Università
di Brescia
LA
TUTELA DEI BENI COMUNI
PER IL RECUPERO DELLE AZIONI
POPOLARI ROMANE COME MEZZO DI DIFESA DELLE RES
COMMUNES OMNIUM E DELLE RES IN USU PUBLICO*
SOMMARIO: 1. La posizione del problema.
– 2. I tentativi di soluzione. – 3. L’inadeguatezza delle soluzioni proposte e il
problema del circolo vizioso. – 4. L’azione
popolare e gli ostacoli storico-dogmatici che si frappongono ad una sua
corretta valorizzazione. – 5. La natura
dell’azione popolare romana. – 6. La
nascita della ‘falsa’ concezione dell’azione popolare come
azione a legittimazione generale e la crisi dell’istituto
dell’azione popolare. – 7. L’interesse
tutelato con le azioni popolari. – 8. Alcune
riflessioni finali.
Ha scritto recentemente uno dei
più noti giuristi italiani del nostro tempo, Stefano Rodotà, che
se un abitante di Udine ritiene che nell’isola di Pantelleria stia per
essere perpetrato uno scempio o comunque un danno ad un ambiente naturale, tale
abitante deve poter aver il modo di intervenire per impedirlo, sia
perché un giorno pensa di potersi recare in quell’isola, sia
perché pensa che vi si potranno recare i propri figli o nipoti, ma sia
anche solo nell’interesse degli stessi abitanti dell’isola, i quali,
magari perché «prigionieri di logiche o egoismi di ogni
genere» si trovano impossibilitati a farlo da soli[1].
Significativa mi pare a questo proposito una frase che viene fatta rimontare
alla cultura masai: «trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci
è stata donata dai nostri padri, ci è stata prestata dai nostri
figli».
In più di un caso, negli anni
passati, le nostre corti giurisdizionali italiane hanno negato a singoli
cittadini e finanche ad associazioni rappresentative di essi la legittimazione
attiva alla tutela di diritti super- o metaindividuali, in assenza di un
‘collegamento’ con il bene giuridico in relazione al quale si
chiedeva la tutela, collegamento rappresentato vuoi da un diritto soggettivo,
vuoi da un interesse legittimo, vuoi da un altro elemento che fosse comunque in
grado di connettersi ad una di queste due situazioni giuridiche soggettive.
Tra i tanti casi che si potrebbero
segnalare, mi piace qui ricordarne uno in particolare.
Nel 1969, alcuni albergatori di due
cittadine del basso Lazio, Gaeta e Formia, impugnarono l’autorizzazione
concessa dal Ministero dell’Industria ad una società per la
costruzione di due depositi di oli minerali, un oleodotto di collegamento e un
terminale marino attrezzato per l’attracco di petroliere di grosso
tonnellaggio nel golfo di questa stessa città. Essi ritenevano (a mio
avviso a ragione), che la costruzione di queste infrastrutture avrebbe
danneggiato l’ambiente (lamentavano una profonda alterazione dei valori
naturali della zona, nonché di quelli ambientali e paesaggistici) e, di
conseguenza il turismo, ledendo un loro interesse anche (ma non solo)
patrimoniale.
Il Consiglio di Stato, decidendo nel
1972 la questione, negò l’esistenza nella circostanza di un
interesse a ricorrere da parte degli albergatori, degradandolo al rango di
interesse di mero fatto.
Un illustre amministrativista, il prof.
Alberto Romano, commentando questa sentenza, ha ritenuto che la Corte abbia di
fatto sancito il principio per cui una vicenda, «siccome interessa tutti,
allora non interessa nessuno»[2].
Da allora molta acqua è passata
sotto i ponti: il legislatore è intervenuto su alcuni punti nel
tentativo di allargare quanto più possibile la legittimazione attiva in
fattispecie analoghe[3]; la
giurisprudenza non ha mancato di manifestare posizioni più concilianti[4], sebbene
non siano mancate diverse oscillazioni (alcune delle quali veramente
inspiegabili)[5];
la dottrina ha lanciato proposte di revisione e modifica di vecchi schemi e di
impostazioni superate[6]. Non
manca, però, un cammino ancora da compiere, così come non poche
sono le zone d’ombra rimaste nell’inquadramento giuridico di queste
problematiche.
In questo ambito, infatti, da un lato,
molto hanno pesato, le inclinazioni del nostro legislatore, che guarda al modello
nordamericano delle class action, le
quali, però, nonostante gli sforzi esegetici e applicativi di molti, mi
pare che continuino a rimanere un modello difficilmente esportabile al di fuori
del contesto in cui sono nate e si sono sviluppate[7];
dall’altro lato, un grosso ostacolo è stato costituito soprattutto
dalle incrostazioni dogmatiche stratificatesi nel corso di secoli, le quali non
consentono di cogliere appieno il ruolo dell’individuo all’interno
della società in cui esso svolge la sua personalità, obbligandolo
ad avvalersi di concetti giuridici sovrastrutturati, come ad es. quello di
‘diritto soggettivo’ o ‘interesse legittimo’[8], o
creando di fatto una dialettica tra individuo e Stato (inteso come ente
astratto da tenere rigorosamente distinto dalla massa dei singoli che lo
compongono), che ostacola un corretto perseguimento degli interessi di tutti,
sia da parte dei primi (gli individui) che del secondo (lo Stato, appunto).
A questo proposito, mi ripropongo di esporre
brevemente alcune considerazioni che si riallaccino al modello romano delle
azioni popolari, per verificarne la loro attualità e modernità: a
mio avviso, esse costituiscono un prezioso strumento di intervento nelle mani
del giurista. Ritengo però che ciò sia possibile solo dopo che ci
si sia liberati di quelle riferite sovrastrutture dogmatiche che rendono questo
istituto a tutti gli effetti inutilizzabile nelle modalità in cui esso
viene oggi concepito, e che costringono l’interprete a compiere pericolosi
voli pindarici o a mettere in atto complesse manovre di aggiramento, che
inducono alla creazione di istituti o figure giuridiche estranianti o, al
massimo, paragonabili alle anime vaganti ed erranti (animulae vagulae blandulae) tanto
care alla memoria dell’imperatore Adriano[9].
In realtà, l’insufficienza
o l’inadeguatezza dello Stato e delle istituzioni amministrative a questo
collegate per la tutela di interessi che sono da considerarsi super-individuali
è stata riconosciuta da quasi mezzo secolo. In particolare, in Italia[10]
l’attenzione si è destata intorno agli anni ’70 del secolo
passato, sia da parte degli amministrativisti, così come dei civilisti e
dei processualcivilisti, i quali hanno proposto diverse possibili soluzioni,
tutte, a mio avviso, per vari profili insoddisfacenti.
Certo non percorribile appare la via di
identificare in questi diritti o interessi ultraindividuali soltanto un
«problema tutto politico o tutto sostanziale del riconoscimento a livello
di diritti soggettivi di interessi inerenti a beni collettivi»[11],
scaricando così l’interprete del peso derivante dal dover
riconoscere soddisfazione a questi bisogni: io credo, invece, che quello qui
esposto sia un problema tutto giuridico, e sia compito dei giuristi trovare ad
esso una soluzione.
Proprio per fornire una risposta a
questo vuoto, gli studiosi moderni, anziché cavalcare la via della
revisione o del superamento di principi e istituti non più adeguati o
sufficienti (non solo il diritto soggettivo e l’interesse legittimo, ma
anche, ad esempio, in diversi casi, il principio del contraddittorio, della
legittimazione ad agire, dei limiti soggettivi di efficacia del giudicato
ecc.), come pure non si è mancato di proporre[12], hanno
escogitato le nozioni di interessi diffusi e collettivi, oppure di diritti
adespoti[13],
o ancora di interessi individuali omogenei[14], e
continuano a giustificare il fatto che chiunque possa agire a difesa di un
interesse riconosciuto come pubblico (così definito soltanto
perché esso non può essere classificato come privato, nel senso
di individualistico), parlando di sostituzione processuale[15]; oppure
di ‘esercizio privato di funzioni pubbliche’[16], e
arrivando, in questa stessa logica a considerare l’attore popolare
più o meno come una longa manus
del potere statale[17], una
sorta di pubblico ministero privato[18], avente
soltanto una specie di mero interesse riflesso e non un vero e proprio diritto[19].
In questa ottica, si è giunti
persino a dire che colui il quale agisca per la difesa di un interesse comune
altro non sarebbe se non «un rappresentante giudiziale sia pure sui generis dello Stato o di altro Ente
pubblico titolare di interessi e di diritti che vengono tutelati in via
surrogatoria dal cittadino a causa dell’inerzia dell’Ente
pubblico»[20].
Non è mancato poi chi, importando la costruzione nordamericana
dell’‘ideological plaintiff’,
ha finito per vedere nell’attore popolare nulla più che un attore
ideale, cioè un legittimato processuale che ha una connessione non
propriamente giuridica con l’oggetto della lite, ma solamente
‘ideologica’[21].
Altri, invece, in maniera a mio avviso
ancora più abnorme, affermano che tale interesse diffuso (nel senso di
ultraindividuale), essendo come tale adespota, appartiene al singolo solo dal
punto di vista soggettivo, mentre da quello oggettivo appartiene a una
collettività indeterminata, così che esso non può essere
meritevole di tutela se non quando, dopo aver subito una sorta di
‘mutazione genetica’, si sia trasformato in interesse collettivo:
solo in tale momento questo interesse, inizialmente ‘adespota’ e
‘privo di portatore’, si ‘coagulerebbe’, trovando un
portatore, identificato in un ente esponenziale riconosciuto come tale dallo
Stato, oppure in altro soggetto riconosciuto sempre dallo Stato come «adeguato
portatore» dello stesso[22]; solo a
questo punto tale interesse, rientrando all’interno dello schema del
diritto soggettivo, potrebbe perciò trovare tutela nel nostro
ordinamento[23].
È solo attraverso l’invenzione
dei sopra ricordati schemi interpretativi (diritti adespoti, sostituzione
processuale, ecc.) che le nostre Corti, già intorno alla metà
degli anni ’70, rompendo per la prima volta il muro del diniego, hanno
cominciato a riconoscere la legittimazione ad agire anche a soggetti non
portatori di diritti soggettivi o interessi legittimi in senso stretto,
limitando però l’apertura solo ad alcune associazioni
rappresentative dei singoli individui per la tutela di interessi appartenenti
in realtà a costoro, e solo in ragione di una loro riconosciuta
‘rappresentatività’[24].
In tal modo, però, adottando uno
qualsiasi di questi schemi ricostruttivi, era normale pensare che
l’esercizio di un’azione volta alla tutela di questo interesse
supra-individuale fosse subordinato alla preventiva concessione di una
‘autorizzazione’ ad agire (o comunque di un’altra forma di
‘riconoscimento’) da parte dello Stato o dell’ente pubblico
coinvolto[25],
indebolendo la posizione dei singoli cittadini che chiedevano tutela, ma ai quali
non veniva concessa se non previa ‘autorizzazione’ da parte dello
Stato. La conclusione era in un certo qual modo prevedibile: si è finito
per introdurre delle «azioni senza diritto a tutela di diritti senza
azione», consentendo, al massimo, al cittadino di «proporre
nell’interesse della collettività quella stessa azione che non
può esperire a tutela del proprio interesse»[26].
Lo schema appare quello di una sorta di
‘circolo vizioso’, in cui quello che si scaccia dalla porta finisce
per rientrare dalla finestra. E così, dopo aver costruito una forma di
processo ruotante intorno alla nozione di diritto soggettivo, quando ci si
è resi conto della meritevolezza di tutela di beni non in senso
economico, come i ‘beni ambientali’ o i ‘beni patrimonio
dell’umanità’, o i ‘beni comuni’ che oggi pare
vadano tanto di moda[27], si
è fatto ricorso alla categoria sopra ricordata degli interessi adespoti
o interessi diffusi, o a quella, altrettanto inappagante, della legittimazione
processuale dell’attore popolare pensata come disgiunta dalla
titolarità del diritto.
Ma queste ricostruzioni presentano una
duplice forzatura delle nozioni comunemente accolte nel nostro ordinamento: da
un lato, una forzatura della nozione di cosa come bene patrimoniale,
perché le ‘cose’ di cui si richiede ora la tutela non hanno
né natura economico-patrimoniale, né sono assoggettabili al
diritto soggettivo di proprietà; dall’altro lato, una forzatura
della divisione uomo (nel senso di ‘soggetto di diritto’) e Stato,
perché si creano nuovi e indefiniti centri di imputazione di questi
interessi, come l’umanità, o la collettività, o,
addirittura, si finisce per dichiarare che l’interesse alla salvaguardia
e alla conservazione di questi beni sia ‘adespota’, cioè
privo di portatore, perché non si riesce più a collegarlo
all’uomo, che ne è il naturale e unico vero
‘portatore’[28].
A mio avviso, anche questo è
inaccettabile. A me pare che nei riferiti orientamenti dottrinali e
giurisprudenziali sia evidente la scelta metodologica e concettuale di dare
tutela a questi interessi, senza però servirsi di strumenti già
noti all’ordinamento, tra i quali, per quello che qui rileva, spicca
appunto proprio l’azione popolare[29].
Invero, se non ci si libera di concezioni ottocentesche riflettenti una
realtà non più attuale e fondate su una concezione puramente
individualistica della tutela giurisdizionale, ruotante intorno al diritto
soggettivo e all’interesse legittimo, si giunge inevitabilmente ad
elaborare concetti sovrastrutturati, come quello di ‘interesse
diffuso’[30]
o di ‘beni a fruizione diffusa’[31], oppure
a proporre soluzioni assurde e inaccettabili, che hanno come risultato quello
di non dotare affatto di accesso alla giustizia questo tipo di interessi o di
ammettere alla loro tutela solo una parte degli individui, selezionata con
criteri più o meno differenti[32].
L’interesse che ciascuno di noi ha
a che non si deturpi l’ambiente in cui viviamo, o quello al rispetto
delle norme sulla concorrenza così come quello alla salvaguardia ed alla
conservazione di cose di cui tutti usiamo e godiamo, corrispondono a bisogni
concreti dell’individuo di oggi come di quello di ieri[33]. E si
tratta di bisogni concreti a cui né il diritto soggettivo, né lo
Stato, ancor più se inteso come entità rigidamente separata e
sovrastrutturata rispetto agli individui che lo compongono, sono in grado di
dare risposta.
Io credo che, per le ragioni sopra
indicate, una risposta adeguata a questi bisogni non possa venire dalle
ricostruzioni finora avanzate in dottrina.
Al contrario, ritengo di poter affermare
che l’istituto dell’azione popolare, se correttamente inteso, bene
possa incontrare questo tipo di esigenza. Il problema è che questo
istituto, come è attualmente configurato nell’ordinamento italiano[34], ha una
struttura che lo rende di fatto inutilizzabile[35]. Non
è un caso, infatti, che l’utilizzo delle azioni popolari in Italia
sia stato tenacemente osteggiato soprattutto dalla nostra giurisprudenza, la
quale, facendo leva sulla sua presunta incompatibilità con l’art.
103 Cost., ha per lungo tempo ammesso all’esercizio di un’azione
solo il titolare di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo[36],
negando tale legittimazione in assenza di tali situazioni soggettive non solo
ai singoli individualmente considerati, ma ad es. alle associazioni
rappresentative[37],
anche in presenza di un chiarissimo dettato legislativo[38].
Come è noto, infatti, in Italia
le azioni popolari sono state divise in suppletive (dette anche sostitutive o
procuratorie) e correttive: nelle prime, l’attore popolare supplisce
all’inattività della P.A., azionando un diritto la cui tutela di
norma dovrebbe spettare allo Stato; nelle seconde, invece, il cittadino agisce
contro la P.A. per far valere una illegittimità dalla stessa posta in
essere[39].
Posta questa distinzione, si è
detto che solo alle azioni popolari correttive dovrebbe essere riconosciuta la
natura di vere e proprie azioni popolari, mentre in quelle suppletive
l’attore popolare sarebbe il portatore di un mero interesse che fa valere
un diritto dell’amministrazione nei confronti dei terzi[40].
Evidenti mi paiono le insufficienze di
una simile costruzione, alla luce della quale lo Stato sarebbe in un caso
legittimato passivo dell’azione del singolo (nelle azioni popolari
correttive), in un altro caso, titolare effettivo del diritto per la cui tutela
il civis esercita l’azione
popolare stessa (azioni popolari suppletive)[41]. Il
risultato è un totale ribaltamento di prospettiva rispetto a quella che
dovrebbe essere la ‘vera’ funzione delle azioni popolari,
cioè di tutelare un ‘bene comune’ a tutti i cittadini, un
bene cioè dell’intera collettività. Al contrario, alla luce
della riferita ricostruzione la vera azione popolare tutelerebbe un diritto del
singolo contro la collettività in cui esso si organizza, cioè lo
Stato.
A me pare, in una linea di evidente
continuità con quanto sopra osservato, che le dottrine civilistica ed
amministrativistica (e, per certi versi, anche quella penalistica, che qui non
affronto ex professo), per quanto
anelino a rispondere all’impulso ineludibile che promana dalla
realtà quotidiana, offrendo tutela a questi interessi di natura
superindividuale, non riescono appieno a liberarsi della ricordata dicotomia,
di impostazione chiaramente individualistica, pubblico=dello Stato –
privato=dell’individuo[42],
attribuendo le ragioni di questa insufficienza alla «attuale iper
complessità della realtà postmoderna» che richiederebbe
«l’abbandono di schemi dogmatici e puristi»[43],
piuttosto che, invece, alla inadeguatezza di tali schemi a comprendere appieno
tutte le sfaccettature della realtà, di quella antica come anche di
quella attuale. D’altro canto, evidenti sono le difficoltà che il
giurista moderno incontra per usare istituti, che pure sono presenti nella
nostra tradizione giuridica e finanche nel nostro ordinamento, come appunto le
azioni popolari.
La colpa di ciò risiede
certamente in parte nell’impossibilità da parte della scienza
giuridica contemporanea di liberarsi di sedimenti dogmatici che impediscono di
arrivare alla configurazione di una più adeguata tutela per queste
situazioni, ma in parte anche e soprattutto in responsabilità che sono
da imputarsi alla scienza giuridica romanistica, la quale, per una serie di
ragioni legate a incrostazioni storico-dogmatiche e a distorsioni concettuali
artificialmente indotte, ha finito per veicolare una nozione di azione popolare
che, mettendo l’accento esclusivamente sulla legittimazione generale, e
tralasciando la funzione di difesa dei beni comuni a cui essa era diretta, non
corrisponde a quella elaborata dai romani e mal si adatta alle esigenze a cui
si voleva rispondere con la sua introduzione[44].
Infatti, la scienza giuridica
romanistica ha da sempre dedicato molto poco spazio al tema delle azioni
popolari: esse mal si sposavano con l’autoritarismo dei regimi feudali
tra Medioevo e Rinascimento, così come con la politica di accentramento
propria dei governi dell’Europa tra Seicento e Settecento[45]; oggi,
del resto, risponde al vero l’amara constatazione per cui esse sono di
fatto perfino sparite dai manuali[46].
Una vistosa eccezione è
costituita dal periodo che si colloca a cavallo tra il XIX e XX secolo
allorché si assiste ad una rigogliosa fioritura degli studi sulle azioni
popolari, perché il diffondersi in Europa dell’ideologia liberale
vedeva in questo strumento una delle massime espressioni della partecipazione
dei cives al buon governo della
‘cosa pubblica’[47].
Ovviamente, l’ideologia finiva per guidare lo studio dell’istituto,
e con esso anche la sua ricostruzione storica.
Infatti, la fortuna delle azioni
popolari tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento è
dovuta eminentemente al fatto che le democrazie che nascevano in questo periodo
si ponevano il compito di ricondurre alla realtà dello Stato i cittadini
per troppo tempo tenuti lontano dalla cura dei pubblici affari. In questo
periodo, pertanto, nelle azioni popolari, sia che le si costruisse secondo la
nota tesi procuratoria[48], sia
che le si costruisse secondo l’altrettanto nota tesi del ‘diritto
del popolo’ (inteso come molteplicità dei cives, e non come populus-Stato)[49], si
voleva vedere uno strumento teso al bene dello Stato stesso, del quale il
cittadino era ammesso a disporre in quanto contitolare della sovranità:
in tal modo, le attività pubbliche del civis finivano per essere considerate come esercizio di un diritto
proprio, costituente però un vero e proprio diritto soggettivo pubblico[50].
Così, anche lo studio delle azioni popolari nel diritto romano veniva
adeguato a questa funzione, che ad esse era assiomaticamente riconosciuta:
attraverso l’ideale della sovranità popolare nella Roma repubblicana
si rivendicava una pretesa attualità delle azioni popolari, con il fine
non tanto di capirne meglio il funzionamento, ma di determinare la loro
resurrezione[51].
La verità è che ad
entrambe le teorie, cioè sia alla tesi procuratoria, sia a quella
‘liberale’, sono sottese delle ricostruzioni del regime
dell’azione popolare che di essa sembrano cogliere soltanto un aspetto,
cioè quello della legittimazione ad agire affidata al quivis de populo, costruendo intorno a
tale dato, supposto come assiomatico, l’intero statuto dogmatico
dell’istituto che, sostanzialmente, trovava il suo principio e la sua
fine proprio e solo in tale legittimazione generale.
In realtà, il punto di partenza
non solo non appare dimostrato, ma non appare neanche costituire il perno intorno
al quale i romani costruiscono il regime dogmatico di queste azioni[52].
Infatti, non è difficile constatare come per i romani da un lato
esistevano diverse azioni, che senza alcun dubbio possiamo qualificare come populares, in cui però la
legittimazione ad agire è attribuita in primo luogo ad un soggetto che
vi abbia un interesse diretto ed immediato, e solo in via sussidiaria a
chiunque altro; dall’altro lato, i giuristi romani, quando riflettono
sulla funzione e sull’essenza delle azioni popolari, sottolineano il
fatto che esse sono tese alla riparazione di un ‘torto’ subito
dalla collettività, piuttosto che non il fatto che esse sono azionabili
da quivis de populo.
Ciò appare in maniera chiarissima
dalla definizione paolina conservata in D. 47.23.1
D. 47.23.1
(Paul. 8 ad ed.)
Eam popularem
actionem dicimus, quae suum ius populi tuetur.
Chiamiamo popolare quell’azione che tutela come
proprio un diritto del popolo.
In tale definizione, infatti, comunque
la si voglia leggere[53], nulla
tende verso il profilo della legittimazione all’azione, perché il
giurista sembra piuttosto volersi orientare verso la funzione dell’azione
stessa, che è quella di tutelare un diritto di tutto il popolo.
D’altra parte, la funzione di
tutela di un interesse metaindividuale propria delle azioni popolari emerge
chiaramente anche da altri passi sparsi nella Compilazione giustinianea, dove
si riconosce che attraverso queste azioni si tende alla irrogazione di una ultio (punizione)[54], o di
una poena et vindicta generalizzate[55], o a
tutelare la sicurezza delle vie e delle strade pubbliche (utile est, sine metu et periculo per itinera commeari)[56].
È questa sicurezza pubblica,
questo interesse generale alla salvezza dei beni comuni, quindi, e non la
supposta legittimazione generale, la caratteristica principale delle azioni
popolari romane: garantire, attraverso l’inflizione di un castigo (ultio, poena, vindicta),
l’esercizio di un diritto di ciascuno, in modo da tutelare un diritto di
tutti. Del resto già la Glossa accursiana notava come le azioni popolari
fossero caratterizzate non tanto dal fatto di essere date a tutti,
perché erano evidenti e riconoscibili i casi in cui l’azione
veniva data cuius interest, quanto
piuttosto dal fatto di essere ‘ad
vindictam propositae’ non ‘propter
pecuniam exigenda, sed propter poenam corporalem infligendam’[57].
Alla base della concessione di
un’azione popolare, quindi, i giuristi romani sembrano voler collocare
l’esistenza di una categoria di cose che non sono in senso stretto
né pubbliche né private, ma sono res in usu publico[58], le
quali sono soggette all’immediata utilizzazione da parte dei cives[59], i
quali hanno il diritto di non essere molestati in questa fruizione. Da questo
punto di vista, la ratio sottesa
all’istituto sembra consistere nel fatto che quel che è accaduto
ad uno può accadere ad altri che, come quell’uno, hanno diritto di
usare i luoghi pubblici, e ad usarli in modo tale da non essere esposti a
pericoli[60].
Quelli qui in gioco mi pare siano
comportamenti che offendono il singolo, ma non in quanto individualmente
considerato, ma in quanto appartenente alla collettività in cui è
inserito dal punto di vista spazio-temporale. Tali comportamenti, pur non
essendo riprovati al punto da confluire in un interesse (genericamente) pubblico,
comunque interessano non solo colui al quale la cosa è capitata, ma
chiunque, appartenente alla comunità, fosse stato o avrebbe potuto
trovarsi in quelle condizioni, ad es. transitando in quella via in quel
determinato giorno e ora. A tali comportamenti può reagire in primo
luogo chi ha ricevuto un immediato danno dal comportamento lesivo (is cuius ea res interest: l’interessato di cui parlano
alcune fonti), ma poi, se egli non possa o non abbia intenzione di farlo, anche
chiunque voglia, perché l’offesa non era diretta contro quella
persona in quanto singolo, ma contro quella persona in quanto parte di una
collettività, e chiunque avrebbe potuto essere al suo posto,
perché per la strada ci passano tutti, le fogne le usano tutti, il
luoghi pubblici sono di tutti, nel sepolcro ci finiamo tutti ecc.
È buona congettura ammettere che
l’equivoco nasca dal non aver voluto riconoscere che non solo la
denominazione ‘actio popularis’
non è l’unica con cui le fonti in nostro possesso individuano
l’istituto qui considerato; ma altresì dal non aver compreso
né voluto comprendere che l’aggettivo ‘popularis’ non conferisce tecnicità al sintagma
‘actio popularis’,
né rimanda a un contenuto tecnico giuridico dell’azione stessa:
esso, piuttosto, individua solo la ragione genetica dell’azione, dal
punto di vista dell’etimologia e soprattutto della funzione[61].
Invero, è proprio questa nozione di popolarità, che presuppone
una sorta di ‘compartecipazione’ tra cittadino e Stato, a essere
indimostrata, perché, da un lato, solo nell’idillio liberale Stato
e individuo sono indissolubilmente legati; dall’altro lato, nelle azioni
popolari romane il regime della legittimazione è estremamente variegato,
perché diverse fonti costruiscono un rapporto tra ‘interessato’
ed ‘estraneo’, e pertanto impediscono di pensare ad una
legittimazione diffusa tout court
come caratteristica precipua ed immancabile delle azioni popolari romane[62].
Di conseguenza, costruire dal punto di
vista giuridico, soprattutto in diritto romano, l’azione popolare come un
istituto connotato dall’unica caratteristica di essere un’azione a
legittimazione ‘aperta’, cioè esperibile da ‘quivis de populo’[63]
costituisce a mio avviso un grave errore di impostazione: la dottrina, infatti,
guidata dalla prospettiva dell’azione popolare come azione a
legittimazione generale, ha creato un falso regime unitario di
quest’azione, eliminando dai testi romani quanto potesse minare questa
identità. Al contrario, è necessario riconoscere che la
sussistenza di un interesse privato nell’attore popolare non rende
l’azione privata, ma influisce solo sulla legittimazione: l’attore
si pone sempre come individuo, unus ex
populo, ma la presenza in lui dell’interesse privato rende il suo
interesse individuale non più equivalente rispetto ai concorrenti
interessi individuali degli altri cives,
ma poziore, escludendo la legittimazione dei terzi[64], senza
però influire sulla ‘popolarità’ dell’azione.
Nelle azioni popolari romane, «l’interesse privato, rilevante ai
fini della legittimazione, è del tutto irrilevante per la funzione
dell’azione», così che è ragionevole concludere che
«voler considerare l’actio
popularis come l’azione del quivis
de populo sarebbe voler perpetuare un errore, già fin troppo
tenace»[65].
L’ideale liberale, che
costituì in un certo senso la fortuna della dottrina delle azioni
popolari, ne rappresentò anche il limite intrinseco, non solo orientando,
come abbiamo visto, la ricerca storica stessa, ma determinando altresì
le ragioni del loro definitivo accantonamento. Infatti, «nei primi anni
del nostro secolo [cioè del Novecento] una nuova politica decideva del
declinare delle azioni popolari e spegneva insieme l’interesse
scientifico che le aveva accompagnate, nato per servire i legislatori
liberali»[66].
Ciò che rimaneva, però, era l’impronta dogmatica e in
qualche modo strutturale data all’istituto, l’unica caratteristica
del quale veniva ormai vista nella legittimazione attiva diffusa, sebbene
ciò non cogliesse l’essenza dell’istituto, così come
lo avevano configurato i giuristi romani, ma corrispondesse soltanto alla
visuale con la quale esso era stato ricostruito nel periodo in cui più
floridi ne erano stati gli studi.
Questa visione delle azioni popolari
come azioni a legittimazione diffusa, però, finiva per collidere contro
il nuovo modo con cui veniva visto il diritto a partire dagli anni ’30
del secolo passato. Infatti, contro l’accoglimento di questa nozione di
azioni popolari si collocava, da un primo punto di vista, l’intero
‘sistema’ costruito dai pandettisti, che faceva perno
sostanzialmente sulle tre gambe del diritto soggettivo, del soggetto di diritto
e del negozio giuridico: questa ricostruzione, infatti, non lasciava alcuno
spazio alla tutela queste situazioni giuridiche soggettive ultronee rispetto al
singolo individuo, le quali, in un modo o nell’altro, non riuscivano a
coordinarsi con nessuna di queste tre nozioni[67].
In particolare, creato il
‘soggetto di diritto’, ad esso deve corrispondere un ‘oggetto
di diritto’, identificato nelle cose, nei beni visti esclusivamente come
‘beni economici’ (cioè beni su cui possa esercitarsi un ‘diritto
soggettivo’)[68].
L’elaborazione di questi concetti, che anche altri guasti e problemi ha
prodotto nello studio (non solo) del diritto romano[69], per
quello che qui rileva ha contribuito alla cacciata dal nostro ordinamento
giuridico della funzione stessa delle azioni popolari (intese nel senso di azioni
a legittimazione generale), che né si conciliano con la nozione di
diritto soggettivo, né sono strutturalmente idonee a difendere un bene
inteso in senso esclusivamente economico[70].
Pertanto, per i pandettisti era
giocoforza riconoscere, in una sorta di contrapposizione manichea, che se un
interesse protetto o da proteggere non potesse essere riconosciuto come
pubblico, esso dovesse per forza di cose essere privato[71].
Da un altro, convergente, punto di
vista, contro l’accoglimento dell’istituto delle azioni popolari,
così come modernamente intese, ostava la nascita e l’elaborazione
del moderno concetto di ‘Stato’, visto come entità astratta
e separata dai cittadini che lo compongono, i quali, normalmente, vengono a
tutti gli effetti considerati come dei sudditi da parte dei componenti di
questa entità astratta, anziché dei membri costituenti parti
integrante dell’entità stessa. Ciò ha determinato
l’automatica impossibilità di comprendere la nozione romana di populus, in cui le decisioni vengono
prese dai cittadini, che sono essi stessi ‘popolo’, e non dai
rappresentanti da loro scelti una volta ogni quattro o cinque anni e, di
conseguenza, l’impossibilità di cogliere appieno l’essenza
stessa delle azioni popolari[72].
Solo una volta portato a termine questo
compito di ‘pulizia concettuale’, ci si può dedicare a
meglio comprendere la natura e l’essenza delle azioni popolari romane,
rispondendo nel contempo alla domanda sopra formulata: qual è, al di
là del mero dato formale (e non univoco) della legittimazione popolare,
per i romani come per i moderni, l’interesse sotteso
all’esperimento di un’azione popolare? Non si faticherà
allora a riconoscere che l’interesse sotteso all’esperimento di
queste azioni può non coincidere con il diritto soggettivo (sia anche
inteso nel senso di diritto soggettivo pubblico), ma deve essere qualificato
come interesse privato e pubblico nello stesso tempo[73], e che
molto opportunamente si dovrebbe procedere all’individuazione, almeno per
quanto riguarda il mondo romano (ma la notazione è di una straordinaria
attualità), di un diritto pubblico degli uomini, accanto e in
contrapposizione al diritto pubblico dello Stato, come quello in cui viviamo
oggi[74].
La vera ragione unificante delle azioni
popolari andrebbe così ricercata non nella legittimazione generale,
quanto piuttosto nella loro funzione, la quale appare consistere nella
rivendicazione di un ius riconosciuto
nelle peculiari condizioni ed esigenze di vita del popolo, che accentua il
distacco tra esso populus, inteso
come molteplicità di individui empirici componenti la civitas, e quella entità che noi
chiamiamo lo Stato[75].
A mio avviso, a questo proposito rimane
valida l’intuizione di Fadda, per cui il quivis agisce in forza di un diritto proprio, che gli spetta
proprio per la sua qualità di civis.
Solo che l’esistenza di un ‘diritto soggettivo pubblico’,
ipotizzata dal Fadda, rappresenta un frutto dell’ideologia liberale nella
quale lo studioso napoletano era immerso. La verità è, a mio
avviso, che il quivis tutela, agendo,
un diritto proprio. La considerazione di questo interesse come un interesse
pubblico, generale o collettivo è probabilmente un portato della nostra
condizione di giuristi moderni, derivante dalla sovrapposizione delle nostre
prospettive moderne alle antiche[76]. Per
noi l’interesse privato è proprio del singolo e l’interesse
non privato è inevitabilmente pubblico; in altre parole, tutto
ciò che non rientra nell’interesse privato, o è in grado di
rientrare nell’interesse pubblico, oppure si può dubitare se sia
meritevole di tutela.
La verità è che quelli
sottesi alla tutela di ‘beni comuni’ non sono né interessi
privati, tutelabili con vindicationes
o condictiones o altro, né
interessi pubblici, che riguardano la collettività come tale, che
reagisce ad offese tali, da non poterle tollerare se non a costo di vedere
compromesse le ragioni stesse della sua unità[77]. Con le
azioni popolari si offre invece tutela a interessi posti dall’ambiente comune
in cui si svolgono le attività individuali e quotidiane, che solo
adottando una contrapposizione manichea, propria del diritto moderno
post-borghese e post-individualista, finiscono per isterilirsi nella
contrapposizione pubblico-privato. Essi, in realtà, non sono in senso
stretto né pubblici né privati: non sono pubblici, perché
la reazione è affidata comunque ai singoli; non sono privati,
perché in ogni caso il privato non viene in considerazione uti singulus, ma come parte del popolo
(ad es. del populus Romanus), o di
una più limitata o diversa collettività (ad es. una civitas) come dimostra anche il fatto
che l’azione popolare non entra nel patrimonio del potenziale attore[78].
In sede di conclusioni, ritengo
necessario riconoscere l’inadeguatezza dello strumentario attualmente a
disposizione del giurista per comprendere appieno il fenomeno delle azioni
popolari e della tutela dei diritti ed interessi a queste sottesi: in particolare,
la nozione individualista di diritto soggettivo e quella di Stato, inteso come
entità astratta, separata dai cittadini e ad essi sovrastrutturata, e
pertanto distante dalle esigenze di costoro[79].
Esistono, infatti, dei bisogni degli
individui che non rientrano nell’ambito di competenza statuale, né
consistono in diritti strettamente individuali dei singoli. E a questi bisogni,
il cui riconoscimento comincia ormai ad essere ammesso sempre più
largamente, il giurista moderno ha il dovere di dare risposta, senza
nascondersi dietro al richiamo all’intervento legislativo o politico.
Pertanto, io credo che le azioni popolari, forse oggi più che in
passato, siano ancora chiamate a svolgere un ruolo di fondamentale importanza,
non tanto come strumento di contrapposizione del singolo nei confronti dello
Stato, che spesso si pone in posizione di contrasto rispetto a legittime
pretese dei singoli, ma soprattutto come strumento di opposizione a
prevaricazione da parte di altri ‘poteri forti’, in situazioni
nelle quali lo Stato appare strutturalmente, vorrei quasi dire ontologicamente
inadeguato ad offrire la tutela richiesta. Di tali offese, infatti, gli
individui, i cittadini, gli abitanti, i consumatori ecc. appaiono dolersi non
già come singoli, quanto piuttosto come parte di un più ampio
tessuto sociale nel quale essi sono inseriti.
A tali esigenze, possono dare opportuna
risposta le azioni popolari, purché si superi la visuale di esse come
mere azioni a legittimazione aperta, e si ravvisi la loro natura ed essenza
nella protezione di beni comuni.
Le azioni popolari intendono tutelare un
diritto dell’individuo come parte di un più ampio contesto sociale
di cui egli fa concretamente parte, fenomeno la cui piena comprensione è
ostacolata dalle ricordate nozioni di diritto soggettivo e di Stato.
A questo proposito, a mio avviso sono
apprezzabili i tentativi di chi, sforzandosi di collocare dogmaticamente tali
interessi, parla di «un diritto civico» che spetti in proprio ad
ogni cittadino[80],
o di «diritti soggettivi della personalità umana»[81],
oppure, a maggior ragione, di chi rivendica la non necessità di creare
un tertium genus di interessi
tutelati, che si vadano ad aggiungere ai diritti soggettivi ed agli interessi
legittimi, ma di riconoscere invece l’esistenza di «veri e propri
diritti soggettivi…, a rilevanza sovra individuale e violabili con
comportamenti plurioffensivi», che costituiscono «veri e propri
diritti di tanti su un bene tendenzialmente comune, spesso indivisibile ed
immateriale, non monopolizzabile dallo Stato o dalle comunità
intermedie»[82]. Si
tratta cioè di diritti o interessi «privati caratterizzati dalla
pari fruizione dei beni suscettibili di usi generali, senza che la
possibilità di riferirli alla collettività dei cittadini debba
portare a confonderli con gli interessi “pubblici” in senso
proprio»[83].
Opportunamente si è detto che il
recupero dell’archetipo dell’azione popolare svolgerebbe una vera e
propria funzione compensativa («kompensatorische
Funktion»), che servirebbe a colmare la lacuna generatasi nel sistema
individuale di tutela dei diritti, che abbiamo ereditato dalla tradizione dei
due secoli passati, e che si è rivelato assolutamente inadeguato a dare
risposte convincenti a queste importantissime esigenze[84].
La verità, io credo, è che
se non ci si libera dell’individualismo sotteso al concetto di diritto
soggettivo, e che costituisce un portato dello Stato del XIX (e in parte anche
del XX) secolo, non si riesce appieno a costruire dogmaticamente la categoria
delle azioni popolari, e a consegnare al ‘populus’ dei cittadini un formidabile strumento di tutela dei
propri interessi, di uno ‘ius’ (e non di un diritto soggettivo!) che
solo in questo senso capiamo essere veramente ‘suum populi’[85]. Certo,
bisogna essere consapevoli dei limiti che questo istituto ontologicamente ha,
soprattutto in una società ‘massificata’ ed
‘industrializzata’ come la nostra. Il più evidente tra tali
limiti appare costituito dalla fisiologica debolezza del singolo rispetto al compito
normalmente sproporzionato, impostogli dal modello dell’azione popolare,
in cui spesso egli dovrebbe essere chiamato a combattere lo stesso Stato o
società multinazionali o comunque agguerrite ed organizzate. Ma questa
debolezza non si compensa escludendo il singolo dal gioco, negandogli il
diritto di agire in giudizio per la difesa di un interesse che è proprio
a tutti gli effetti anche se è in comune con altri, ma, al massimo,
affiancandogli la più forte associazione intermedia che può
sostituirlo o aiutarlo[86].
[I contributi della
sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei
promotori del Seminario e dei curatori della sezione, d'intesa con la direzione
di Diritto @ Storia].
* Il presente lavoro riassume e concentra in un unico
testo, rivisto e corredato di note, il contenuto di due differenti relazioni
tenute, rispettivamente, a Sassari, nell’ambito del Convegno: Societas. Strumento di organizzazione
pubblica e privata, nei giorni 4-5 maggio 2012; e a Roma (Campidoglio),
nell’ambito del Convegno: Giuramento
della plebe al Monte Sacro. VII Seminario di studi ‘Tradizione
repubblicana romana’, nei giorni 17-18 dicembre 2013.
[1] S. Rodotà,
Beni comuni e categorie giuridiche. Una
rivisitazione necessaria, in Questione
giustizia, 2011/5, 237 ss.; ma per analoghi percorsi argomentativi, vd.
già S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene
comune, Torino, 2012, 23 ss. e particolarmente 42 ss. e le «tre
specie di lontananza» ivi elencate.
[2] Cfr. A. Romano,
Interessi «individuali» e
tutela giurisdizionale amministrativa, in Foro it., 1972, III, 269 ss., in critica a Cons. di Stato, 14 luglio 1972, num. 475. Per considerazioni di
analogo tenore negativo rispetto alla ricordata decisione giurisprudenziale,
cfr. anche Idem, Il giudice amministrativo di fronte al
problema della tutela degli interessi cd. diffusi, in Foro it., 1978, V, 8 ss.; ma vd. anche M. Cappelletti, Appunti
sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi, più
volte ripubblicato, io cito da Le azioni
a tutela di interessi collettivi. Atti del Convegno di studio (Pavia, 11-12
giugno 1974), Padova, 1976, 196; D.
Tanza, I fondamenti costituzionali
delle azioni collettive; Class actions ed
effettività della tutela giurisdizionale, in Amministrazione in cammino. Rivista elettronica di diritto pubblico.,
di diritto dell’economia e di scienza dell’amministrazione, 11
marzo 2008, II (www.amministrazioneincammino.luis.it/site/it/Rubriche/Amministrazioni_Pubbliche/Note_e_Commenti/Documento/tanza_class_action.html).
[3] Mi riferisco non solo alla creazione
nel 2007-2009 delle cd. azioni di classe (prima ‘azioni collettive
risarcitorie’) nel Codice del Consumo e poi contro la P.A., che, di
fatto, risultano poco se non per nulla applicate, quanto piuttosto, ad esempio,
all’art. 4 co. 6 della legge 5 agosto 1981 n. 416, che, per il caso di
costituzione di una posizione dominante nel mercato dell’editoria, ha
concesso l’azione di nullità degli atti con cui è stata
costituita tale posizione in primo luogo a un organo di garanzia appositamente
costituito (il Garante per l’editoria) e, in aggiunta, anche a
«qualsiasi persona fisica e giuridica»; oppure all’art. 9 del
T.U. in materia di enti locali introdotto dal d.lgsl. 267/2000, il quale
introduce una azione popolare (così definita in Rubrica) concessa a
ciascun elettore per far valere in giudizio i diritti, le azioni e i ricorsi
che spettano al comune e alla provincia, con la conseguenza che qualunque
cittadino può instaurare direttamente ed autonomamente il giudizio per
responsabilità ambientale ecc. Vedine una rassegna meno incompleta nel
mio A. Saccoccio, Il modello delle azioni popolari romane tra
diritti diffusi e ‘class actions’, in Actio in rem e actio in personam. In ricordo di Mario Talamanca, a
cura di L. Garofalo, I, Padova,
2011, 759 ss.; a cui adde almeno C. Consolo-B. Zuffi, L’azione di classe ex art. 140 bis Cod.
Cons. Lineamenti processuali, Padova, 2012.
[4] Il punto di partenza può essere individuato nella
celebre decisione del Consiglio di Stato del 9 marzo 1973 num. 253 (cfr. Foro it., 1974, III, 33 ss., con nota di
L.
Zanuttigh, «Italia nostra» di fronte al Consiglio di Stato) con
cui questo organo operò il primo timido tentativo di offrire una
più adeguata tutela a queste situazioni giuridiche cd.
‘superindividuali’, riconoscendo alla associazione ambientalista
‘Italia Nostra’ la legittimazione ad agire per la salvaguardia del
lago di Tovel. Per gli sviluppi successivi, cfr. E. Grasso, Gli
interessi della collettività e l’azione collettiva, in Riv. di dir. process., 38, 1983, 24 nt.
3. In ogni caso, si manteneva il criterio della ‘rappresentatività’
dell’associazione come filtro indispensabile per la
configurabilità di un interesse ad agire.
[5] Celebre, ad esempio, è la cd. ‘decisione
del chiunque’ con la quale il Consiglio di Stato ha affermato che la
dizione dell’art. 10 comma 9 della legge 6 agosto 1967 n. 765 (il quale,
istituendo una vera e propria azione a legittimazione diffusa sul modello di
quello che si riteneva essere il proprium
delle azioni popolari, prevedeva che ‘chiunque’ potesse ricorrere
contro il rilascio della licenza edilizia ad altri, in quanto in contrasto con
leggi o regolamenti o con il piano regolatore), andasse interpretato nel senso
di ‘chiunque abbia un diritto o un interesse propri’, frutto di una
posizione giuridica quantomeno ‘qualificata e differenziabile’ da
quella di qualsiasi altro cittadino, ad es. perché proprietario di un
immobile sito sul luogo del Comune che ha concesso la licenza: cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 9 giugno 1970, num.
523 (in Riv. giur.
dell’edilizia, 1970, I, 645 con nota contraria di G. D’Angelo; ma cfr. in senso
contrario anche E. Guicciardi, La decisione del “chiunque”,
in Giur. it., 1970, III, 193 ss.), ma
vd. anche Cons. di Stato, sez. V, 15
luglio 2000 (con nota adesiva di L. Coen, Interesse
all’impugnazione, in Studium iuris, 2000, XII, 1416 s.) e Cons. di Stato, sez. V, 30 gennaio 2003 num.
469 (con note adesive di M. Alessio,
L’impugnabilità delle
concessioni edilizie, in Nuovo
Diritto, 2004, VII-VIII, 650 ss.; e D.
Chinello, La legittimazione ad
impugnare la concessione edilizia altrui ed, in particolare, la legittimazione
dei titolari di esercizi commerciali ad impugnare la concessione edilizia
rilasciata ad un concorrente, in App.
urb. edil., 2003, II, 75 ss.). Il timore paventato dai nostri giudici
è che un allargamento generalizzato della legittimazione a ricorrere per
la tutela di diritti o interessi meta-individuali possa avere «riflessi
sconvolgenti sul sistema vigente», il quale già di per sé
non appare in grado di fornire risposte in tempi soddisfacenti alle domande di
giustizia dei cittadini. Sul punto, vd. anche infra, ntt. 37 e 38.
[6] Cfr. soprattutto i contributi, riflettenti varie
prospettive, raccolti in alcuni volumi collettanei: cfr., ad es., Le azioni a tutela di interessi collettivi.
Atti del Convegno di studio (Pavia, 11-12 giugno 1974), Padova, 1976; La tutela giurisdizionale degli interessi
collettivi e diffusi, a cura di L.
Lanfranchi, Torino, 2003; Le
azioni collettive in Italia. Profili teorici ed aspetti applicativi, a cura
di C. Belli, Milano, 2007; Class
action: il nuovo volto della tutela
collettiva in Italia, Milano, 2011.
[7] Sul punto, vd. soprattutto A. Giussani, Studi
sulle class actions, Padova, 1996, passim;
ma vd. anche Idem, Azioni collettive risarcitorie nel processo
civile, Bologna, 2008. Cfr. però anche P. Rescigno, Sulla
compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamentali
dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, XI, 2224 ss.; V.
Vigoriti, Impossibile la class
action in Italia? Attualità del
pensiero di Mauro Cappelletti, in Resp.
civ. e prev., 2006, I, 31 ss. (= in Rass.
for., 2006, I,1, 95 ss.); M.G.
Migliazzo, Dalla class action statunitense all’azione collettiva
risarcitoria italiana, in Iter legis,
2007, V-VI, 23 ss.; G. Resta, Azioni popolari, azioni nell’interesse
collettivo, «class actions»:
modelli e prospettive di riforma in una recente riflessione, in Riv. crit. del dir. priv, XXV, 2007,
331; L. Stilo, Quando la class
action è made in Italy, in Il nuovo dir., 2007, X-XI, 597 ss.; L. Ferrarese, Le norme statunitensi sulle azioni collettive: analisi
comparativa con la legislazione italiana e spunti di riflessione, in La resp. civ.,
2008, VIII-IX, 746 ss.; S. Miconi,
La “class action” nell’ordinamento italiano:
sintesi di una trasformazione, in La
resp. civ., 2008, VIII-IX, 678 ss.; F.
Tedioli, La class action all’italiana: alcuni spunti critici in
attesa del preannunciato intervento di restyling, in Obbl. e contr., 2008, X, 831 ss.; Idem,
Class action all’italiana atto secondo:
un cantiere ancora aperto, ibidem,
2009, XII, 998 ss.; A. Frignani-P. Virano,
La class action nel diritto statunitense: tentativi (non sempre riusciti) di trapianto
in altri ordinamenti, in Dir. ed
econ. dell’assicur., 2009, I, 5 ss.; A.
Janssen, Europa e class action: stato dell’arte e delimitazioni di
campo, in Contratto e impresa/Europa,
2009, II, 694 ss.; G. Fauceglia, La class action nel diritto degli strumenti finanziari e delle società:
è possibile una via italiana alla tutela collettiva degli investitori?, in
Riv. di dir. dell’impresa, 2009, II, 26 ss.; N. Trocker, Class action negli
USA – E in Europa?, in Contr. e
impresa/Europa, 2009, I, 178 ss.; C. Di Marzo, La via italiana alla class action per danni extracontrattuali e i principali modelli di tutela collettiva
risarcitoria, in Giureta (Riv. di
dir. dell’econ. dei trasp. e dell’amb.), 2010, VIII, 413 ss.; A. Querci, Via alla class action in
Italia: un’arma spuntata?, in
Dir. e pratica tributaria, 2010, II, 413 ss.; V. Tavormina, La nuova
class action: il coordinamento con la
disciplina del codice di procedura civile, in Obbl. e contr., 2010, IV, 246 ss.; Class action: il nuovo volto della tutela cit. Tra l’altro, è bene
chiarire come anche negli Stati Uniti, che rappresentano il Paese in cui questo
istituto ha avuto il maggiore sviluppo, è ben avviata una discussione
che ne evidenzia alcune criticità, proponendone il superamento o
quantomeno la modifica: cfr. ad es. M.S. Greve, Harm-Less Lawsuits. What’s Wrong whit Consumers Class Actions,
AEI Press, Cambridge (MA), 2002, 1 ss.; R.A.
Epstein, Class Actions: the Need
for a Hard Second Look, in Civil
Justice Report, N. 4, 2002, Manhattan Institute for Policy Research, 1 ss.
[9] Cfr. Ael. Spart., De vita Hadriani, 25.9: Animula vagula blandula Hospes comesque
corporis Quae nunc abibis in loca Pallidula rigida nudula Nec ut soles dabis
iocos. Il riferimento, ovviamente, è a L. Lanfranchi, Le animulae
vagulae blandulae e l’altra faccia
della luna, in La tutela
giurisdizionale degli interessi collettivi cit., XX ss.
[10] Per un panorama delle legislazioni latinoamericane, che,
sul punto, si presentano come più avanzate rispetto non solo al nostro
Paese, ma probabilmente all’Europa intera, vd. A. Pellegrini Grinover, Proyecto
de Código modelo de processos colectivos para Iberoamérica,
in Roma e America. Diritto romano comune,
17, 2004, 257 ss.; A. Gonçalves de
Castro Mendes, Relatório
geral. Processos coletivos. O anteproyecto de Código modelo de processos
coletivos para a Ibero-América, ibidem,
265 ss. (= in Revista Iberoamericana de
derecho procesal, año IV, n. 5, 2004, 155-193); G.M. Acuña Solórzano, Los interdictos populares como instrumento
de tutela a las res in usu publico en
el derecho romano y su influencia en las codificaciones latinoamericanas. Con
atención a la tutela del ambiente, in Roma e America. Diritto romano comune, 25, 2008, 53 ss.
[11] Cfr. A. Proto
Pisani, Nuovi diritti e tecniche
di tutela, in Diritto e
giurisprudenza, XLVII, 1991, 241.
[12] Mi riferisco, ad es., ai numerosi lavori sul tema di
Mauro Cappelletti, il quale propone appunto una revisione critica dei ricordati
principi, in quanto essi, sorti da una elaborazione dottrinale appartenente ad
un periodo ormai passato, ispirata all’individualismo ed alla garanzia
dei diritti dell’individuo, meritano di essere adeguati a nuove esigenze
di tutela imposte, nelle società contemporanee, dalla dimensione
collettiva delle relazioni e dei bisogni in esse presenti. Attualmente, nota
questo studioso, è la natura stessa super-individuale o collettiva degli
interessi e dei soggetti che sono implicati in molti dei conflitti propri delle
società moderne che evidenzia l’insufficienza del modello
individualistico di processo civile di fronte a tali situazioni di conflitto e
richiede l’adeguamento di esso alle nuove esigenze di tutela imposte
dalla dimensione collettiva di tali relazioni e bisogni. Tra i tanti lavori che
si potrebbero citare, cfr.: M.
Cappelletti, Appunti sulla tutela
giurisdizionale cit., 176 ss.; Idem, La protection d’intérêts
collectifs et de groupe dans le procès civil (metamorphoses de la
procedure civile), in Revue
international de droit comparé, III, 1975, 571 ss.; Idem, Tutela dos interesses diffusos,
in Revista Ajuris, XXXIII mar. 1995. Peraltro, nello stesso senso vd.
anche G. Berti, L’interesse diffuso nel diritto
amministrativo, in Strumenti per la
tutela degli interessi diffusi della collettività. Atti del Convegno
promosso dalla sezione di Bologna di Italia Nostra, Bologna, 5 dicembre 1981,
a cura di D. Stanziani e A. Fiore, Rimini, 1982, 25.
[14] Per queste nozioni, la dottrina accumulatasi con gli
anni è sterminata; tra i tanti (ad esclusione dei profili penalistici,
che qui non affronto), oltre ai lavori che verranno citati di volta in volta
nel corso della trattazione, cfr.: A.
Proto Pisani, Appunti preliminari
per uno studio sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi (o
più esattamente superindividuali) innanzi al giudice civile ordinario,
in Dir. e giurispr., 1974, VI, 801 ss.; G. Costantino, Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi
davanti al giudice ordinario, ibidem,
817 ss.; E. Roppo, Tutela degli interessi diffusi e modelli di
controllo sociale dei contratti standard, in Riv. trim. di dir. pubbl., 1976, I, 307 ss.; C. Varrone, Sulla tutela degli interessi diffusi nel processo amministrativo,
in Riv. di dir. process., 1976, IV,
781 ss.; D. Resta, Brevi osservazioni sull’individuazione
e sulla tutela giurisdizionale degli interessi diffusi nel processo
amministrativo, in Il Cons. di Stato,
1977, VIII-IX, 886 ss.; A. Corasaniti,
La tutela degli interessi diffusi davanti
al giudice ordinario, in Riv. di dir.
civ., 1978, II, 180 ss.; Idem, Interessi diffusi, in Dizionari del diritto privato, I, Diritto civile, a cura di N. Irti, Milano, 1980, 419 ss.; G. Vignocchi, La tutela degli interessi diffusi nei settori della economia e della
tutela dei consumatori, in Jus,
I, 1978, 31 ss.; G. Guccione, Interessi diffusi e funzione di controllo,
in Il Cons. di Stato, 1978, V, 663; G. Palumbi, Profili di responsabilità in materia di inquinamento delle
acque: il ruolo della giurisprudenza della Corte dei Conti nella tutela degli
interessi diffusi delle collettività e la responsabilità degli
amministratori degli enti territoriali, in Il Cons. di Stato, 1978, V, 677 ss.; A. Postiglione, Sulla
tutela degli interessi collettivi, in Giur.
di mer., 1978, I, 95 ss.; Idem, L’informatica giuridica come strumento
per la tutela di interessi collettivi, in Il Cons. di Stato, 1978,
X, 1009 ss.; R. Bertoni, Giudici e interessi diffusi, in La giurispr. pen., 1979, VIII-IX, 504
ss.; Idem, La tutela giudiziaria degli interessi diffusi, in Vita not., 1979, 543 ss.; A. Cerri, Interessi diffusi, interessi comuni – azione e difesa, in Dir. e soc., 1979, I, 83 ss.; G. Cogo, Interessi diffusi e partecipazione, in Studi parlam. di pol. cost., XLV, 1979, 25 ss.; V. Vigoriti, Interessi collettivi e processo. La legittimazione ad agire,
Milano, 1979, passim; Idem, Metodi e prospettive di una recente giurisprudenza in tema di interessi
diffusi e collettivi, in Giur. it.,
1980, XII, 305 ss.; A. D’Amato,
Pubblicità commerciale e tutela
degli interessi diffusi dei consumatori, in Giust. civ., 1979, VI, 205 ss.; L.
Montesano, Sulla tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e sul difetto di
giurisdizione per “improponibilità della domanda”, in Giur. it.,
1979, X, 1493 ss.; I. Cappiello, Sociologia degli interessi diffusi, in Giur. agr. it., 1980, IV, 199 ss.; F. Delfino, Ambiente, interessi “diffusi” e tutela giurisdizionale,
in Dir. e soc., 1980, III, 629 ss.; E. Marotta, Interessi diffusi e loro tutela, in Foro napol., 1980, I-II, 15 ss.; Morsillo,
Rilevanza giuridica degli interessi
diffusi e tutela giurisdizionale, in Giur.
agr. it., 1980, XII, 687 ss.; F.
Patroni Griffi, Note in tema di
tutela giudiziaria degli interessi diffusi, in Giust. civ., 1980, VI, 294 ss.; G.F.
Piga, Diritti soggettivi,
interessi legittimi, interessi diffusi e tutela giurisdizionale, in Giust. civ., 1980, III, 703 ss.; R. Raimondi, Cittadini, enti esponenziali, interessi diffusi, in Giur. di mer., 1980, III, 725 ss.; G. Santaniello, La tutela degli interessi diffusi dinnanzi al giudice amministrativo,
in Riv. amm.va della Rep. it., 1980,
XII, 821 ss; L. Zanuttigh, Profili
costituzionali della legittimazione ad agire per la tutela di interessi diffusi,
in Giur. it., 1980, V, 231 ss.; A. Martucci di Scarfizzi, Interessi diffusi e collettivi: consolidamento
di una giurisprudenza e nuovi profili, in Il Foro amm.vo, 1981, III, 327 ss.; M.
Poli, Gli interessi diffusi
davanti al Consiglio di Stato, in AG,
CC, 1-2, 1981, 65 ss.; B. Caravita,
Interessi diffusi e collettivi, in Dir. e soc., 1982, II, 167 ss.; Idem, Corte dei Conti e interessi diffusi. Un caso di interpretazione
estensiva, in Democr. e dir.,
1982, III, 41 ss.; Idem, Elaborazione giurisprudenziale e intervento
legislativo nella tutela degli interessi diffusi, in Riv. giur. dell’amb., 1986, I, 132 ss.; C. Rapisarda, Bilancio e prospettive della tutela degli interessi diffusi negli anni
Ottanta (note in margine ad un recente convegno), in Foro it., 1982, V, 85 ss.; M.
Zucculini, Ricostruzione dell’atteggiamento
giurisprudenziale in materia di interessi diffusi, in Il Foro padano, 1982,
I-IV, 82 ss.; Eadem, Interessi diffusi e interessi collettivi:
una questione aperta, in Giur. di
merito, 1983, I, 253 ss.; V. Denti,
s.v. Interessi diffusi, in Noviss. dig. it. (appendice), 1983, 305
ss.; A. Ventrella, Interessi legittimi e interessi diffusi,
in Nuova Rass. di legisl., dottr. e
giurispr., 1983, XXI, 2214 ss.; M. Sensale, La tutela degli interessi diffusi: un problema ancora aperto, in Giust. civ., 1983, III, 140 ss.; R. Federici, Gli interessi diffusi. Il problema della loro tutela nel diritto
amministativo, Padova, 1984, VII ss.; C.
Festa, La legittimazione ad agire
per la tutela degli interessi diffusi, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1984, III, 944 ss.; E. Gabrielli, Appunti su diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi
collettivi, in Riv. trim. di dir. e
proc. civ., 1984, IX, 969 ss.; A. Cariola, Giudizio amministrativo, associazioni ecologiche, interessi diffusi,
in Il Foro amm.vo, 1986, XI, 2555 ss.; F. Marilena, Tutela del territorio, interessi diffusi ed operato del giudice
(ordinario, amministrativo, contabile), ibidem,
2603 ss.; S. Salmi, Legittimazione ad impugnare da parte di enti
e associazioni che tutelano interessi collettivi e diffusi, in L’amm.ne it., 1986, IV, 596 ss.; C.
Pantani, Dottrina e giurisprudenza
in materia di interessi diffusi (brevi cenni di riferimento), in L’amm.ne it., 1987, IV, 579 ss.; N.
Trocker, Gli interessi diffusi
nell’opera della giurisprudenza, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1987, IV, 1112 ss.; Idem, s.v. Interessi collettivi e diffusi, in Enciclopedia giuridica Treccani, XVII, 1989, 1 ss.; B. Cianci, Tutela degli interessi diffusi, in Giur. di mer., 1990, III, 585 ss.;
E. Ciani, Interessi diffusi e loro
tutela giurisdizionale: linee evolutive giurisprudenziali, in Riv. amm.va della Rep. it., 1990, XI,
1546 ss.; A. Dinacci, Riconoscimento giuridico degli interessi
diffusi, in Riv. amm.va della Rep.
it., 1993, II-III, 216 ss.; R. Ferrara, Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo),
in Dig. disc. pubbl., VIII, 1993, 481
ss.; A. Lo Torto, La sensibilità del pubblico
dipendente per la gestione produttiva degli interessi diffusi in seno alla
collettività, in I Tribun.
amm.vi reg., 1993, X, 333 ss.; F.
Ancora, Organi di giustizia
comunitaria, interessi diffusi e Parlamento europeo, in Il Foro amm.vo, 1994, VI, 1643 ss.; M. Milone, Brevi riflessioni sul sistema sanzionatorio per le violazioni degli
“interessi diffusi” in materia di danno ambientale, in I Trib. amm.vi reg., 1994, V-VI, 173
ss.; U. Zingales, Nuove prospettive in tema
di tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, sia collettivi che
"adespoti", in I Trib.
amm.vi reg., 1995, VII-VIII, 217 ss.; N.M.
Bocci, Interessi diffusi, una tutela
ancora collettiva, in Il Nuovo dir.,
1996, VI, 502 ss.; A. Contaldo, Gli interessi diffusi: legittimazione attiva
al procedimento amministrativo ma non al processo, in Giur. di mer., 1997, II, 367 ss.;
M. Pò, La legittimazione ad
agire in giudizio per gli interessi diffusi, in Enti pubbl., 1997, I, 29 ss.; P.
Errede, L'azionabilità degli interessi diffusi
nell'interpretazione giurisprudenziale,
in Nuova Rass. di legisl., dottr. e
giurispr., 1998, XIX, 1847 ss.; R.
Rota, La tutela processuale degli interessi diffusi e collettivi tra
diritto interno e diritto comunitario, in Dir. e giurispr. agr. alim. e dell'amb., 1998,
I, 12, 662 ss.; A. Nardelli, Gli interessi diffusi fra
"riconoscimento legale" e legittimazione a ricorrere. Gli
orientamenti dottrinari e giurisprudenziali sulla legitimatio ad causam da
parte dei portatori di interessi diffusi,
in Nuova Rass. di legislaz., dottr. e
giur., 1999, VII, 593 ss.; A.
Pellegrini Grinover, Significato
sociale, politico e giuridico della tutela degli interessi diffusi, in Riv. di dir.
process., 1999, I, 17 ss.; S.A. Violante, Le questioni aperte in fine secolo. Tutela degli interessi diffusi e
Corte dei Conti, in Nuova Rass. di
legisl., dottr. e giurispr., 2000, III-IV, 341 ss.; C. Punzi, La tutela giudiziale degli interessi diffusi
e degli interessi collettivi, in Riv.
di dir. process., 2002, III, 647 ss.;
C. Petrillo, La tutela
giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, Roma, 2005; Eadem, La tutela degli interessi collettivi e dei diritti individuali omogenei
nel processo societario, in Riv. di
dir. process., 2006, I, 135 ss.; R.
Lombardi, La tutela delle
posizioni meta-individuali nel processo amministrativo, Torino, 2008; C.R. Perfetti-A. Clini, Class action, interessi diffusi e legittimazione a ricorrere
degli enti territoriali nella prospettiva dello statuto costituzionale del
cittadino e delle autonomie locali, in Dir.
proc. amm., 2001, 1435 ss.; C. Cudia,
Gli interessi plurisoggettivi tra diritto
e processo amministrativo, San Marino, 2012; vd. anche supra, nt. 6.
[15] Per l’applicazione alle sole azioni popolari
suppletive dell’istituto della sostituzione processuale che,
com’è noto, trova il suo fondamento nell’art. 81 Cpc., cfr.,
per primo G. Manca, Sulla natura giuridica dell’azione
popolare, Cagliari, 1911; ma poi cfr. anche G.
Chiovenda, Principii di diritto
processuale civile, I, Napoli, 1928, 4a ed., (rist. 1965), 600 ss.; F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, I, Funzione e composizione
del processo, Padova, 1936, § 142, 379 ss.; E. Garbagnati, La
sostituzione processuale nel nuovo Codice di procedura civile, Milano,
1942, particolarmente 214 ss.; A. Martino,
Ancora sulle azioni popolari, in Nuova Rass. di legislaz., dottr. e giurispr.,
1971, II, 1497 ss.; F. Carpi, L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, Milano,
1974, 99 ss. (spec. 115); C. Mignone,
s.v. Azione popolare, in Dig. disc. pubbl., II, 1987, 149, il
quale parla di «un potere di pura legittimazione, che scinde la
titolarità dell’interesse processuale dalla titolarità
della situazione sostanziale (che è sempre altrui)», mentre di una
«situazione di mera legittimazione, ovvero un diritto di natura
processuale cui non corrisponde alcuna situazione qualificata in capo
all’attore» parla invece G.
Taccogna, s.v. Azioni popolari,
in Dig. disc. pubbl., XI, 1996, Appendice, 662. Peraltro,
l’istituto della sostituzione processuale è ancora ampiamente
accolto in giurisprudenza con riferimento alle azioni popolari: cfr., ad es. TAR Veneto Venezia, sez. III, 27 maggio 2004
n. 1728, in Urbanistica e appalti,
XI, 2004, 1341 ss. con nota di M. Andreis,
Azione popolare e atteggiamento
dell’ente sostituito. Invece, per una critica di questa tesi, vd.
già S. Satta, Azioni popolari e perpetuatio
iurisdictionis, in Foro it., 1938, I,
c. 705 (= in Teoria e pratica del
processo, Roma, 1940, 361); e poi L.
Paladin, s.v.
Azione popolare, in Noviss. dig. it., II, 1968, 89 s.
[16] Cfr., ad es., G.
Zanobini, L’esercizio
privato delle funzioni e dei servizi pubblici, in Primo Trattato di dir. amm.vo it., II.3, a cura di V.E. Orlando, Milano, 1935, 274 ss.; V. Crisafulli, s.v. Azione popolare, in Nuovo
dig. it., II, 1937, 139; R. Juso,
Il contenzioso elettorale amministrativo,
Milano, 1959, 37.
[17] Cfr. in questo senso S.
Agrifoglio, Riflessioni critiche
sulle azioni popolari come strumento di tutela degli interessi collettivi,
in Le azioni a tutela di interessi
collettivi cit., 181 ss.; D. Borghesi,
s.v. Azione popolare, in Enc. giur., IV, 1988, 2 ss.; peraltro,
la logica appare quella stessa perseguita da M.A.
Tucci, Spunti per un diverso
approccio metodologico allo studio degli interessi collettivi, in I trib. amm.vi reg., 1983, VII-VIII, 165
ss.
[18] ‘Private
Attorney General’, mutuando una terminologia coniata
nell’ambito delle class actions americane
dal giudice Jerome Frank nel 1943 nella causa Newmann v. Piggie Park Enterprises. Per questa posizione, in
Italia, vd. V. Denti, Relazione introduttiva, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi cit., 14.
[19] Cfr. E. Garbagnati,
La sostituzione processuale cit., 223
ss.; e poi soprattutto E. Grasso, Gli interessi della collettività cit.,
24 ss. e 33 ss.; F. Carpi, L’efficacia «ultra partes» cit., 113 ss.
[20] Cfr., L. Martino, Le azioni popolari
in generale con particolare riferimento alla proponibilità di quelle in
materia urbanistico-edilizia, in Nuova rass. di legisl., dottr. e giurispr.,
1986, I, 31, il quale pretende di rintracciare addirittura nel diritto romano i
prodromi di questa sua concezione.
[22] Per il concetto di «adeguato portatore», che
intende in qualche modo richiamare la «adequacy of representation»,
e la «certification» previste nel sistema delle class actions americane (per la
verità a tutt’altro fine e interesse): cfr. A. Giussani, Studi sulle class actions, Padova, 1996, 110 ss.; vd. V. Vigoriti, Interessi collettivi cit., 145 ss.
[23] Secondo questa ricostruzione, in ogni caso, anche quando
l’interesse ‘adespota’ abbia ‘mutato natura’ e si
sia trasformato in interesse collettivo, trovando un portatore, esso deve
comunque fare necessariamente capo ad un gruppo organizzato, al quale
normalmente il legislatore attribuisce rilevanza, come un’associazione,
un sindacato, un partito, ecc., e solo in questa veste esso troverebbe tutela:
per questa ricostruzione, che quindi non rinuncia a vedere, in qualche modo,
comunque nello Stato il ‘vero’ portatore ‘finale’ di
tale interesse, cfr. P.L. Galassi,
La tutela degli interessi collettivi,
in I tribunali amministr., 1975,
VII-VIII, 179 ss.; C.M. Bianca, Note sugli interessi diffusi, in La tutela giurisdizionale cit., 76 s.;
ma cfr. anche C. Punzi, La tutela giurisdizionale degli interessi
diffusi, ibidem, 17 ss.; per una
critica, invece, vd. C. Vocino, Sui cosiddetti interessi diffusi, in Studi in memoria di S. Satta, II,
Padova, 1982, 1879 (il quale, però, nega in radice l’esistenza di
interessi definibili collettivi o diffusi); M.
Nigro, Le due facce
dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni
della giurisprudenza, in Foro it.,
1987, V, cc. 7 ss., il quale sottolinea come il rischio sia proprio quello di
schiacciare il profilo soggettivo sotteso ad ogni ‘interesse
diffuso’, per valorizzarne l’accoglimento soltanto in sedi
associative; L. Lanfranchi, Le animulae vagulae blandulae cit., 21 ss.; A. Carratta, Profili
processuali della tutela degli interessi legittimi, in La tutela giurisdizionale cit., 79 ss.
[25] È il caso previsto, ad es., dall’art. 225
del R.D. 4 febbraio 1915 n. 148, che subordina l’esercizio
dell’azione del singolo all’autorizzazione della Giunta provinciale
amministrativa.
[26] Cfr. D. Borghesi,
Azione popolare, interessi diffusi e
diritto all’informazione, in Politica
del diritto, 16, II, 1985, 276.
[27] Per il concetto, tra il giuridico e il
filosofico, cfr., tra i tanti, F.
Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni,
Bari, 2004; M. Esposito, I beni pubblici, in Trattato di diritto privato, diretto
da M. Bessone, VII, Torino, 2008,
1 ss.; A. Tagliaferri, Beni comuni: un nodo cruciale del rapporto
pubblico-privato, in Publiscritture.
Rivista di ricerca e cultura critica, 7, 2010, 23 ss.; La società dei beni comuni. Una rassegna, a cura di P. Cacciari, Roma, 2010; R.
Petrella, Res publica e beni
comuni: pensare le rivoluzioni del XXI secolo, Verona, 2010; I
beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del
Codice civile, a cura di U. Mattei-E.
Reviglio-S. Rodotà, Roma, 2010; P. Maddalena, I beni comuni nel Codice civile, nella
tradizione romanistica e nella costituzione della Repubblica italiana, in www.Federalismi.it. Rivista di diritto
pubblico italiano, comunitario e comparato, 19, 2011; U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, 2011; A. Lucarelli, Introduzione: verso una teoria dei beni comuni, in Rass. di dir. pubbl. eur., 27, fasc. 2,
3 ss.; Idem, Note minime per una teoria giuridica dei beni comuni, in Quale Stato, 3-4, 2007, 1 ss.; Idem, La democrazia dei beni comuni, Bari, 2013; M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato.
Per un diritto dei beni comuni,
Verona, 2012; L’Italia dei beni
comuni, a cura di G. Arena e C. Iaione, Roma, 2012; S.
Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla
proprietà privata e i beni comuni, Bologna, 2013; A. Di Porto, Res in usu publico e ‘beni comuni’. Il nodo della
tutela, Torino, 2013. Invece, per una prospettiva storica, dopo P. Grossi, ‘Un altro modo di possedere’. L’emersione di forme
alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria,
Milano, 1977, 5 ss., vd. soprattutto A.
Dani, Le risorse naturali come
beni comuni, Grosseto, 2013, 7 ss.; per la prospettiva economica, basti qui
il rimando a E. Ostrom, Governing the Commons. The evolutions of Institutions for
Collective Action, New York, 1990 (trad. it. Governare
i beni collettivi,
Venezia, 2006, per il quale alla a. è stato conferito il premio Nobel
per l’Economia 2009). Per una critica,
vd. invece C. Iannello, Beni pubblici versus beni comuni, in www.forumcostituzionale.it. Utilissime sul punto, appaiono le
riflessioni di un non giurista, come S. Settis, Azione popolare, cit., particolarmente
61 ss., il quale opportunamente richiama la tripartizione romana tra res communes omnium, res publicae e res privatae (cfr.
Gai., 2 inst. D.1.8.1 pr. [=Gai. 2.10-11]; Marcian., 3 inst.
D.1.8.2.1 [= I.2.2.1]; Pomp., 9 ad Sab.
D.18.1.6 pr. ecc.); sul fatto che i ‘beni comuni’ non costituiscano
affatto una categoria ‘nuova’, cfr. ora soprattutto P. Maddalena, I beni comuni nel diritto romano: qualche valida idea per gli studiosi
moderni, in www.Federalismi.it . Rivista di
diritto pubblico italiano, comunitario e comparato, 14, 2012.
[28] Sul punto, vd. le lucidissime osservazioni di G. Lobrano, Uso dell’acqua nel
Mediterraneo. Uno schema di interpretazione storico-sistematica e de iure
condendo, in Diritto@Storia, III,
2004; vd. anche Idem, Dottrine della ‘inesistenza’
della Costituzione e il “modello del diritto pubblico romano”,
in Diritto@ Storia, V, 2006.
[29] Lo nota molto opportunamente E. Grasso, Gli
interessi cit., 33; tale scelta, invece, è difesa da U. Ruffolo, Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, I, Il problema e il metodo –
Legittimazione, azione e ruolo degli enti associativi esponenziali, Milano,
1985, 100 ss.
[30] Giustamente è stato detto che ‘interesse
diffuso’ «appare essere la formula descrittiva di una estesa
pluralità di interessi individuali, consistente in un rapporto diretto e
proprio fra soggetto e bene e come tali potenzialmente capaci tutti e
direttamente di tutela giurisdizionale»: vd. M. Nigro, Le due facce
dell’interesse diffuso cit., 7 ss.
[31] Cfr. E. Codini,
Beni a fruizione diffusa e giudice
amministrativo, in Strumenti per la
tutela cit., 139 ss.
[32] Esemplificativo di questo modo di ragionare mi pare
quanto afferma A.D. De Santis, I disegni di legge italiani sulla tutela
degli interessi collettivi e il «Class Action Fair Act of 2005», in Riv. trim. di dir. e proc. civ., LX, 2006, 606, secondo il quale
l’interesse collettivo appartiene a tutti i membri della categoria, ma
solo in quanto collettivamente considerati, ossia solo in quanto
categoria», con la conseguenza che esso «non è nella
titolarità né dei singoli né
dell’associazione».
[34] Così come in altri ordinamenti; per un quadro di
comparazione degli ordinamenti moderni sul tema, oltre a quanto detto supra, nt. 10 sul sistema giuridico
latinoamericano, vd. Luo Zhimin, Riflessioni sull’azione popolare da
una prospettiva comparatistica, in Fides Humanitas Ius. Studi in onore di L. Labruna, VIII, Napoli,
2007, 6065 ss. (che fa seguito ad una tesi di dottorato della a. dal titolo L’azione popolare e l’azione per
la tutela degli interessi diffusi: dal diritto romano al diritto moderno,
XIX ciclo, 2009).
[35] Osserva infatti giustamente L. Paladin, s.v. Azione popolare cit., 89, che se si
riduce l’attore popolare a mero sostituto processuale dello Stato o di un
ente pubblico, l’azione popolare finisce per scomparire nell’azione
dell’ente stesso.
[36] In realtà, la giustificazione ultima
dell’ostilità giurisprudenziale verso l’azione popolare va
vista nel timore paventato dai magistrati che, permettendo a chiunque di agire,
anche senza un personale e qualificato interesse, si rischierebbe di
sovraccaricare di lavoro i tribunali, i quali di per sé già si
troverebbero sull’orlo del collasso (sul punto, cfr. anche supra, nt. 4); peraltro, si tratta della
stessa ratio che ha guidato
più volte la nostra Corte Costituzionale nel negare
l’incostituzionalità dell’art. 28 dello Statuto dei
Lavoratori, nella parte in cui questo esclude i singoli lavoratori
dall’esercizio dell’azione per discriminazione sindacale (cfr., tra
le tante decisioni, Corte cost. 6 marzo
1974 num. 54, in Foro it., 1974,
I, cc. 963 ss., in cui si paventa un danno all’attività
imprenditoriale, derivante da un proliferare dei ricorsi individuali); per una
critica a questa impostazione, vd. invece A.
Cerri, Diritto di agire dei
singoli, delle associazioni che li rappresentano, di entità destinate
alla difesa di interessi collettivi. I progressivi ampliamenti della
legittimazione e le ragioni che li giustificano, in La tutela giurisdizionale cit., 43 e A. Carratta, Profili
processuali cit., 132. Del resto,
opportunamente nota R. Donzelli, Considerazioni sul procedimento per la
repressione della condotta antisindacale alla luce delle tecniche di tutela
giurisdizionale per la repressione degli interessi collettivi, ibidem, 192 come non sia corretto
sostenere che i diritti di libertà debbano cedere di fronte al timore di
un disordinato ricorso alla giustizia.
[37] Vd. ad es. la famosa Sentenza, con cui la Corte di
Cassazione a Sezioni unite (Cass. 8
maggio 1978 num. 2207) finì per negare l’ammissibilità
della categoria giuridica degli interessi cd. collettivi, negando nel contempo
che di essi potessero farsi portatori soggetti pure essi collettivi (ad es.
associazioni culturali: nel caso concreto, Italia Nostra): cfr. la nota
contraria di A. Postiglione, Iniziativa dei cittadini per la difesa di
interessi collettivi, in Giust. civ.,
1978, I, 1208 ss.
[38] È il caso della sopra (nt. 3) ricordata
‘decisione del chiunque’, alla luce della quale la Corte di
Cassazione, muovendosi «in una prospettiva più politica che
strettamente giuridica» (F. Carpi,
L’efficacia «ultra partes» cit., 100 nt. 4; sul punto, per
un inquadramento si vd. ora F. Saitta,
L’impugnazione del permesso di
costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero
[ed imprecisato] ampliamento della legittimazione a ricorrere, in Riv. giur. dell’edil., 2008, I,2, 23 ss. [= in Cittadinanza ed azioni
popolari, Atti del Convegno di Copanello 29-30 giugno 2007, www.lexitalia.it/articoli/saittaf_legittimazione.htm ]),
ha ribadito il principio per cui la legittimazione attiva andrebbe attribuita
non a ‘chiunque’, ma secondo il criterio dell’insediamento
abitativo (residenza o domicilio).
[39] Per i termini della distinzione, anch’essa fatta
propria dalla dottrina largamente dominante, cfr. A. Lugo, Azione
popolare (in generale), in Enc. dir., IV, 1959, 867; L. Paladin, s.v. Azione
popolare cit., 90 s.; D. Borghesi, s.v. Azione popolare cit. 7; A.
Sgro, L’azione popolare
suppletiva, in Nuova Rass. di
legislaz., dottr. e giurispr., 1985, VII, 679 ss.
[40] Nelle azioni popolari suppletive, quindi, l’attore
popolare sarebbe soltanto un rappresentante dello Stato (così vd. G. Zanobini, L’esercizio privato cit., 274 ss.) o, al massimo, una sorta
di sostituto processuale di esso (cfr. in questo senso, gli aa. cit. supra, alla nt. 15).
[41] La contraddizione che si ha con il costruire lo Stato
come protagonista (attivo o passivo) dell’azione popolare deflagra in
Italia con l’introduzione delle azioni popolari in materia di editoria o
di ambiente (maggiori approfondimenti in A.
Saccoccio, Il modello delle azioni
popolari romane cit., 765 e ntt. 149-150 con bibl.), in cui la controversia
può instaurarsi tra un privato ed un altro privato (normalmente
un’impresa), rispetto alle quali la pubblica amministrazione e lo Stato
rimangono estranei: sul punto vd. anche D.
Borghesi, s.v. Azione popolare,
cit., 9; e Idem, Azione popolare, interessi diffusi cit.,
271 ss., il quale parla della crisi della tradizionale bipartizione tra azioni
popolari suppletive e correttive, postulando addirittura l’esigenza di
un’azione popolare «atipica».
[42] Sul punto, vd. ora anche S. Settis, Azione popolare cit., passim; non mancano però
posizioni di dissenso: cfr. E. Vitale,
Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Roma-Bari, 2013; T.
Seppilli, Sulla questione dei beni comuni: un contributo
antropologico per la costruzione di una strategia politica, in Oltre il
pubblico e il privato cit.,
125.
[43] Tale abbandono, poi, dovrebbe essere rafforzato dalla
creazione di un tertium genus, genus intermedio tra diritti soggettivi
ed interessi legittimi, in cui dovrebbero confluire tutte queste istanze: vd.
la proposta di L. Zanuttigh, Intervento, in Strumenti per la tutela cit., 174 s., ma cfr. anche supra, nt. 41.
[44] Ancora oggi la dottrina considera la legittimazione
generale l’unica caratteristica in grado di raccogliere alcune
fattispecie sotto il comune ‘cappello’ delle azioni popolari: per
tutti, cfr. L. Paladin, s.v. Azione
popolare cit., 88-90, il quale da questo punto di vista avvicina le azioni
popolari ad istituti di democrazia diretta come il referendum.
[45] Cfr., a questo proposito, T. Bruno, s.v. Azione
popolare, in Dig. it., IV,2,
1893-1899, 954; e poi anche E. Gardino,
Le origini dell’azione popolare,
in AG, CCXXII, 2002, 109. Rispetto
all’andamento descritto, fa eccezione il periodo della fioritura dei
Comuni in Italia, allorché l’azione popolare servì in
realtà a spezzare «la catena della società feudale»:
cfr. A.O. Albanese, L’azione popolare da Roma a noi,
Roma, 1955, 83 ss.
[46] Questa osservazione risale a F. Casavola, Fadda e
la dottrina delle azioni popolari, in Labeo,
I, 1955, 131, ma è stata poi a più riprese rilanciata soprattutto
da A. Di Porto, Interdetti popolari e tutela delle «res in usu publico». Linee di una indagine, in Diritto e processo nella esperienza romana. Atti del Seminario torinese
(4-5 dicembre 1991 in memoria di G. Provera), Torino, 1994, 483; Idem, Res in usu publico cit.,
9 s. Peraltro, la sparizione è facilmente constatabile anche riguardo ai
manuali di diritto privato.
[47] Il merito di questa ricostruzione va indubbiamente
attribuito a F. Casavola, Fadda e la dottrina delle azioni popolari,
cit., 131 ss.; Idem, Studi sulle azioni popolari romane. Le
“actiones populares”,
Napoli, 1958, 2 (rist. Martina Franca, 1991, con in appendice l’art.
prima citato), 16. Per quanto riguarda l’opera di questo studioso,
però, non pienamente riuscito appare il tentativo di dimostrazione che
le azioni popolari intenderebbero colmare uno spazio vuoto tra le «due
forme tradizionali della giuridicità romana, ordinate dalla
bipolarità Stato e familia»:
cfr., per uno sviluppo più articolato della critica, quanto dico in A. Saccoccio, Il modello delle azioni popolari romane cit., 735 ss.
[48] Cfr. C.F. von Savigny, Das Obligationenrecht als Theil des heutigen römischen Rechts, II, Berlin, 1853, 314; Idem, System der römischen heutigen Recht, II, Berlin, 1840, §
73, 131 ss.; T. Mommsen, Die Stadtrechte der lateinische Gemeinde
Salpensa und Malaca in der Provinz Baetica, in Abhandl. d. Sachs. Ges. d. Wissensch., III, 1855, 461 ss. (= ora in
Gesammelte Schriften, I, Juristische Schriften, I, Berlin, 1905,
rist. Zürich und Hildescheim, 1994, 352 ss.); e poi, in risposta alla
critica di Bruns (vd. nt. successiva) cfr. anche Idem, Die
Popularklagen, in ZSS RA, XXIV,
1903, 1-12 (ora in Gesammelte Schriften,
III, Juristische Schriften, III,
Berlin, 1907, rist. cit., 375-385). Al
tempo, la tesi fu accolta in maniera entusiastica da alcuni studiosi: cfr. R. Maschke, Zur Theorie und Geschichte der Popularklage. Erster Beitrag, in ZSS RA, 6, 1885, 226 ss.; V. Colonieu, Les actions populaires en droit romain, Paris, 1888, 40 ss.; H. Paalzow, Zur Lehre von den römischen Popularklagen – Inaugural
Dissertation, Berlin, 1889, 15 ss.;
A. Codacci-Pisanelli, Le azioni
popolari, in AG, XXXIII, 1884,
317 ss.
[49] Cfr. K.G. Bruns, Die römischen Popularklagen, in ZRG, III, 1864, 341 ss. (ora in Kleinere
Schriften, I, 1882, 313 ss.); R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner
Entwicklung, I, Leipzig, 18915 (1a ed. 1852), § 14, 201 nt.
96 b.; V. Scialoja, Prefazione del traduttore alla trad. it. di K.G. Bruns, Le azioni popolari romane, in
AG, XXVIII, 1882, 166 ss. (= in Studi
giuridici, I, Diritto romano, I, Roma, 1933, 108 ss.); Idem, L’exceptio rei iudicatae
nelle azioni popolari romane. Studio esegetico, in AG, XXXI, 1883, 213 ss.; C.
Fadda, L’azione popolare.
Studio di diritto romano ed attuale, I, Parte
storica – Diritto romano, Torino, 1894 (rist. Roma, 1972), 296 ss.
[50] Significativo, ad esempio, appare quanto scrivono alcuni
degli esponenti di maggiore spicco del clima culturale e giuridico
dell’epoca: secondo R. von Jhering,
Der Kampf ums Recht, , 4a ed, 18744, cito dalla trad. it. La lotta pel diritto, Bari, 19352,
75 nt. 1, nelle azioni popolari si dovrebbe Wien riconoscere «la
più bella e la più elevata testimonianza che il sentimento del
diritto possa porgere di sé»; ma vd. anche Idem, Geist des
römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I,
Leipzig, 18915 (1a ed. 1852), § 14, 200 ss.; B. Brugi, L’azione popolare romana in materia di opere pie, in AG, XXVII, 1881, 440 ss., ad avviso del
quale l’azione popolare costituiva un «prodotto bellissimo della
Roma pagana», al punto che in essa si concentravano l’alto senso
ideale del diritto romano, rafforzato dallo spirito filantropico del mondo
moderno: l’azione popolare, sempre ad avviso del Brugi, esperita dal
cittadino senza fini egoistici nel solo interesse del bene comune, rispondeva
non solo al concetto elevato e dignitoso che si deve avere del diritto, ma era
prova di fiducia nei confronti di quel cittadino ormai atto a vigilare da
sé medesimo alla conservazione del diritto stesso; infine, secondo C. Fadda, L’azione popolare cit., 308., la «colleganza
dell’interesse del singolo con quello della universalità deve
appunto essere più minutamente studiata nell’evoluzione storica di
Roma».
[51] Cfr. F. Casavola,
Fadda e la dottrina cit., 133 ss.;
alle stesse conclusione giunge peraltro anche D.
Borghesi, Azione popolare cit.,
261 s.
[52] Cfr. soprattutto F.
Casavola, Studi sulle azioni
popolari cit., 13 ss., il quale riconosceva come questa osservazione era
stata già svolta dal Bruns, che però non l’aveva condotta
alle sue conseguenze.
[53] Infatti, due vie sono possibili: la via di evidenziare
la coppia ‘ius suum’,
è stata percorsa dai fautori della tesi cd. procuratoria; al contrario,
l’evidenziazione della coppia ‘suum-populi’
era sostenuta dai sostenitori della tesi cd. dello Stato-persona: cfr. sul
punto quanto dico in A. Saccoccio,
Il modello delle azioni popolari romane
cit., 720 ss.
[54] D. 47.12.6 (Iul. 10
dig.) Sepulchri violati actio in
primis datur ei, ad quem res pertinet. Quo cessante si alius egerit, quamvis rei
publicae causae afuerit dominus, non debebit ex integro adversus eum, qui litis
aestimationem sustulerit, dari. Nec potest videri deterior fieri condicio eius,
qui rei publicae causa afuit, cum haec actio non ad rem familiarem eiusdem,
magis ad ultionem pertineat.
[55] Cfr. D. 29.2.20.5 (Ulp., 61 ad ed.) Si sepulchri violati
filius aget quamvis hereditarii, quia nihil ex bonis patris capit, non videtur
bonis immiscere: haec enim actio poenam et vindictam quam rei persecutionem
continet; D. 47.12.10 (Pap., 8 quest.)
Quesitum est, an ad heredem necessarium,
cum se bonis non miscuisset, actio sepuchri violati pertineret. Dixi recte eum
ea actione experiri, quae in bonum et aequum concepta est: nec tamen si egerit,
hereditarios creditores timebit, cum etsi per hereditatem optigit haec actio,
nihil tamen ex defuncti capiatur voluntate, neque id capiatur, quod in rei
persecutione, sed in sola vindicta sit constitutum.
[56] D.
9.3.1.1 (Ulp., 23 ad ed.) Summa cum utilitate id praetorem edixisse
nemo est qui neget: publice enim utile est, sine metu et periculo per itinera
commeari.
[58] Per la divisione delle res publicae in res in
patrimonio publico e res in publico
uso, vd. soprattutto D. 18.1.6 pr. (Pomp., 9 ad Sab.); sul punto, cfr., per un inquadramento e per le numerose
altre fonti in materia, G. Branca,
Le cose extra patrimonium humani
iuris. Corso di esegesi delle fonti del
diritto romano. A.a. 1946-47, Bologna, 1947; A. Dell’Oro, Le res
communes omnium dell’elenco di Marciano
e il problema del loro fondamento giuridico, in Studi Urbinati, XXX-XXXI, 1961-63, 239 ss.; R. Orestano, Il
«problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I,
Torino, 1968, 295 ss.; F. Sini, Persone e cose: res communes omnium. Prospettive sistematiche tra diritto
romano e tradizione romanistica, in Diritto@Storia,
VII, 2008 < http://www.dirittoestoria.it/7/Tradizione-Romana/Sini-Persone-cose-res-communes-omnium.htm > ; P.
Maddalena, I beni comuni nel
diritto romano cit.; M. Giagnorio, Il contributo del civis
nella tutela delle res communes omnium, in Teoria e storia del diritto privato, VI, 2013, 5 ss.
(dell’estratto); A. Di Porto,
Res in usu publico cit., 26 ss.
[59] Cfr. A. Di Porto,
Interdetti popolari cit., 513; Idem, Res in usu publico cit., XVII ss., dove però l’a.
ipotizza che con l’avvento del principato l’azione popolare abbia
subito una tale trasformazione, per cui essa non sarebbe più espressione
della sovranità del populus; G. Sanna, L’azione popolare come
strumento di tutela dei “beni pubblici”: alcune riflessioni tra
“bene pubblico” ambiente nell’ordinamento giuridico italiano
e res publicae nel sistema giuridico
romano, in Diritto@Storia, V,
2006, 6 <http://www.dirittoestoria.it/5/Tradizione-Romana/Sanna-Azione-popolare-tutela-beni-pubblici.htm
> .
[60] Cfr. D. 43.8.2.2 (Ulp., 68 ad ed.): loca enim publica
utique privatorum usibus deserviunt, iure scilicet civitatis, non quasi propria
cuiusque…; sul punto vd. anche F.
Casavola, Studi sulle azioni
popolari cit., 18.
[61] Cfr. F. Casavola,
Studi sulle azioni popolari cit., 98
ss.; il punto peraltro non è indiscusso in dottrina: contra, vd. già le Recensioni alla monografia di Casavola
da parte di M. Kaser, in Labeo, IV, 1958, 344 e di G. Jahr, in ZSS RA, LXXVII, 1960, 472 ss., oltre a J. Danilović, Observations
sur les «actiones populares»,
in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino, 1974, 18 ss.
[62] Dai testi dei giuristi romani, invece, sembra emergere
una sorta di duplicità di tipologie di azioni popolari, perché
accanto alle azioni popolari a legittimazione generale, ci sono azioni popolari
che prevedono una legittimazione esclusiva dell’interessato, a cui
può seguire, per sua mancanza o rinuncia o decesso, una legittimazione
generale sussidiaria: vd. ad es. D. 47.12.3 (Ulp., 25 ad ed.): Praetor
ait:’Cuius dolo malo sepulchrum violatum esse dicetur, in eum in factum
iudicium dabo, ut ei, ad quem pertineat, quanti ob eam rem aequum videbitur,
condemnetur. Si nemo erit, ad quem pertineat, sive agere nolet: quicumque agere
volet, ei centum aureorum actionem dabo; D. 47.12.6 (Ulp., 10 dig.): Si quis in sepulchro habitasset aedificiumve habuisset, ei qui velit
agendi potestas fit; D. 9.3.5.5 (Ulp., 23 ad ed.): Haec autem actio,
quae competit de effusis et deiectis, perpetua est et heredi competit…;
nam est poenalis et popularis: dummodo sciamus ex pluribus desiderantibus hanc
actionem ei potissimum dari debere cuius interest vel qui adfinitate
cognationeve defunctum contingat… Sed si libero nocitum sit, ipsi
perpetua erit actio: sed si alius velit experiri, annua erit haec actio; D.
47.23.3.1 (Ulp., 1 ad ed.): in popularibus actionibus is cuius interest
praefertur. In tutti questi casi, la presenza di un ‘più
interessato’ (rispetto al quivis de
populo) non fa di per sé venire meno la
‘popolarità’ dell’azione. Sottolinea correttamente F. Casavola, Studi sulle azioni popolari cit., 8 ss. che la mancata
individuazione di questo punto si deve al fatto che il Fadda, nel momento in
cui enuncia la sua tesi (che finirà, con qualche aggiustamento, per
essere quella dominante in materia) vive un periodo in cui la dottrina si
è in realtà appena svincolata dalla tesi mommseniana del mandato
statale, e pertanto non riesce a negare del tutto la relazione
dell’attore popolare con l’interesse statale, se non ricorrendo a
quella sorta di ‘Stato attenuato’, somma di tutti i cittadini, che
permetteva l’intreccio di interessi individuali e collettivi.
[63] Cfr., solo per limitarmi agli scritti più recenti
sul tema, G. Sanna, L’azione popolare cit., 6, a
parere del quale senza dubbio il tratto distintivo che accomuna tutte le azioni
popolari romane è che «l’esercizio di esse spetta a
qualunque cittadino, come tale»; M.
Giagnorio, Brevi note in tema di
azioni popolari, in Teoria e storia
del diritto privato, 5, 2011, 1 ss. dell’estr., secondo il quale le
azioni popolari si contraddistinguerebbero per essere «un rimedio
processuale concesso dal pretore a quivis
de populo, indipendentemente dall’esistenza o meno di un rapporto di
credito o reale nei confronti della persona o della cosa contro o per la quale
si agiva»; vd. invece, più opportunamente, A.O. Albanese, L’azione
popolare cit., 17, secondo il quale con l’azione popolare chiunque
può chiedere al magistrato la tutela di un diritto che, pur non
appartenendogli in quanto singolo, gli appartiene comunque in quanto facente
parte di una più vasta collettività.
[66] Il riferimento è alla comparsa in Europa del nazionalsocialismo:
cfr. F. Casavola, Fadda e la dottrina cit., 153. In
particolare, il concetto di diritto soggettivo pubblico, che era esaltato dai
regimi liberali, che esigevano una posizione attiva dell’individuo verso
lo Stato, invitando i singoli a correggere o a supplire il potere pubblico
stesso, finisce con l’essere completamente negato nella concezione
nazista della Volksgemeinschaft: cfr.
tra la vasta letteratura sul tema, U.
Bielefeld-M. Wildt, Volksgemeinschaft.
Die mörderische Sehnsucht nach ihrer Verwirklichung und ihr lange
Auflösung, Hamburg, 2007; F.
Bajohr-M. Wildt, Neue Forschungen
zur Gesellschaft der Nationalsozialismus, Frankfurt am Main, 2007.
[67] Cfr. ad es. B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts I,
9a ed., Frankfurt am Main, 1906 (rist. Aalen,
1984), § 46, 197 nt. 2, dove la distinzione tra actiones populares e actiones
privatae è definita «antiquiert», e II, § 326, 354 nt. 6, dove si legge: «die actiones populares sin heutzutage
überhaupt unpraktisch», in quanto l’interesse pubblico deve
essere fatto valere dallo Stato.
[68] Significativa, in questo senso, appare ad es. la dizione
dell’art. 810 Cc. it. 1942, secondo il quale sono considerati beni
giuridici «le cose che possono formare oggetto di un diritto».
[69] Cfr., oltre all’ormai famoso scritto di R. Orestano, Diritti soggettivi e diritti senza oggetto. Linee di una vicenda
concettuale, in Jus, 11, 1960,
149 ss., le varie prese di posizione sul punto del prof. Pierangelo Catalano,
tra le quali mi limito qui a ricordare P.
Catalano, Diritto, soggetto ed
oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D.1,1,12, in
Iuris Vincula. Studi in onore di M.
Talamanca, II, Napoli, 2001, 95
ss., dove cfr. ampia bibliografia sul punto; vd. anche quanto dice nella Premessa F.
Sini, Documenti sacerdotali di
Roma antica, I, Libri e commentarii, Sassari, 1983, 6 s.; per una prospettiva diversa, ma pur
sempre coincidente con la linea qui seguita nell’ambito della dialettica
soggetto-oggetto, cfr. R. Fiori, Il problema dell’oggetto del contratto
nella tradizione civilistica, in Modelli
teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti
reali, Napoli, 2003, 169 ss.
[70] Cfr., bene sul punto, P.
Maddalena, Giurisdizione contabile
e tutela degli interessi diffusi, in Strumenti
per la tutela degli interessi diffusi della collettività. Atti del
Convegno promosso dalla sezione di Bologna di Italia Nostra cit., 85 ss.;
ma cfr. anche C. Biagini, L’azione popolare (e la tutela degli
interessi diffusi), in Il Cons. di
Stato, XXVIII.2, 1997, 870; U.
Ruffolo, Interessi collettivi cit.,
129 ss. Sulla «accentuazione dei profili patrimoniali» del diritto
soggettivo a partire dagli anni ’30 del secolo passato si sofferma F. Lucarelli, Modelli privatistici e diritti soggettivi pubblici, Padova, 1990,
26 ss. Peraltro, la dottrina, avvertita del problema, per lungo tempo non ha
fatto altro che segnalare l’inadeguatezza della tutela risarcitoria
(peculiare per la tutela del diritto soggettivo) con riferimento ai diritti a
contenuto non patrimoniale, ma senza tentare la via del superamento della
nozione sul punto estraniante: si vd., ad es., F.
Carpi, Cenni sulla tutela degli
interessi collettivi nel processo civile e la cosa giudicata, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1974,
III, 957 ss.; A. Proto Pisani, Nuovi diritti cit., 230. Vd.
però, E. Russo, Interessi diffusi e teoria delle situazioni
soggettive, in Vita notarile, 1979, 793 ss., il quale
loda l’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori e l’art. 10 della L. 765/1967 (vd. supra,
nt. 36), parlando del passaggio da un sistema fondato sul diritto soggettivo ad
un sistema di actiones.
[72] Per la visuale molto più concreta
nell’ambito della quale si muovevano i romani vd. già R. Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» cit., 185 ss.; P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino, 1970; ma poi cfr. soprattutto G. Lobrano, Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, 2a ed.,
Sassari, 1994, soprattutto 5 ss.; Idem, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere,
Torino, 1996, 19 ss.; e, da ultimo, Idem,
Circa l’uso del diritto pubblico
romano: dal Contrat Social di J.J.
Rousseau alla Storia della costituzione romana di F. De Martino, in Roma e America. Diritto romano comune,
27/2009 (pubbl. 2010), 3 ss.; sul punto, vd., per qualche osservazione anche P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, Rimini, 1990, 51 ss.
[73] A proposito del rapporto pubblico-privato, significativo
mi pare anche quanto scrive P. Grossi,
I dominii collettivi come realtà
complessa nei rapporti con il diritto statuale, in Riv. di dir. agr., 76, 1997, 268 s.: «è sterile
è assurdo domandarsi se esse [scil. le proprietà collettive]
appartengano all’una o all’altra dimensione»; sul punto, cfr.
anche A. Dani, Tra «pubblico» e
«privato»: in princìpi giuridici sulla gestione dei beni
comuni e un «consilium» cinquecentesco di Giovanni Pietro Sordi,
in Gli inizi del diritto pubblico, III,
Verso la costruzione del diritto pubblico tra Medioevo e modernità. Die Anfänge des öffentlichen Rechts, III, Auf
dem Wege zur Etablierung des öffentlichen Rechts zwischen Mittelalter und
Moderne, a
cura di G. Dilcher e D. Quaglioni, Bologna-Berlin, 2011, 599
ss.
[76] F. Casavola,
Studi sulle azioni popolari cit., 19;
nello stesso senso, cfr. A. Di Porto,
Interdetti popolari cit., 494; mentre non va sottovalutato il
fatto che già M. Cappelletti,
Appunti sulla tutela cit., 190 s. si
esprimeva per l’insufficienza della dicotomia pubblico-privato per la
tutela di effettivi bisogni nelle società moderne. Sul punto, cfr. anche
infra, ampiamente nel testo.
[77] Di ‚Mittelfigur‘
tra ‚Vermögensrechte‘
e ‚öffentiche Interesse‘
parlava già A.F. Rudorff, Römische Rechtsgeschichte, II,
Leipzig, 1859, 157.
[78] Cfr. D. 47.23.7.1 (Paul., 41 ad ed.): qui habet has
actiones non intellegitur esse locupletior; ma vd. anche D. 35.2.32 pr. (Maec.,
9 fideic.): eaedem actiones nihil bonis rei defuncto eo detrahunt.
[79] Opportunamente notano C.R.
Perfetti-A. Clini, Class action,
interessi diffusi cit., 1435 ss. che
«andrebbe discusso se davvero le posizioni soggettive sostanziali siano
incapaci di contenere pretese comuni ad altri individui o comunità,
eppure, contemporaneamente, restare propri di chi agisce per la riparazione di
una lesione patita».
[81] Cfr. A.
Postiglione, Il rapporto diritto-ambiente
nel quadro della tutela degli interessi diffusi e collettivi, il ruolo della
Corte di Cassazione, in Atti del Convegno promosso dalla sezione di
Bologna di Italia Nostra cit., 72.
[83] Cfr. V. Denti, Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, in Strumenti per la tutela degli interessi diffusi della
collettività. Atti del Convegno promosso dalla sezione di Bologna di
Italia Nostra cit., 44 s. Sono cioè diritti pubblici degli uomini, e
non dello Stato (supra, ntt. 72 e
73).
[84] Cfr. A. Halfmeier, Popularklagen im Privatrecht. Zugleich ein Beitrag zur Theorie der
Verbandsklage, Tübingen, 2006, particolarmente 199 ss. e 357 ss.
[85] Ad esempio, se si perde la dimensione collettiva e
sociale della lite su un cd. interesse diffuso si continua a pretendere di
confinare la controversia nei limiti del risarcimento del danno, mentre invece
potrebbero essere concessi strumenti più adeguati, come i rimedi di tipo
inibitorio: cfr. sul punto V. Denti, Profili civilistici cit., 48 ss., ma
anche M. Zucculini, L’azione inibitoria come strumento di
tutela degli interessi diffusi, in Giur.
di merito, 1983, IV-V, 1055 ss.
[86] Cfr. L. Lanfranchi,
Le animulae vagulae blandulae cit.,
XLVII; cfr. anche A. Carratta, Profili processuali cit., 132 s., il
quale nota come, «una volta che si riconosca la configurabilità
degli interessi collettivi e diffusi come situazioni giuridiche
superindividuali rilevanti per l’ordinamento concorrenti con i diritti
soggettivi e gli interessi legittimi dei singoli», non sussistono ragioni
plausibili per negare il diritto di agire in giudizio all’appartenente
alla categoria alla quale è riferibile l’interesse diffuso.