Le basi romanistiche dell’appropriazione indebita: nota di commento
a Cass. 4 settembre 2012 n. 33623 (*)
Università
Cattolica di Milano
Lo spunto del presente lavoro
nasce da una sentenza della Corte di Cassazione, della sesta sezione penale (4
settembre 2012 n. 33623) in cui gli ermellini si pronunciano sul ricorso
proposto avverso la sentenza emessa in data 25 febbraio 2010 dalla Corte
d’Appello di Venezia, citando espressamente nella motivazione l’istituto del
deposito necessario o miserabile, che secondo quanto esposto nella massima
ufficiale della Suprema Corte, è un istituto risalente al diritto romano,
«considerato quando una persona in stato di pericolo grave era costretta ad
affidare i suoi beni al primo venuto».
Il mio scopo è dunque
approfondire le basi romanistiche dell’appropriazione indebita ed in
particolare dell’istituto del deposito necessario e se quest’ultimo sia
presente nei codici vigenti, ovviamente passando anche attraverso l’utilizzo
che di tale istituto di radici romanistiche fa il giudice di Cassazione ed
ancor prima il tentativo da parte dell’avvocato dell’imputato di farne applicazione
nel caso di specie.
Si precisa che l’imputato aveva
optato per il rito abbreviato, rito previsto, come noto, dagli artt. 438 e ss.
c.p.p. Il giudice decide dunque allo stato degli atti al termine dell’udienza
preliminare: si salta infatti il dibattimento e si decide sulla base di quanto
confluito fino a quel momento nel fascicolo del pubblico ministero e sulla base
delle prove assunte nell’udienza ex art. 442 c.p.p.[1]. Come previsto dal II
comma dell’art. 442 c.p.p. la pena in caso di condanna è diminuita nella misura
fissa di un terzo, diversamente da un altro rito abbreviato – il patteggiamento
– dove la pena è diminuita fino ad un terzo[2].
Riassumendo brevemente il
fatto, deciso definitivamente nel settembre 2012 con la sentenza succitata, si
era verificato un incidente stradale ed il telefono cellulare, appartenente
alla vittima del sinistro automobilistico, era rimasto nell’abitacolo
dell’automobile. Il maresciallo dei carabinieri, intervenuto con la pattuglia
di cui era a capo, se ne impossessa, utilizzandolo e facendolo utilizzare con
schede sim diverse ad alcuni colleghi.
Il processo si è instaurato a
seguito della denuncia della sorella del proprietario del cellulare che era
stato portato in ospedale, denuncia scaturita dal mancato ritrovamento del
cellulare stesso nell’abitacolo dell’automobile.
In primo grado, con sentenza
emessa il 27 settembre 2005 il G.U.P. del Tribunale di Padova ha dichiarato il
maresciallo dei carabinieri colpevole del delitto di peculato, disciplinato
dall’art. 314 c.p., per essersi impossessato di un telefono cellulare,
all’epoca dei fatti di ultima generazione (del valore di un milione e duecento
cinquanta mila)[3],
in occasione dell’intervento effettuato in qualità di maresciallo dei
carabinieri capo equipaggio. L’avvocato dell’imputato aveva provato a
sostenere, per quanto attiene alle questioni pregiudiziali, la carenza di
giurisdizione e la competenza del Tribunale militare. Tale tesi viene però
respinta sia in primo grado che in appello, che infine in Cassazione.
Per quanto riguarda il merito,
l’avvocato dell’imputato sosteneva che si trattasse di oggetto detenuto[4] a titolo di deposito
necessario, laddove l’evento eccezionale che aveva appunto reso “necessario” il
deposito al maresciallo, era costituito dall’incidente stradale. Sosteneva
l’avvocato che il proprietario del cellulare fosse impossibilitato a custodirlo
in quanto portato in ospedale a seguito dell’incidente stradale.
Il giudice di primo grado ha
ritenuto integrato nel caso in esame il delitto di peculato, sussistendo i
presupposti di cui all’art. 314 c.p.: in particolare la qualifica di pubblico
ufficiale ed il possesso per ragioni del proprio ufficio.
Infatti il maresciallo ha la
disponibilità materiale dell’oggetto in quanto intervenuto come capo equipaggio
della pattuglia sul luogo del sinistro per gli opportuni accertamenti sulla
dinamica e gli esiti dell’incidente stradale. Utilizzando il cellulare, secondo
quello che scriverà il giudice di primo grado, il maresciallo ha messo in atto
una interversio possessionis[5].
Il giudice di primo grado
osserva che l’oggetto materiale del reato di cui il carabiniere si è
appropriato non è cosa appartenente all’amministrazione militare, ma ad un
privato cittadino, di conseguenza il fatto doveva sussumersi o nel reato di
peculato comune (art. 314 c.p.) o nel
reato di furto aggravato. Il p.m. ha optato per la prima alternativa e così
anche il Tribunale di primo grado di Padova.
In secondo grado preliminarmente
viene stabilito che non si poteva applicare al caso in esame l’art. 235
c.p.m.p. comma 2, che punisce in forma aggravata il fatto appropriativo
commesso «su cose possedute a titolo di deposito necessario o appartenenti
all’amministrazione militare» (pagina 2 della sentenza).
La Corte d’Appello ha ritenuto
non qualificabile come deposito necessario la materiale disponibilità del
cellulare sottratto dal maresciallo dei carabinieri, dato che la disponibilità
non si è verificata per un evento straordinario ed imprevedibile, quale la
difesa supponeva dover qualificarsi il sinistro stradale, ma unicamente con
riguardo allo svolgimento dei compiti istituzionali del sottoufficiale
imputato, intervenuto con una pattuglia automontata dell’arma per svolgere gli
accertamenti di rito sulla dinamica e gli esiti dell’incidente stradale. In
conclusione la disponibilità deriva da un’attività funzionale del carabiniere.
Non può applicarsi l’art. 235 c.p.m.p. che prevede l’appropriazione indebita
militare: quest’ultimo è applicabile nel caso in cui un militare si appropria
di beni di un altro militare.
La Corte di Cassazione conferma
la sentenza di appello, ponendo in più l’accento sull’art. 113 Cost., di cui la
difesa dell’imputato deduceva la violazione. Il suddetto articolo stabilisce
che in tempo di pace la regola è la competenza, in materia di giurisdizione,
del Tribunale ordinario e l’eccezione è la competenza del Tribunale militare.
Pertanto nel caso di specie la competenza è del primo, non essendosi verificato
il fatto in tempo di guerra.
Tornando all’istituto del
deposito necessario, del quale la sentenza offre lo spunto di trattare, esso
non è disciplinato nel codice civile vigente.
Al deposito necessario è invece
dedicata la sezione V (rubricata appunto “Del
deposito necessario”) del libro III dedicato ai “Modi di acquisto della
proprietà”, del codice civile del 1865. L’art. 1864 c.c. definisce il deposito
necessario come “quello a cui uno è costretto da qualche accidente, come un
incendio, una rovina, un saccheggio, un naufragio o altro avvenimento non
preveduto”. Il successivo articolo precisa che il deposito necessario è
sottoposto alle stesse regole del deposito volontario, eccezion fatta per
quanto previsto dall'art. 1348 c.c. Il suddetto articolo (=1348) prevede
un’eccezione rispetto a quanto disposto dall’art. 1346 c.c. per le domande
giudiziali: queste da qualsiasi causa procedano, se non interamente
giustificate per iscritto, devono essere proposte nello stesso giudizio (I
comma art. 1346 c.c.). “Le domande proposte in giudizi successivi non possono
provarsi per testimoni” (II comma).
Un’eccezione a tali regole[6] è prevista appunto per il
caso in cui al creditore non sia stato possibile procurarsi una prova scritta
dell’obbligazione contratta a suo favore ovvero nel caso in cui il creditore
abbia perso il documento costituente prova scritta, in conseguenza “di un caso
fortuito impreveduto e derivante da forza maggiore”. Tali ipotesi possono
verificarsi ad esempio, come specificato nel II comma dell’art. 1348 c.c., in
caso di deposito necessario (l’articolo usa il plurale “i depositi necessari”),
cioè quello fatto in caso d’incendio, rovina, tumulto o naufragio, nonché nei
depositi «fatti dai viaggiatori negli alberghi dove alloggiano, od ai vetturini
che li conducono, e tutto ciò secondo la qualità delle persone e le circostanze
del fatto». Altre ipotesi sono previste dai punti 1° e 3° del citato articolo
1348 c.c.
Tali ipotesi, che fanno
eccezione insieme a quelle previste dall’art. 1347 c.c. alle regole previste
dall’art. 1346 c.c., enunciate nel II comma del suddetto articolo (=1348 c.c.),
come precisato dalla dottrina e dalla giurisprudenza dell’epoca, non sono
tassative. Ciò si dedurrebbe dall’espressione «ogniqualvolta»: quindi basta
dimostrare l’impossibilità di procurarsi una prova scritta per essere ammessi
alla prova per testimoni. La giurisprudenza enuncia alcuni casi in cui ciò può
avvenire. Ad esempio quando chi vuole produrre la prova non fece parte del contratto
o dell’atto sul quale esiste controversia (Cass. Torino, 26 maggio
Per quanto riguarda il caso
fortuito, a cui fa riferimento il II comma dell’art. 1348 c.c. la giurisprudenza
dell’epoca ha specificato che esso non va confuso con la forza maggiore.
Infatti nel primo sono ricompresi gli eventi derivanti da forze naturali,
mentre la seconda è un effetto di un atto dell’autorità o di un terzo,
legittimo o illegittimo. Di conseguenza, il solo smarrimento del titolo, dovuto
a negligenza del suo possessore, non rientra nella disposizione eccezionale in
commento[7].
Sono contenuti nella sezione V
del codice abrogato anche gli artt. da 1866 a 1868 c.c. che disciplinano il
deposito presso gli osti e gli albergatori. Tali articoli sono stati
esplicitamente abrogati con regio decreto-legge 12 ottobre 1919 n. 2099. La
materia è stata infatti disciplinata dagli artt. 11-15 di tale decreto.
La definizione di deposito
necessario che si trova nell’art. 1864 del c.c. del 1865 rispecchia quella
contenuta in D.16.3.1 §§1-4, dove Ulpiano riporta il testo dell’editto
introduttivo dell’actio depositi in
factum. Il giurista cita tra virgolette le parole del pretore: l’oggetto
del deposito necessario è ciò che sia stato depositato a causa di tumulto, di
incendio, di rovina o di naufragio. In tali casi il pretore accorda al
depositante un’azione in duplum, cioè
per il doppio del valore della cosa, contro il depositario che non abbia
restituito la cosa depositata o l’abbia restituita danneggiata, che equivale a
non averla restituita con dolo[8]. Mentre in caso di
deposito volontario è accordata un’azione in
simplum, per il semplice valore della cosa.
Il §1 (D.16.3.1) distingue a
seconda che la mancata restituzione sia avvenuta per dolo di chi sia morto, nel
qual caso contro il suo erede sarà esperibile un’actio in simplum; o per dolo dell’erede stesso: in questo caso il pretore
accorda un’azione per il doppio[9].
Ulpiano commenta nel §2
(D.16.3.1) che il pretore giustamente ha tenuto distinte le cause di deposito
necessario da quelle di deposito volontario: le prime sono quelle «che
contengono un motivo fortuito che ha spinto a deporre», non dipendente dalla
volontà, ma derivante dalla necessità. Nel §3 si specifica che colui che
deposita a titolo di deposito necessario non ha altro motivo per deporre che un
pericolo imminente dovuto alle ipotesi sopra descritte. Nel §4 si trova
esplicitata la ratio della
distinzione di cause[10] e della differenza di
condanna, come detto, in simplum ed in duplum. Infatti in caso di deposito
volontario il deponente ha la possibilità di scegliere la persona alla quale
affidarsi e di conseguenza, in caso di mancata riconsegna e di conseguente
condanna del depositario, «dovrà accontentarsi del simplum»[11]. Qualora invece il
deposito sia avvenuto in conseguenza di una pressante necessità (deposito
necessario), il fatto che il depositario non restituisca è ritenuto più grave:
egli compie un crimen perfidiae più
grave. Di conseguenza la “publica
utilitas” esige un intervento repressivo. Nei casi di deposito necessario
la violazione della fides è contraria
all’utilitas[12]. La maggior gravità sopra
descritta comporta che il depositario sarà condannato al doppio del valore
della cosa depositata.
In D.16.3.18 Nerazio[13], sempre con riferimento
al deposito effettuato in caso di incendio, rovina o naufragio, specifica che
l’azione contro l’erede, nel caso in cui la mancata restituzione sia imputabile
a dolo del defunto, sarà in simplum,
nei limiti della quota ereditaria ed esperibile entro un anno. Nel caso invece
di dolo dell’erede l’azione in duplum è
data per l’intero ed “in perpetuum”.
Un riferimento all’actio in duplum in caso di deposito
necessario si trova anche nel titolo X della Mosaicarum et Romanarum legum collatio[14], dove si distingue, per
quanto riguarda le tipologie di azioni, tra comodato e deposito: l’azione di
comodato spetta sempre in simplum,
mentre l’azione di deposito vero
nonnumquam in duplum, specificamente in caso di deposito necessario, del
quale sono elencati i casi (rovina, naufragio, incendio o tumulto).
Probabilmente tale condanna più
severa costituisce un retaggio del fatto che il deposito nel diritto romano non
nacque come contratto. Infatti la legge delle XII tavole (Pauli Sent., II.12.11; Coll.
X.7.11) sanzionava come delitto l’infrazione della fides da parte di colui che si era assunto l’impegno di custodire e
restituire la cosa ricevuta. «Come la fiducia, come il comodato, come il pegno,
il deposito percorse una fase iniziale in cui fu privo di riconoscimento e
difesa contrattuale. Rei vindicatio, actio poenalis ex lege XII tabularum, actio
legis Aquiliae per i deterioramenti imputabili al depositario, sono i mezzi
processuali concessi originariamente al deponente»[15].
In Coll. X, 7, 11 infatti si trova scritto che in base alla legge
delle XII tavole è data un’azione in
duplum, dall’Editto del pretore in
simplum.
Nel secondo libro delle Pauli Sententiae[16] (Coll. X.7.3) si afferma
che è da ritenersi che sia concluso un deposito (deponere videtur) nel caso
in cui taluno depositi presso un altro, con scopo di custodia, avendo paura di
una rovina, di un incendio o di un naufragio. In Coll. X.7.6 si precisa che la responsabilità per le cose depositate
è limitata al dolo (dolus tantum
praestari solet).
Il Massetto osserva che «con il
deposito necessario si è in effetti nel campo penale, per quanto riguarda la
tutela giudiziaria», in quanto penale è il carattere dell’actio in duplum concessa al deponente per far valere le proprie
pretese in giudizio. L’Autore osserva poi che i giuristi intermedi, pressochè
concordemente, definiscono tale azione poenalis,
ovvero mixta, in quanto contiene la persecutio sia della cosa oggetto del
deposito che della pena[17].
Lo stesso Autore ricorda l’influenza
del diritto romano in tema di deposito necessario sull’art. 1949 del Code
Napoleon. Infatti tale articolo «dopo aver detto dell’incendio, del crollo, del
saccheggio, lascia all’interpretazione la cura di apprezzare gli altri
avvenimenti di forza maggiore che sottomettono l’autore ad una imperiosa
necessità»[18].
Il riferimento all’actio mixta di deposito si trova in
Inst. 4.6.17. Qui Giustiniano dopo
aver fatto presente le azioni che hanno lo scopo di rivendicare una cosa sono
tutte in rem e che anche le azioni in personam ex contractu hanno quasi
tutte lo scopo di perseguire la restituzione[19] si sofferma sull’actio depositi. Nel caso si agisca con
tale azione e il deposito sia avvenuto per causa di tumulto, di incendio, di
rovina o di naufragio il pretore dà l’actio
in duplum per dolo del depositario o per dolo del suo erede: in tal caso
l’azione è mista. Altro riferimento esplicito al deposito necessario nelle
Istituzioni di Giustiniano si trova in Inst.
4.6.23, laddove depositi ex quibusdam
casibus si riferisce ai casi di deposito necessario. Un riferimento all’actio in duplum di deposito si trova
anche in Inst. 4.6.26, affiancato
all’actio in duplum ex lege Aquilia[20]. Entrambe sono al contempo penali e reipersecutorie. La ratio dell’actio in duplum in caso di deposito necessario è ovviamente
diversa: si persegue sia l’interesse alla restituzione che quello alla
“punizione”, essendo come visto sopra più biasimevole il comportamento di chi
non restutisce una cosa depositata in caso di deposito necessario.
Nel codice penale vigente il
riferimento al deposito necessario è nel II comma dell’art. 646 c.p. che però
non lo definisce, pur considerandolo un’aggravante dalla cui applicazione
deriva la procedibilità d’ufficio del reato, al contrario di quanto previsto
nell’ipotesi base del reato di appropriazione indebita di cui al I comma
dell’art. 646 c.p., dove è prevista la procedibilità a querela[21]. Una recente dottrina[22] definisce il deposito
necessario previsto dal II comma dell’art. 646 c.p. come quel deposito che «si
costituisce sotto l’impero della necessità, senza avere alcuna libertà di
scelta (come nel caso di incendio, naufragio o altro avvenimento non
preveduto)»; dunque la ratio dell’aggravante
– di cui al II comma – risiederebbe nella particolare situazione in cui viene a
trovarsi il depositante: egli non ha la possibilità di scegliere con cautela la
persona del depositario. L’aggravante di cui al II comma dell’art. 646 c.p. è
speciale rispetto a quella del n. 5 dell’art. 61 c.p. Come è noto infatti sono
speciali le aggravanti previste per uno o più reati determinati. Si tratta di
un’aggravante ad efficacia comune, in quanto nel caso in cui non sia indicata
la misura dell’aumento di pena, questo deve essere inteso in misura frazionaria
fino ad un terzo, secondo quanto indicato nell’art. 64 c.p. A mio avviso, in
base alle ulteriori differenziazioni operate dalla dottrina, l’aggravante di
essersi appropriato di cose possedute a titolo di deposito necessario, può
essere considerata intrinseca, in quanto attiene alla condotta illecita, non
essendo infatti estranea all’esecuzione del reato; concomitante, in quanto
accompagna la condotta del reo.
Dall’applicazione
dell’aggravante costituita dall’essersi appropriato di cose possedute a titolo
di deposito necessario deriva dunque un aumento di pena (art. 646 capoverso).
Per l’ipotesi di cui al comma 3
dell’art. 646 c.p. la procedibilità è d’ufficio, anche se ricorre taluna delle
circostanze ex art. 61 n. 11 c.p., ossia nei casi di abuso di autorità, di
relazioni domestiche o d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, di
ospitalità. «L’aggravante si fonda sul concetto di abuso, da intendere come
violazione di un particolare dovere dell’agente o almeno come deviazione dal
medesimo. La ratio sta questa volta, nella maggior antisocialità e pericolosità
che il colpevole dimostra approfittando di contingenze eccezionali, della
diminuita difesa o della particolare fiducia che il soggetto passivo in lui
ripone»[23].
Altre ipotesi di appropriazione
indebita si trovano nell’art. 647 c.p., nell’art. 235 e 236 del c.p.mil.p. e
negli artt. 1144-1147 c.nav.[24]
In dottrina c’è chi come
l’Antolisei sostiene che l’aggravante, consistente nell’aver commesso il fatto
su cosa posseduta a titolo di deposito necessario, deve ritenersi ancora in
vigore nonostante l’abrogazione della norma di cui all’art. 1864 c.c. del 1865
e che il deposito necessario a cui fa riferimento il capoverso dell’attuale
art. 646 c.p. sia quello al quale il depositante è costretto a seguito di un
qualunque accidente, come un incendio, una rovina, un saccheggio, un naufragio
o un altro avvenimento imprevisto, «vale a dire il deposito che si costituisce
sotto l’impero della necessità, senza avere alcuna libertà di scelta». L’Autore
ritiene irrilevante ai fini penali che il nuovo codice civile non abbia
conservato la figura del deposito necessario, perché «il nostro codice con
l’espressione usata ha fatto richiamo alle situazioni di fatto che, secondo la
legislazione civile del tempo in cui andò in vigore, costituivano il detto
deposito, nella cui fattispecie…erano senza dubbio compresi anche gli
avvenimenti imprevedibili di carattere individuale»[25].
Il Fiandaca e il Musco dopo
aver affermato che per deposito necessario deve intendersi quello definito
dall’art. 1864 del codice abrogato, trattandosi di definizione tutt’ora valida,
precisano che «la “necessità” va concepita in senso non già assoluto ma
relativo». Ritengono poi, che «si tratta di una circostanza che trova
spiegazione nella impossibilità di presciegliere con ponderazione il
depositario»[26].
Dello stesso avviso il
Mantovani, il quale ritiene che «la ratio
dell’aggravante, speciale rispetto a quella dell’art. 61 n. 5, va
individuata nella impossibilità di scegliere con cautela il depositario. Il deposito necessario è – secondo la
definizione dell’art. 1864 del codice civile abrogato, tutt’ora valida, anche
se tale figura non fu conservata nel vigente codice civile, riferendosi l’art.
646 alla situazione di fatto espressa dalla legge civile dell’epoca – il deposito
costituito non liberamente, ma sotto l’impero della necessità (per qualche
incidente, come un incendio, una rovina, un saccheggio, un naufragio o altro
avvenimento non preveduto). Anche se la necessità va intesa in senso non
assoluto, ma relativo: come
costrizione all’affidamento, senza che sia esclusa ogni possibilità di scelta»[27].
Anche
altri Autori ritengono che la necessità vada intesa in senso relativo,
limitativo della libertà di scelta e che, in particolare, concernendo le
modalità dell’affidamento, abbia natura soggettiva[28]. Un’altra parte della
dottrina, commentando l’aggravante riguardante il deposito necessario, fa
esclusivo riferimento al deposito in albergo, di cui agli artt. 1783 ss. c.c.
vigente[29].
Recentemente la Suprema Corte, con sentenza del
settembre 2013, ha affermato che il contratto di albergo costituisce un
contratto atipico o misto, con il quale l’albergatore si impegna a fornire al
cliente, dietro corrispettivo, una serie di prestazioni eterogenee, quali la
locazione di alloggio, la fornitura di servizi o il deposito.
Una breve digressione per
ricordare come la storia del reato di appropriazione indebita è legata a quella
di un’altra fattispecie, che nel codice penale è disciplinata poco prima (artt.
624 e ss. c.p.). In origine, le condotte dell’uno e dell’altro reato,
confluivano in un’unica fattispecie criminosa e l’appropriazione veniva
indicata con il nome di furtum improprium:
un’offesa alla proprietà disgiunta dal possesso.
Una parte di dottrina risalente
individuava l’oggettività giuridica del reato di appriopriazione indebita nella
tutela del rapporto fiduciario tra il proprietario e la persona che doveva
restituire la cosa posseduta. Ciò sulla base della struttura della fattispecie contenuta
nel codice penale abrogato. Ad esempio il Petrocelli sostiene che la
caratteristica del reato consiste nella violazione della fiducia che è insita
nel rapporto da cui trae origine il possesso, giacchè l’art. 417 del codice
Zanardelli richiedeva un atto di affidamento o consegna[30].
Come si può notare osservando
l’attuale formulazione del reato di appropriazione indebita, non è più
necessario il requisito del previo affidamento dell’oggetto al depositario o
della consegna a quest’ultimo. Infatti la previsione della circostanza
aggravante consistente nell’appropriazione di cose detenute a titolo di
deposito necessario può essere intesa come indice del fatto che il rapporto di
fiducia, anche se ricorre nella maggior parte delle ipotesi, non è più elemento
indefettibile del reato. Nel caso risolto definitivamente dalla Corte di
Cassazione nel 2012, probabilmente non c’erano stati l’affidamento e la
consegna da parte della vittima dell’incidente automobilistico al carabiniere[31].
Nel codice penale vigente infatti
non figura più il requisito dell’affidamento o della consegna. Esso è stato
soppresso, come si rileva dalla Relazione ministeriale sul Progetto del codice
penale per ampliare la portata del delitto[32]. Dunque attualmente si
ritiene che oggetto giuridico dell’appropriazione
indebita siano le relazioni di proprietà e di godimento della cosa, visto che
soggetto passivo e quindi titolare del diritto di querela (nell’ipotesi di cui
al I comma dell’art. 646 c.p.) non è il solo proprietario[33].
La giurisprudenza maggioritaria
ritiene che la consumazione del reato si verifichi nel momento e nel luogo di
interversione del titolo del possesso[34] e cioè quando l’agente
tiene consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle
facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile con il diritto
del proprietario, in quanto significativo dell’immutazione del mero possesso in
dominio.
Altra giurisprudenza ritiene
invece che l’evento del reato si realizzi nel luogo e nel tempo in cui la
manifestazione della volontà dell’agente di fare proprio il bene posseduto
giunge a conoscenza della persona offesa, e non nel luogo e nel tempo in cui si
compie l’azione[35].
Anche nel peculato l’elemento
oggettivo consiste nell’appropriazione. Quest’ultima si realizza in sostanza
con l’interversione del titolo del possesso, quando il soggetto attivo inizia a
comportarsi uti dominus nei confronti
del bene o dei beni altrui di cui ha il possesso per ragioni d’ufficio o di
servizio[36].
È necessario rifarsi anche nel
caso dell’appropriazione indebita alla nozione di possesso accolta dal diritto
penale[37], più ampia di quella
civilistica, in base alla quale è possessore chiunque esercita un autonomo
potere di fatto sulla cosa, incluso chi ne abbia la sola detenzione, a qualsiasi
titolo, purchè esplicantesi al di fuori della diretta vigilanza del possessore
o di altri che abbia sulla cosa un potere giuridico maggiore. Ai fini della
distinzione con il furto è allora decisiva l’indagine circa il potere di
disponibilità sul bene da parte dell’agente: se questo sussiste, il mancato
rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità integra appropriazione
indebita; in caso contrario – e cioè in caso di sottrazione finalizzata a
conseguire quel possesso – è configurabile il furto.
Il Mantovani osserva che il «il
presupposto positivo del “possesso” nell’agente non è requisito essenziale e
qualificante della categoria unitaria dei reati di appropriazione, che
presentano come denominatore comune il presupposto negativo della mancanza della disponibilità materiale della
cosa altrui». L’Autore ritiene che il presupposto positivo del possesso da
parte dell’agente serva soltanto a differenziare, all’interno della categoria
dei reati appropriativi, i reati di appropriazione di cui agli artt. 646 c.p.,
235 c.p.mil.p. e 1144 cod. nav., «per i quali la legge richiede il presupposto
possessorio, da intendersi nel generico senso di disponibilità materiale della
cosa, come autonomo potere materiale sulla stessa»; dai reati minori di
appropriazione, di cui agli artt. 647, nn. 1 e 2 c.p., 1146 e 1147 cod. nav.,
per i quali la legge richiede soltanto particolari condizioni della cosa (cosa
smarrita, tesoro, relitti marittimi o aerei, nave naufragata o aeromobile
perduto) ed implicanti tutti la mancanza di disponibilità materiale della cosa,
vale a dire dell’autonomo potere materiale sulla stessa[38].
La condotta punita consiste
nell’appropriazione, tradizionalmente intesa, anche dalla stessa Relazione
ministeriale al progetto di codice penale, quale interversione del possesso.
Una parte della dottrina riconduce la condotta nello schema tracciato dagli
artt. 1141 e 1164 c.c. per descrivere il comportamento di chi, possedendo
inizialmente per conto di altri, comincia a possedere per conto proprio animo domini[39].
Sono necessari per
l’integrazione del reato in questione due profili dell’elemento oggettivo: uno
negativo, da Alcuni definito “espropriativo”, consistente nella definitiva
esclusione del proprietario, ed uno positivo, “impropriativo”, consistente
nella creazione di un nuovo rapporto di fatto con l’oggetto materiale
dell’azione.
La giurisprudenza e la dottrina
maggioritaria individuano un elemento psicologico nell’intenzione di convertire
il possesso in proprietà, che si affianca all’elemento oggettivo di comportarsi
nei confronti dell’oggetto di cui ci si è appropriati, uti dominus. Tale elemento psicologico va tenuto distinto dal dolo
specifico che è elemento soggettivo necessario per l’integrazione del reato.
Infatti come di recente precisato in giurisprudenza[40] il dolo richiesto è
specifico, consistendo nella coscienza e volontà del fatto appropriativo,
accompagnata dall’ulteriore fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto
profitto: un qualsiasi vantaggio o utilità, avente carattere non
necessariamente materiale o economico, purchè ingiusto.
Una parte della dottrina
risalente riteneva invece che il dolo fosse generico[41].
Anche nel reato di peculato
sono necessarie l’interversio
possessionis ed il comportamento uti
dominus dell’agente[42]. Infatti il delitto si
consuma quando il soggetto inizia a comportarsi nei confronti della res come se fosse proprietario.
Quanto alla differenza con il
reato di peculato, che viene in considerazione nel caso in esame, vi è in primo
luogo la qualifica richiesta per la configurazione del reato di cui all’art.
314 c.p., che lo rende un reato proprio, al contrario dell’appropriazione
indebita, reato comune, come si nota dall’incipit della norma che lo
disciplina: “chiunque…”[43].
In secondo luogo, mentre
nell’appropriazione indebita è sufficiente la mera disponibilità della cosa,
una semplice relazione materiale tra il soggetto autore della condotta e
l’oggetto di cui l’agente intende appropriarsi, nel peculato è necessario un
titolo giuridico per effetto del quale il soggetto attivo abbia conseguito la
disponibilità del denaro o della cosa. Nel caso di cui alla sentenza in
commento, come sopra esposto, il carabiniere aveva titolo giuridico per essere
in possesso del cellulare.
Oggetto giuridico della tutela
penale nel peculato, è non solo la tutela del regolare funzionamento e del
prestigio degli enti pubblici ma anche quello di impedire danni patrimoniali
alla pubblica amministrazione; si tratta infatti, secondo la dottrina e la
giurisprudenza prevalenti, di un reato plurioffensivo[44], i cui beni giuridici
tutelati sono il buon andamento della pubblica amministrazione, il suo
patrimonio e dopo la riforma operata nel 1990 con la l. 26 aprile 1990 n. 86
anche gli interessi patrimoniali dei privati[45].
Infatti soggetto passivo può
essere tanto la pubblica amministrazione, quanto il privato cittadino, a
seconda dell’appartenenza della cosa oggetto dell’appropriazione.
Nell’appropriazione indebita
invece l’oggetto materiale è solo il denaro o la cosa mobile altrui.
Con riferimento all’elemento
soggettivo va precisato che mentre nell’ipotesi di cui al comma I dell’art. 314
c.p. il dolo è generico, consistendo nella coscienza e volontà
dell’appropriazione; differentemente, al II comma l’art. 314 c.p. richiede, al
fine del configurarsi del c.d. peculato d’uso, il dolo specifico,
sostanziandosi questo reato nell’appropriazione della res, allo scopo di farne un uso solo momentaneo, nell’ottica di una
immediata restituzione. La giurisprudenza esige che l’utilizzo momentaneo della
res pregiudichi in modo apprezzabile
i beni giuridici protetti, altrimenti non può considerarsi integrato il reato
di peculato d’uso, per difetto di concreta offensività.
Di recente la Corte di
Cassazione a Sezioni Unite[46] ha ritenuto integrato il
reato di peculato d’uso, di cui al II comma dell’art. 314 c.p., nella condotta
del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il
telefono assegnatogli per ragioni di ufficio, produca un apprezzabile danno al
patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi, o una concreta lesione
alla funzionalità dell’ufficio.
(*) Il
presente lavoro costituisce una riproduzione, con opportuni ampliamenti ed
aggiornamenti, di una lezione da me tenuta il 10 maggio 2013 presso l’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
[1] Nel
corso della sentenza si trova infatti scritto «il g.u.p. del Tribunale ha
deciso…».
[2] Nella
pratica ho potuto sperimentare che il rito abbreviato viene spesso scelto da
imputati (palesemente) colpevoli, dove la condanna può oscillare tra una pena
maggiore o minore, magari in alcuni casi a seconda della qualificazione del
fatto, ma comunque si è sicuri o quasi sicuri che si verrà condannati. Ad
esempio in caso di spacciatori sorpresi in flagrante o di persone arrestate per
furto aggravato, al cui arresto in flagranza segue giudizio direttissimo.
[3]
Interessante a mio avviso una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass.
pen., 3 dicembre 2012, n. 46629) in tema di appropriazione indebita di cui
all’art. 646 c.p., in base alla quale anche se il valore economico dei beni è
minimo, la stessa strumentalità della condotta del reato di appropriazione
indebita costituisce indubbio sintomo di offensività del reato.
In base
alla c.d. concezione realistica del reato, accolta anche dalla Corte
Costituzionale (si veda ad es. sul punto Corte
Cost. n. 360 del 1995, in Foro it., 1995, I, 3083), il giudice di
merito deve accertare in concreto
l’offensività del reato in questione e solo in caso positivo condannare: ai fini
della consumazione del reato insomma è necessaria l’offesa al bene protetto. Al
contrario, chi aderisce ad una nozione di antigiuridicità in senso formale,
esclude che l’offesa sia elemento della fattispecie, rilevante ai fini della
consumazione. È sufficiente infatti che il fatto concreto corrisponda al fatto
legale.
Anche in
tema di peculato non mancano pronunce nel senso che la mancanza di danno
patrimoniale non esclude la configurabilità del reato stesso: cfr. Ex plurimis Cass. pen., n. 2963 del 2005;
Cass. pen., n. 8009 del 1993. Nel caso del peculato, a mio avviso, è già più
comprensibile tale orientamento, trattandosi di reato plurioffensivo. Quindi
anche se non ci sia un danno patrimoniale può essere comunque configurabile una
lesione dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione,
tutelato dall’art. 97 Cost.
[5] Sia per
l’appropriazione indebita, di cui all’art. 646 c.p., che per il peculato, di
cui all’art. 314 c.p., è necessaria una interversio
possessionis. Si veda con riferimento alla prima: Cass. pen., sez. II, n.
38604 del 2007 in base alla quale pronuncia il reato di appropriazione indebita
è integrato dalla mera interversione del possesso che sussiste anche in caso di
mera detenzione qualificata, consistente nell’esercizio sulla cosa di un potere
di fatto esercitato al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare; conf.
Cass. pen., sez. II, n. 5523 del 1991. Con riferimento al peculato cfr. Ex plurimis Cass. pen., sez. VI n.1256
del 2004; conf. Cass. pen., sez. VI, n. 8277 del 1980.
[7] Cfr. Ex plurimis Cass. Torino, 9 maggio 1893,
in G. ’93, 370; App. Bologna, 27
ottobre 1893, in Mon. Giur. ’94, 183. Vi rientra invece il caso della sottrazione,
che per chi ne è rimasto vittima, costituisce caso fortuito e forza maggiore
(Cass. Roma, 22 giugno 1894, in C.S.R.
’94, II, 187).
[8] Cfr.
sul punto D.16.3.1.16 (si res deposita
deterior…): «se si restituisca deteriorata la cosa depositata si può agire
con l’azione di deposito, come se non fosse stata restituita: quando infatti si
restituisce una cosa deteriorata, si può dire che, per dolo, non fu
restituita». Traduzione tratta da SCHIPANI (a cura di), Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Testo e traduzione, III
(12-19), Milano 2007, 243-244.
[9]
D’altronde i fatti delittuosi e lesivi seguono l’autore, come si trova scritto
in D.16.3.1.18, con riferimento al caso di deposito presso un servo, poi
manomesso.
[11] Un
concetto analogo lo si trova anche in D.44.7.1.5 Gaio, secondo libro aureorum: chi affida una cosa da
custodire ad un amico negligente deve dolersi di se stesso (“… qui neglegenti amico rem custodiendam committit
de se queri debet…”). Il depositario infatti risponderà soltanto per dolo.
Tuttavia in fine del frammento è specificato che magnam tamen neglegentiam placuit in doli crimine cadere.
Tale
parte di frammento è quasi identica alla parte finale di Inst.
3.14.3: “…qui neglegenti amico rem
custodiendam tradidit”. “Così in alcuni Cod.: i più antichi hanno tradit”: ARANGIO RUIZ – GUARINO, Breviarum Iuris Romani, Milano 1983,
sesta edizione, 344 nt. 1. Nell’indice del Breviarium si trova una distinzione
tra depositum necessarium, la quale
voce rimanda alla definizione di D.16.3.1.1 e depositum miserabile che rimanda alle Istituzioni di Giustiniano
(probabilmente a Inst. 3.14.3 con un
refuso nell’indicazione della pagina): ARANGIO RUIZ – GUARINO, Breviarum cit., 909. La massima della
sentenza oggetto del presente lavoro, come anche alcune opere romanistiche che
ho consultato, equiparano invece il deposito necessario a quello miserabile,
menzionando i due aggettivi in via alternativa.
[12] Cfr.
per la traduzione ed un succinto commento del frammento in questione G. NEGRI (a cura di), Antologia del digesto giustinianeo. Testo,
traduzione e note ad uso degli studenti, Como 1993, 37-39 e 41 ntt. 1-2-3.
Dello stesso Autore si veda anche Deposito
nel diritto romano, medievale e moderno, in Digesto delle Discipline privatistiche, sezione civile, Torino 1989, 223. Sulla ratio della tutela più rigorosa in caso
di deposito necessario: ROTONDI, La
misura della responsabilità nell’‘actio’ depositi, in AG, 83 (1909), 269
ss., ora in Scritti, 2, Milano 1922,
130; LONGO, Corso di diritto romano. Il
deposito, Milano 1933, 106 ss.
[15]
ALBERTARIO, voce Deposito – Diritto
romano, in Enc. It., XII, I appendice, Roma 1938, 633. Si è occupato in
particolare dell’istituto del deposito necessario GRAGLIA, Il deposito necessario, Asti
1905.
[17]
MASSETTO, Ricerche sul deposito
necessario nella dottrina del diritto comune, Roma Pontificia Università
Lateranense, 1978, 229 nt. 14. Estratto da Studia et documenta historiae et
iuris, XLIV (1978), 219-320.
[20]
L’azione di legge Aquilia è in simplum in
caso di confessio, in duplum in caso di infitiatio. Il riferimento all’azione di
legge Aquilia si trova anche in Inst.
4.6.19 e Inst. 4.6.23.
[21] La
perseguibilità d’ufficio può rivelarsi utile ad esempio quando sono scaduti i
termini ex art. 124 c.p. per la proposizione della
querela.
[22] Cfr.
GAROFOLI, Manuale di diritto penale,
Parte speciale, tomo III (art. 624-733 bis), Roma 2013, 264.
[24] Si veda
sul punto CIPOLLA, I delitti di
appropriazione indebita, Padova
2005; D. ANGELOTTI, Le appropriazioni
indebite, Roma 1930.
[25]
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale.
Parte speciale, vol. I, XV edizione integrata ed aggiornata da F. GROSSO, Milano 2008, 357.
Nello stesso senso anche una parte della dottrina successiva tra cui FIORE
(Trattato diretto da), I reati contro il
patrimonio, Torino 2010, 323 ss.
La Testa, che si occupa della parte sull’appropriazione indebita, ritiene che
si possa utilizzare la definizione del codice del 1865 e che per deposito necessario possa intendersi
anche altro avvenimento non preveduto.
[26]
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte
speciale, vol. II, tomo secondo. I Delitti contro il patrimonio, quinta
ed., Bologna 2007 rist. 2013, 114. Cfr. anche Cass. 22 novembre 1972, in Cass.
Pen. Mass. Ann., 1973, 711.
[27]
MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale,
II. Delitti contro il patrimonio, quarta
edizione, Padova 2012, 121. Per la tendenza ad un’applicazione notevolmente
ampia dell’aggravante cfr. anche nt. 123 della medesima pagina. Dello stesso
Autore si veda anche Patrimonio (delitti contro il), in Enc. Giur. Treccani, vol. XXII, 1990.
[28] In tal
senso PEDRAZZI, voce Appropriazione
indebita, in Enc. Dir., Milano 1958, 85;
contra MANZINI, Trattato di diritto
penale italiano, IX, V ed., Torino
1987, 961; Cass. 19 luglio 1950 in Giust. Pen., 1952, 811 e Cass. 22 novembre 1973,
711. Entrambe le sentenze sono citate e commentate in LATTANZI-LUPO, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e
di dottrina. I delitti contro il patrimonio, libro II (artt. 624-649) Milano 2010, 697 ss.
[29] La
Menichino ad esempio, facendo una breve ricostruzione storica dell’istituto del
deposito in albergo, qualifica quest’ultimo come deposito necessario. In realtà
però tale non è qualificato dal codice civile attuale ed anche nel codice
civile abrogato c’era soltanto una equiparazione di disciplina, con
l’eccezione, come sopra visto di quanto statuito dall’art. 1348 c.c. MENICHINO,
Clausole di irresponsabilità
contrattuale, Milano 2008, 201 ss. A mio avviso la volontà del legislatore
del codice abrogato di voler equiparare il trattamento del deposito presso osti
ed albergatori a quello previsto per i casi di deposito necessario (art. 1864 e
1865) si può dedurre dalla lettera della norma di cui all’art. 1866, dove si
legge «… il deposito di tali effetti deve riguardarsi come un deposito
necessario». E tale equiparazione di disciplina giustifica l’inserimento degli
artt. 1865, 1866, 1867 e 1868 (come sopra visto esplicitamente abrogati dopo
l’emanazione del codice del 1865), all’interno della sezione V, del libro III,
“Del deposito necessario”.
Sostanzialmente
nello stesso senso della Menichino, dato che si riferisce soltanto agli artt.
1783 ss. c.c. vigente, anche RONCO, Codice
penale ipertestuale commentato con banca dati di giurisprudenza e di dottrina,
Torino 2007.
[31] Il
reato di peculato di cui all’art. 314 c.p., sussiste anche se il pubblico
ufficiale non abbia la materiale consegna del bene e la sua diretta
disponibilità; essendo in ogni caso sufficiente la disponibilità giuridica: Cass.
pen, sez. I, 4 luglio 1996, Fanni, in Ced cass., rv. 205756 (m).
[32] Cfr.
Relazione ministeriale sul Progetto del cod. pen., vol. II, 470 e in dottrina
tra i tanti ANTOLISEI, Diritto penale
cit., 344.
[33] Cfr.
MANTOVANI, Diritto penale cit., 119 e nt. 116 della medesima pagina.
Altri Autori individuano il bene protetto genericamente nel diritto di
proprietà.
[34] Cfr. ex plurimis Cass. pen., sez. II, n. 35267 del 2007; Cass. pen., 20-03-2003, n. 12965; Cass. pen., sez. I, 11-07-2002
n. 26440; Cass. pen., sez. V, 21-1-99.
[35] Cass. pen., sez. II, 16-12-2004 n. 48438; conf. Cass. pen., sez. V, 4-04-2013 n. 88036 in
Ced Cass., rv. 255572; Cass. pen., sez. II, 3-3-99 n. 2863 in Ced Cass., rv.
212867.
[37] Cfr.
sul punto NUVOLONE, Il possesso nel
diritto penale, Milano 1942, 42
ss.; l’Antolisei, con
riferimento ai delitti contro il patrimonio, dedica un intero capitolo
all’argomento: ANTOLISEI, Diritto penale
cit., 293 ss.; cfr. anche MANTOVANI, Diritto
penale cit., 45 ss. Anche la giurisprudenza è nel senso di ritenere che il
possesso è da intendersi in un’accezione molto più ampia di quella civilistica,
sia per quanto riguarda il peculato (Cass. pen., sez. VI, n. 11633 del 2007;
Cass. pen., sez. VI, n. 950 del 1986, Cass. n. 4651 del 1983; intendono il
possesso come detenzione materiale e disponibilità giuridica Cass. pen., sez.
I, n. 8647 del 1996; Cass. pen., sez. VI, n. 1443 del 1983), che per
l'appropriazione indebita (Cass. pen., sez. II, n. 8196 del 1980); a proposito
del diritto di querela, che spetta al soggetto, anche se diverso dal
proprietario, che, «detenendo legittimamente ed autonomamente la cosa, ne abbia
fatto consegna a colui che se ne sia appropriato illegittimamente»: Cass. pen.,
sez. II, n. 26805 del 2009.
[39] Cfr.
GUIZZI, Guida alla giurisprudenza penale.
Parte speciale. I singoli reati, Roma
2011, 27 ss.
[41] Si veda
ad es. PAGLIARO, voce Appropriazione
indebita, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino 1987, 238. L’Autore ritiene che «in tutte le forme di
appropriazione indebita, il dolo generico consiste nella volontà di
appropriarsi la cosa…Il dolo generico può anche assumere la forma di dolo
eventuale». Nello stesso senso anche Cass. pen., sez. II, n. 128040 del 1974.
[42] Cfr. ex plurimis: Cass. pen., n. 43279 del
2009; Cass. pen., sez. VI, n. 1256 del 2004; Cass. pen., sez. VI, n. 11451 del
1987; Cass. pen., sez. VI, n. 8277 del 1980.
[43] Contra MANTOVANI, Diritto penale cit., 113. L’Autore ritiene infatti che soggetto
attivo, nonostante l’art. 646 c.p. parli di «chiunque», sia solo il
«possessore», «onde trattasi di reato proprio».
[44] Cfr. ex plurimis Cass. pen., sez. VI,
2-03-1999, n. 4328 in Cass. pen. 2000,
n. 43 e Cass. pen., sez. VI, 10-06-1993, in Riv
.pen. economia 1994, 226.
[45] Cfr.
Cass. pen., sez. VI, 10-10-2012 n. 41676, Ced Cass., rv. 253986 (m), in cui la
Suprema Corte ha ritenuto integrato il delitto di peculato, anche se il bene
non apparteneva alla pubblica amministrazione.