – s’incentra sul verbo credere: possiamo dire, anzi, che la giustificazione teorica
sottesa dall’intero ragionamento di Paolo – condotto, giova
ribadire, con riferimento alla sentenza centumvirale[26]
– fa leva sulla polarità tra ‘credere’ e ‘fieri’
/ ‘facere’, suscettibile
di incidere, a seconda del contesto, ora sulla configurabilità della testamenti factio (fr. 7.1), ora
sull’in rebus humanis esse nunc (fr.
7 pr.)[27]
di un filius del testatore.
Tirando le fila di questa prima
ricognizione, sarebbe allora lecito chiedersi se sia possibile scorgere in
questo ragionamento i dati essenziali di uno svolgimento, storico e
sistematico, che dia conto almeno di uno dei punti di partenza che,
dall’esperienza romana, condurranno alla configurazione contemporanea
della giurisdizione costitutiva, così da prospettarsi, seppur in nuce, i presupposti logici che
porteranno all’attuale meccanismo della ‘Anfechtung’, specie
nel momento in cui la querela
diverrà, progressivamente, una procedura cognitoria extra ordinem[28].
La risposta a questo interrogativo, come vedremo, deve essere, almeno a mio
parere, in senso positivo: occorre peraltro, prima di suggerire una qualche
conclusione, approfondire il discorso su alcuni importanti svolgimenti di epoca
antoniniana cui sinora abbiamo fatto solo qualche breve cenno.
Come abbiamo visto a conclusione
del discorso avviato nel paragrafo precedente, Paolo introduce, nel tratto
delle Quaestiones confluito in D.
5.2.17.1, un’importante precisazione, sulla quale dobbiamo ora
adeguatamente soffermarci. In esito all’epistula dei divi fratres,
di cui si è detto e di cui ora ulteriormente diremo, la sententia iudicis può ius facere solo se pronunciata
all’esito di un processo connotato da un «regolare
contraddittorio»[29]:
è sin troppo evidente che la preoccupazione della cancelleria imperiale,
con riferimento a questa casistica, era quella di vanificare – lo
accennavamo poc’anzi – un’eventuale collusione tra querelante
ed erede testamentario, in danno degli onorati a titolo particolare. Vediamo
dunque la soluzione normativa alla quale era pervenuta la cancelleria imperiale
in epoca antoniniana, ricordata in un passo di Ulpiano confluito nel l. XIV
dell’ad edictum che ce ne
tramanda una significativa traccia testuale:
Ulp. 14 ad ed. D. 49.1.14.1: Quotiens herede non
respondente secundum adversarium sententia datur, rescriptum est nihil nocere
neque legatis neque libertatibus. et hoc divorum fratrum epistula continetur ad
Domitium in haec verba: quod absente
possessore nec quoquam nomine eius respondente pronuntiatum est, non habet rei
iudicatae auctoritatem nisi adversus eum solum qui adesse neglexerit. quare
his, qui testamento libertates vel legata vel fideicommissa acceperunt, salvae
sunt actiones, si quas habuerunt, perinde ac si nihil esset iudicatum: < ?
> et ideo adversus eum qui vicit permittimus eis agere < ? >.
Dal frammento emerge con
chiarezza che la sentenza centumvirale[30]
resa in assenza di regolare contraddittorio non ha l’auctoritas rei iudicatae se non adversus
eum solum qui adesse neglexerit: la sentenza rescindente, in altri termini,
finisce, in questi casi, per avere un’efficacia soggettivamente limitata
alle parti del processo, per modo che restano salvae le actiones
spettanti a chi, per avventura, possa veder pregiudicate le proprie ragioni da
un’ipotetica rilevanza erga omnes
della sentenza stessa.
Sul punto, ad ogni modo, mi pare
difficile sostenere che i legatari, i fedecommissari ed i servi manomessi «avrebbero potuto agire, disconoscendo il
contenuto della sentenza e ponendo nuovamente in discussione la questione
dell’inofficiosità del testamento»[31]:
ritengo, infatti, che, se le rispettive actiones
sono salvae, l’inopponibilità
della sentenza rescindente per vulnus
alla regolarità del contraddittorio non imponesse loro un siffatto
onere, e che la giurisprudenza a cavaliere tra II e III secolo abbia inteso
addentrarsi – lo mostra bene proprio il discorso di Paolo in D. 5.2.17.1,
che appunto considero sostanzialmente genuino[32]
– per le vie che, nella casistica considerata, giustificano il competere delle libertates e la tutela dei
legata.
Ma chi dovrebbe essere il
legittimato passivo di queste pretese? L’erede testamentario, che
però non potrebbe contare sul patrimonio ereditario, in quanto inter partes il testamento è
rescisso? Oppure l’erede ‘necessario’ ab intestato?
Per quanto possa apparire
paradossale, a conservare il testo del passo di Ulpiano nel suo tratto finale[33],
quanto meno come traccia di un più ampio discorso che doveva figurare
nel richiamo al provvedimento imperiale[34],
la soluzione – in adesione all’esegesi del Voci[35]
– parrebbe proprio questa: le actiones
originariamente esperibili contro l’erede testamentario restano salvae avverso l’erede
‘necessario’, ovvero il vincitore divenuto erede ab intestato, che è quindi
naturale destinatario della pretesa dei legati e fedecommessi, così
come, per estensione di questo principio, deve ritenersi unico legittimato al
contraddittorio in eventuali processi de
libertate. Siamo di fronte ad una lettura in cui riecheggia, a mio parere,
la clausola si quis omissa causa
testamenti ab intestato possideat hereditatem, inserita dal Lenel[36]
nel titolo XXVI, De testamentis,
della sua ricostruzione dell’editto perpetuo. Così come, infatti,
il pretore poneva rimedio alla calliditas
di quanti eludessero la vocazione testamentaria in danno, principalmente, degli
onorati a titolo particolare, analogamente la contumacia nel processo
centumvirale, di per sé sola determinante l’eventum litis, è considerata dalla cancelleria imperiale
indice sintomatico di un’analoga calliditas.
Ed allora, la peculiarità
della soluzione voluta dai divi fratres
si apprezza in particolare non tanto ove sia preteso un legato ad effetto
reale, quanto nell’ipotesi della tutela apprestata per i legati
obbligatori: l’actio ex testamento,
cioè, per apparente paradosso è salva avverso un erede non testamentario, ed è verosimile
che – in ragione appunto dell’inconfigurabilità dell’auctoritas rei iudicatae se non adversus eum solum qui adesse neglexerit
– fosse concessa perinde ac si
nihil esset iudicatum mediante la tecnica formulare della trasposizione dei
soggetti, in modo che nell’intentio
figurasse l’heres
(testamentario) soccombente nella querela
in quanto contumace, e nella condemnatio
il relativo vincitore, ovvero l’heres
(‘necessario’) ab
intestato.
Nel quadro sinora emerso, se
l’inconfigurabilità dell’effetto caducatorio erga omnes della sentenza è
assoluta nell’ipotesi del contraddittorio irregolare, non eccessivamente
divergente è la soluzione nella peculiare eventualità del iudicium perlusorium: siamo forse qui
alle origini dell’impugnazione della sentenza per collusione in danno di
terzi[37].
Consideriamo, infatti, il principium del passo di Ulpiano, di cui
ci siamo occupati poc’anzi:
Ulp. 14 ad ed. D. 49.1.14 pr.: Si perlusorio
iudicio actum sit adversus testamentum, an ius faciat iudex, videndum. et divus
Pius, cum inter coniunctas personas diceretur per collusionem in necem
legatariorum et libertatium actum, appellare eis permisit. et hodie hoc iure
utimur, ut possint appellare: sed et agere causam apud ipsum iudicem, qui de
testamento cognoscit, si suspicantur non ex fide heredem causam agere.
Nell’ipotesi, tenuta
presente in più loci paralleli
nel Digesto[38], di
impugnazione testamentaria dolosamente promossa – per collusione
intervenuta inter coniunctas personas,
ovvero tra soggetti che ben possono avere una convergenza d’interessi
alla conservazione dell’asse all’interno della cerchia familiare
– in danno dei legatari e delle liberationes
legatae, Ulpiano – che con ogni probabilità discuteva,
diversamente da quanto si è ipotizzato per il fr. 14.1, di
un’ipotesi processuale riferibile alla cognitio extra ordinem[39]
– ci informa di un’altra costituzione imperiale, con la quale
Antonino Pio[40] aveva
concesso ai servi manomessi ed ai
legatari il rimedio dell’appello[41],
e comunque – parrebbe – una possibilità di intervento di
costoro davanti al medesimo giudice investito della cognizione sul testamento[42].
Al di là della
indubbiamente problematica configurazione espositiva del passo[43],
il complessivo andamento del discorso induce a ritenere che, salva la reazione dei
soggetti che potrebbero subire un pregiudizio, la sentenza è comunque
astrattamente idonea a ius facere, a
differenza del caso della contumacia dell’heres scriptus intimato: in quest’ultimo caso, cioè,
la collusione tra querelante ed erede testamentario che non si difende e
determina così invariabilmente l’esito della causa è
valutata in re ipsa; nondimeno,
un’analoga soluzione non viene seguita per l’ipotesi, ben
difficilmente dimostrabile, di collusione processuale intervenuta in un
contesto connotato da un contraddittorio apparentemente regolare. Mentre,
dunque, nell’ipotesi della contumacia la sentenza produce effetti
‘costitutivi’ unicamente nei confronti del querelante e del
controinteressato che adesse neglexerit,
in tutti gli altri casi l’auctoritas
rei iudicatae si configura erga omnes,
pur assicurando ai soggetti da essa virtualmente pregiudicati un meccanismo di
reazione.
Esaminati i presupposti
processuali per l’integrazione erga
omnes dell’auctoritas rei
iudicatae, siamo ora in grado di valutare se la giurisprudenza romana abbia
elaborato, con riferimento alla casistica dell’impugnazione
testamentaria, meccanismi di conformazione al giudicato. La risposta a questo
interrogativo è, a mio parere, in senso positivo: già abbiamo
visto l’emersione di un percorso interpretativo in questa direzione nella
soluzione di Paolo confluita in D. 5.2.17 pr., che mostra come l’auctoritas rei iudicatae non si risolva
in automatismi del sistema, ma imponga semmai all’interpretatio dei giuristi di individuare di volta in volta
soluzioni che, come è ovvio che sia, creano esse stesse diritto.
Al riguardo, è
interessante osservare come, accanto al regime civilistico
dell’invalidità testamentaria per la praeteritio dei sui, contribuisca ad un’apertura nel
senso del superamento del dogma classico dell’alternatività tra
vocazione ab intestato e vocazione
testamentaria[44] la querela inofficiosi testamenti esperita
con esito alterno – quanto Ulpiano considerava tutto sommato frequente[45]
– avverso una pluralità di heredes
testamentari.
In disparte i testi che assai
genericamente alludono alla ‘vittoria parziale’ del querelante[46],
mi pare significativo per la nostra indagine un passo di Papiniano:
Papin. 14 quaest. D. 5.2.15.2: Filius, qui de
inofficiosi actione adversus duos heredes expertus diversas sententias iudicum
tulit et unum vicit, ab altero superatus est, et debitores convenire et ipse a
creditoribus conveniri pro parte potest et corpora vindicare et hereditatem
dividere: verum enim est familiae erciscundae iudicium competere, quia credimus
eum legitimum heredem pro parte esse factum: et ideo pars hereditatis in
testamento remansit, nec absurdum videtur pro parte intestatum videri.
In questa ipotesi, un filius impugna, verosimilmente davanti
ai centumviri[47],
il testamento nei confronti di due eredi. Non sappiamo se si tratti di heredes extranei o meno: nondimeno,
parrebbe ragionevole congettura ipotizzare che solo il soccombente sia extraneus, quanto potrebbe forse
contribuire a giustificare per quale ragione delle due querelae una sola venga accolta.
La particolarità della
fattispecie[48] consente,
a mio parere, di escludere, in linea di principio, un vero e proprio contrasto[49]
– almeno su questo punto – tra la posizione di Papiniano e quella
di Paolo, che parrebbe radicarsi su una casistica differente[50].
A mio parere, infatti, altro è la querela
separatamente esperita contro due soggetti, che si risolva in un esito
processuale antinomico[51],
di cui ora ci occuperemo; altro la querela
esperita vittoriosamente in conseguenza della contumacia della controparte e
quindi in assenza di una valutazione ‘di merito’ da parte del
giudice centumvirale (Paul. D. 5.2.17.1)[52];
altro ancora la valutazione della posizione dell’exheredatus che non intenda impugnare repudiantis animo (Paul. D. 5.2.17 pr.)[53].
Ciò chiarito, può
dirsi che «la vittoria parziale esclude l’erede istituito, che
è stato vinto, dalla successione: la sua quota è acquistata, ab intestato, dall’erede
necessario, con la conseguenza che coesistono due eredi, l’uno ex testamento, l’altro ab intestato. Salvo il titolo,
ch’è diverso, la posizione dell’uno è uguale a quella
dell’altro: l’erede necessario rivendica pro parte le cose ereditarie, conviene i debitori, è
convenuto dai creditori, può esperire l’azione di divisione
dell’eredità»[54].
In sostanza, ottenute due
distinte sentenze, di cui una sola favorevole al filius querelante, emerge una regola di conformazione al giudicato
rescindente, secondo la quale egli risulta legitimus
heres (ovvero, erede
‘necessario’ e ab intestato) pro parte: non può non essere heres, perché una sentenza
travolge il testamento; non può esserlo per l’intero, in quanto
una seconda sentenza lo ‘conferma’. Il giurista elabora questo
risultato conformativo all’interno del ius civile: l’opzione secondo cui – come è noto
– nemo pro parte testatus pro parte
intestatus decedere potest non è ritenuta un dogma immutabile[55]
nel momento in cui è lo stesso ius
civile a fornire all’interpretatio
i dati essenziali per ricamarne il perimetro.
Ed in quest’ordine di
idee, la caducazione – a questo punto soggettivamente parziale –
del testamento rappresenta il rescindente che apre le porte ad un rescissorio,
costituito dalla legittimazione all’actio
familiae erciscundae per ottenere la divisione della quota[56].
Si rileverà poi, al riguardo, come anche Papiniano correli ad un credere la giustificazione della
configurazione del rescissorio: l’azione divisoria spetta non già
perché il vincitore sia ‘tout court’ erede ab intestato, ma semmai quia credimus eum legitimum heredem pro
parte esse factum.
Egli, in sostanza, non
‘è’ erede legittimo: riteniamo – dice il giurista
– che lo sia ‘divenuto’.
Qui il giurista, ad ogni modo,
fa riferimento ai creditori, non anche ai legatari. Per i creditori, a ben
vedere, è del tutto indifferente il regime della vocazione: e difatti,
un diverso meccanismo governa – sempre secondo Papiniano – la sorte
dei legati, che sono – come dire – ‘parzialmente’
validi[57],
come risulta bene da
Papin. 7 resp. D. 31.76 pr.: Cum filius divisis
tribunalibus actionem inofficiosi testamenti matris pertulisset atque ita
variae sententiae iudicum exstitissent, heredem, qui filium vicerat, pro
partibus, quas aliis coheredibus abstulit
filius, non habiturum praeceptiones sibi datas, non magis quam ceteros
legatarios actiones, constitit. sed libertates ex testamento competere placuit,
cum pro parte filius de testamento matris litigasset. quod non erit trahendum
ad servitutes, quae pro parte minui non possunt: plane petetur integra servitus
ab eo qui filium vicit, partis autem aestimatio praestabitur: aut si paratus erit
filius pretio accepto servitutem praebere, doli summovebitur exceptione
legatarius, si non offerat partis aestimationem, exemplo scilicet legis
Falcidiae.
nonché da un rescriptum della cancelleria di
Gordiano, che mostra di seguire – pur se, con ogni probabilità,
ormai nel solco della cognitio extra
ordinem[58] –
la linea tracciata da Papiniano per il giudizio centumvirale[59]:
Imp. Gordianus A.
Prisciano C. 3.28.13: Cum duobus heredibus institutis, uno ex quinque, altero
ex septem unciis, adversus eum qui ex septem unciis heres scriptus fuerat iusta
querella contendisse, ab altero autem victum fuisse adlegas, pro ea parte, qua
resolutum est testamentum, cum iure intestati qui obtinuit succedat, neque
legata neque fideicommissa debentur, quamvis libertates et directae competant
et fideicommissariae praestari debeant (a. 239).
Esaminiamo separatamente i due
testi.
Nel primo caso, un filius impugna, con separate iniziative
processuali, il testamento della madre nei confronti di una pluralità
– che la fonte lascia indeterminata – di eredi testamentari
controinteressati, uno dei quali vince la causa, ottenendo la conferma della
propria istituzione. In linea di principio, quest’ultimo non può
pretendere i legati per praeceptionem
disposti a suo favore a carico delle partes
che il querelante ha ottenuto dagli altri coeredi: stessa soluzione è
data per le actiones spettanti agli
altri legatari. Dunque i legati restano a carico delle partes riferibili alla vocazione testamentaria confermata
all’esito della controversia, per modo che, come si diceva, sono
‘parzialmente validi’. Il caso reale doveva riguardare, con ogni
probabilità, la sorte di legati ad effetto traslativo: sicché il
giurista chiarisce come spettino le libertates
disposte in via testamentaria, per il favor
che le assiste; e come, nondimeno, l’ontologica indivisibilità
della libertas legata non offra un buon modello ricostruttivo anche per
l’attribuzione per legato di diritti reali che l’esperienza
giuridica romana considera indivisibili, come le servitutes. In quest’ultima evenienza, secondo Papiniano, petetur integra servitus, salvo l’aestimatio partis protetta dall’exceptio doli, secondo il modello della lex Falcidia.
Veniamo ora all’ipotesi
prospettata alla cancelleria imperiale, che risponde per rescriptum. In questo caso, la querela
viene esperita avverso due eredi testamentari: nei confronti dell’uno,
istituito per 7/12, il testamento è rescisso; nei confronti
dell’altro, istituito per 5/12, è confermato. Anche in questo
caso, è verosimile che il soccombente sia un heres extraneus, istituito per una quota, i 7/12, di poco superiore
alla metà dell’asse, laddove l’erede istituito per i 5/12
sarà stato forse nel novero dei liberi
del testatore. In questo quadro, il querelante vittorioso succede ab intestato per 7/12, escludendo dalla
successione l’erede testamentario soccombente: si avrà dunque un
erede ab intestato
‘necessario’ per 7/12, ed un erede testamentario per 5/12. A
ritenere, dunque, fondata la nostra congettura, ed a considerare
quest’ultimo un figlio del testatore, gli risulterebbe attribuita una
quota ‘fisiologica’ dell’hereditas,
che supera di 1/6 la quarta[60].
Secondo la cancelleria
imperiale, a questo punto, è solo nei confronti dell’erede
testamentario che le azioni dei legatari e dei fedecommissari saranno
esperibili.
L’interpretatio detta, quindi, una ben precisa regola di
conformazione al giudicato: con riferimento ai legati per damnationem, l’obbligazione, originariamente parziaria[61],
in capo all’erede testamentario soccombente viene meno, mentre rimane
coercibile, nei limiti della quota, nei soli confronti dell’heres scriptus la cui vocazione sia
confermata. Il passo non pare riferirsi a legati ad effetto traslativo: dando,
tuttavia, per plausibile – lo si diceva poc’anzi – che la
sentenza favorevole ottenuta dal querelante travolga l’istituzione di un heres extraneus, è possibile
immaginare la configurazione di una comunione incidentale – da
sciogliersi con l’actio communi
dividundo – tra l’erede ‘necessario’ vincitore ed
il legatario, salva la peculiarità dei diritti reali indivisibili e del favor libertatis che fa ancora una volta
salvae le pretese anche nei confronti
dell’erede ab intestato, che
quindi può essere costretto alla manumissio
al di là della riconfigurazione della vocazione.
Siamo così giunti a
vedere gli albori dell’idea dell’efficacia erga omnes del giudicato demolitorio di atti[62].
Con essa, almeno una volta superato il giudizio centumvirale a favore delle
più duttili forme della cognitio
extra ordinem, emerge altresì, come ora immediatamente vedremo, la
necessità della scadenza del termine per proporre appello perché
la sentenza possa appunto ius facere:
quanto, di recente, hanno stabilito – accogliendo in sostanza una tesi
dottrinale minoritaria – le sezioni unite della Cassazione[63].
Esaminiamo, dunque, un altro passo di Ulpiano, tratto sempre dal l. XIV
dell’ad edictum:
Ulp. 14 ad ed. D. 5.2.8.16: Si ex causa de
inofficiosi cognoverit iudex et pronuntiaverit contra testamentum nec fuerit
provocatum, ipso iure rescissum est: et suus heres erit secundum quem iudicatum
est et bonorum possessor, si hoc se contendit: et libertates ipso iure non
valent: nec legata debentur, sed soluta repetuntur aut ab eo qui solvit, aut ab
eo qui optinuit et haec utili actione repetuntur. [fere autem
si ante controversiam motam soluta sunt, qui optinuit repetit]: et ita divus
Hadrianus et divus Pius rescripserunt.
Ulpiano, con ogni
probabilità, discorreva genericamente di controversie avverso testamento
inofficioso mobilitate mediante la procedura extra ordinem[64],
che doveva aveva iniziato a soppiantare il processo centumvirale già di
buon’ora[65], nei primi
decenni del II secolo.
In questo quadro, è in
linea di principio plausibile ritenere che, così come le constitutiones principum fanno parte dei
iura populi Romani con forza di lex, cum
ipse imperator per legem imperium accipiat (Gai 1.5), anche le cognitiones extra ordinem, che del
potere normativo imperiale sono il riflesso processuale, esprimano in questo
momento storico il ‘nuovo atteggiarsi’ dell’ordinamento di
una civitas che si identifica
nell’Impero: è nel ius novum[66]
imperiale, e nelle correlate forme processuali, che comincia ora «ad
esplicarsi l’attività interpretativa dei giuristi e della stessa
cancelleria imperiale»[67];
ed allora è in questo senso che il testamento è rescisso ipso iure – ovvero,
ancorché magari «ausnahmweise»[68],
secondo l’ordinamento della civitas
– una volta decorso il termine per l’impugnazione della sentenza.
È appunto l’interpretatio
che indica nel vincitore il suus heres od il bonorum possessor, quasi a configurare un risultato conformativo
alla regola dettata dal provvedimento; è l’interpretatio che configura il rescissorio, precisando che le libertates non valgono ipso iure, e che i legati pervenuti
all’onorato testamentario devono essere restituiti.
Il testo, al riguardo, parrebbe
presentare una qualche criticità espositiva[69],
che peraltro non preclude l’intelligenza del discorso del giurista: egli,
invero, prospetta un punto di specifico interesse per la nostra indagine,
rappresentato dalla tutela restitutoria utilis,
sulla quale dovremo ora soffermarci.
Come accennavo, la
configurazione del rescissorio non rappresenta un automatismo del sistema, ma
richiede una specifica elaborazione dei prudentes,
che devono risolvere alcuni problemi alquanto significativi. Al riguardo,
però, occorre una precisazione, che ci consentirà di riallacciare
il discorso alla prospettiva che avevamo evidenziato all’avvio del nostro
percorso d’indagine.
Il giurista afferma, infatti,
che i legati repetuntur, precisando
che soggetto legittimato ad esperire il rimedio restitutorio può essere,
a seconda dei casi, l’erede testamentario che abbia adempiuto
l’obbligazione di dare, od il
vincitore della causa, cioè l’erede ‘necessario’; e
che a tal fine è riconosciuta un’azione utilis. Io credo che questa indicazione sia classica: ciò
significa, a mio parere, che is qui
solvit – ovvero chi era erede testamentario, e ‘non è
più’ heres – potrà ripetere i legati per damnationem attribuiti con risorse
proprie, ove si consideri che questa figura di legato era normalmente adoperata
«per attribuire al legatario cose che non si trovavano
nell’eredità, sia appartenessero ad un terzo sia che fossero
dell’erede stesso»[70];
e che, per converso, is qui optinuit
– l’heres
‘necessario’, cioè chi è divenuto heres per aver vinto la causa –
può ripetere non solo l’eventuale attribuzione di legati per damnationem a suo tempo adempiuti
dall’heres scriptus con beni
ereditari, sicché alius solvit
alius repetit, ma altresì, e comunque, i legati sinendi modo.
In sostanza, il criterio discretivo
per individuare il legittimato attivo alla condictio
utilis è dato dalla funzione pratica che quest’ultima assume
in concreto: ove risulti strumentale alla ricostituzione dell’asse,
può esperirla in qui optinuit;
ove risulti semplicemente strumentale al recupero del dominium ingiustamente perduto, può esperirla il solvens in quanto tale. Ed allora
l’ulteriore precisazione, indicata tra quadre[71],
per cui ‘di solito’ questa tutela è data all’erede
‘necessario’ per l’ipotesi di adempimento dei legati ante controversiam motam a me pare
frutto di un glossema rientrato nel testo[72]
in un contesto culturale che, per un verso, già tendeva a sovrapporre la
querela alla hereditatis petitio[73],
e per altro verso sentiva come indispensabile una sinapsi testuale con un
tratto dell’ad Sabinum
confluito in D. 12.6.2.1, in cui il giurista ricordava solamente il rescriptum di Adriano, che doveva aver
dato il via agli interventi imperiali sul punto.
In quella sede, infatti,
Ulpiano, muovendo dall’individuazione di tratti comuni ad una
pluralità di patologie testamentarie, poneva sullo stesso piano, sub specie
dell’esperibilità di un rimedio restitutorio onorario,
l’adempimento del legato in forza di testamentum
riconosciuto successivamente falsum, inofficiosum, irritum o ruptum, e
ricordava come al vincitore la cancelleria di Adriano avesse accordato –
per il caso del testamento falsum o inofficiosum – un rimedio
restitutorio utilis:
Ulp. 16 ad Sab. D. 12.6.2.1: Si quid ex
testamento solutum sit, quod postea falsum vel inofficiosum vel irritum vel
ruptum apparuerit, repetetur, vel si post multum temporis emerserit aes
alienum, vel codicilli diu celati prolati, qui ademptionem continent legatorum
solutorum vel deminutionem per hoc, quia aliis quoque legata relicta sunt. nam
divus Hadrianus circa inofficiosum et falsum testamentum rescripsit actionem
dandam ei, secundum quem de hereditate iudicatum est.
Prima di esaminare il passo con
specifico riferimento al punto per noi centrale, costituito dalla ragione per
la quale le figure d’invalidità ricordate dal giurista siano
sottese da un comune denominatore, si rendono necessarie alcune considerazioni
preliminari.
Innanzitutto, nel caso del
testamento falsum o inofficiosum la patologia
dell’atto emerge in un secondo momento quasi ‘per
definizione’: probabilmente, sarà stata poi la giurisprudenza ad
estendere la ratio del rescriptum anche alle figure del testamentum irritum o ruptum, di cui si abbia successiva
cognizione[74].
In secondo luogo, non mi pare
forse necessario dilungarsi eccessivamente sull’apparente distanza in
ordine alla configurazione della legittimazione attiva al repetere emergente dai due passi ulpianei: in chiave conservativa,
si può osservare che in D. 12.6.2.1 – tanto più che
ignoriamo quanto, per avventura, sia stato compresso il frammento in sede
compilatoria – Ulpiano parrebbe ricordare solo il rescriptum di Adriano che accorda il rimedio restitutorio utile al
vincitore della causa per l’ipotesi del testamento falsum o inofficiosum; e
che in D. 5.2.8.16 egli ricorda, invece, rescripta
sia di Adriano, sia di Antonino Pio. Mi pare plausibile ritenere, allora, che
in un primo momento la cancelleria imperiale abbia riconosciuto l’azione
utile in capo al vincitore della causa, e che Ulpiano, nell’ad Sabinum, ricordasse solo il rescriptum adrianeo in quanto intervento
‘leading’ della cancelleria imperiale in materia. Non
sopravvaluterei, in questo quadro, il riferimento al momento della controversia mota che figura nel
denunziato glossema[75]:
la cancelleria di Antonino Pio, a mio parere, deve aver arricchito
l’originaria soluzione normativa così da riconoscere la tutela utilis anche in capo
all’originario heres scriptus,
evidentemente per l’ipotesi in cui avesse adempiuto legati con risorse
estranee all’asse, come poc’anzi ho ipotizzato,
nell’irrilevanza, ai fini del condicere,
del momento della mobilitazione della querela.
Nell’ad edictum, quindi, il giurista avrebbe semplicemente prospettato
il risultato attuale della normativa imperiale. D’altronde, egli era ben consapevole
di come la cancelleria, da Adriano ai divi
fratres, fosse intervenuta a più riprese per disciplinare aspetti
particolari della querela inofficiosi
testamenti: accanto ai rescripta
ricordati in Ulp. D. 12.6.2.1 e Ulp. D. 5.2.8.16, basti qui tener presenti gli
interventi dello stesso Antonino Pio prima, e dei divi fratres poi, circa i limiti soggettivi del giudicato nel caso
del contraddittorio irregolare (Ulp. D. 49.1.14 pr.-1), su cui ci siamo
ampiamente soffermati.
Interessa in modo particolare, a
questo punto, ragionare sul comune denominatore della casistica esaminata da
Ulpiano in D. 12.6.2.1, rappresentato dalla successiva scoperta (postea) della patologia e dalla natura
pretoria della tutela restitutoria, desumibile dal riferimento all’actio utilis (Ulp. D. 5.2.8.16) ed al dare actionem (Ulp. D. 12.6.2.1) in due
passi che parrebbero presupporre, come si diceva, la sentenza imperiale resa in
sede di cognitio extra ordinem[76]
quale presupposto della caducazione del testamento.
In questa prospettiva non saprei
– e penso che la questione debba di necessità rimanere aperta
– se la peculiarità della tutela rappresenti semplicemente un
superamento dell’ordinaria irripetibilità del legato per damnationem adempiuto perperam[77].
Anche ad orientarci nell’estrema genericità delle poche fonti a
nostra disposizione in merito[78],
questa regola, a mio parere, parrebbe presupporre che il solvens pur sempre adempia in qualità di erede
testamentario, in quanto – qualunque idea si abbia in ordine al
fondamento dell’esclusione della condictio[79]
– è alla sola persona dell’heres scriptus[80]
che vanno riferiti tanto il risultato liberatorio dell’eventuale solutio per aes et libram, quanto
l’antica soggezione alla manus
iniectio, cui si correla per età classica la litiscrescenza che
connota l’actio ex testamento:
di conseguenza, l’esclusione della possibilità di condicere parrebbe forse da collegare
all’adempimento in difetto dell’obbligazione di certum dare ex testamento per
invalidità non già del testamento stesso, che determinerebbe ipso iure l’apertura della
successione ab intestato[81],
quanto semmai della singola disposizione di legato. Ed allora, sarei più
proclive a ritenere che la particolarità della tutela in esame dipenda
dalla sua riferibilità ad un contesto suscettibile, seppur per diverse
ragioni, di determinare una vocazione testamentaria solamente interinale[82],
destinata, cioè, a venir meno ora in conseguenza del vittorioso
esperimento della querela tramite cognitio, ora nei casi della scoperta
del falsum, o del testamento irritum o ruptum.
La tutela è utilis, insomma, per via dell’apparere di una patologia in un primo
momento ‘latente’, che consegue al post multum tempus emergere del relativo presupposto: e la
giustapposizione del testamentum
inofficiosum a quello falsum, irritum o ruptum, vale a dire appunto a figure caducatorie necessariamente
percepibili postea, rappresenta il
viatico per il superamento di quanto avviene con la sentenza centumvirale, che
formalmente ‘dichiara una nullità’, e sostanzialmente
‘rescinde’. Giunti all’esperienza più matura della cognitio classica, cioè, si fa
ormai strada un’idea di ‘annullamento’, che travolge appunto ex post un atto ex ante produttivo di effetti: è un’idea
sostanzialmente analoga al meccanismo elaborato dalla dogmatica contemporanea
dell’impugnabilità, con conseguente emersione del problema della
irretroattività della sentenza imperiale, che fa da sfondo[83]
alla riflessione ulpianea di cui or ora ci siamo occupati.
Siamo ora in grado di tirare le
fila di questo discorso.
La via verso la nostra
configurazione della giurisdizione costitutiva, per quanto è dato qui
intuire, non può confinarsi solamente – come normalmente si
ritiene – nell’assorbimento della restitutio in integrum in un unico contesto processuale una volta
venuta meno la procedura formulare. È vero, cioè, che il giudice
dei tribunali dell’Impero finiva per divenire l’unico dominus tanto dell’originaria restitutio pretoria, quanto della tutela
che, su quel presupposto, veniva esperita nell’esperienza processuale
formulare; ed è pure vero che, per questa via, si è poi elaborata
l’idea medievale della distinzione – innanzitutto processuale
– tra iudicium rescindens,
demolitorio, e iudicium rescissorium,
restitutorio.
Ma è altresì vero
che quella stessa via finiva per essere già percorsa – specie a
considerare la querela inofficiosi
testamenti come una figura di cognitio
classica già nel II secolo – nella complessa materia
dell’invalidità testamentaria, e con spunti di notevole rilievo,
tanto più ove si consideri che, sempre in materia testamentaria, ad essa
si affianca la tutela costitutiva del fideicommissum
libertatis[84]: quegli
spunti che, non a caso, porteranno Giustiniano a ravvisare nel rapporto tra querela e petitio hereditatis, viste come due vie della giustizia confluenti
in un’unica strada maestra, un inscindibile nesso tra rescindente e
rescissorio, già chiaramente percepibile nel nesso che, per Papiniano,
legava la querela
all’esperimento dell’actio
familiae erciscundae.
Avec son étude l’Auteur clarifie que le droit romain a
progressivement reconnu, à l’époque classique, la
possibilité de demander une réelle annulation du testamentum
inofficiosum.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
* Il saggio sarà pubblicato
prossimamente anche a stampa, in
un’opera collettanea dedicata al tema del giudicato, curata da Luigi
Garofalo.
[1] Cfr., per le linee generali,
l’esposizione di A. Guarino,
Diritto privato romano, 12a ed.,
Napoli, 2001, 451 s., di M. Talamanca,
Istituzioni di diritto romano,
Milano, 1990, 768 s., e di M. Kaser,
Das römische Privatrecht, I, 2a
ed., München, 1971, 709 ss. Per un completo ragguaglio bibliografico, cfr.
D. Di Ottavio, Una bibliografia ragionata in tema di
‘querela inofficiosi testamenti’: schede di lettura, in Scritti di storia del diritto e bibliografia
giuridica offerti a G. Bonfanti, a cura di U. Petronio ed O. Diliberto,
Macerata, 2012, 81 ss.; per l’inquadramento dei principali filoni
dottrinali, cfr. ancora Ead., Ricerche in tema di ‘querela
inofficiosi testamenti’, I, Le
origini, Napoli, 2012, 1 ss.
[2] Cfr. esattamente M. Marrone, L’efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile
romano, in AUPA, XXIV, 1955, 103
ss.
[5] Mi riferisco
all’interessante indagine di H. Wieling,
Subjektive Reichweite der materiellen
Rechtskraft im römischen Recht, in ZSS,
CII, 1985, 291 ss.
[6] M. Marrone,
L’efficacia, cit., 57 ss., sospetta,
invece, della chiusa: mi pare plausibile che la precisazione sulla sorte dei
legati consegua all’interpretatio
che muoveva dalla svolta normativa dettata dalla costituzione dei divi fratres, ricordata da Ulp. D.
49.1.14.1. Avremo modo, comunque, di ritornare sul problema.
[8] Lo ricorda lo stesso Paolo in l. s. de inoff. test. D. 5.2.18; la
traccia testuale della costituzione imperiale è in Ulp. 14 ad ed. D. 49.1.14.1, su cui ritorneremo
in seguito: cfr. sul punto L. Di Lella,
‘Querela inofficiosi
testamenti’. Contributo allo studio della successione necessario,
Napoli, 1972, 247 ss., in particolare 252, e P. Voci, Diritto
ereditario romano, II, cit., 696 e nt. 87, 716 e nt. 44.
[9] Marco Aurelio assume il principato
insieme con il fratello Lucio Vero, morto nel 169, dall’anno 161: cfr. M.A. Levi - P. Meloni, Storia romana dalle origini al 476 d.C.,
Milano, 1986, 357 ss.
[12] Per P. Voci,
Diritto ereditario romano, II, cit.,
696, in questo caso «la sentenza non è frutto di una indagine sul
merito della causa e non fa stato se non tra le parti». Cfr. ancora M. Talamanca, Istituzioni, cit., 298.
[13] Cfr. di recente L. Gagliardi, ‘Decemviri’ e ‘centumviri’. Origini e
competenze, Milano, 2002, 233.
[17] Mi riferisco a Claud. not. ad Scaev. XVIII dig. D. 32.36: Nec fideicommissa ab intestato data debentur
ab eo, cuius de inofficioso testamento constitisset, quia crederetur quasi
furiosus testamentum facere non potuisse, ideoque nec aliud quid pertinens ad
suprema eius iudicia valet, ed a Scaev. 3 resp. D. 5.2.13: Titia filiam
heredem instituit, filio legatum dedit: eodem testamento ita cavit: ea omnia quae supra dari fieri iussi, ea dari
fieri volo ab omni herede bonorumve possessore qui mihi erit etiam iure
intestato: item quae dari iussero, ea uti dentur fiantque, fidei eius committo.
quaesitum est, si soror centumvirali
iudicio optinuerit, an fideicommissa ex capite supra scripto debeantur.
respondi: si hoc quaeratur, an iure eorum, quos quis sibi ab intestato heredes
bonorumve possessores successuros credat, fidei committere possit, respondi
posse. Paulus notat: probat autem nec fideicommissa ab intestato
data deberi, quasi a demente. È in questo quadro che si comprende, a
mio parere, il significato del credere:
le due note a Scevola, l’una di Trifonino l’altra di Paolo,
mostrano una ben precisa assonanza, nella quale il testatore non risulta
né demens né furiosus; semmai, è come se lo
fosse. Sul punto cfr. essenzialmente M. Marrone,
L’efficacia, cit., 48 ss. e 52
ss. (anche per quanto concerne il rapporto tra Paolo e Scevola, difficilmente
ricostruibile pensando ad una citazione generica della competenza centumvirale
in Scaev. D. 5.2.13, come suggerisce J.M. Ríbas-Alba,
La desheredación injustificada en
derecho romano. ‘Querela inofficiosi testamenti’: fundamentos y
regimen clásico, Granada, 1998, 170 s.), e P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 684 ss.
[19] La posizione di Papiniano era ricordata e
condivisa da Ulp. 14 ad ed. D.
5.2.8.8: Quoniam autem quarta debitae
portionis sufficit ad excludendam querellam, videndum erit an exheredatus
partem faciat qui non queritur: ut puta sumus duo filii exheredati. et utique
faciet, ut Papinianus respondit, et si dicam inofficiosum, non totam
hereditatem debeo, sed dimidiam petere. proinde si sint ex duobus filiis
nepotes, ex uno plures, tres puta, ex uno unus: unicum sescuncia, unum ex illis
semuncia querella excludit.
[22] Cfr. H. Wieling,
Subjektive Reichweite, cit., 302 s.
e, soprattutto, M. Marrone, L’efficacia, cit., 69.
[23] Cfr. E. Betti,
D. 42, 1, 63. Trattato dei limiti soggettivi
della cosa giudicata in diritto romano, Macerata, 1922, 461 ss., in
particolare 465 s.
[25] Così, in particolare, M. Marrone, ‘Querela inofficiosi testamenti’ (Lezioni di Diritto
Romano), s.l., 1962, 114 s.
[27] Che, a mio parere, va inteso nella
prospettiva (cfr. M.V. Sanna, La rilevanza del concepimento nel diritto
romano classico, in SDHI, LXXV,
2009, 163 ss. e ntt. 65, 66 e 67) secondo cui le espressioni ‘in rerum natura’ e ‘in rebus humanis’ non sono
equivalenti: «se tutto ciò che è in rebus humanis» - scrive M.V. Sanna, op. cit.,
164 s. – «è sicuramente in
rerum natura, non tutto ciò che è in rerum natura è necessariamente in rebus humanis. Il concetto di rerum natura pare, dunque, indicare la realtà
oggettivamente, anche da un profilo naturalistico». Ne consegue che, sul
piano oggettivo e naturalistico, il testatore ha due liberi; sul piano delle res
humanae, la sentenza centumvirale ne riconosce uno soltanto.
[30] Così, a mio parere esattamente, M.
Marrone, L’efficacia, cit., 60 ss.; e comunque E. Renier, Étude sur l’histoire de la ‘querela inofficiosi
testamenti’ en droit romain, Liège, 1942, 282 ss.; L. Di Lella, ‘Querela inofficiosi testamenti’, cit., 148, nt. 46; N.
Palazzolo, Potere imperiale ed organi giurisdizionali nel II secolo d.C. L’efficacia
processuale dei rescritti imperiali da Adriano ai Severi, Milano, 1974,
234, nt. 62; F. Arcaria, ‘Oratio Marci’. Giurisdizione e
processo nella normazione di Marco Aurelio, Torino, 2003, 38 e nt. 31.
Pensa alla cognitio extra ordinem,
invece, L. Gagliardi, ‘Decemviri’, cit., 350 e nt.
617 (per questa ipotesi, cfr. fondamentalmente E. Eisele, Zur
‘Querela inofficiosi’, in ZSS,
XV, 1894, 274 e 277 ss.).
[33] Escludendo, quindi, che gli onorati a
titolo particolare «avrebbero dovuto agire piuttosto contro l’erede
testamentario soccombente» (M. Marrone,
L’efficacia, cit., 61, nt.
113): egli, a ben vedere, non disporrebbe del patrimonio ereditario.
[34] Più che ad ipotizzare l’interpolazione,
come suggerisce M. Marrone, L’efficacia, cit., 61 e nt. 113.
[36] O. Lenel, Das Edictum perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung3,
Leipzig, 1927, 363 ss.
[38] Si tratta di Ulp.14 ad ed. D. 49.1.14 pr., Ulp. 6 opin. D. 5.2.29 pr., Marcian. 1 de appell. D.
49.1.5.1, su cui cfr. M. Marrone,
L’efficacia, cit., 469 ss., e quindi
D. Liebs, ‘Ulpiani Opinionum libri VI’, in TR, XLI, 1973, 298, e R. Yaron,
Semitism in Ulpian?, in TR, LV, 1987, 7.
[40] Siamo dunque alla metà del II
secolo: il principato di Antonino Pio è negli anni 138-161. Cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 716 e nt. 45; M. Marrone, L’efficacia, cit., 84 e nt. 166.
[41] Si correlano a questo testo Marcian. 1 de appell. D. 49.1.5.1-2; Ulp. 5 opin. D. 5.2.29 pr.; Impp. Diocl. et
Max. AA. Rhizo, a. 293: cfr. sul punto K.P. Müller-Eiselt,
‘Divus Pius constituit’. Kaiserliches
Erbrecht, Berlin, 1982,
120 ss.
[42] Il che pone il problema del processo con
pluralità di parti, che si tende a ritenere proprio già
dell’esperienza classica, anche con riferimento al processo formulare:
cfr. per tutti M. Kaser - K. Hackl,
Das römische Zivilprozeßrecht,
2a ed., München, 1996, 208 s. e 484, con letteratura.
[44] Cfr. G. Coppola,
Nascita e declino dell’adagio
‘nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest’,
in TSDP, V, 2012, §§ 5 e 6;
non dimenticherei, inoltre, l’impatto dell’ellenismo giuridico,
come suggerisco in Un singolare
testamento privo della ‘heredis institutio’: il cosiddetto
‘Testamentum porcelli’ tra ‘fabulae Milesiae’ ed
ellenismo giuridico, in BIDR,
CI-CII, 1998-1999 (ma pubbl. 2005), 812 ss.
[49] Lo ipotizza in particolare L. di Lella, ‘Querela inofficiosi testamenti’, cit., 201 ss.,
ricordando, oltre Paul. D. 5.2.17 pr.-1, anche Paul. D. 5.2.19, Paul.-Scaev. D.
5.2.13 e Paul. D. 5.2.32.2 Sul punto cfr., criticamente, J. Ribas-Alba, Una pretendida controversia entre Papiniano – Ulpiano y Paulo: en
torno a D. 5.2.19 (Paulo, 2 quaest.) y una hipótesis sobre la
legítima, in Iura, XXXIX,
1988, 75 ss.
[55] Cfr.
esattamente B. Schmidlin, ‘Regula iuris’: Standard, Norm
oder Spruchregel? Zum hermeneutischen Problem des Regelverständnisse,
in Festschrift für M. Kaser zum 70.
Geburtstag, herausgegeben von D. Medicus und H.H. Seiler, München,
1976, 109, ed amplius Id., Sinn, Funktion und Herkunft der Testamentsregeln: ‘nemo pro parte
testatus pro parte intestatus decedere potest’ - ‘hereditas adimi
non potest’, in BIDR,
LXXVIII, 1975, 73 ss.; analogamente, P. Capone,
Valore ed uso giurisprudenziale di
‘absurdus/e’, in SDHI,
LXIII, 1997, 254 ss.; diversamente, A. Wacke,
Die Rechtswirkungen der ‘lex
Falcidia’, in Studien im
römischen Recht M. Kaser zum 65. Geburtstag gewidmet von seine Hamburgern
Schülern, herausgegeben von D. Medicus und H.H. Seiler, Berlin, 1973,
237, ritiene che la regola nemo pro parte
testatus, pro parte intestatus decedere potest «wird in diesem
Sonderfall durchgebrochen».
[59] Che parrebbe sicuro, secondo M. Marrone, L’efficacia, cit., 54, per il tratto in Papin. D. 31.76 pr.;
incerto per quello in Papin. D. 5.2.15.2 (per questo dubbio M. Marrone, op. cit., 86, nt. 174 e 474 s.; ma cfr. ora con plausibile esegesi,
per la riferibilità anche di quest’ultimo passo al processo
centumvirale, L. Gagliardi, ‘Decemviri’, cit., 218, nt.
266 e 228, nt. 290).
[60] Cfr. sul punto A. Sanguinetti, Dalla
‘querela’ alla ‘portio legitima’. Aspetti della
successione necessaria nell’epoca tardo imperiale e giustinianea,
Milano, 1996, 47 ss.
[62] Con riferimento a Papin. D. 5.2.15.2 ed a
Ulp. D. 5.2.8.16, di cui ci occuperemo in questo paragrafo, cfr. specificamente
H. Wieling, Subjektive Reichweite, cit., 297 s. e 305 s.
[63] Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n.
4059, in Foro it., 2010, I, 2082, ed
in Giur. it., 2010, 753; sul
dibattito in dottrina in ordine alla sufficienza o meno, a fronte di pronunce
costitutive, della possibilità di anticipazione degli effetti rispetto
al giudicato ex art. 282 cod. proc. civ.,
cfr. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Nozioni introduttive e disposizioni generali,
20a ed., Torino, 2009, 84 e nt. 66a, e 184 e nt. 56; Id., Diritto
processuale civile, II, Il processo
di cognizione, 20a ed., Torino, 2009, 314 ss., e specificamente 316, nt.
37, con letteratura (l’Autore segue l’orientamento dottrinale
maggioritario di segno opposto alla soluzione adottata dalle Sezioni Unite, che
criticano la propria precedente pronuncia – la quale aveva trovato consensi
in dottrina – Cass. 3 settembre 2007, n. 18512, in Riv. es. forz., 2007, 581). Le Sezioni Unite, in ultima analisi,
sostengono esattamente – ed in piena consonanza con quanto scrive, pure
esattamente, C. Consolo, Una buona ‘novella’, cit.,
740-742 – che la giurisdizione costitutiva, quale che sia l’azione
esperita, in tanto può produrre il risultato modificativo di cui
all’art. 2908 cod. civ., in quanto la sentenza sia passata in giudicato
(cfr. C. Consolo, op. cit., 741); e che – per
conseguenza logica – i capi condannatori connessi possono avere efficacia
esecutiva provvisoria ex art. 282
cod. proc. civ. solo nel caso in cui la stessa non determini una perturbazione
dell’assetto d’interessi sostanziale che la sentenza stessa mira a
realizzare, avendo come punto di riferimento l’esito fisiologico della
vicenda privatistica (cfr. ancora C. Consolo,
op. cit., 741; sicché,
appunto, è insuscettibile di efficacia esecutiva il capo condannatorio
per il prezzo sino a quanto non divenga definitiva l’attribuzione
traslativa ex art. 2932 cod. civ.,
mentre è suscettibile di provvisoria esecuzione il capo condannatorio in expensis). In sostanza,
l’aspetto processualistico della questione non può, ove il
provvedimento sia costitutivo, stravolgere il dato sostantivo che presuppone il
giudicato sostanziale, rilevante ex
artt. 2908 e 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ. (cfr. ancora C. Consolo, op. cit., 741): una siffatta lettura finirebbe per privilegiare in
termini apoditticamente omologanti la disciplina, puramente processuale,
dell’esecuzione provvisoria. Ne consegue che, in quest’ordine di
idee, va rigorosamente tenuto distinto l’effetto costitutivo della
sentenza, che in ogni caso si produce solo con il giudicato sostanziale; e
l’idoneità all’esecuzione ex art. 282 cod. proc. civ. dei (singoli ed eventuali) capi
condannatori ulteriori, da individuarsi caso per caso (sarebbe possibile questa
soluzione, ad esempio, per quanto concerne i capi condannatori che accedono ad
una sentenza di revocazione ex art.
2901 cod. civ., non essendo configurabile, in conseguenza, una perturbazione
dell’assetto d’interessi sostanziale nell’ottica del rapporto
tra il revocante e le parti dell’atto impugnato, in quanto la revocatoria
determina unicamente, come noto, l’inopponibilità del medesimo al
creditore che invochi vittoriosamente questo rimedio. Su questi aspetti, mi sia
consentito di rinviare a quanto dico in La
figura legislativa della caducazione del contratto ed il modello della
‘restitutio in integrum’, in Contratto pubblico e princìpi di diritto privato, a cura di
C. Cicero, Padova, 2011, 58 ss. (confermo qui, in particolare, quanto ipotizzo
ivi, alla nt. 66).
[64] L. Gagliardi,
‘Decemviri’, cit., 230
s.; M. Marrone, L’efficacia, cit., 453 ss.; K.P. Müller-Eiselt, ‘Divus Pius constituit’,
cit., 105; diversamente, ipotizza l’interpolazione J.M. Ríbas-Alba, La desheredación, cit., 164.
[66] Per questa impostazione, anche
terminologica, seguo A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5a
ed., Napoli, 1990, 388 ss., in particolare 391 s.
[67] N. Palazzolo,
Processo civile e politica giudiziaria
nel Principato. Lezioni di diritto romano2, Torino, 1991, 87.
[68] Cfr. A. Wacke,
Die Rechtswirkungen, cit., 218, nt.
46; cfr. quindi, più di recente, A.F.
de Buján, La
legitimación de los parientes colaterales privilegiados en la
impugnación del testamento inofficioso, in SDHI, LV, 1989, 102.
[69] Pur senza doversi così pervenire
alla critica radicale di P. Voci,
Diritto ereditario romano, II, cit.,
688 ss.
[71] Per l’espunzione cfr. E. Betti, D. 42,1,63, cit., 469, nt. 1; S. Solazzi,
Glosse a Gaio, in Studi in onore di S. Riccobono, I,
Palermo, 1936, 187, nt. 362.
[72] Pur non negando più ampi
rimaneggiamenti, tendo ad escludere sospetti tanto forti quanto quelli di P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 688 ss.
[73] L’espressione ‘controversiam movere’, infatti,
rappresenta per diritto classico il «fondamento della legittimazione
passiva alla petitio hereditatis del
debitore ereditario (e del possessore a titolo singolare)»: cfr. M. Talamanca, Studi sulla legittimazione passiva alla ‘hereditatis
petitio’, Milano, 1956, 141 ss. La ‘fusione’ tra la querela e la hereditatis petitio – nel senso che la prima rappresenta, in
unico contesto processuale, il giudizio rescindente collegato alla seconda, in
funzione di rescissorio – è il punto d’arrivo di un percorso
che si configura appieno nel VI secolo: cfr. G. Pugliese, Istituzioni
di diritto romano, 3a ed., con la collaborazione di F. Sitzia e L. Vacca,
Torino, 1991, 950 s.
[74] Analogamente I. Fargnoli, ‘Rescripsit
actionem dandam’. Sulla ripetibilità del legato ‘per
damnationem’, in Labeo,
XLVII, 2001, 264 s.; espunge da vel si
post a relicta sunt K.P. Müller-Eiselt, ‘Divus Pius constituit’,
cit.,110 ss.
[75] V’insistono, invece, M. Marrone, L’efficacia, cit., 459 s., e I. Fargnoli, ‘Rescripsit
actionem dandam’, cit., 262 s., che ne condivide gli assunti (nella
medesima prospettiva, cfr. anche K.P. Müller-Eiselt,
‘Divus Pius constituit’,
cit., 117 s.): secondo queste letture, la cancelleria imperiale, tenendo conto
della disciplina del sc.um Iuventianum
del 129, avrebbe alla fine legittimato il vincitore a ripetere i legati
adempiuti ante controversiam motam, e
l’heres scriptus soccombente a
ripetere quelli da lui adempiuti post
controversiam motam. Questa esegesi non mi persuade: non si valuta,
infatti, se possa considerarsi rilevante il fatto che l’adempimento dei
legati avvenga con risorse dell’asse o meno (d’altro canto, nel
glossema non leggiamo che ‘il vincitore ripete’ i legati pagati ante controversiam
motam, ma semmai che ‘di solito’ li ripete
‘qualora’ adempiuti prima della controversia). Per altro verso,
poi, il sc.um Iuventianum disciplina la legittimazione passiva alla petitio hereditatis per l’ipotesi
del possesso di mala fede della hereditas
(per tutti A. Burdese, Manuale di diritto privato romano, 4a
ed., Torino, 1993, 693; M. Talamanca,
Istituzioni, cit., 704; Id., Studi, cit., 111 ss.): escludendo, in linea di principio, che
potesse considerarsi possessore di mala fede il bonorum possessor sine re (M. Talamanca,
Istituzioni, cit., 704), non vedrei
una via convincente – sarebbe di per sé insufficiente la semplice
proposizione della querela –
per considerare possessore di mala fede l’heres scriptus, che proprio ad opera della cancelleria di Antonino
Pio (M. Talamanca, Istituzioni, cit., 674), per
l’ipotesi appunto della bonorum
possessio, avrebbe avuto la difesa per exceptio
doli avverso l’heres ab intestato.
D’altronde, è pur sempre evidente come nei testi ulpianei in esame
si discuta dell’esperibilità non già della hereditatis petitio avverso il dolo desinens possidere, ma semmai della
condictio avverso il legatario accipiens. In questa chiave, a mio parere,
la legittimazione alternativa alla condictio
parrebbe sottendere un quadro normativo secondo il quale il vincitore nella querela, che esperisse la hereditatis petitio avverso l’heres scriptus, non avrebbe potuto ottenere da quest’ultimo, in quanto possessore
di buona fede che nei rapporti con i legatari rischia la condanna in duplum, i legati medio tempore adempiuti: a ricostituzione dell’asse, la
normativa imperiale avrebbe offerto in via utilis
al vincitore, invece, la condictio
indebiti.
[77] V’insiste P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 689, riconoscendo al discorso
sulla restituzione dei legati in Ulp. D. 5.2.8.16 un «contenuto di
origine classica» correlabile alla regola
dell’irripetibilità del legato obbligatorio adempiuto perperam; seppur per diversa via, cfr.
K.P. Müller-Eiselt, ‘Divus Pius constituit’,
cit., 107 s.; più di recente
I. Fargnoli, ‘Rescripsit actionem dandam’, cit., 258 ss., in
particolare 261 s.
[78] Gai 2.282 e 4.9; Tit. Ulp. 24.33; Diocl.
et Max. C. 4.5.4 e C. 4.5.7, interpolato con riferimento al legato, entrambe
del 293: cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 785
e, soprattutto, l’ampia indagine di I. Fargnoli,
‘Rescripsit actionem dandam’,
cit., 252 ss., con altra letteratura; nonché, per un’ipotesi
alternativa, A. Saccoccio, ‘Si certum petetur’. Dalla
‘condictio’ dei ‘veteres’ alle
‘condictiones’ giustinianee, Milano, 2002, 82 ss.
[81] Sicché, in tal caso, non vi
sarebbe ragione per negare la condictio:
chi adempie un legato ritenendosi erroneamente heres dà vita, a mio parere, ad una ordinaria figura
d’indebito; chi l’adempie essendo heres, ma nell’errore sulla validità del legato, non
può ripetere.