Saggio pubblicato in lingua inglese nel
volume: SILVEIRA ALESSANDRA / CANOTILHO MARIANA / MADEIRA FROUFE PEDRO, eds., “Citizenship and
Solidarity in the European Union - From the Charter of Fundamental Rights to
the Crisis, the State of the Art”. Bruxelles,
Bern, Berlin, Frankfurt a.M., New York, Oxford, Wien, 2013. 489 pp. – ISBN 978-2-87574-109-7
Università
di Sassari
Diversità culturale, cittadinanza,
diritti dei migranti*
SOMMARIO:
1. Premessa. – 2. La tutela della
diversità culturale nell'ordinamento europeo. – 3. Cittadinanza, appartenenze,
diritti dei migranti. -4. Diritti culturali e cittadinanza europea.
La prima parte di questo scritto è
dedicata ad un breve inquadramento del tema della tutela e valorizzazione della
diversità culturale nel contesto europeo.
Nella seconda parte il tema della tutela
della diversità culturale è esaminato nell'ambito del processo di revisione
delle componenti tradizionalmente ricondotte al concetto di cittadinanza,
intesa come appartenenza alla comunità, con relativi diritti politici e
sociali, con conseguente valorizzazione di altri istituti giuridici, ad es. la
residenza, ovvero il ricorso ad altre forme di “appartenza” alla comunità
politica, basate su presupposti diversi.
Il dibattito recente in tema di
cittadinanza, come è noto, si estende all'intera area delle scienze sociali. Il
termine “cittadinanza” verrà pertanto utilizzato anche in quel significato
ampio, invalso nel dibattito appena richiamato, in cui alla “cittadinanza”
vengono accorpati una serie di aspetti (quali l'appartenenza alla comunità
nazionale, i diritti politici, i diritti sociali) che, seppur ad essa usualmente
ricondotti, non ne costituiscono contenuto (giuridicamente) essenziale[1].
L'“eccedenza di significato” riferibile
alla parola “cittadinanza” è tale, infatti, che nel dibattito contemporaneo
essa viene usualmente accompagnata da un aggettivo: democratica[2], sociale[3],
inclusiva[4], attiva[5],
amministrativa[6],
sanitaria[7], globale[8];
cosmopolitica[9];
culturale[10],
multiculturale[11];
virtuale[12];
flessibile[13].
Sul piano tecnico-giuridico la nozione
di “cittadinanza” non è concetto di teoria generale del diritto: è nozione di
diritto positivo, che dal diritto positivo trae la misura della sua rilevanza
giuridica e che nell'ambito degli ordinamenti statuali contemporanei trova il
suo nucleo “essenziale” nel diritto di risiedere stabilmente nel territorio
dello Stato e nel diritto di non poter essere espulso dallo stesso, palesando
così il suo intimo collegamento al concetto di “appartenenza”[14].
Due aspetti verranno presupposti: da un
lato che la cittadinanza (statuale), ad oggi, a torto o a ragione, continua a
rappresentare lo status fondamentale dell'individuo[15], in
quanto è l'unico titolo giuridico idoneo a conferire il pieno diritto di
risiedere sul territorio di uno Stato senza limiti di tempo e con la garanzia
di non poter essere allontanati dallo stesso; dall'altro che i pubblici poteri
statali continuano a svolgere tuttora un ruolo utile ed essenziale: vi sono
infatti diritti, come i diritti sociali (istruzione, salute, assistenza e
previdenza sociale), che, ove assunti nella loro dimensione prestazionale, “non
si globalizzano” [16],
conservando una dimensione statuale. Essi sono assicurati dagli Stati, sia pure
nel rispetto di vincoli economici e di bilancio sempre più stringenti e
rigorosi.
Lo Stato assolve un ruolo determinante, inoltre,
anche con riguardo alla tutela dei diritti umani.
Il termine “cultura” (in particolare il
tema della emersione del principio di tutela e valorizzazione della diversità culturale)
rimanda a livello europeo a due ambiti tematici, strettamente intrecciati: a)
la creazione di una identità costituzionale europea attraverso la cultura; b)
la tutela e la valorizzazione delle diversità culturali (statali e sub-statali,
ma anche, in certa misura, individuali) rispetto all'identità nazionale[17].
Già a partire dagli anni ottanta, il
termine “cultura” assume un significato inclusivo, ovvero è utilizzato al
plurale (“culture”), per sottolineare l'intrinseca diversità che connota il
contesto europeo[18].
Si prende atto da un lato che una politica culturale europea non può tendere
programmaticamente ad ammorbidire le differenze culturali; dall'altro che il
senso della creazione di uno spazio culturale europeo risiede
nell'interdipendenza e nella differenziazione: «solo riconoscendo le diversità
delle tradizioni culturali vive nella realtà europea si dà loro la possibilità
di comunicare creativamente»[19].
Dato implicitamente sotteso alle azioni
intraprese nelle sedi comunitarie prima del 1992 (in apparente mancanza di una
legittimazione formale e di una specifica “base legale”), la “cultura” nel 1992
entra per la prima volta nei Trattati (art.151 TCE, corrispondente, senza
modifiche particolarmente rilevanti, all'attuale art.167 TFUE): la promozione
delle diversità culturali presenti nello spazio europeo diviene obiettivo
dell'azione comunitaria. Analogamente, l'art. 22 della Carta dei diritti
fondamentali dichiara solennemente che «l'Unione rispetta la diversità
culturale, religiosa, linguistica» (queste ultime menzionate insieme alla
diversità culturale non in quanto aspetti distinti dalla prima, ma
manifestazioni particolarmente rilevanti della stessa).
Il settore “cultura” rappresenta un
esemplare case study del modo in cui ha lavorato e lavora l'integrazione
comunitaria[20]:
concetto indeterminato e per molti versi indefinibile, disciplinato in modo
diverso sul piano del diritto internazionale e del diritto interno, la
“cultura” diviene norma comunitaria, nei Trattati e nella giurisprudenza della
Corte di Giustizia. L'ampiezza della nozione e la sostanziale trasversalità
della materia hanno consentito, in una prima fase, di evitare l'elemento
unificante dei valori comuni, ma anche di “erodere” le competenze nazionali;
successivamente si sono rivelate funzionali all'emergente principio della
protezione della diversità culturale, riferibile sia alla differenziazione
endo-europea (diversità di tradizioni culturali statali e sub-statali) sia alla
differenziazione extra-europea (che deriva dai processi di immigrazione)[21].
La tutela della diversità culturale,
oltre a rappresentare un parametro formale standardizzato, ma flessibile e
sostanzialmente contingente, di omogeneizzazione giuridica sul piano
internazionale, è divenuta principio vincolante (oltre che valore)
dell'ordinamento costituzionale europeo, cardine della “costituzione culturale”
europea.
La nozione di diversità culturale,
costituisce per un verso sviluppo della nozione di “eccezione culturale”, ma si
distanzia dal contenuto politico-giuridico di questa, includendo al suo interno
anche una serie di istanze identitarie, ascrivibili ai gruppi (anche, ma non
esclusivamente, minoritari) presenti in una società che è in sé multiculturale.
Il successo della nozione, emersa
dapprima in ambito internazionale (di pari passo alla internazionalizzazione
dei diritti delle minoranze), risiede anche nel suo ruolo nella formazione e
nella protezione delle identità[22]:
presupposto di essa è la coesistenza di gruppi culturali diversi all'interno di
un medesimo spazio socio/geografico.
La situazione problematica di
multiculturalità costituisce il dato fattuale; il riconoscimento, la tutela e
la promozione della diversità culturale rappresentano la risposta sul piano
(assiologico e) normativo.
In linea generale, la diversità
culturale evolve e supera il tradizionale topos
legislativo di tutela delle minoranze (intrinsecamente legato all'idea dello
stato-nazione); include forme culturali e tutela dei diritti culturali,
individuali e collettivi (anche attraverso azioni di promozione): diritti
individuali di partecipazione alla vita collettiva, di fruizione e produzione
di contenuti culturali differenti e l'insieme di pratiche e compiti legati a
una appartenenza culturale, etnica, religiosa ovvero a elementi che determinano
l'identità di una persona in riferimento a un gruppo (maggioritario o
minoritario che sia); ma anche diritti di accesso alle culture che più siano
adeguate alle proprie inclinazioni e scelte, attraverso concrete opportunità a
favore di individui e gruppi[23].
Dalla normativa comunitaria (dei
Trattati, dei numerosi atti di diritto derivato e documenti di soft law,
soprattutto raccomandazioni) e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia
emerge il principio di tutela della diversità culturale degli Stati membri e
interna ad essi, ma anche dell'individuo.
La copiosa giurisprudenza applicativa
del principio di non discriminazione, ad esempio, ha spesso riguardato
l'esercizio di diritti culturali. In alcuni casi peculiari[24] la
diversità culturale è stata utilizzata (non solo quale valore, ma anche) quale
parametro costituzionale (seppure implicito): il principio di tutela e
promozione della diversità culturale è stato così ritenuto prevalente, in caso
di contrasto, non solo sulle libertà economiche, ma anche su norme nazionali,
ove lesive di essa[25].
Il rifiuto, pertanto, di una opzione
assimilazionistica di integrazione, e il riconoscimento della diversità
culturale come parte dell'architettura costituzionale europea: la diversità
culturale quale declinazione peculiare del principio di uguaglianza formale
(non discriminazione) che trova la propria ragione di tutela anche con
riferimento al concetto di cittadinanza europea, comprensivo di una serie di
“diritti culturali” il cui rispetto deve essere assicurato a livello
comunitario, anche con riguardo all'individuo che esprime la propria identità
nell'ambito dello spazio costituzionale europeo, coperto dalla rule of law,
in cui la diversità dell'individuo va tutelata prima e meglio dell'identità
statuale, o anche a costo della lesione (o rideterminazione) di quest'ultima[26].
In tale prospettiva (la diversità
culturale quale principio vincolante dell'ordinamento costituzionale europeo ,
cardine della “costituzione culturale” europea) anche la “diversità
costituzionale“ (tutelata anch'essa dal diritto europeo) è bilanciata con altre
istanze di diversità, nella ricerca continua di equilibrio dinamico, in linea
con la condivisibile raffigurazione dell'Unione europea come processo di
costituzionalizzazione in fieri, che si alimenta di un intrinseco pluralismo
culturale[27].
La tutela e promozione della diversità
culturale (accettare l'altro in quanto profondamente diverso e riconoscerne, al
contempo, la parità e la dignità umane fondamentali) riposa sulla adesione
(spesso implicita e talvolta dichiarata, soprattutto nei documenti della
Commissione) ad una accezione ampia (pluralistica e dinamica, aperta e
relazionale) di cultura come valore, sul rifiuto della idea di “purezza” e di
“incommensurabilità” delle culture e, soprattutto, della «possibilità stessa di
individuare le culture come totalità discrete»[28] (che
postula un multiculturalismo “a mosaico”)[29].
In tale prospettiva è proprio la
condizione in Europa degli stranieri (comunitari e non comunitari) che
risiedono in paesi dell'Unione europea senza esserne cittadini a porre in modo
emblematico la questione della (problematica) interdipendenza tra nazionalità e
cittadinanza nell'evoluzione dello stato-nazione[30].
Affiora così, in modo palese,
l'inadeguatezza (“crisi”) della concezione di cittadinanza quale costruzione
giuridica legata alla idea di Stato nazione, o meglio alla “piena appartenenza”
ad esso quale precondizione per la fruizione di diritti e doveri riconosciuti
al suo interno.
Infatti sono proprio le diverse istanze
identitarie che confluiscono costantemente all’interno di un territorio, per
una molteplicità di fattori storici, socio-economici e politici, a mostrare i
punti di debolezza della visione particolaristica della cittadinanza. Debolezza
che emerge proprio nel momento in cui il sistema di garanzie, tradizionalmente
imperniato su di essa, deve aprirsi a realtà nuove ed istanze diverse (si pensi
all’insopprimibile esigenza di garantire all’interno del territorio nazionale
la libertà di culto), rispondendo ad esigenze di tutela paventate dal polo
sociale, che non possono essere negate[31].
I fenomeni migratori e, in maniera più
ampia, lo stesso processo di globalizzazione[32],
introducono un dato di complessità ulteriore (e diverso rispetto al passato)
all’interno dei sistemi, la cui riconduzione ad unità non può essere realizzata
adeguatamente attraverso strumenti tradizionali, tra cui, appunto, la sovranità
e la cittadinanza “nazionali”.
Proprio in questi momenti resta “vitale”
l’intervento dei pubblici poteri. Una delle caratteristiche insite nei processi
di globalizzazione, ove lasciati a sé stessi, infatti, non è quella di attivare
processi aggregativi, ma, al contrario, di innescare processi che allontanano
dall’ideale di comunità , e che finiscono per produrre
drammatici squilibri e diseguaglianze.
Dunque, è proprio il dato della
complessità ad imporre la ricerca di elementi attorno a cui costruire una idea
di cittadinanza diversa, idonea a riaggregare le frammentazioni, le asimmetrie
e le disomogeneità riconducibili ai mutamenti globali. In questa prospettiva, è
chiaro che il concetto di cittadinanza “tradizionale” risulta insufficiente[33].
Dal punto di vista del giurista, e non
solo, il discorso della cittadinanza è un «discorso sul soggetto, ed
interrogarsi sulla cittadinanza significa interrogarsi sulla rappresentazione
che una società ha offerto del soggetto e del suo rapporto con la comunità
politica»[34].
Se nel discorso medioevale, come è noto,
si coglie il soggetto nella relazione con il corpo politico-sociale secondo
forme gerarchizzate che rendono impossibile un unitario riferimento di diritti
e doveri allo stesso inteso come figura unitaria – di quello che per usare una
terminologia a noi più consueta definiremmo individuo, soggetto di diritti -,
risultando lo status come un contrassegno di classe, anzi la misura stessa
della diseguaglianza; con la conseguenza che qualificazioni quali straniero
erano sostanzialmente sinonimo della estraneità al gruppo; con il
giusnaturalismo seicentesco viene messa in evidenza una nuova definizione di
soggetto che si inserisce in un quadro in cui proprietà, libertà, eguaglianza,
diritti e doveri assumono una dimensione individuale e sono collegati ad un
soggetto unitariamente definito, come suoi diritti originari. In questa
prospettiva la cittadinanza viene a coprire l’intero orizzonte politico del
soggetto proprio in ragione della sua “appartenenza politica” alla città. E lo
stato diviene, secondo gli insegnamenti di Hobbes, «l’unica persona la cui
volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti individui, si
deve ritenere la volontà di tutti questi individui. Colui che rappresenta
questa persona è il sovrano e ha potere sovrano; ogni altro è suddito». Dunque,
la cittadinanza si risolve in una appartenenza dei diritti politici attribuiti
ai soggetti, nel dovere di soccorso imposto allo Stato e nell’impegno verso il
raggiungimento dell’eguaglianza tra i soggetti. Una impostazione mantenuta nei
testi delle costituzioni che hanno visto la luce sul finire del Settecento
nelle quali attorno all’eguaglianza ruotano, sia pure in maniera embrionale, il
riconoscimento e la garanzia dei diritti individuali e soprattutto il
riconoscimento del dovere di garanzia di tali diritti in capo alla
collettività, in alcuni casi, e allo Stato[35].
E' a partire dal discorso settecentesco
che emerge una idea esclusiva di cittadinanza (che si sviluppa soprattutto con
l’elaborazione del principio di sovranità), tale da offrire una
rappresentazione del soggetto che ha di fronte un potere assoluto, con la
conseguenza che il concetto di “status”, da sinonimo di condizione, modo di
essere, si evolve ad intendere lo stato come corpo politico sottoposto a un
governo e a leggi comuni.
Il
cambiamento è ancor più netto nell’ottocento, in cui è la “nazione” a garantire
la difesa dei diritti del soggetto, con la conseguenza che la integrazione del
soggetto all’interno di un preciso spazio geografico e sociale viene ad
assumere un ruolo centrale nel processo di garanzia dei diritti.
Ma un’analisi
retrospettiva mostra come proprio questa delimitazione di campo rischia di
offrire una rappresentazione falsata, secondo cui è l’ordine sociale,
l’appartenenza a un gruppo a conferire diritti all’individuo e non l’individuo
a essere titolare di tali diritti, indipendentemente dal fattore della
appartenenza.
In sintesi:
se la
cittadinanza trova nello Stato il suo strumento di realizzazione, esso (lo
Stato), paradossalmente, viene a rappresentare proprio il suo limite di
affermazione, soprattutto ove riguardata nella prospettiva della garanzia dei
diritti soggettivi o meglio di quel complesso di diritti che segnano
l’appartenenza dell’individuo a una comunità socio-politica e ciò in ragione
della identificazione che viene fatta tra “appartenenza” e cittadinanza,
utilizzati solitamente nel quadro normativo come sinonimi. Infatti, è proprio
il richiamo ai diritti a porre in luce i limiti insiti nello stesso concetto di
cittadinanza, ove inteso secondo la teoria tradizionale che lo rapporta allo
Stato-nazione.
La definizione di cittadinanza come «una
forma di uguaglianza umana fondamentale, connessa con il concetto di piena
appartenenza ad una comunità» non consente di decidere se «la cittadinanza
presuppone la comunità di cui il cittadino è membro o, al contrario, il
cittadino che esiste indipendentemente da ogni legame sociale, crea la
comunità». Ma la prima opzione adottata in alcune realtà non fornisce agli
stranieri alcuna legittimazione per la rivendicazione dello status di
cittadino, poiché si assume che solo chi nasce all'interno di una comunità
determinata ha la capacità di gestire il patrimonio simbolico necessario per
interagire nel gruppo di riferimento; la seconda, al contrario, rende
maggiormente difficoltoso trovare argomenti in favore della esclusione degli
stranieri dalla cittadinanza[36], o
meglio, nella prospettiva che in questa sede si intende adottare, dalla
garanzia dei diritti fondamentali (civili, politici e sociali).
Nel primo caso, infatti, la adozione di
una prospettiva chiusa, in cui il profilo collettivo dello stato nazione viene
indissolubilmente legato a rigidi parametri culturali (includendo in ciò anche
i profili connessi ai valori religiosi), ha come conseguenza l’attribuzione al
concetto di cittadinanza di una valenza escludente. Al contrario, se seguendo
la via tracciata, ad esempio, da Habermas, si scindono i piani, distinguendo da
un lato la cultura «etnica» (l'appartenenza “nazionale”) e dall’altro quella
<<politica>>, lo stesso concetto di cittadinanza, e più in generale
la stessa appartenenza a una comunità, vengono ad assumere una rilevanza
diversa, consentendo una apertura verso una prospettiva pluralista rispetto
alla quale si intercettano degli spazi non solo con riferimento alla garanzia
dei diritti, ma anche alla stessa garanzia di partecipazione all’organizzazione
(politica) della società, incrementando quel grado di civiltà della stessa[37] che
entra in crisi proprio nei periodi di difficoltà (e di crisi economica),
«quando la popolazione tende ad attaccarsi disperatamente alle caratteristiche
ascrittive di un’identità collettiva fatta regressivamente rinascere. Una
‘stampella’ che promette di bilanciare paure del futuro ed insicurezze sociali»[38].
Ed infatti è in particolare in questi
periodi che si acutizza l’antagonismo tra cittadini e stranieri, le cui
“differenze” sono radicate in molti casi soltanto su presupposti normativi. E
sono però sotto gli occhi di tutti i rischi connessi ad una radicalizzazione di
un discorso che tende ad elevare barriere, giuridiche e politiche, per le quali
distinzioni socialmente (e giuridicamente) costruite, quali la cultura e
l'identità “nazionale”, si trasformano in vere e proprie contrapposizioni ontologiche.
Il richiamo alla globalizzazione ed ai fenomeni migratori mostra come la
costruzione della “scatola giuridica”[39]
nazione, con la conseguente costruzione attorno ad essa del concetto
identitario, sia di fatto un percorso tendente alla marginalizzazione e non
all’inclusione.
E’ dunque da tempo in atto un
ripensamento del nesso tra diritti ed appartenenza, nella ricerca di un nuovo
punto di equilibrio tra universalismo (scevro dai condizionamenti imposti dall’etnocentrismo),
relativismo come metodo e particolarismo insito nella cittadinanza. Un
equilibrio che non può prescindere dalla presa d'atto che lo stesso concetto di
nazione «non è più il segno della modernità, all’ombra del quale le differenze
culturali sono rese omogenee, in una visione ‘orizzontale’ della società»[40].
In questa prospettiva, necessariamente
plurale, la cittadinanza, e la stessa cittadinanza europea, diventano luogo di
discussione dei diritti democratici, e di riconsiderazione delle forme di
appartenenza e partecipazione alla
comunità politica[41].
Il nucleo attorno a cui ruota la
riflessione non è più (soltanto) quello della appartenenza “nazionale”; ma si
fonda su basi più ampie, e un ruolo centrale è assunto proprio dal concetto di
cultura[42].
Parlare di promozione e tutela della
diversità culturale, come base di una nuova idea di cittadinanza (politica),
impone che in un certo senso si facciano i conti con i pericoli derivanti da un
lato dall’universalismo etnocentrico e dall’altro dal relativismo. Ciò in
quanto, mentre nel primo caso si professa una sostanziale comunanza di
principio tra le diverse culture, considerate appunto «manifestazione di un
principio comune», con una conseguente riconducibilità degli stessi a valori
aventi validità universale, con la conseguenza per cui l’ideale meta ultima
della storia viene individuata nella «formazione della civitas maxima, della città di tutti» in cui «ogni uomo [è] un
cittadino del mondo al di sopra di tutte le patrie»[43]; nel
secondo caso invece, il dato valoriale viene relativizzato, con conseguente
esclusione di qualsiasi possibile interferenza tra valori differenti.
Tanto l’uno quanto l’altro approccio
presentano momenti di criticità. Nel primo caso il nodo problematico è
rappresentato dalla scelta dei valori di riferimento. Ed è proprio nella
diversa considerazione degli stessi (assoluti o relativi) che si innestano le
principali insidie in cui correnti etnocentriche tendono a orientare la
classificazione dei valori. E’ quanto è accaduto con riferimento all’esperienza
occidentale e europea nella quale si percepisce la tendenza ad assolutizzare i
valori della propria cultura[44], in ciò
trovando un sottile punto di contatto anche con l’approccio relativista che,
stabilendo una relazione univoca dei valori con il contesto da cui sono stati
espressi, impedisce qualsiasi possibile relazione[45] tra
valori diversi. In questo caso, alla base della ricostruzione, è individuabile
una idea di cultura quale monade (e di multiculturalismo “a mosaico”), che, pur
nell’apparente rispetto delle differenze, effettua una operazione di isolamento
e impermeabilizzazione delle diverse “culture”, che porta a ritenere inutile,
se non addirittura impossibile, il dialogo tra le stesse: una situazione di
“incommensurabilità” tra culture[46].
Diversa valutazione dell'approccio
relativista è possibile nella misura in cui esso assuma una rilevanza (non
estesa al piano sostanziale, ma) limitata al piano metodologico. Interessanti
sul punto risultano alcune osservazioni di Remo Cantoni (che già nel 1970
rilevava): «il relativismo culturale (…) va difeso nel suo vero principio
animatore che è quello di ampliare gli orizzonti ristretti della nostro troppo
uniforme storiografia suscitando comprensione, simpatia e tolleranza proprio per
quei gruppi umani che un etnocentrismo altezzoso poneva nella barbarie,
nell’antistoria, in una specie di limbo pre-culturale»[47]. Il
relativismo metodologico offre, per lo meno, le premesse necessarie al
confronto e al dialogo interculturale.
L’approccio plurale consente una
evoluzione del sistema valoriale garantita dalla ammessa permeabilità tra
culture, garantita dalla libertà di scegliere, riconosciuta ad ogni individuo,
una precisa formula culturale. Si pensi, ad esempio, alla scelta, che
altrimenti ad un qualsiasi immigrato si vedrebbe preclusa, di integrare la
propria cultura (o, se si preferisce, il proprio bagaglio valoriale) con
elementi propri di altri sistemi assiologici di riferimento (quali ad esempio
quelli diffusi nel territorio dello stato in cui risiede) e viceversa alla
negazione di qualsiasi possibile integrazione facendo leva sulla
assolutizzazione dei valori.
Si è efficacemente osservato, al
riguardo, che l'inclusione democratica , da una parte, e la tutela della
diversità delle culture, dall'altra, non debbono escludersi a vicenda. La
giustizia multiculturale affiora “a frammenti”[48], negli
“interstizi” del dialogo (ed anche del conflitto) interculturale[49].
In questa prospettiva, risulta centrale (anche
per il giurista) l’assunzione di una impostazione che rinunci ad una
gerarchizzazione (astratta) dei valori, e che faccia leva sulla accettazione
delle differenze, nella prospettiva del riconoscimento di una uguaglianza nei
diritti garantita a tutti gli individui. Infatti, l’apertura alle differenze ex
se non è sufficiente a garantire tale uguaglianza, essendo essa la risultante
di complessi meccanismi sociali, economici, politici e giuridici. Essa diviene
il presupposto per una politica orientata all'inclusione e alla coesione
sociale, in cui dialogo, integrazione, giustapposizione e sincretismo divengono
gli strumenti su cui innestare un movimento centripeto che spinge verso
l’eguaglianza nei diritti.
Se l’importanza della statualità e della
cittadinanza non possono essere negate, la prospettiva globale impone che si
assuma un approccio differente in cui assumano rilievo elementi diversi dalla
nazionalità, in primis culturali. Si pensi al delicatissimo tema della libertà
religiosa, terreno di forti scontri in diverse realtà politiche, tra le quali
quella italiana.
Non è certamente questa la sede nella
quale analizzare degli esempi concreti in cui le scelte del decisore pubblico
(normative o amministrative) abbiano palesato, in maniera più o meno evidente,
effetti fortemente limitativi o sacrificanti delle libertà personali e, dunque,
non solo della libertà religiosa (libertà di culto) ma anche di altri diritti
fondamentali. Si pensi alla stretta connessione tra libertà religiosa e libertà
di manifestazione del pensiero o tra convinzioni religiose e diritto
all’istruzione o diritto alla salute.
La considerazione del momento culturale
diviene il cardine su cui costruire un concetto rinnovato di cittadinanza,
progressivamente inclusiva ed espansiva[50], nella
quale la ricerca dell’uguaglianza diventi il motore per il riconoscimento dei
diritti fondamentali (civili, politici e sociali) a tutti gli individui
presenti nel territorio. La considerazione del momento culturale, dunque,
inteso come “spazio di condivisione” di valori e regole sociali di una persona
in una comunità, indipendentemente dal luogo in cui è nata, o ancora dal luogo
in cui sono nati i suoi genitori, dovrebbe consentire una diversa
configurazione della cittadinanza, in cui l’esercizio del diritto di emigrare,
sancito agli articoli 13 e 14 della Dichiarazione universale dei Diritti
dell’Uomo, non diventi preclusivo della garanzia dei diritti fondamentali. E
questo ostacolo si mostra superabile, in prospettiva, solo ove si assuma una
prospettiva pluralista, in cui si abbandoni, per certi versi, la unica lente
del “migrante lavoratore”. Sul punto non si possono non fare rapidissimi cenni
al diritto europeo, dal quale emerge una prospettiva duale, nella distinzione
tra cittadini comunitari e cittadini non comunitari, ma che presenta per molti
versi un denominatore comune nella considerazione (dei diritti) del migrante
come (diritti del) “migrante-lavoratore”. E la stessa cittadinanza europea,
complementare ed aggiuntiva rispetto alla cittadinanza “interna”, non
costituisce tuttora (nonostante i notevoli sviluppi della recente
giurisprudenza)[51]
uno status capace di determinare compiutamente una sfera giuridica complessiva
dell’“individuo” a livello europeo.
Aspetti questi che stridono con quanto
affermato da molto tempo anche in sede di Consiglio d’Europa: «La nozione di
cittadinanza nelle società democratiche diviene più complessa e, pertanto, la
realtà di una cittadinanza pluralista deve essere riconosciuta. Ciò significa
che ciascun individuo può desiderare di vedere i suoi problemi e aspirazioni
trattati in una particolare sede politica, che in alcuni casi può essere
essenzialmente territoriale ed in altri più chiaramente culturale, senza che la
partecipazione e l’esser membro di una sede sia considerato subordinato o in
alternativa alle altre appartenenze»[52].
* Il
presente scritto costituisce approfondimento e sviluppo della relazione tenuta nel Convegno internazionale
“Citizenship and Solidarity in the European Union - from the Charter of
Fundamental Rights to the crisis, the state of the art” (Universidade do
Minho, Portugal, 10/12 maggio 2012, panel “Culture/Diversity”). Una versione in lingua
inglese è stata pubblicata nel volume “Citizenship and Solidarity in the
European Union – from the Charter of Fundamental Rights to the Crisis, the
State of the Art”, PIE- Peter Lang
SA - Éditions scientifiques internationales, Bruxelles, 2013.
[1] Già in ROMANO S., La teoria
dei diritti pubblici subbiettivi, in Trattato Orlando, 1897, ora in ROMANO
S; Gli Scritti nel Trattato Orlando, Milano, 2003, 5 ss, la cittadinanza
è concepita come un problema di diritto positivo, rispetto al quale non ha
senso porsi l'interrogativo, di teoria generale, relativo all'esistenza o meno
di un suo nucleo imprescindibile. Sul tema cfr. ampiamente, da ultimo, DINELLI
F., Le appartenenze territoriali. Contributo allo studio della cittadinanza,
della residenza e della cittadinanza europea, Jovene editore, Napoli, 2011,
in particolare 32 ss., studio al quale si rinvia per ulteriori riferimenti
bibliografici.
[2] HABERMAS J., Morale
diritto politica, trad it. A cura di L. Ceppa. Torino, Einaudi, 1992, 112.
[3] MARSHALL T.H., Citizenship and Social Class and
Other Essays, Cambridge, 1950 (trad.
it Cittadinanza e classe sociale, Torino, 1976).
[6] GALLO C.E., La
pluralità delle cittadinanze e la cittadinanza amministrativa, in Dir.
Amm., 2002, 483 ss.; CAVALLO PERIN R., La configurazione della cittadinanza
amministrativa, in Dir. Amm., 2004, 204.
[8] Cfr. ROMANO TASSONE
A., MANGANARO F., (a cura di), Dalla cittadinanza amministrativa alla
cittadinanza globale, Milano, 2005a globale, Milano, 2005; BENHABIB
S., Cittadini globali, Bologna, 2008.
[9] HELD D., Democracy and the Global Order. From the Modern
State to Cosmopolitian Governance, Cambridge, 1995.
[10] MILLER T., Cultural Citizenship: Cosmopolitanism,
Consumerism, and television in a Neoliberal Age. Philadelphia, Temple
University Press, 2007.
[12] DOWNES D.M., JANDA R., Virtual Citizenship, in
Canadian Journal of Law and Society, vol. 13, 2, 1998, 27 ss.
[13] BENHABIB S., The
Claims of Culture: Equality and diversity in the Global Era, Princeton,
Princeton University Press, 2002, ed. italiana, ID., La rivendicazione
dell'identità culturale, eguaglianza e diversità dell'era globale, Il
Mulino, Bologna, 2005.
[14] Cfr. DINELLI F., Le
appartenenze territoriali, cit., 36 ss.; RESCIGNO G.U., Cittadinanza:
riflessioni sullla parola e sulla cosa, in Riv. Dir. Cost., 1997, 41. Cfr.
altresì AZZARITI G., La cittadinanza. Appartenenza, partecipazione, diritti
delle persone, in Diritto pubblico, 2/2011, 425 ss.; ID, Cittadinanza e
multiculturalismo: immagini riflesse e giudizio politico, in Diritto
pubblico, 2008, 1, 188.
[15] Come ha ricordato, tra gli
altri, STAIANO S., Migrazioni e paradigmi della cittadinanza: alcune
questioni di metodo, in Federalismi.it, n.21/2008, 8, la cittadinanza
europea deriva oggi da quella degli Stati nazionali: sono, dunque, gli Stati
nazionali a determinarne le condizioni
di inclusione-esclusione. Tuttavia va maturando «e se ne trova menzione
esplicita soprattutto nei documenti prodotti dal Parlamento europeo - l'idea del
riconoscimento della cittadinanza europea sul fondamento della residenza: ciò
che rappresenterebbe il superamento pieno dell'equiparazione jure sanguinis
e per attribuzione, in via esclusiva e per libera scelta politica, di uno
status concesso per appartenenza al singolo Stato nazione nell'ambito del suo
ordinamento». Cfr. Parlamento europeo, Relazione sulla relazione della
Commissione sulla cittadinanza dell'Unione, 15 dicembre 2005, A6-0411/2005.
In questo documento si rileva come «l'attuale acquisizione della cittadinanza
dell'Unione e dei diritti a essa connessi è subordinata all'acquisizione della
cittadinanza di uno degli Stati membri» e come «le disparità quanto mai
rilevanti tra le norme che disciplinano l'accesso alla cittadinanza negli Stati
membri possono costituire una fonte di discriminazione tra i cittadini aventi
la cittadinanza di paesi terzi o gli apolidi a seconda del loro Stato membro di
residenza», mentre «l'attribuzione di taluni diritti connessi con la
cittadinanza dell'Unione ai residenti favorirebbe l'integrazione della
popolazione extracomunitaria nell'Unione europea e creerebbe uno status di
appartenenza a una vera e propria comunità politica e territoriale», e «il
riconoscimento della cittadinanza dell'Unione in funzione della residenza
dovrebbe avere lo scopo ultimo del processo dinamico che farà dell'Unione
europea un'autentica comunità politica».
[16] Così FARIÑAS
DULCE M.J. , Globalización, Ciudadanía y Derechos Humanos, in Cuadernos
“Bartolomé De Las Casas, ed. Dykinson, 2000, 18.
[17] In tema cfr., per tutti, FERRI
D., La Costituzione culturale dell'Unione europea, Cedam, Padova, 2008,
con prefazione di F. Palermo, studio al quale senz'altro si rinvia per accurati
riferimenti bibliografici e giurisprudenziali.
[18]
OOMMEN T.K., Pluralism, Equality and Identity, Oxford University Press,
Oxford-New York, 2002, 69 ss. Cfr. inoltre, ex multis, de WITTE B., Cultural
Policy: The Complementarity of Negative and Positive Integration, in
SCHWARZE J., SCHERMERS H.G. (eds.), Structure and Dimensions of European
Community Policy, Nomos, Baden Baden, 1988, 195 ss.
[19] PAPINI R., Introduzione al
Convegno, in AA. VV., Per
una politica culturale europea. La sfida dei diritti culturali, Ed.
Massimo, Milano, 1986, 7-20, citato da FERRI D., La Costituzione culturale, cit., 16, in nota 17.
[20] SHORE C., The
Cultural Policies of the European Union and Cultural Diversity, in BENNET
T., Differing Diverities: Transversal Study on the Theme of Cultural Policy
and Cultural Diversity, Council of Europe Publishing, Strasbourg, 2011,
111; WOODS L., Culture and the European Union, in VAN EMPEL M., “From
Paris to Nice” Fifty years of legal Integration in Europe, Kluwer, The
Hague 2003, 109-130; CRAUFURD SMITH R. (eds), Culture and European Union
Law, Oxford University Press, Oxford, 2005.
[21] Gli immigrati,
oltre a contribuire alla crescita
dell'Unione, arricchiscono le «società europee in termini di diversità
culturale». Gli stati membri sono invitati a impegnarsi nell'accoglienza e nella gestione della diversità culturale e
nella promozione del “dialogo interculturale”. Cfr., ad esempio, la
Comunicazione 17/6/2008 in materia di immigrazione: Com(2008) 359.
[22]
Von BOGDANDY A., The European Union as Situation, Executive, and Promoter of
the International law of Cultural Diversity – Elements of a Beautiful
Friendship, Jean Monnet Working Paper 13/2007, in http://www.jeanmonnetprogram.org,
7.
[23]
Cfr. ampiamente PRIETO de PEDRO J., Cultura, Culturas y constitucion,
Madrid, 1993; ID., Diversidad y derechos culturales, en una discusión sobre
la gestión de la diversidad cultural, Madrid 2008. Cfr. inoltre FAMIGLIETTI G., Diritti culturali e diritto della cultura,
Giappichelli ed., Torino, 2010.
[24] Si possono citare, ad esempio,
le sentenze Bickel Franz (Corte di Giustizia, 24 novembre 1998, Procedimento
penale a carico di Horst Otto Bickel e Ulrich Franz, Causa C-274/96, in
Racc. 1998, I-7663), Angonese (Corte di Giustizia, & giugno 2000, in
Roman Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano Spa, Causa C-281/98, in
Racc. 2000, I-4139) e, soprattutto, Garcia Avello (Corte di Giustizia, 2
ottobre 2003, in Carlos Garcia Avello c. Stato belga, causa
C-148/02, in Racc. 2003, I-11613).
[26] Può citarsi al riguardo il noto caso
Richards (Corte di Giustiza, 27 aprile 2006, S.M. Richards c. Secretary
of State for Work and Pensions, causa C-423/04, in Racc. 2006, I-3585), in cui
la tutela della diversità culturale individuale (nel caso in esame: sessuale) è
stata ritenuta prevalente rispetto a una (presunta) identità culturale (etica)
“nazionale”. Va ricordato che, in senso contrario, ad altra parte della
dottrina la pronuncia è parsa un vero e proprio vulnus all'identità
costituzionale degli Stati membri: cfr. sul punto la ricostruzione di FERRI D.,
La Costituzione culturale, cit., 215.
[27] Si tratta di un complesso filone dottrinale che copre
il multi-level constitutionalism di Pernice (Multilevel
Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: Constitution-Making Revisited?,
in Common Market law review, 1999, 703/750), il contrapunctual law di
Poiares Maduro (POIARES MADURO M., Contrapunctual Law: European
Consitutional Pluralism in Action, in WALKER N. (ed), Sovereignity in
Transition, Hart Publishing Oxford, 2003, 501-537), la constitutional
tolerance di Weiler (WEILER J.H.H., The Constitution of Europe,
Cambridge University Press, Cambridge (UK), 1999). In generale
cfr anche, ex multis, de WITTE B., Il processo semi-permanente di
revisione dei trattati, in Quaderni costituzionali, 3/2002, 499/519;
SCHWARZE J., Constitutional Developments in European Community: Definition
and Foundations, in Law and State, 1985, 106 ss.; PALERMO F., La forma
di Stato dell'Unione europea, Cedam, Padova, 2005.
[28] «Le culture, in quanto,
“complesse pratiche umane di significazione e rappresentazione, organizzazione
e attribuzione di significato, sono frazionate al loro interno da narrazioni in
conflitto (…); si costituiscono attraversi complessi dialoghi con altre
culture; (…) il dialogo con l'altro è pertanto intrinseco piuttosto che
estrinseco alla cultura stessa». Così, sul piano filosofico: S. BENHABIB, La
rivendicazione dell'identità culturale. Eguaglianza e diversità nell'ea globale,
Il Mulino, Bologna, 2005 (ed. it.), la quale osserva che l'inclusione
democratica, da una parte, e la continuità e la conservazione delle culture,
dall'altra, non debbono escludersi a vicenda. La giustizia multiculturale
affiora “a frammenti” (Clifford)
attraverso gli “interstizi” del dialogo (e del conflitto) interculturale.
Posizione sostanzialmente analoga, con riguardo alla natura delle “culture
giuridiche” e delle “tradizioni giuridiche”, è assunta da H.P. GLENN, Tradizioni
giuridiche nel mondo. La sostenibilità della differenza, Il Mulino,
Bologna, 2011 (ed it.).
[29] A. MAALOUF, nel
suo volume su “L’Identità” (Bompiani, Milano, 1999, 23), sottolinea come
«ciascuno di noi dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità,
a concepire la propria identità come somma delle sue diverse appartenenze,
invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a
strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra». Per una critica del
multiculturalismo “a mosaico” cfr. HANNERZ U., La diversità culturale,
Il Mulino, Bologna, 2001.
[30] «L'idea di
nazione ed i suoi corollari non possono rientrare nel patrimonio costituzionale
europeo, se non nei limiti in cui essa può servire a determinare un'identità
nazionale concepita come sottotipo dell'identità culturale, meritevole di
protezione in quanto tale» (Pizzorusso).
[32] Tra le numerose
opere sulla globalizzazione, soprattutto a livello sociologico, cfr. BAUMAN Z.
(1998), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone,
Edizioni Laterza, Bari 1999; BAUMAN Z. (1999), La solitudine del cittadino
globale, Feltrinelli, Milano 2000; BECK U. (1997), Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società
planetaria, Carocci, Roma 1999; GEERTZ C. (1995), Mondo globale, mondi
locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Il Mulino,
Bologna 1999; ROBERTSON R. (1992), Globalizzazione. Teoria sociale e cultura
globale, Asterios, Trieste 1999.
[33] Al riguardo vi
è chi, come FERRAJOLI L., Cittadinanza e diritti fondamentali, in Teoria
politica, 1993, 3, 63 ss; ID., Principia iuris. Teoria del diritto e della
democrazia, 2007, propone di abbandonare la logica della cittadinanza:
“oggi la cittadinanza dei nostri ricchi paesi rappresenta l'ultimo privilegio
di status, l'ultimo fattore di discriminazione anziché di inclusione o
parificazione, l'ultimo relitto postmoderno delle differenziazioni personali”; prendere sul serio i diritti
umani, significa – secondo l'Autore – avere il coraggio di “disancorarli dalla
cittadinanza in quanto “appartenenza” (a una determinata comunità statale) e
quindi dalla statualità”, proteggendoli non solo dentro, ma anche fuori e
contro gli Stati. L'Autore propone anche di
trasformare in diritti della persona “i due soli diritti di libertà oggi
riservati ai cittadini; il diritto di residenza e il diritto di circolare nei
nostri privilegiati paesi”. L'idea sottesa a questa proposta è che solo così
l'Occidente inizierebbe a sentire come proprio il problema della miseria che
affligge maggior parte dell'umanità.
[34] P. COSTA, Storia della
cittadinanza in Europa. 4. L’età dei totalitarismi e della democrazia,
Gius. Laterza & Figli, 2001, 485-6.
[35] Basti ricordare
le parole dell’Abate Siéyès che nel suo progetto di dichiarazione presentato il
4 agosto del 1789, nell’esposizione motivata dei diritti che devono precedere
il piano di costituzione, agli articoli 1 e 2 precisava che “L'uomo riceve
dalla natura dei bisogni imperiosi, con mezzi sufficienti per soddisfare ad
essi” (art. 1). “Esso prova, in ogni istante, il desiderio del benessere. I
soccorsi che egli ha ricevuto dai genitori, quelli che egli riceve o spera di
ricevere dai suoi simili, gli fanno sentire che tra tutti i mezzi di benessere
lo stato di società è il più potente” (art. 2)
[36] Sul punto E. SANTORO, Le
antinomie della cittadinanza: libertà negativa, diritti sociali e autonomia
individuale, in D. ZOLO, La cittadinanza. Appartenenza, identità,
diritti, Laterza, Roma-Bari, 1994, 100 ss.
[37] M. FOUCAULT, cit. in D. ABBIATI,
Foucault. La dannazione del potere, Swif, Rassegna stampa, Il Giornale,
su www.swif.it: “dal modo in cui organizzano e vivono il rapporto con
l’Altro”.
[38] J. HABERMAS, Lotta di
riconoscimento nello stato democratico di diritto, in C. TAYLOR - J.
HABERMAS, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli,
Milano, 1999, 86.
[39] N. G. CANCLINI, Ripensare
l’identità in tempi di globalizzazione, discorso per la presentazione alla
Conferenza Identità nelle Ande, tenutasi a San Salvador de Jujuy,
Argentina; sponsorizzata dal Center for Andean Regional Studies, Bartolomè de
las Casas; agosto, 1994, 2.
[41] Sul punto assai significative le
parole di J. HABERMAS, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di
diritto, in C. TAYLOR – J. HABERMAS, Multiculturalismo. Lotte per il
riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 1999, 86.
[42] E' d'obbligo il richiamo al
pensiero di Häberle. Cfr., tra le molte opere dell'Autore, HÄBERLE P., Per
una dottrina della costituzione come scienza della cultura, Carocci, Roma,
2001; ID., Cultura dei diritti e diritti della cultura nello spazio
costituzionale europeo, Giuffrè, Milano, 2003; ID., Costituzione e
identità culturale, Giuffrè, Milano, 2006.
[45] D. TRACY, Al
di là di fondazionalismo e relativismo: la nuova ermeneutica. Concilium,
1992, 2, 148-159.
[46] La nozione di “incommensurabilità”
è utilizzata nel testo in senso epistemologico: KUHN T., La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1962: una situazione strutturale
di incomprensione e di “intraducibilità” che, nelle fasi di “scienza
straordinaria”, ossia di profondo rivolgimento, “crisi” e trasformazione della
scienza, viene a determinarsi nell'ambito di una comunità scientifica. In
sintesi: uno scienziato che aderisce ad
un paradigma culturale diverso o ad una
tradizione di ricerca diversa, “vive in un mondo diverso” (una comunità
scientifica diversa), intraducibile nel linguaggio dello scienziato che
aderisce ad un paradigma (e quindi a una comunità scientifica) differente.
Questa impostazione radicale (peraltro mai sostenuta così rigidamente da Kuhn,
quanto, piuttosto, dai suoi critici) è stata, come è noto, successivamente
temperata e superata. Oltre agli scritti successivi di Kuhn, è opportuno
ricordare la metodologia dei “programmi di ricerca” di Imre Lakatos, la teoria
dei “programmi di ricerca” di Larry Laudan,
come anche gli apporti di Paul Feyerabend, tutti approcci in cui è
ammessa la possibilità, in un dato momento storico, di coesistenza e dialogo
tra più paradigmi, tradizioni o programmi di ricerca, eliminando così
l'eccessiva rigidità strutturale insita nella versione originaria della teoria
kuhniana. Soprattutto nella impostazione di Lakatos e Laudan, è posta chiaramente l'esigenza di “tutela” di
tradizioni
scientifiche recessive e programmi di ricerca minoritari, proprio nell’ottica della tutela della
diversità culturale. Molti spunti
provenienti da questo ambito di riflessione filosofica, seppur spesso non
dichiarati, sembra siano tenuti in grande considerazione dagli studiosi, che,
sia in campo giuridico sia in campo non giuridico (sociologico e antropologico),
si sono occupati recentemente del tema “cultura e diversità”. Si vedano, in
particolare, da un lato agli studi di Seyla
Benhabib, sopra richiamati, che ampliano e sviluppano, per alcuni aspetti,
l'impostazione di Habermas; dall'altro
lato, in ambito giuridico, il recente studio di Hugh Patrick Glenn sulle
tradizioni giuridiche nel mondo: H. P. GLENN, Legal Traditions of the World (4th ed., Oxford Univ. Press, 2010), ed.
it., ID., Tradizioni giuridiche nel mondo. La sostenibilità della differenza,
Il Mulino, Bologna, 2011. Nel
testo ho criticato l'utilizzo della nozione di “incommensurabilità” alle
relazioni tra culture. Tali relazioni, a ben vedere, sono predicate come
impossibili (appunto: incommensurabili) da quelle correnti teoriche che non
riescono a superare una idea di cultura quale sfera chiusa e, di conseguenza,
una concezione di multiculturalismo “a mosaico”, che si limita a postulare la
mera coesistenza e giustapposizione di diversità identitarie (postulate come)
irriducibili. L'affermazione fatta nel testo, secondo cui la tutela della
diversità culturale nel diritto europeo poggia sull’adesione a una certa idea
di cultura (anche) in senso antropológico merita un breve approfondimento. Sul
punto dell’adesione o meno, a livello giuridico, sul piano del diritto dell'Unione europea, ad una nozione
antropológica di “cultura”, il
dibattito, infatti, è, come è noto,
molto aperto: vi è chi ritiene che ciò sia, vi è chi ritiene, invece, il contrario: che non sia accolta a livello
giuridico una nozione antropológica di
cultura. Certo è che, anche alla base
della costruzione della cittadinanza tradizionale, basata sullo Stato-Nazione, era quanto meno
presupposta un’idea di cultura in senso
antropológico; una idea di cultura che, anche in quel campo, è stata superata
da molto tempo. Pertanto, laddove si voglia ritenere che, a livello europeo,
assuma giuridica rilevanza il concetto “antropologico” di cultura, è certo che
non si intende far riferimento a quella risalente accezione antropologica di
“cultura” (chiusa ed escludente) che
stava alla base della cittadinanza nazionale.
[48] CLIFFORD J., I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e
arte nel XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino, 1999 (II ed. it.) .
[50]
T. H. MARSHALL, Citizenship and Social Class, 1950 , trad. it a cura di
S. Mezzadra, 2002, Gius. Laterza
& Figli, 3-4: «Il problema non è se tutti gli uomini finiranno per
essere uguali ( questo non accadrà di certo ) , ma se non si può costantemente
seppur lentamente progredire fino al punto in cui ogni uomo , almeno per il
lavoro che svolge , sarà un gentleman . La mia impressione è che la cosa sia
possibile e si verificherà». Dopo la crisi del ’29, e, la “rottura di
civiltà” determinata dalla seconda guerra mondiale, acquista massimo rilievo il
tema della “sicurezza”, intorno al quale di lì a pochi anni si sarebbe
concentrata l’attenzione di innumerevoli studiosi del sociale e non solo73.
Nel testo di “Citizenship and Social Class”, l’autore propone una ricostruzione
di lungo periodo della storia moderna di cittadinanza, che ha come obbiettivo
proprio quello di porre lo Stato sociale democratico – nonché i diritti sociali
da esso garantiti – come suo coronamento e sintesi. Marshall, vuole tracciare
la storia di una cittadinanza “nazionale”; e indubbiamente il suo punto di
vista, è quello di una progressiva evoluzione dell’ istituto di “cittadinanza”
in una direzione sempre maggiormente inclusiva .
[51] Ci si riferisce, in particolare
alle sentenze Zhu e Chen (Sentenza 19 ottobre 2005, causa C-200/02,
Racc. I-9925 ss.), Rottmann
(sentenza 2 marzo 2009, causa C-135/08, Janko Rottmann c. Freistaat
Bayern) e Ruiz Zambrano (sentenza 8 marzo 2011, in causa C-34/2009).
[52]
Consiglio d'Europa, Dichiarazione finale del Consiglio di cooperazione
culturale sul progetto Democrazia, diritti umani, minoranze: aspetti educativi
e culturali (Strasburgo, 23 maggio 1997), in A. AUGENTI - L. AMATUCCI, Le Organizzazioni internazionali e le
politiche educative, Roma, Anicia, 1998, 113.