Università di Roma “La Sapienza”
APPUNTI
SU BONUM ET AEQUUM E CONVENTIO-CONSENSUS TRA IUS E SOCIETAS*
Sommario: 1. ‘Bonum et
aequum’ e ‘ius’. – 2. ‘Bonum et
aequum’, ‘consensus’ – ‘conventio’ e ‘societas’. – 3. ‘Ius’ e ‘societas’ in Cicerone: ‘coetus sociatus
consensu iuris’ e ‘societas
vitae’. – 4. Da ‘pactum-conventum
pars iuris’ a ‘consensus
fecit ius’. – 5. Retori,
giuristi (e Giustiniano).
A. La
distinzione
Nel II secolo a.C., il concetto di bonum et aequum è chiaramente
distinto da quello di ius.
Vedasi, esemplarmente, una commedia di
Terenzio, l’Heautontimorumenos
rappresentata, sembra, nel
quid cum illis agas qui
neque ius neque bonum atque aequom sciunt, meliu' peiu', prosit obsit, nil
vident nisi quod lubet? (Ter. Heaut.
642).
E prima ancora una commedia di Plauto, i
Menaechmi, ove appariva lex in luogo di ius:
qui neque leges neque aequom bonum usquam colunt, sollicitos patronos
habent (Plaut. Menaec. 580)[2].
Entrambi i concetti sono utilizzati per
indicare la generale regolamentazione della vita degli uomini, pur in ambiti
distinti; e ciò fa comprendere come essi non siano tra loro separati.
Accanto a quella che Cicerone
chiamerà ‘aequi bonique
ratio’ si pone quindi lo ius[3].
Ancora nella metà del I secolo
a.C. è percepita questa distinzione; e ciò è
particolarmente chiaro in un testo di Sallustio, ove l’incriminazione di
Bomilcare non ha fondamento nello ius
(gentium)[4], ma nel bonum et aequum:
(Bomilcar) fit reus magis ex aequo
bonoque quam ex iure gentium (Sall. Iug. 35.7).
B. ‘Bonum et aequum’ come ‘pars’ di ‘ius’
All’inizio del I secolo a.C., bonum et aequum entra nel concetto di ius, costituendone dichiaratamente una
‘pars’ insieme a natura, lex, consuetudo, iudicatum, pactum. È evidente che questa partizione di ius, presente nella Rhetorica ad Herennium, non comprende solo le cosiddette
‘fonti’ produttive del diritto, nel senso prescrittivo-normativo:
de eo causa posita dicere
poterimus, si, ex quibus partibus ius constet, cognoverimus. Constat igitur ex
his partibus: natura, lege, consuetudine, iudicato, aequo et bono, pacto (Rhet. 2.19)[5].
Le ‘partes’ di cui consta lo ius
nella Rhetorica non sono,
però, quelle in cui consiste lo ius
(civile) secondo Cicerone. Questi,
nelle Partitiones oratoriae
distingueva due parti originarie dello ius:
(ius) dividitur in duas
partes primas, naturam atque legem (Cic. Part.
129).
Successivamente nei Topica, una delle ultime opere, individuava le parti dello ius in leges, senatus consulta, res iudicatae, iuris peritorum auctoritas,
edicta magistratuum, mos, aequitas[6].
Il pactum
scompariva e l’aequitas, che
qualche anno prima lo stesso Cicerone aveva associato ai magistratus[7], si
sostituiva all’aequum et bonum.
Rimaneva la natura, assunta
dall’Arpinate a ‘prima pars’,
insieme alla lex.
C. ‘Bonum et aequum’ come ‘principium (potissima pars)’ di ‘ius’ (e di ‘iurisprudentia’)
Il concetto di ‘pars rei’, elaborato
giuridicamente da Quinto Mucio[8], ma
già presente negli ambiti giuridici[9] e nelle
categorie filosofiche e retoriche[10], appare
dunque chiaramente nelle partizioni dello ius
esposte nella Rhetorica e nelle opere
di Cicerone. Tali partizioni, come è stato autorevolmente sostenuto anche
in tempi recenti, hanno “origine giurisprudenziale”[11].
Quindi, seguendo quanto scriverà
Gaio nel I libro sulle XII Tavole, qual era il ‘principium (potissima pars)’ dello ius?[12]
È nell’ambito della scuola
proculeiana, all’inizio del II secolo, che bonum et aequum viene fatto emergere quale ‘principium’ dello ius, in quanto oggetto, specifico ed
unico, dell’ars iuris:
ut eleganter Celsus
definit, ius est ars boni et aequi (Celso-Ulpiano,
l. I inst. in D. 1.1.1. pr.).
Con Celso è evidente che bonum et aequum non solo non è
più percepito come distinto da ius,
ma viene collocato al fondamento di ius;
è altresì evidente il rifiuto della riduzione di bonum et aequum ad aequitas[13].
Quale diretta conseguenza di tale
emersione, posso rilevare che bonum et
aequum è, nell’età dei Severi, parte del concetto di iurisprudentia, come espresso da Ulpiano
nel I libro delle sue Istituzioni[14], e
parte, anzi ‘principium’
di ius, con riferimento allo ius naturale, secondo la teorizzazione
di Paolo circa i molteplici modi ‘di dire diritto’,
nell’opera dedicata a Sabino (in D. 1.1.11). Nel testo di Paolo è
evidente la stretta connessione tra natura
e bonum et aequum nella quale
è assorbito, direi naturalmente, il ruolo dell’ars:
cum id quod semper aequum ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale.
Orbene, per comprendere come si sia
giunti a concepire bonum et aequum
quale principium di ius, occorre chiarire il rapporto tra bonum et aequum e societas, la cui caratterizzazione passava attraverso il concetto
di conventio-consensus. Infatti, come
vedremo poco più avanti, nelle fonti ius
era accostato a societas.
A. ‘Bonum et aequum’
Qualche lustro dopo la elegante
definizione di Celso, bonum et aequum
è indicata nelle Istituzioni di Gaio quale parte del contratto
consensuale di societas: gli
obbligati sono tenuti a ‘ex bono et
aequo praestare’:
item in his contractibus
alter alteri obligatur de eo, quod alterum alteri ex bono et aequo praestare
oportet (Gai 3.137).
Va detto che Gaio non ignora il valore
di ‘bona fide praestare’,
come emerge nella parte delle Istituzioni dedicata al mandato[15]. Egli
vuole, però, richiamare appositamente il ‘principium’ (di ius)
da cui fides bona discende; e che non
è solo aequitas, parola di cui
Gaio neppure fa uso nelle Istituzioni. Peraltro, va detto che
l’impostazione di Gaio non appare seguita da altri giuristi.
B. ‘Consensus’ - ‘conventio’
Parti della societas sono anche il consensus
e la conventio[16].
Il
consensus come parte caratterizzante la societas
fu enucleato presto; probabilmente da Quinto Mucio da cui è possibile ricavare, attraverso Pomponio
nell’opera dedicata proprio al giurista repubblicano, il riferimento al nudus consensus, anche se espressamente
ristretto alle sole emptio, venditio e locatio:
aeque cum emptio vel
venditio vel locatio contracta est, quoniam consensu nudo contrahi potest
(Pomponio, l. IV ad Quintum Mucium, D. 46.3.80).
Sarà comunque con Gaio, nelle
Istituzioni, che verrà scritto come la ‘societas iuris gentium’ è contratta attraverso il
‘nudus consensus’:
sed haec quoque societas de qua loquimur, id est quae nudo consensu
contrahitur, iuris gentium est; itaque inter omnes homines naturali ratione
consistit (Gai 3.154).
La societas
quale conventio o, con la
formulazione più antica di pactum
conventum[17],
appare (ancora) in Alfeno Varo, il quale aveva infatti scritto di pactum conventum societatis o de societate[18].
Successivamente, fu Pedio a rilevare
come la conventio dovesse essere
considerata parte ineludibile delle obligationes,
e quindi anche della societas, con la
quale anzi si identificava[19].
È Ulpiano, nel libro IV del
commento all’editto, a riproporre il concetto espresso da Pedio; e lo
stesso Ulpiano, nel medesimo libro, espressamente definisce la societas quale conventio (iuris gentium)[20].
La caratterizzazione della societas in termini di ‘obligatio consensu contracta’,
probabilmente risalente al secolo di Quinto Mucio, sembra avere un’eco
anche in Cicerone, che aveva avuto proprio Mucio come maestro di diritto.
È nel de republica che
l’Arpinate dà una definizione di populus basata, appunto, su ‘consensus ac societas’:
ergo
illam rem populi, id est rem publicam, quis diceret tum, cum crudelitate unius oppressi essent
universi, neque esset unum
vinculum iuris nec consensus ac societas coetus, quod est populus? (Cic. de
rep. 3.31.43).
Ancora nel de republica, sempre nell’ambito della definizione di populus, è evidente
l’accostamento della societas
allo ius, attraverso la combinazione
con uno dei suoi caratteri: ‘‘coetus
sociatus consensu iuris’’[21].
Tale accostamento sarà ribadito,
qualche anno più tardi, nel de
officiis, ove Cicerone celebra i tre livelli della ‘societas vitae’, sulla base di una
distinzione ricollegabile alla differenza tra ius gentium e ius civile[22]:
hoc quamquam video
propter depravationem consuetudinis neque more turpe haberi neque aut lege
sanciri aut iure civili, tamen naturae lege sanctum est. Societas est enim
latissime quidem quae pateat, omnium inter omnes, interior eorum, qui eiusdem
gentis sint, propior eorum, qui eiusdem civitatis. Itaque maiores aliud ius
gentium, aliud ius civile esse voluerunt, quod civile, non idem continuo
gentium, quod autem gentium, idem civile esse debet … Fideique bonae
nomen existimabat manare altissime idque versari in … societatibus
…, quibus vitae societas contineretur (Cic. de off. 3.69.70)[23].
Del resto, non si deve dimenticare che
la parola consensus appare per la
prima volta proprio con Cicerone, segno evidente dell’interesse
dell’Arpinate per le tematiche riferibili all’uso, nel linguaggio
giuridico, del verbo consentio, se
non anche della stessa parola consensus[24].
I caratteri della societas si intrecciano, dunque, con quelli dello ius.
Il pactum-conventum,
carattere della società, è anche tra le partes dello ius, come
individuate nella Rhetorica. Si
tratta delle pattuizioni convenute tra le persone; esse fanno parte dello ius al pari della natura, della legge,
della consuetudine, dei giudicati e dell’aequum et bonum:
ex pacto ius est, si quid
inter se pepigerunt, si quid inter quos convenit. Pacta sunt, quae legibus
observanda sunt, hoc modo: Rem ubi pagunt, <orato; ni pagunt,> in comitio
aut in foro ante meridiem causam coicito. Sunt item pacta, quae sine legibus
observantur ex convento quae iure praestare dicuntur. His igitur partibus iniuriam
demonstrari, ius confirmari convenit, id quod in absoluta iuridiciali faciundum
videtur (Rhet. 2.20).
Il pactum-conventum
scompare, però, presto dalla partizione dello ius.
Qualche secolo più tardi nella
teorizzazione di Modestino circa le parti che ‘producono’ omne ius, nel I libro sulle regole,
comparirà invece il consensus:
il consensus ‘fecit’ lo ius, la necessitas
‘constituit’ lo ius, la ‘consuetudo’ ‘firmavit’
lo ius[25].
Modestino raccoglieva le fila di un
percorso, quello del consensus, che
passava attraverso la definizione di consuetudo-desuetudo
del sabiniano Giuliano nell’LXXXIV libro sui digesti, in cui era
chiaramente distinto il suffragium legis
latoris dal tacitus consensus omnium:
ut leges non solum
suffragio legis latoris, sed etiam tacito consensu omnium per desuetudinem
abrogentur (Giuliano in D. 1.3.32.1)[26].
A. Dalle
‘parti’ del diritto alle ‘fonti’ del diritto
Le ‘partes’ di cui consta lo ius
nella Rhetorica non sono, come ho
detto, quelle in cui consiste lo ius
secondo Cicerone. Non sono neppure quelle di cui constano gli iura populi Romani nelle Istituzioni di
Gaio.
Negli scritti dell’Arpinate, si
è visto che il pactum scompare
e l’aequitas sostituisce aequum et bonum[27]. Nelle
Istituzioni di Gaio, è confermata la scomparsa del patto;
vieppiù, spariscono la natura
e l’aequitas:
constant
autem iura populi Romani ex legibus, plebiscitis, senatusconsultis,
constitutionibus principum, edictis eorum, qui ius edicendi habent, responsis
prudentium (Gai 1.2).
Ad una concezione generale di partes iuris, in cui rientravano anche i
patti tra privati, oltre che caratteri quali natura ed aequum et bonum, si è sostituita gradualmente una concezione
specifica, nella quale trovano spazio solo gli atti idonei a produrre ius. Insomma, da una elencazione di
‘figurae’[28] del
diritto si è passati ad una classificazione di atti-fonti di produzione
del diritto, nel senso prescrittivo. E ciò, potrei dire, in parziale
adesione a quanto aveva ‘teorizzato’ Cicerone circa la distinzione
dello ius in ‘duae partes primae’, di cui una
era, appunto, la lex[29].
Del resto Paolo, nell’opera
dedicata a Sabino, spiegava che ius
pluribus modis dicitur, vi sono cioè più modi di dire diritto[30].
B. ‘Bonum et aequum’ e
‘aequitas’
Ora torniamo a bonum et aequum quale principium
di ius. Si è visto che bonum et aequum tendeva a scomparire
dalle elencazioni concernenti lo ius;
è proprio in questo contesto che si colloca allora l’iniziativa di
Celso di ergere bonum et aequum a
‘principium’ stesso dello
ius. Non vi era più spazio per
bonum et aequum (e neppure per il pactum) in sistematiche sempre
più orientate a descrivere il momento di produzione del diritto, nel
senso prescrittivo, e sempre meno propense a cogliere lo ius sotto i molteplici aspetti della produzione, della
interpretazione e dell’applicazione. Occorreva, allora, per conservare
l’integrità e la consistenza di bonum et aequum, pur mantenendo la pluralità di ius, recuperare bonum et aequum quale pars-principium
di ius stesso, rifiutandone al
contempo la riduzione ad aequitas,
come Cicerone aveva invece insegnato nei Topica[31]. Bonum et aequum era infatti ben
più che aequitas[32].
Diversamente da quanto capitato allo ius, bonum
et aequum quale carattere della societas
tendeva a confondersi con l’aequitas,
forse perché troppo vicini apparivano bonum et aequum e fides bona[33].
Perciò Trifonino, nelle disputationes,
ridusse ad aequitas il principio del bonum et aequum, che in precedenza era
stato recepito da Gaio tra i caratteri della societas:
bona fides quae in contractibus exigitur aequitatem summam desiderat
(Trifonino, l. IX disput., in D. 16.3.31 pr.).
C. ‘Conventio-consensus’ e
‘ius’
Il pactum-conventum,
tra cui è evidentemente anche il pactum
de societate, quale ‘pars’
dello ius atta a descriverne
concretamente il momento applicativo, sparisce dunque dalle partizioni del
diritto. Al suo posto, più di 300 anni dopo l’elencazione della Rhetorica, compare il consensus. Come ho detto, è Modestino
a teorizzarlo (in D. 1.3.40), distinguendo i caratteri produttivi del diritto
in necessitas, consuetudo e, appunto, consensus.
Si tratta di un grande sforzo di astrazione, che faceva seguito ad un tentativo
analogo compiuto da Cicerone in Part.
129, ove (ius) dividitur in duas partes
primas, naturam atque legem, ed alla concettualizzazione di consuetudo-desuetudo di Giuliano in D.
1.3.32.1. E Modestino conosceva gli scritti di Giuliano e doveva conoscere
anche le opere di Cicerone, come sicuramente le conosceva il suo maestro
Ulpiano[34].
Così, la tendenza all’astrazione portava al recupero, tra le parti
dello ius, di quello che era divenuto
il carattere fondante della societas.
Bonum
et aequum è il principium del diritto, il quale
è fatto dal consenso (degli associati). Ebbene, Cicerone, Celso e,
direi, Giuliano avevano ragione; ed intanto l’impero, dopo la
costituzione Antoniniana, era avviato, con il suo diritto, verso un concetto
universale[35].
Così Giustiniano non aveva difficoltà ad usare, nelle Istituzioni
ed in relazione a societas e ius, ‘ex bono et aequo praestare’ (I. 3.22.3) e ‘consensus populi’, seppur ‘tacitus’ (I. 1.2.11)[36].
[I contributi della
sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei
promotori del Seminario e dei curatori della sezione, d'intesa con la direzione
di Diritto @ Storia].
* Si tratta della ricostruzione del testo
della comunicazione da me tenuta nel Seminario di studi su “Societas.
Strumento di organizzazione pubblica e privata”, svoltosi a Sassari
nei giorni 4-5 maggio 2012, organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza
dell’Università di Sassari e dall’Istituto di Studi e
Programmi per il Mediterraneo-ISPROM, in collaborazione con
l’Université Montpellier I. Ho conservato l’originaria
impostazione schematica limitandomi, anche per ragioni di spazio e di tempo, a
predisporre (in note) un apparato di fonti e di dottrina.
[1] Nelle fonti letterarie (Plauto,
Terenzio, Auctor ad Herennium, Cicerone, Sallustio, Livio, Seneca, Quintiliano,
Floro, Apuleio, Ammiano, Symmaco), è più diffuso l’uso
dell’espressione secondo la formulazione aequum et bonum. La formulazione inversa, cioè bonum et aequum, appare in Plauto,
Terenzio, Auctor ad Herennium, Sallustio e Svetonio; solo quest’ultimo,
però, la usa esclusivamente. Nei giuristi (Celso, Pomponio, Gaio,
Papiniano, Ulpiano, Paolo) è invece più diffuso l’uso
dell’espressione secondo la formulazione bonum et aequum; infatti, aequum
et bonum ricorre solo in Africano (D. 40.4.22), Ulpiano (D. 17.1.12.9) e
Paolo (D. 1.1.11). Di questi, il solo Africano ne fa un uso esclusivo. Si
vedano: Thesaurus linguae Latinae, I,
s.v. Aequus, 1041; Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, I,
s.v. Aequus, 295 s. Circa la
variabilità delle forme con cui è presentata la nostra
espressione, S. Riccobono, La definizione del ius al tempo di Adriano,
in «Annali del Seminario Giuridico della Università di
Palermo» 20 (1949) 62, scriveva: «dalla forma varia in cui appare bonum et aequum nelle fonti letterarie e
giuridiche non si può trarre nessuna conseguenza, e nemmeno
dall’ordine in cui i due vocaboli si presentano».
[2] Notevole è l’accostamento
che, qualche verso più avanti, Plauto compie tra quel tipo di persone
‘qui neque aequom bonum usquam
colunt’ ed il faenus,
cioè il prestito usurario: …qui
aut faenore … habent rem paratam.
[3] Cic. pro Caec. 80: cum exemplis
uterer multis ex omni memoria antiquitatis a verbo et ab scripto plurimis saepe
in rebus ius et aequi bonique rationem esse seiunctam, semperque id valuisse
plurimum quod in se auctoritatis habuisset aequitatisque plurimum, consolatus
est me et ostendit in hac ipsa causa nihil esse quod laborarem; nam verba ipsa
sponsionis facere mecum, si vellem diligenter attendere. L’orazione
è stata composta tra il 69 ed il
[4] Sullo ius gentium la letteratura è molto vasta. Per bibliografia e
fonti, rimando ad uno degli scritti più recenti sull’argomento: O.
Behrends, Che cos’era il ius gentium antico?, in L. Labruna (direzione di), Tradizione romanistica e Costituzione,
I, Napoli 2006, 481 ss.
[5] Quel che si intendeva con
l’espressione aequum et bonum,
nella Rhetorica è spiegato
così: ex aequo et bono ius
constat, quod ad veritatem <et utilitatem> communem videtur pertinere,
quod genus ut maior annis LX et cui morbus causa est, cognitorem det. Ex eo vel novum ius constitui convenit ex
tempore et ex hominis dignitate (Rhet.
2.20). Da notare
l’accostamento della utilitas
communis al bonum et aequum,
sottolineato particolarmente da P. Voci,
Ars boni et aequi, in
«Index» 27 (1999) 1 ss.
[6] Cic. Top. 5.28: ius civile ... in
legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate,
edictis magistratuum, more, aequitate consistit. Le Partitiones oratoriae erano state iniziate da Cicerone intorno al
54 e concluse nel
[7] Cic. leg. agr. 2.102: ius in
iudiciis et aequitate magistratuum. L’orazione sulla rogatio agraria del tribuno Servilio
Rullo risale al
[8] D. 50.16.25.1 (Paolo, l. XXI ad ed.): Quintus Mucius ait partis appellatione rem pro indiviso
significari: nam quod pro diviso nostrum sit, id non partem, sed totum esse.
[9] Cfr., esemplarmente, il concetto di minor pars populi e la sua utilizzazione
nella scelta del pontefice massimo e dei sacerdoti organizzati in collegi (per i
quali v. Cic. leg. agr. 2.7.17-18).
Cfr., ancora, la maior pars tribunorum
plebis e la maior pars iudicum
nei meccanismi, rispettivamente, della lex
Atilia (per cui v. Gai 1.185) e della lex
Acilia repetundarum, 60 (in F.I.R.A.,
I, Leges, 84 ss.).
[10] Cfr., esemplarmente, Cic. Part. 3, sulla partizione
dell’oratoria: in partes
distribuenda est omnis doctrina dicendi.
[11] Voci,
Ars boni et aequi, cit., 9: «la
nozione del bonum et aequum non
poteva provenire se non dall’esperienza di cose romane, e non poteva
essere dovuta a speculazione retorica. Può pertanto supporsi che qualche
nozione teorica, esposta dai retori, abbia origine giurisprudenziale: la
individuazione delle partes iuris
corrisponde alle classificazioni per genera,
che sappiamo iniziate dai giuristi».
[12] Gaio (l. I ad leg. XII Tab.) in D. 1.2.1: quod in omnibus rebus animadverto id
perfectum esse, quod ex omnibus suis partibus constaret: et certe cuiusque rei
potissima pars principium est.
[13] Sulla definizione di Celso, v. F. Gallo, Sulla definizione celsina del diritto, in «SDHI» 53
(1987) 7 ss. V. altresì, Id.,
I principi generali
dell’ordinamento dello Stato e l’interpretazione della legge alla
luce della carta costituzionale, in Studi
in onore di Pietro Rescigno, I, Milano 1998, 435 ss., per
un’interessante comparazione tra bonum
et aequum ed i criteri di eguaglianza e ragionevolezza quali principi
dell’ordinamento italiano contemporaneo. V. ancora, dello stesso autore, Che cos’è la costituzione? Una
disputa sulla rifondazione della scienza giuridica, in «BIDR»
105 (2011) 325 ss.
[14] Ulpiano (l. I inst.) in D.
1.1.1.1: Cuius merito quis nos sacerdotes
appellet: … boni et aequi notitiam profitemur.
[15] Gai 3.155: contrahitur mandati obligatio, et inuicem alter alteri tenebimur in id,
quod uel me tibi uel te mihi bona fide praestare oportet.
[16] Fondamentale F. Gallo, Synallagma e
conventio nel contratto. Corso di diritto romano, I, Torino 1992, 38 ss.
[17] V. Thesaurus
linguae Latinae, IV, s.v. Conventus,
843 s. Tra i giuristi che utilizzano ‘pactum
conventum’, Alfeno Varo appare il più antico (oltre al passo
riportato infra, v. D. 23.4.19).
[18] Paolo, l. III epitomatorum Alfeni
digestorum, in D. 17.2.71. pr.: de ea
re quae voluerunt fieri in pacto convento societatis prescripserunt. …
pacto convento inter eos de societate facto.
[19] Ulpiano, l. IV ad ed., D. 2.14.1.
pr.-3: huius edicti aequitas naturalis
est. quid enim tam congruum fidei humanae, quam ea quae inter eos placuerunt
servare? Pactum autem a
pactione dicitur (inde etiam pacis nomen appellatum est). Et est pactio duorum
pluriumve in idem placitum et consensus. Conventionis verbum generale est ad
omnia pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt
qui inter se agunt: nam sicuti convenire dicuntur qui ex diversis locis in unum
locum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis animi motibus in unum
consentiunt, id est in unam sententiam decurrunt. adeo autem conventionis nomen
generale est, ut eleganter dicat Pedius nullum esse contractum, nullam
obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re sive verbis fiat: nam
et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum, nulla est.
[20] Ulpiano, l. IV ad ed., in D. 2.14.7 pr.-1: Iuris
gentium conventiones … transeunt in proprium nomen contractus: ut …
societas.
[21] Cic. de rep. 1.25.39: est igitur, inquit
Africanus, res publica res
populi, populus autem non omnis
hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus.
V. anche la definizione di civitas quale societas iuris in Cic. de rep.
1.49: quid est enim civitas nisi iuris
societas?
[22] Sulla societas vitae in Cicerone, v. R. Cardilli,
Societas vitae in Cic. off. 3, 70 e
obligatio consensu contracta, in «BIDR» 105 (2011) 185 ss.
[23] Cicerone scrisse la sua opera sulla res publica tra il 55 ed il
[24] A proposito dell’uso di consensus e di consentio nelle fonti, R. Fiori,
Contrahere e solvere obligationem in Q.
Mucio Scevola, in C. Cascione
e C. Masi Doria (a cura di), Fides humanitas ius. Studii in onore di
Luigi Labruna, III, Napoli 2007, 1964, scrive giustamente: «mi
sembrerebbe che l’eventuale novità ciceroniana di una utilizzazione
del termine per rendere i vocaboli greci e l’assenza di attestazioni
precedenti non siano elementi sufficienti per escludere l’esistenza del
sostantivo e la sua valenza giuridica anche in epoca anteriore».
[25] Modestino, l. I reg., in D. 1.3.40: Ergo omne ius aut consensus fecit aut
necessitas constituit aut firmavit consuetudo.
[26] Circa la consuetudo-desuetudo ed il rapporto con (tacitus) consensus omnium v.
le illuminanti pagine scritte da F. Gallo,
Produzione del diritto e sovranità
popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1.3.32), in
«Iura» 36 (1985) 70 ss. Sul tema, richiamo altresì quanto
scrisse, più di un secolo fa, C. Manenti,
Ius ex scripto e ius ex non scripto.
Osservazioni critiche sulla teoria delle fonti secondo il diritto romano,
in Studi Senesi, I, Torino 1906, 264
ss., con particolare riferimento al concetto di consensus utentium.
[28] Sul concetto di ‘iuris figura’, cfr.,
esemplarmente, Gai 2.191: Post
haec uideamus de legatis. quae pars iuris extra propositam quidem materiam
uidetur: nam loquimur de his iuris figuris, quibus per uniuersitatem res nobis
adquiruntur: sed cum omni modo de testamentis deque heredibus, qui testamento
instituuntur, locuti simus, non sine causa sequenti loco poterit haec iuris
materia tractari.
[30] Paolo, l. XIV ad Sab., in D.
1.1.11: ius pluribus modis dicitur: uno
modo, cum id quod semper aequum ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale.
Altero modo … ut est ius civile. Nec minus … ius honorarium.
[32] Fondamentale, sulla distinzione tra bonum et aequum ed aequitas, Gallo, Sulla definizione celsina del diritto,
cit., 30 ss., cui rimando anche per la bibliografia precedente.
[34] Circa la conoscenza delle opere di
Giuliano da parte di Modestino, v. D. 2.14.34, D. 38.4.8, D. 40.7.27, D.
40.9.21. Sulla conoscenza degli scritti di Cicerone da parte di Ulpiano, v. D.
42.4.7.4: quid sit autem latitare,
videamus. latitare est non, ut Cicero definit, turpis occultatio sui: potest
enim quis latitare non turpi de causa, veluti qui tyranni crudelitatem timet
aut vim hostium aut domesticas seditiones. Ulpiano si riferiva ad
un’orazione di Cicerone che non ci è stata tramandata. Da notare
che, oltre ad Ulpiano, dimostrano espressamente di conoscere l’opera
dell’Arpinate solo Pomponio nel celebre testo sulla ‘storia’
del diritto (romano) (D. 1.2.2.40 e 46) e Trifonino (D. 48.19.39),
contemporaneo di Ulpiano.
[35] F. Gallo,
Bona fides e ius gentium, in L. Garofalo (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, II, Padova 2003,
128 ss., a proposito della recezione degli istituti dello ius gentium, scrive: «è indubbio che gli istituti del ius gentium sono stati elaborati dai
giuristi romani … Ebbene, secondo i giureconsulti gli istituti del ius gentium non venivano introdotti legibus, ma recepiti moribus. In questa recezione era
operante l’apporto dei iuris
prudentes, ma l’elemento decisivo era visto nella volontà
popolare. Ovviamente, per gli istituti del ius
gentium, non si faceva riferimento al solo volere dei cittadini romani, ma
anche a quello dei peregrini … Dall’apertura, sul piano teorico, a
tutte le gentes esistenti sulla terra
scaturiva il profilo dell’universalità». Mi sembra
un’importante risposta, dalla prospettiva della volontà popolare,
a quanto aveva scritto, qualche anno prima, M. Talamanca, Ius gentium
da Adriano ai Severi, in Aa.Vv.,
La codificazione del diritto
dall’antico al moderno, Napoli 1998, 226 s., a proposito del rapporto
tra diritto romano ed «ordinamenti locali» nell’unificazione
del diritto, iniziata con la constitutio
Antoniniana: «tale unificazione non si sarebbe compiuta in
virtù di quel ius gentium, in
cui i prudentes sembravano
sacrificare all’ideale della naturalis
ratio e dell’uguaglianza tra gli uomini, ma all’insegna di quel
diritto romano nel quale soltanto una visuale, tutto sommato, prevenuta
potrebbe individuare l’esempio …, se non della naturalis ratio, del ius
gentium ispirato alle concezioni comunemente diffuse almeno nell’area
mediterranea». A proposito della costituzione Antoniniana del 212 d.C.,
mi piace ricordare che nel 2012 ne è ricorso il MDCCC anniversario.
[36] Ermogeniano, l. I iuris epitomarum, in
D. 1.3.35, a proposito della longa consuetudo aveva fatto riferimento ad
una tacita civium conventio: sed et ea, quae longa consuetudine
comprobata sunt ac per annos plurimos observata, velut tacita civium conventio
non minus quam ea quae scripta sunt iura servantur.