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Università di Brescia

 

LA TUTELA DEI BENI COMUNI

PER IL RECUPERO DELLE AZIONI POPOLARI ROMANE COME MEZZO DI DIFESA DELLE RES COMMUNES OMNIUM E DELLE RES IN USU PUBLICO*

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SOMMARIO: 1. La posizione del problema. – 2. I tentativi di soluzione. – 3. L’inadeguatezza delle soluzioni proposte e il problema del circolo vizioso. – 4. L’azione popolare e gli ostacoli storico-dogmatici che si frappongono ad una sua corretta valorizzazione. – 5. La natura dell’azione popolare romana. – 6. La nascita della ‘falsa’ concezione dell’azione popolare come azione a legittimazione generale e la crisi dell’istituto dell’azione popolare. – 7. L’interesse tutelato con le azioni popolari. – 8. Alcune riflessioni finali.

 

 

1. – La posizione del problema

 

Ha scritto recentemente uno dei più noti giuristi italiani del nostro tempo, Stefano Rodotà, che se un abitante di Udine ritiene che nell’isola di Pantelleria stia per essere perpetrato uno scempio o comunque un danno ad un ambiente naturale, tale abitante deve poter aver il modo di intervenire per impedirlo, sia perché un giorno pensa di potersi recare in quell’isola, sia perché pensa che vi si potranno recare i propri figli o nipoti, ma sia anche solo nell’interesse degli stessi abitanti dell’isola, i quali, magari perché «prigionieri di logiche o egoismi di ogni genere» si trovano impossibilitati a farlo da soli[1]. Significativa mi pare a questo proposito una frase che viene fatta rimontare alla cultura masai: «trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ci è stata prestata dai nostri figli».

In più di un caso, negli anni passati, le nostre corti giurisdizionali italiane hanno negato a singoli cittadini e finanche ad associazioni rappresentative di essi la legittimazione attiva alla tutela di diritti super- o metaindividuali, in assenza di un ‘collegamento’ con il bene giuridico in relazione al quale si chiedeva la tutela, collegamento rappresentato vuoi da un diritto soggettivo, vuoi da un interesse legittimo, vuoi da un altro elemento che fosse comunque in grado di connettersi ad una di queste due situazioni giuridiche soggettive.

Tra i tanti casi che si potrebbero segnalare, mi piace qui ricordarne uno in particolare.

Nel 1969, alcuni albergatori di due cittadine del basso Lazio, Gaeta e Formia, impugnarono l’autorizzazione concessa dal Ministero dell’Industria ad una società per la costruzione di due depositi di oli minerali, un oleodotto di collegamento e un terminale marino attrezzato per l’attracco di petroliere di grosso tonnellaggio nel golfo di questa stessa città. Essi ritenevano (a mio avviso a ragione), che la costruzione di queste infrastrutture avrebbe danneggiato l’ambiente (lamentavano una profonda alterazione dei valori naturali della zona, nonché di quelli ambientali e paesaggistici) e, di conseguenza il turismo, ledendo un loro interesse anche (ma non solo) patrimoniale.

Il Consiglio di Stato, decidendo nel 1972 la questione, negò l’esistenza nella circostanza di un interesse a ricorrere da parte degli albergatori, degradandolo al rango di interesse di mero fatto.

Un illustre amministrativista, il prof. Alberto Romano, commentando questa sentenza, ha ritenuto che la Corte abbia di fatto sancito il principio per cui una vicenda, «siccome interessa tutti, allora non interessa nessuno»[2].

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti: il legislatore è intervenuto su alcuni punti nel tentativo di allargare quanto più possibile la legittimazione attiva in fattispecie analoghe[3]; la giurisprudenza non ha mancato di manifestare posizioni più concilianti[4], sebbene non siano mancate diverse oscillazioni (alcune delle quali veramente inspiegabili)[5]; la dottrina ha lanciato proposte di revisione e modifica di vecchi schemi e di impostazioni superate[6]. Non manca, però, un cammino ancora da compiere, così come non poche sono le zone d’ombra rimaste nell’inquadramento giuridico di queste problematiche.

In questo ambito, infatti, da un lato, molto hanno pesato, le inclinazioni del nostro legislatore, che guarda al modello nordamericano delle class action, le quali, però, nonostante gli sforzi esegetici e applicativi di molti, mi pare che continuino a rimanere un modello difficilmente esportabile al di fuori del contesto in cui sono nate e si sono sviluppate[7]; dall’altro lato, un grosso ostacolo è stato costituito soprattutto dalle incrostazioni dogmatiche stratificatesi nel corso di secoli, le quali non consentono di cogliere appieno il ruolo dell’individuo all’interno della società in cui esso svolge la sua personalità, obbligandolo ad avvalersi di concetti giuridici sovrastrutturati, come ad es. quello di ‘diritto soggettivo’ o ‘interesse legittimo’[8], o creando di fatto una dialettica tra individuo e Stato (inteso come ente astratto da tenere rigorosamente distinto dalla massa dei singoli che lo compongono), che ostacola un corretto perseguimento degli interessi di tutti, sia da parte dei primi (gli individui) che del secondo (lo Stato, appunto).

 

 

2. – I tentativi di soluzione

 

A questo proposito, mi ripropongo di esporre brevemente alcune considerazioni che si riallaccino al modello romano delle azioni popolari, per verificarne la loro attualità e modernità: a mio avviso, esse costituiscono un prezioso strumento di intervento nelle mani del giurista. Ritengo però che ciò sia possibile solo dopo che ci si sia liberati di quelle riferite sovrastrutture dogmatiche che rendono questo istituto a tutti gli effetti inutilizzabile nelle modalità in cui esso viene oggi concepito, e che costringono l’interprete a compiere pericolosi voli pindarici o a mettere in atto complesse manovre di aggiramento, che inducono alla creazione di istituti o figure giuridiche estranianti o, al massimo, paragonabili alle anime vaganti ed erranti (animulae vagulae blandulae) tanto care alla memoria dell’imperatore Adriano[9].

In realtà, l’insufficienza o l’inadeguatezza dello Stato e delle istituzioni amministrative a questo collegate per la tutela di interessi che sono da considerarsi super-individuali è stata riconosciuta da quasi mezzo secolo. In particolare, in Italia[10] l’attenzione si è destata intorno agli anni ’70 del secolo passato, sia da parte degli amministrativisti, così come dei civilisti e dei processualcivilisti, i quali hanno proposto diverse possibili soluzioni, tutte, a mio avviso, per vari profili insoddisfacenti.

Certo non percorribile appare la via di identificare in questi diritti o interessi ultraindividuali soltanto un «problema tutto politico o tutto sostanziale del riconoscimento a livello di diritti soggettivi di interessi inerenti a beni collettivi»[11], scaricando così l’interprete del peso derivante dal dover riconoscere soddisfazione a questi bisogni: io credo, invece, che quello qui esposto sia un problema tutto giuridico, e sia compito dei giuristi trovare ad esso una soluzione.

Proprio per fornire una risposta a questo vuoto, gli studiosi moderni, anziché cavalcare la via della revisione o del superamento di principi e istituti non più adeguati o sufficienti (non solo il diritto soggettivo e l’interesse legittimo, ma anche, ad esempio, in diversi casi, il principio del contraddittorio, della legittimazione ad agire, dei limiti soggettivi di efficacia del giudicato ecc.), come pure non si è mancato di proporre[12], hanno escogitato le nozioni di interessi diffusi e collettivi, oppure di diritti adespoti[13], o ancora di interessi individuali omogenei[14], e continuano a giustificare il fatto che chiunque possa agire a difesa di un interesse riconosciuto come pubblico (così definito soltanto perché esso non può essere classificato come privato, nel senso di individualistico), parlando di sostituzione processuale[15]; oppure di ‘esercizio privato di funzioni pubbliche’[16], e arrivando, in questa stessa logica a considerare l’attore popolare più o meno come una longa manus del potere statale[17], una sorta di pubblico ministero privato[18], avente soltanto una specie di mero interesse riflesso e non un vero e proprio diritto[19].

In questa ottica, si è giunti persino a dire che colui il quale agisca per la difesa di un interesse comune altro non sarebbe se non «un rappresentante giudiziale sia pure sui generis dello Stato o di altro Ente pubblico titolare di interessi e di diritti che vengono tutelati in via surrogatoria dal cittadino a causa dell’inerzia dell’Ente pubblico»[20]. Non è mancato poi chi, importando la costruzione nordamericana dell’‘ideological plaintiff’, ha finito per vedere nell’attore popolare nulla più che un attore ideale, cioè un legittimato processuale che ha una connessione non propriamente giuridica con l’oggetto della lite, ma solamente ‘ideologica’[21].

Altri, invece, in maniera a mio avviso ancora più abnorme, affermano che tale interesse diffuso (nel senso di ultraindividuale), essendo come tale adespota, appartiene al singolo solo dal punto di vista soggettivo, mentre da quello oggettivo appartiene a una collettività indeterminata, così che esso non può essere meritevole di tutela se non quando, dopo aver subito una sorta di ‘mutazione genetica’, si sia trasformato in interesse collettivo: solo in tale momento questo interesse, inizialmente ‘adespota’ e ‘privo di portatore’, si ‘coagulerebbe’, trovando un portatore, identificato in un ente esponenziale riconosciuto come tale dallo Stato, oppure in altro soggetto riconosciuto sempre dallo Stato come «adeguato portatore» dello stesso[22]; solo a questo punto tale interesse, rientrando all’interno dello schema del diritto soggettivo, potrebbe perciò trovare tutela nel nostro ordinamento[23].

 

 

3. – L’inadeguatezza delle soluzioni proposte e il problema del circolo vizioso

 

È solo attraverso l’invenzione dei sopra ricordati schemi interpretativi (diritti adespoti, sostituzione processuale, ecc.) che le nostre Corti, già intorno alla metà degli anni ’70, rompendo per la prima volta il muro del diniego, hanno cominciato a riconoscere la legittimazione ad agire anche a soggetti non portatori di diritti soggettivi o interessi legittimi in senso stretto, limitando però l’apertura solo ad alcune associazioni rappresentative dei singoli individui per la tutela di interessi appartenenti in realtà a costoro, e solo in ragione di una loro riconosciuta ‘rappresentatività’[24].

In tal modo, però, adottando uno qualsiasi di questi schemi ricostruttivi, era normale pensare che l’esercizio di un’azione volta alla tutela di questo interesse supra-individuale fosse subordinato alla preventiva concessione di una ‘autorizzazione’ ad agire (o comunque di un’altra forma di ‘riconoscimento’) da parte dello Stato o dell’ente pubblico coinvolto[25], indebolendo la posizione dei singoli cittadini che chiedevano tutela, ma ai quali non veniva concessa se non previa ‘autorizzazione’ da parte dello Stato. La conclusione era in un certo qual modo prevedibile: si è finito per introdurre delle «azioni senza diritto a tutela di diritti senza azione», consentendo, al massimo, al cittadino di «proporre nell’interesse della collettività quella stessa azione che non può esperire a tutela del proprio interesse»[26].

Lo schema appare quello di una sorta di ‘circolo vizioso’, in cui quello che si scaccia dalla porta finisce per rientrare dalla finestra. E così, dopo aver costruito una forma di processo ruotante intorno alla nozione di diritto soggettivo, quando ci si è resi conto della meritevolezza di tutela di beni non in senso economico, come i ‘beni ambientali’ o i ‘beni patrimonio dell’umanità’, o i ‘beni comuni’ che oggi pare vadano tanto di moda[27], si è fatto ricorso alla categoria sopra ricordata degli interessi adespoti o interessi diffusi, o a quella, altrettanto inappagante, della legittimazione processuale dell’attore popolare pensata come disgiunta dalla titolarità del diritto.

Ma queste ricostruzioni presentano una duplice forzatura delle nozioni comunemente accolte nel nostro ordinamento: da un lato, una forzatura della nozione di cosa come bene patrimoniale, perché le ‘cose’ di cui si richiede ora la tutela non hanno né natura economico-patrimoniale, né sono assoggettabili al diritto soggettivo di proprietà; dall’altro lato, una forzatura della divisione uomo (nel senso di ‘soggetto di diritto’) e Stato, perché si creano nuovi e indefiniti centri di imputazione di questi interessi, come l’umanità, o la collettività, o, addirittura, si finisce per dichiarare che l’interesse alla salvaguardia e alla conservazione di questi beni sia ‘adespota’, cioè privo di portatore, perché non si riesce più a collegarlo all’uomo, che ne è il naturale e unico vero ‘portatore’[28].

A mio avviso, anche questo è inaccettabile. A me pare che nei riferiti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sia evidente la scelta metodologica e concettuale di dare tutela a questi interessi, senza però servirsi di strumenti già noti all’ordinamento, tra i quali, per quello che qui rileva, spicca appunto proprio l’azione popolare[29]. Invero, se non ci si libera di concezioni ottocentesche riflettenti una realtà non più attuale e fondate su una concezione puramente individualistica della tutela giurisdizionale, ruotante intorno al diritto soggettivo e all’interesse legittimo, si giunge inevitabilmente ad elaborare concetti sovrastrutturati, come quello di ‘interesse diffuso’[30] o di ‘beni a fruizione diffusa’[31], oppure a proporre soluzioni assurde e inaccettabili, che hanno come risultato quello di non dotare affatto di accesso alla giustizia questo tipo di interessi o di ammettere alla loro tutela solo una parte degli individui, selezionata con criteri più o meno differenti[32].

L’interesse che ciascuno di noi ha a che non si deturpi l’ambiente in cui viviamo, o quello al rispetto delle norme sulla concorrenza così come quello alla salvaguardia ed alla conservazione di cose di cui tutti usiamo e godiamo, corrispondono a bisogni concreti dell’individuo di oggi come di quello di ieri[33]. E si tratta di bisogni concreti a cui né il diritto soggettivo, né lo Stato, ancor più se inteso come entità rigidamente separata e sovrastrutturata rispetto agli individui che lo compongono, sono in grado di dare risposta.

 

 

4. – L’azione popolare e gli ostacoli storico-dogmatici che si frappongono ad una sua corretta valorizzazione

 

Io credo che, per le ragioni sopra indicate, una risposta adeguata a questi bisogni non possa venire dalle ricostruzioni finora avanzate in dottrina.

Al contrario, ritengo di poter affermare che l’istituto dell’azione popolare, se correttamente inteso, bene possa incontrare questo tipo di esigenza. Il problema è che questo istituto, come è attualmente configurato nell’ordinamento italiano[34], ha una struttura che lo rende di fatto inutilizzabile[35]. Non è un caso, infatti, che l’utilizzo delle azioni popolari in Italia sia stato tenacemente osteggiato soprattutto dalla nostra giurisprudenza, la quale, facendo leva sulla sua presunta incompatibilità con l’art. 103 Cost., ha per lungo tempo ammesso all’esercizio di un’azione solo il titolare di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo[36], negando tale legittimazione in assenza di tali situazioni soggettive non solo ai singoli individualmente considerati, ma ad es. alle associazioni rappresentative[37], anche in presenza di un chiarissimo dettato legislativo[38].

Come è noto, infatti, in Italia le azioni popolari sono state divise in suppletive (dette anche sostitutive o procuratorie) e correttive: nelle prime, l’attore popolare supplisce all’inattività della P.A., azionando un diritto la cui tutela di norma dovrebbe spettare allo Stato; nelle seconde, invece, il cittadino agisce contro la P.A. per far valere una illegittimità dalla stessa posta in essere[39].

Posta questa distinzione, si è detto che solo alle azioni popolari correttive dovrebbe essere riconosciuta la natura di vere e proprie azioni popolari, mentre in quelle suppletive l’attore popolare sarebbe il portatore di un mero interesse che fa valere un diritto dell’amministrazione nei confronti dei terzi[40].

Evidenti mi paiono le insufficienze di una simile costruzione, alla luce della quale lo Stato sarebbe in un caso legittimato passivo dell’azione del singolo (nelle azioni popolari correttive), in un altro caso, titolare effettivo del diritto per la cui tutela il civis esercita l’azione popolare stessa (azioni popolari suppletive)[41]. Il risultato è un totale ribaltamento di prospettiva rispetto a quella che dovrebbe essere la ‘vera’ funzione delle azioni popolari, cioè di tutelare un ‘bene comune’ a tutti i cittadini, un bene cioè dell’intera collettività. Al contrario, alla luce della riferita ricostruzione la vera azione popolare tutelerebbe un diritto del singolo contro la collettività in cui esso si organizza, cioè lo Stato.

 

 

5. – La natura dell’azione popolare romana

 

A me pare, in una linea di evidente continuità con quanto sopra osservato, che le dottrine civilistica ed amministrativistica (e, per certi versi, anche quella penalistica, che qui non affronto ex professo), per quanto anelino a rispondere all’impulso ineludibile che promana dalla realtà quotidiana, offrendo tutela a questi interessi di natura superindividuale, non riescono appieno a liberarsi della ricordata dicotomia, di impostazione chiaramente individualistica, pubblico=dello Stato – privato=dell’individuo[42], attribuendo le ragioni di questa insufficienza alla «attuale iper complessità della realtà postmoderna» che richiederebbe «l’abbandono di schemi dogmatici e puristi»[43], piuttosto che, invece, alla inadeguatezza di tali schemi a comprendere appieno tutte le sfaccettature della realtà, di quella antica come anche di quella attuale. D’altro canto, evidenti sono le difficoltà che il giurista moderno incontra per usare istituti, che pure sono presenti nella nostra tradizione giuridica e finanche nel nostro ordinamento, come appunto le azioni popolari.

La colpa di ciò risiede certamente in parte nell’impossibilità da parte della scienza giuridica contemporanea di liberarsi di sedimenti dogmatici che impediscono di arrivare alla configurazione di una più adeguata tutela per queste situazioni, ma in parte anche e soprattutto in responsabilità che sono da imputarsi alla scienza giuridica romanistica, la quale, per una serie di ragioni legate a incrostazioni storico-dogmatiche e a distorsioni concettuali artificialmente indotte, ha finito per veicolare una nozione di azione popolare che, mettendo l’accento esclusivamente sulla legittimazione generale, e tralasciando la funzione di difesa dei beni comuni a cui essa era diretta, non corrisponde a quella elaborata dai romani e mal si adatta alle esigenze a cui si voleva rispondere con la sua introduzione[44].

Infatti, la scienza giuridica romanistica ha da sempre dedicato molto poco spazio al tema delle azioni popolari: esse mal si sposavano con l’autoritarismo dei regimi feudali tra Medioevo e Rinascimento, così come con la politica di accentramento propria dei governi dell’Europa tra Seicento e Settecento[45]; oggi, del resto, risponde al vero l’amara constatazione per cui esse sono di fatto perfino sparite dai manuali[46].

Una vistosa eccezione è costituita dal periodo che si colloca a cavallo tra il XIX e XX secolo allorché si assiste ad una rigogliosa fioritura degli studi sulle azioni popolari, perché il diffondersi in Europa dell’ideologia liberale vedeva in questo strumento una delle massime espressioni della partecipazione dei cives al buon governo della ‘cosa pubblica’[47]. Ovviamente, l’ideologia finiva per guidare lo studio dell’istituto, e con esso anche la sua ricostruzione storica.

Infatti, la fortuna delle azioni popolari tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento è dovuta eminentemente al fatto che le democrazie che nascevano in questo periodo si ponevano il compito di ricondurre alla realtà dello Stato i cittadini per troppo tempo tenuti lontano dalla cura dei pubblici affari. In questo periodo, pertanto, nelle azioni popolari, sia che le si costruisse secondo la nota tesi procuratoria[48], sia che le si costruisse secondo l’altrettanto nota tesi del ‘diritto del popolo’ (inteso come molteplicità dei cives, e non come populus-Stato)[49], si voleva vedere uno strumento teso al bene dello Stato stesso, del quale il cittadino era ammesso a disporre in quanto contitolare della sovranità: in tal modo, le attività pubbliche del civis finivano per essere considerate come esercizio di un diritto proprio, costituente però un vero e proprio diritto soggettivo pubblico[50]. Così, anche lo studio delle azioni popolari nel diritto romano veniva adeguato a questa funzione, che ad esse era assiomaticamente riconosciuta: attraverso l’ideale della sovranità popolare nella Roma repubblicana si rivendicava una pretesa attualità delle azioni popolari, con il fine non tanto di capirne meglio il funzionamento, ma di determinare la loro resurrezione[51].

La verità è che ad entrambe le teorie, cioè sia alla tesi procuratoria, sia a quella ‘liberale’, sono sottese delle ricostruzioni del regime dell’azione popolare che di essa sembrano cogliere soltanto un aspetto, cioè quello della legittimazione ad agire affidata al quivis de populo, costruendo intorno a tale dato, supposto come assiomatico, l’intero statuto dogmatico dell’istituto che, sostanzialmente, trovava il suo principio e la sua fine proprio e solo in tale legittimazione generale.

In realtà, il punto di partenza non solo non appare dimostrato, ma non appare neanche costituire il perno intorno al quale i romani costruiscono il regime dogmatico di queste azioni[52]. Infatti, non è difficile constatare come per i romani da un lato esistevano diverse azioni, che senza alcun dubbio possiamo qualificare come populares, in cui però la legittimazione ad agire è attribuita in primo luogo ad un soggetto che vi abbia un interesse diretto ed immediato, e solo in via sussidiaria a chiunque altro; dall’altro lato, i giuristi romani, quando riflettono sulla funzione e sull’essenza delle azioni popolari, sottolineano il fatto che esse sono tese alla riparazione di un ‘torto’ subito dalla collettività, piuttosto che non il fatto che esse sono azionabili da quivis de populo.

Ciò appare in maniera chiarissima dalla definizione paolina conservata in D. 47.23.1

 

D. 47.23.1 (Paul. 8 ad ed.)

Eam popularem actionem dicimus, quae suum ius populi tuetur.

Chiamiamo popolare quell’azione che tutela come proprio un diritto del popolo.

 

In tale definizione, infatti, comunque la si voglia leggere[53], nulla tende verso il profilo della legittimazione all’azione, perché il giurista sembra piuttosto volersi orientare verso la funzione dell’azione stessa, che è quella di tutelare un diritto di tutto il popolo.

D’altra parte, la funzione di tutela di un interesse metaindividuale propria delle azioni popolari emerge chiaramente anche da altri passi sparsi nella Compilazione giustinianea, dove si riconosce che attraverso queste azioni si tende alla irrogazione di una ultio (punizione)[54], o di una poena et vindicta generalizzate[55], o a tutelare la sicurezza delle vie e delle strade pubbliche (utile est, sine metu et periculo per itinera commeari)[56].

È questa sicurezza pubblica, questo interesse generale alla salvezza dei beni comuni, quindi, e non la supposta legittimazione generale, la caratteristica principale delle azioni popolari romane: garantire, attraverso l’inflizione di un castigo (ultio, poena, vindicta), l’esercizio di un diritto di ciascuno, in modo da tutelare un diritto di tutti. Del resto già la Glossa accursiana notava come le azioni popolari fossero caratterizzate non tanto dal fatto di essere date a tutti, perché erano evidenti e riconoscibili i casi in cui l’azione veniva data cuius interest, quanto piuttosto dal fatto di essere ‘ad vindictam propositae’ non ‘propter pecuniam exigenda, sed propter poenam corporalem infligendam[57].

Alla base della concessione di un’azione popolare, quindi, i giuristi romani sembrano voler collocare l’esistenza di una categoria di cose che non sono in senso stretto né pubbliche né private, ma sono res in usu publico[58], le quali sono soggette all’immediata utilizzazione da parte dei cives[59], i quali hanno il diritto di non essere molestati in questa fruizione. Da questo punto di vista, la ratio sottesa all’istituto sembra consistere nel fatto che quel che è accaduto ad uno può accadere ad altri che, come quell’uno, hanno diritto di usare i luoghi pubblici, e ad usarli in modo tale da non essere esposti a pericoli[60].

Quelli qui in gioco mi pare siano comportamenti che offendono il singolo, ma non in quanto individualmente considerato, ma in quanto appartenente alla collettività in cui è inserito dal punto di vista spazio-temporale. Tali comportamenti, pur non essendo riprovati al punto da confluire in un interesse (genericamente) pubblico, comunque interessano non solo colui al quale la cosa è capitata, ma chiunque, appartenente alla comunità, fosse stato o avrebbe potuto trovarsi in quelle condizioni, ad es. transitando in quella via in quel determinato giorno e ora. A tali comportamenti può reagire in primo luogo chi ha ricevuto un immediato danno dal comportamento lesivo (is cuius ea res interest: l’interessato di cui parlano alcune fonti), ma poi, se egli non possa o non abbia intenzione di farlo, anche chiunque voglia, perché l’offesa non era diretta contro quella persona in quanto singolo, ma contro quella persona in quanto parte di una collettività, e chiunque avrebbe potuto essere al suo posto, perché per la strada ci passano tutti, le fogne le usano tutti, il luoghi pubblici sono di tutti, nel sepolcro ci finiamo tutti ecc.

È buona congettura ammettere che l’equivoco nasca dal non aver voluto riconoscere che non solo la denominazione ‘actio popularis’ non è l’unica con cui le fonti in nostro possesso individuano l’istituto qui considerato; ma altresì dal non aver compreso né voluto comprendere che l’aggettivo ‘popularis’ non conferisce tecnicità al sintagma ‘actio popularis’, né rimanda a un contenuto tecnico giuridico dell’azione stessa: esso, piuttosto, individua solo la ragione genetica dell’azione, dal punto di vista dell’etimologia e soprattutto della funzione[61]. Invero, è proprio questa nozione di popolarità, che presuppone una sorta di ‘compartecipazione’ tra cittadino e Stato, a essere indimostrata, perché, da un lato, solo nell’idillio liberale Stato e individuo sono indissolubilmente legati; dall’altro lato, nelle azioni popolari romane il regime della legittimazione è estremamente variegato, perché diverse fonti costruiscono un rapporto tra ‘interessato’ ed ‘estraneo’, e pertanto impediscono di pensare ad una legittimazione diffusa tout court come caratteristica precipua ed immancabile delle azioni popolari romane[62].

Di conseguenza, costruire dal punto di vista giuridico, soprattutto in diritto romano, l’azione popolare come un istituto connotato dall’unica caratteristica di essere un’azione a legittimazione ‘aperta’, cioè esperibile da ‘quivis de populo[63] costituisce a mio avviso un grave errore di impostazione: la dottrina, infatti, guidata dalla prospettiva dell’azione popolare come azione a legittimazione generale, ha creato un falso regime unitario di quest’azione, eliminando dai testi romani quanto potesse minare questa identità. Al contrario, è necessario riconoscere che la sussistenza di un interesse privato nell’attore popolare non rende l’azione privata, ma influisce solo sulla legittimazione: l’attore si pone sempre come individuo, unus ex populo, ma la presenza in lui dell’interesse privato rende il suo interesse individuale non più equivalente rispetto ai concorrenti interessi individuali degli altri cives, ma poziore, escludendo la legittimazione dei terzi[64], senza però influire sulla ‘popolarità’ dell’azione. Nelle azioni popolari romane, «l’interesse privato, rilevante ai fini della legittimazione, è del tutto irrilevante per la funzione dell’azione», così che è ragionevole concludere che «voler considerare l’actio popularis come l’azione del quivis de populo sarebbe voler perpetuare un errore, già fin troppo tenace»[65].

 

 

6. – La nascita della ‘falsa’ concezione dell’azione popolare come azione a legittimazione generale e la crisi dell’istituto dell’azione popolare

 

L’ideale liberale, che costituì in un certo senso la fortuna della dottrina delle azioni popolari, ne rappresentò anche il limite intrinseco, non solo orientando, come abbiamo visto, la ricerca storica stessa, ma determinando altresì le ragioni del loro definitivo accantonamento. Infatti, «nei primi anni del nostro secolo [cioè del Novecento] una nuova politica decideva del declinare delle azioni popolari e spegneva insieme l’interesse scientifico che le aveva accompagnate, nato per servire i legislatori liberali»[66]. Ciò che rimaneva, però, era l’impronta dogmatica e in qualche modo strutturale data all’istituto, l’unica caratteristica del quale veniva ormai vista nella legittimazione attiva diffusa, sebbene ciò non cogliesse l’essenza dell’istituto, così come lo avevano configurato i giuristi romani, ma corrispondesse soltanto alla visuale con la quale esso era stato ricostruito nel periodo in cui più floridi ne erano stati gli studi.

Questa visione delle azioni popolari come azioni a legittimazione diffusa, però, finiva per collidere contro il nuovo modo con cui veniva visto il diritto a partire dagli anni ’30 del secolo passato. Infatti, contro l’accoglimento di questa nozione di azioni popolari si collocava, da un primo punto di vista, l’intero ‘sistema’ costruito dai pandettisti, che faceva perno sostanzialmente sulle tre gambe del diritto soggettivo, del soggetto di diritto e del negozio giuridico: questa ricostruzione, infatti, non lasciava alcuno spazio alla tutela queste situazioni giuridiche soggettive ultronee rispetto al singolo individuo, le quali, in un modo o nell’altro, non riuscivano a coordinarsi con nessuna di queste tre nozioni[67].

In particolare, creato il ‘soggetto di diritto’, ad esso deve corrispondere un ‘oggetto di diritto’, identificato nelle cose, nei beni visti esclusivamente come ‘beni economici’ (cioè beni su cui possa esercitarsi un ‘diritto soggettivo’)[68]. L’elaborazione di questi concetti, che anche altri guasti e problemi ha prodotto nello studio (non solo) del diritto romano[69], per quello che qui rileva ha contribuito alla cacciata dal nostro ordinamento giuridico della funzione stessa delle azioni popolari (intese nel senso di azioni a legittimazione generale), che né si conciliano con la nozione di diritto soggettivo, né sono strutturalmente idonee a difendere un bene inteso in senso esclusivamente economico[70].

Pertanto, per i pandettisti era giocoforza riconoscere, in una sorta di contrapposizione manichea, che se un interesse protetto o da proteggere non potesse essere riconosciuto come pubblico, esso dovesse per forza di cose essere privato[71].

Da un altro, convergente, punto di vista, contro l’accoglimento dell’istituto delle azioni popolari, così come modernamente intese, ostava la nascita e l’elaborazione del moderno concetto di ‘Stato’, visto come entità astratta e separata dai cittadini che lo compongono, i quali, normalmente, vengono a tutti gli effetti considerati come dei sudditi da parte dei componenti di questa entità astratta, anziché dei membri costituenti parti integrante dell’entità stessa. Ciò ha determinato l’automatica impossibilità di comprendere la nozione romana di populus, in cui le decisioni vengono prese dai cittadini, che sono essi stessi ‘popolo’, e non dai rappresentanti da loro scelti una volta ogni quattro o cinque anni e, di conseguenza, l’impossibilità di cogliere appieno l’essenza stessa delle azioni popolari[72].

 

 

7. – L’interesse tutelato con le azioni popolari

 

Solo una volta portato a termine questo compito di ‘pulizia concettuale’, ci si può dedicare a meglio comprendere la natura e l’essenza delle azioni popolari romane, rispondendo nel contempo alla domanda sopra formulata: qual è, al di là del mero dato formale (e non univoco) della legittimazione popolare, per i romani come per i moderni, l’interesse sotteso all’esperimento di un’azione popolare? Non si faticherà allora a riconoscere che l’interesse sotteso all’esperimento di queste azioni può non coincidere con il diritto soggettivo (sia anche inteso nel senso di diritto soggettivo pubblico), ma deve essere qualificato come interesse privato e pubblico nello stesso tempo[73], e che molto opportunamente si dovrebbe procedere all’individuazione, almeno per quanto riguarda il mondo romano (ma la notazione è di una straordinaria attualità), di un diritto pubblico degli uomini, accanto e in contrapposizione al diritto pubblico dello Stato, come quello in cui viviamo oggi[74].

La vera ragione unificante delle azioni popolari andrebbe così ricercata non nella legittimazione generale, quanto piuttosto nella loro funzione, la quale appare consistere nella rivendicazione di un ius riconosciuto nelle peculiari condizioni ed esigenze di vita del popolo, che accentua il distacco tra esso populus, inteso come molteplicità di individui empirici componenti la civitas, e quella entità che noi chiamiamo lo Stato[75].

A mio avviso, a questo proposito rimane valida l’intuizione di Fadda, per cui il quivis agisce in forza di un diritto proprio, che gli spetta proprio per la sua qualità di civis. Solo che l’esistenza di un ‘diritto soggettivo pubblico’, ipotizzata dal Fadda, rappresenta un frutto dell’ideologia liberale nella quale lo studioso napoletano era immerso. La verità è, a mio avviso, che il quivis tutela, agendo, un diritto proprio. La considerazione di questo interesse come un interesse pubblico, generale o collettivo è probabilmente un portato della nostra condizione di giuristi moderni, derivante dalla sovrapposizione delle nostre prospettive moderne alle antiche[76]. Per noi l’interesse privato è proprio del singolo e l’interesse non privato è inevitabilmente pubblico; in altre parole, tutto ciò che non rientra nell’interesse privato, o è in grado di rientrare nell’interesse pubblico, oppure si può dubitare se sia meritevole di tutela.

La verità è che quelli sottesi alla tutela di ‘beni comuni’ non sono né interessi privati, tutelabili con vindicationes o condictiones o altro, né interessi pubblici, che riguardano la collettività come tale, che reagisce ad offese tali, da non poterle tollerare se non a costo di vedere compromesse le ragioni stesse della sua unità[77]. Con le azioni popolari si offre invece tutela a interessi posti dall’ambiente comune in cui si svolgono le attività individuali e quotidiane, che solo adottando una contrapposizione manichea, propria del diritto moderno post-borghese e post-individualista, finiscono per isterilirsi nella contrapposizione pubblico-privato. Essi, in realtà, non sono in senso stretto né pubblici né privati: non sono pubblici, perché la reazione è affidata comunque ai singoli; non sono privati, perché in ogni caso il privato non viene in considerazione uti singulus, ma come parte del popolo (ad es. del populus Romanus), o di una più limitata o diversa collettività (ad es. una civitas) come dimostra anche il fatto che l’azione popolare non entra nel patrimonio del potenziale attore[78].

 

 

8. – Alcune riflessioni conclusive

 

In sede di conclusioni, ritengo necessario riconoscere l’inadeguatezza dello strumentario attualmente a disposizione del giurista per comprendere appieno il fenomeno delle azioni popolari e della tutela dei diritti ed interessi a queste sottesi: in particolare, la nozione individualista di diritto soggettivo e quella di Stato, inteso come entità astratta, separata dai cittadini e ad essi sovrastrutturata, e pertanto distante dalle esigenze di costoro[79].

Esistono, infatti, dei bisogni degli individui che non rientrano nell’ambito di competenza statuale, né consistono in diritti strettamente individuali dei singoli. E a questi bisogni, il cui riconoscimento comincia ormai ad essere ammesso sempre più largamente, il giurista moderno ha il dovere di dare risposta, senza nascondersi dietro al richiamo all’intervento legislativo o politico. Pertanto, io credo che le azioni popolari, forse oggi più che in passato, siano ancora chiamate a svolgere un ruolo di fondamentale importanza, non tanto come strumento di contrapposizione del singolo nei confronti dello Stato, che spesso si pone in posizione di contrasto rispetto a legittime pretese dei singoli, ma soprattutto come strumento di opposizione a prevaricazione da parte di altri ‘poteri forti’, in situazioni nelle quali lo Stato appare strutturalmente, vorrei quasi dire ontologicamente inadeguato ad offrire la tutela richiesta. Di tali offese, infatti, gli individui, i cittadini, gli abitanti, i consumatori ecc. appaiono dolersi non già come singoli, quanto piuttosto come parte di un più ampio tessuto sociale nel quale essi sono inseriti.

A tali esigenze, possono dare opportuna risposta le azioni popolari, purché si superi la visuale di esse come mere azioni a legittimazione aperta, e si ravvisi la loro natura ed essenza nella protezione di beni comuni.

Le azioni popolari intendono tutelare un diritto dell’individuo come parte di un più ampio contesto sociale di cui egli fa concretamente parte, fenomeno la cui piena comprensione è ostacolata dalle ricordate nozioni di diritto soggettivo e di Stato.

A questo proposito, a mio avviso sono apprezzabili i tentativi di chi, sforzandosi di collocare dogmaticamente tali interessi, parla di «un diritto civico» che spetti in proprio ad ogni cittadino[80], o di «diritti soggettivi della personalità umana»[81], oppure, a maggior ragione, di chi rivendica la non necessità di creare un tertium genus di interessi tutelati, che si vadano ad aggiungere ai diritti soggettivi ed agli interessi legittimi, ma di riconoscere invece l’esistenza di «veri e propri diritti soggettivi…, a rilevanza sovra individuale e violabili con comportamenti plurioffensivi», che costituiscono «veri e propri diritti di tanti su un bene tendenzialmente comune, spesso indivisibile ed immateriale, non monopolizzabile dallo Stato o dalle comunità intermedie»[82]. Si tratta cioè di diritti o interessi «privati caratterizzati dalla pari fruizione dei beni suscettibili di usi generali, senza che la possibilità di riferirli alla collettività dei cittadini debba portare a confonderli con gli interessi “pubblici” in senso proprio»[83].

Opportunamente si è detto che il recupero dell’archetipo dell’azione popolare svolgerebbe una vera e propria funzione compensativa («kompensatorische Funktion»), che servirebbe a colmare la lacuna generatasi nel sistema individuale di tutela dei diritti, che abbiamo ereditato dalla tradizione dei due secoli passati, e che si è rivelato assolutamente inadeguato a dare risposte convincenti a queste importantissime esigenze[84].

La verità, io credo, è che se non ci si libera dell’individualismo sotteso al concetto di diritto soggettivo, e che costituisce un portato dello Stato del XIX (e in parte anche del XX) secolo, non si riesce appieno a costruire dogmaticamente la categoria delle azioni popolari, e a consegnare al ‘populus’ dei cittadini un formidabile strumento di tutela dei propri interessi, di uno ‘ius (e non di un diritto soggettivo!) che solo in questo senso capiamo essere veramente ‘suum populi[85]. Certo, bisogna essere consapevoli dei limiti che questo istituto ontologicamente ha, soprattutto in una società ‘massificata’ ed ‘industrializzata’ come la nostra. Il più evidente tra tali limiti appare costituito dalla fisiologica debolezza del singolo rispetto al compito normalmente sproporzionato, impostogli dal modello dell’azione popolare, in cui spesso egli dovrebbe essere chiamato a combattere lo stesso Stato o società multinazionali o comunque agguerrite ed organizzate. Ma questa debolezza non si compensa escludendo il singolo dal gioco, negandogli il diritto di agire in giudizio per la difesa di un interesse che è proprio a tutti gli effetti anche se è in comune con altri, ma, al massimo, affiancandogli la più forte associazione intermedia che può sostituirlo o aiutarlo[86].

 

 

 



 

[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei promotori del Seminario e dei curatori della sezione, d'intesa con la direzione di Diritto @ Storia].

 

* Il presente lavoro riassume e concentra in un unico testo, rivisto e corredato di note, il contenuto di due differenti relazioni tenute, rispettivamente, a Sassari, nell’ambito del Convegno: Societas. Strumento di organizzazione pubblica e privata, nei giorni 4-5 maggio 2012; e a Roma (Campidoglio), nell’ambito del Convegno: Giuramento della plebe al Monte Sacro. VII Seminario di studi ‘Tradizione repubblicana romana’, nei giorni 17-18 dicembre 2013.

 

[1] S. Rodotà, Beni comuni e categorie giuridiche. Una rivisitazione necessaria, in Questione giustizia, 2011/5, 237 ss.; ma per analoghi percorsi argomentativi, vd. già S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, 2012, 23 ss. e particolarmente 42 ss. e le «tre specie di lontananza» ivi elencate.

 

[2] Cfr. A. Romano, Interessi «individuali» e tutela giurisdizionale amministrativa, in Foro it., 1972, III, 269 ss., in critica a Cons. di Stato, 14 luglio 1972, num. 475. Per considerazioni di analogo tenore negativo rispetto alla ricordata decisione giurisprudenziale, cfr. anche Idem, Il giudice amministrativo di fronte al problema della tutela degli interessi cd. diffusi, in Foro it., 1978, V, 8 ss.; ma vd. anche M. Cappelletti, Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi, più volte ripubblicato, io cito da Le azioni a tutela di interessi collettivi. Atti del Convegno di studio (Pavia, 11-12 giugno 1974), Padova, 1976, 196; D. Tanza, I fondamenti costituzionali delle azioni collettive; Class actions ed effettività della tutela giurisdizionale, in Amministrazione in cammino. Rivista elettronica di diritto pubblico., di diritto dell’economia e di scienza dell’amministrazione, 11 marzo 2008, II (www.amministrazioneincammino.luis.it/site/it/Rubriche/Amministrazioni_Pubbliche/Note_e_Commenti/Documento/tanza_class_action.html).

 

[3] Mi riferisco non solo alla creazione nel 2007-2009 delle cd. azioni di classe (prima ‘azioni collettive risarcitorie’) nel Codice del Consumo e poi contro la P.A., che, di fatto, risultano poco se non per nulla applicate, quanto piuttosto, ad esempio, all’art. 4 co. 6 della legge 5 agosto 1981 n. 416, che, per il caso di costituzione di una posizione dominante nel mercato dell’editoria, ha concesso l’azione di nullità degli atti con cui è stata costituita tale posizione in primo luogo a un organo di garanzia appositamente costituito (il Garante per l’editoria) e, in aggiunta, anche a «qualsiasi persona fisica e giuridica»; oppure all’art. 9 del T.U. in materia di enti locali introdotto dal d.lgsl. 267/2000, il quale introduce una azione popolare (così definita in Rubrica) concessa a ciascun elettore per far valere in giudizio i diritti, le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia, con la conseguenza che qualunque cittadino può instaurare direttamente ed autonomamente il giudizio per responsabilità ambientale ecc. Vedine una rassegna meno incompleta nel mio A. Saccoccio, Il modello delle azioni popolari romane tra diritti diffusi e ‘class actions’, in Actio in rem e actio in personam. In ricordo di Mario Talamanca, a cura di L. Garofalo, I, Padova, 2011, 759 ss.; a cui adde almeno C. Consolo-B. Zuffi, L’azione di classe ex art. 140 bis Cod. Cons. Lineamenti processuali, Padova, 2012.

 

[4] Il punto di partenza può essere individuato nella celebre decisione del Consiglio di Stato del 9 marzo 1973 num. 253 (cfr. Foro it., 1974, III, 33 ss., con nota di L. Zanuttigh, «Italia nostra» di fronte al Consiglio di Stato) con cui questo organo operò il primo timido tentativo di offrire una più adeguata tutela a queste situazioni giuridiche cd. ‘superindividuali’, riconoscendo alla associazione ambientalista ‘Italia Nostra’ la legittimazione ad agire per la salvaguardia del lago di Tovel. Per gli sviluppi successivi, cfr. E. Grasso, Gli interessi della collettività e l’azione collettiva, in Riv. di dir. process., 38, 1983, 24 nt. 3. In ogni caso, si manteneva il criterio della ‘rappresentatività’ dell’associazione come filtro indispensabile per la configurabilità di un interesse ad agire.

 

[5] Celebre, ad esempio, è la cd. ‘decisione del chiunque’ con la quale il Consiglio di Stato ha affermato che la dizione dell’art. 10 comma 9 della legge 6 agosto 1967 n. 765 (il quale, istituendo una vera e propria azione a legittimazione diffusa sul modello di quello che si riteneva essere il proprium delle azioni popolari, prevedeva che ‘chiunque’ potesse ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia ad altri, in quanto in contrasto con leggi o regolamenti o con il piano regolatore), andasse interpretato nel senso di ‘chiunque abbia un diritto o un interesse propri’, frutto di una posizione giuridica quantomeno ‘qualificata e differenziabile’ da quella di qualsiasi altro cittadino, ad es. perché proprietario di un immobile sito sul luogo del Comune che ha concesso la licenza: cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 9 giugno 1970, num. 523 (in Riv. giur. dell’edilizia, 1970, I, 645 con nota contraria di G. D’Angelo; ma cfr. in senso contrario anche E. Guicciardi, La decisione del “chiunque”, in Giur. it., 1970, III, 193 ss.), ma vd. anche Cons. di Stato, sez. V, 15 luglio 2000 (con nota adesiva di L. Coen, Interesse all’impugnazione, in Studium iuris, 2000, XII, 1416 s.) e Cons. di Stato, sez. V, 30 gennaio 2003 num. 469 (con note adesive di M. Alessio, L’impugnabilità delle concessioni edilizie, in Nuovo Diritto, 2004, VII-VIII, 650 ss.; e D. Chinello, La legittimazione ad impugnare la concessione edilizia altrui ed, in particolare, la legittimazione dei titolari di esercizi commerciali ad impugnare la concessione edilizia rilasciata ad un concorrente, in App. urb. edil., 2003, II, 75 ss.). Il timore paventato dai nostri giudici è che un allargamento generalizzato della legittimazione a ricorrere per la tutela di diritti o interessi meta-individuali possa avere «riflessi sconvolgenti sul sistema vigente», il quale già di per sé non appare in grado di fornire risposte in tempi soddisfacenti alle domande di giustizia dei cittadini. Sul punto, vd. anche infra, ntt. 37 e 38.

 

[6] Cfr. soprattutto i contributi, riflettenti varie prospettive, raccolti in alcuni volumi collettanei: cfr., ad es., Le azioni a tutela di interessi collettivi. Atti del Convegno di studio (Pavia, 11-12 giugno 1974), Padova, 1976; La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2003; Le azioni collettive in Italia. Profili teorici ed aspetti applicativi, a cura di C. Belli, Milano, 2007; Class action: il nuovo volto della tutela collettiva in Italia, Milano, 2011.

 

[7] Sul punto, vd. soprattutto A. Giussani, Studi sulle class actions, Padova, 1996, passim; ma vd. anche Idem, Azioni collettive risarcitorie nel processo civile, Bologna, 2008. Cfr. però anche P. Rescigno, Sulla compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, XI, 2224 ss.; V. Vigoriti, Impossibile la class action in Italia? Attualità del pensiero di Mauro Cappelletti, in Resp. civ. e prev., 2006, I, 31 ss. (= in Rass. for., 2006, I,1, 95 ss.); M.G. Migliazzo, Dalla class action statunitense all’azione collettiva risarcitoria italiana, in Iter legis, 2007, V-VI, 23 ss.; G. Resta, Azioni popolari, azioni nell’interesse collettivo, «class actions»: modelli e prospettive di riforma in una recente riflessione, in Riv. crit. del dir. priv, XXV, 2007, 331; L. Stilo, Quando la class action è made in Italy, in Il nuovo dir., 2007, X-XI, 597 ss.; L. Ferrarese, Le norme statunitensi sulle azioni collettive: analisi comparativa con la legislazione italiana e spunti di riflessione, in La resp. civ., 2008, VIII-IX, 746 ss.; S. Miconi, La “class action” nell’ordinamento italiano: sintesi di una trasformazione, in La resp. civ., 2008, VIII-IX, 678 ss.; F. Tedioli, La class action all’italiana: alcuni spunti critici in attesa del preannunciato intervento di restyling, in Obbl. e contr., 2008, X, 831 ss.; Idem, Class action all’italiana atto secondo: un cantiere ancora aperto, ibidem, 2009, XII, 998 ss.; A. Frignani-P. Virano, La class action nel diritto statunitense: tentativi (non sempre riusciti) di trapianto in altri ordinamenti, in Dir. ed econ. dell’assicur., 2009, I, 5 ss.; A. Janssen, Europa e class action: stato dell’arte e delimitazioni di campo, in Contratto e impresa/Europa, 2009, II, 694 ss.; G. Fauceglia, La class action nel diritto degli strumenti finanziari e delle società: è possibile una via italiana alla tutela collettiva degli investitori?, in Riv. di dir. dell’impresa, 2009, II, 26 ss.; N. Trocker, Class action negli USA – E in Europa?, in Contr. e impresa/Europa, 2009, I, 178 ss.; C. Di Marzo, La via italiana alla class action per danni extracontrattuali e i principali modelli di tutela collettiva risarcitoria, in Giureta (Riv. di dir. dell’econ. dei trasp. e dell’amb.), 2010, VIII, 413 ss.; A. Querci, Via alla class action in Italia: un’arma spuntata?, in Dir. e pratica tributaria, 2010, II, 413 ss.; V. Tavormina, La nuova class action: il coordinamento con la disciplina del codice di procedura civile, in Obbl. e contr., 2010, IV, 246 ss.; Class action: il nuovo volto della tutela cit. Tra l’altro, è bene chiarire come anche negli Stati Uniti, che rappresentano il Paese in cui questo istituto ha avuto il maggiore sviluppo, è ben avviata una discussione che ne evidenzia alcune criticità, proponendone il superamento o quantomeno la modifica: cfr. ad es. M.S. Greve, Harm-Less Lawsuits. What’s Wrong whit Consumers Class Actions, AEI Press, Cambridge (MA), 2002, 1 ss.; R.A. Epstein, Class Actions: the Need for a Hard Second Look, in Civil Justice Report, N. 4, 2002, Manhattan Institute for Policy Research, 1 ss.

 

[8] Vd. infra, § 5 e particolarmente nt. 70.

 

[9] Cfr. Ael. Spart., De vita Hadriani, 25.9: Animula vagula blandula Hospes comesque corporis Quae nunc abibis in loca Pallidula rigida nudula Nec ut soles dabis iocos. Il riferimento, ovviamente, è a L. Lanfranchi, Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi cit., XX ss.

 

[10] Per un panorama delle legislazioni latinoamericane, che, sul punto, si presentano come più avanzate rispetto non solo al nostro Paese, ma probabilmente all’Europa intera, vd. A. Pellegrini Grinover, Proyecto de Código modelo de processos colectivos para Iberoamérica, in Roma e America. Diritto romano comune, 17, 2004, 257 ss.; A. Gonçalves de Castro Mendes, Relatório geral. Processos coletivos. O anteproyecto de Código modelo de processos coletivos para a Ibero-América, ibidem, 265 ss. (= in Revista Iberoamericana de derecho procesal, año IV, n. 5, 2004, 155-193); G.M. Acuña Solórzano, Los interdictos populares como instrumento de tutela a las res in usu publico en el derecho romano y su influencia en las codificaciones latinoamericanas. Con atención a la tutela del ambiente, in Roma e America. Diritto romano comune, 25, 2008, 53 ss.

 

[11] Cfr. A. Proto Pisani, Nuovi diritti e tecniche di tutela, in Diritto e giurisprudenza, XLVII, 1991, 241.

 

[12] Mi riferisco, ad es., ai numerosi lavori sul tema di Mauro Cappelletti, il quale propone appunto una revisione critica dei ricordati principi, in quanto essi, sorti da una elaborazione dottrinale appartenente ad un periodo ormai passato, ispirata all’individualismo ed alla garanzia dei diritti dell’individuo, meritano di essere adeguati a nuove esigenze di tutela imposte, nelle società contemporanee, dalla dimensione collettiva delle relazioni e dei bisogni in esse presenti. Attualmente, nota questo studioso, è la natura stessa super-individuale o collettiva degli interessi e dei soggetti che sono implicati in molti dei conflitti propri delle società moderne che evidenzia l’insufficienza del modello individualistico di processo civile di fronte a tali situazioni di conflitto e richiede l’adeguamento di esso alle nuove esigenze di tutela imposte dalla dimensione collettiva di tali relazioni e bisogni. Tra i tanti lavori che si potrebbero citare, cfr.: M. Cappelletti, Appunti sulla tutela giurisdizionale cit., 176 ss.; Idem, La protection d’intérêts collectifs et de groupe dans le procès civil (metamorphoses de la procedure civile), in Revue international de droit comparé, III, 1975, 571 ss.; Idem, Tutela dos interesses diffusos, in Revista Ajuris, XXXIII mar. 1995. Peraltro, nello stesso senso vd. anche G. Berti, L’interesse diffuso nel diritto amministrativo, in Strumenti per la tutela degli interessi diffusi della collettività. Atti del Convegno promosso dalla sezione di Bologna di Italia Nostra, Bologna, 5 dicembre 1981, a cura di D. Stanziani e A. Fiore, Rimini, 1982, 25.

 

[13] Vd. infra, poco oltre nel testo e la nt. 23.

 

[14] Per queste nozioni, la dottrina accumulatasi con gli anni è sterminata; tra i tanti (ad esclusione dei profili penalistici, che qui non affronto), oltre ai lavori che verranno citati di volta in volta nel corso della trattazione, cfr.: A. Proto Pisani, Appunti preliminari per uno studio sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi (o più esattamente superindividuali) innanzi al giudice civile ordinario, in Dir. e giurispr., 1974, VI, 801 ss.; G. Costantino, Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi davanti al giudice ordinario, ibidem, 817 ss.; E. Roppo, Tutela degli interessi diffusi e modelli di controllo sociale dei contratti standard, in Riv. trim. di dir. pubbl., 1976, I, 307 ss.; C. Varrone, Sulla tutela degli interessi diffusi nel processo amministrativo, in Riv. di dir. process., 1976, IV, 781 ss.; D. Resta, Brevi osservazioni sull’individuazione e sulla tutela giurisdizionale degli interessi diffusi nel processo amministrativo, in Il Cons. di Stato, 1977, VIII-IX, 886 ss.; A. Corasaniti, La tutela degli interessi diffusi davanti al giudice ordinario, in Riv. di dir. civ., 1978, II, 180 ss.; Idem, Interessi diffusi, in Dizionari del diritto privato, I, Diritto civile, a cura di N. Irti, Milano, 1980, 419 ss.; G. Vignocchi, La tutela degli interessi diffusi nei settori della economia e della tutela dei consumatori, in Jus, I, 1978, 31 ss.; G. Guccione, Interessi diffusi e funzione di controllo, in Il Cons. di Stato, 1978, V, 663; G. Palumbi, Profili di responsabilità in materia di inquinamento delle acque: il ruolo della giurisprudenza della Corte dei Conti nella tutela degli interessi diffusi delle collettività e la responsabilità degli amministratori degli enti territoriali, in Il Cons. di Stato, 1978, V, 677 ss.; A. Postiglione, Sulla tutela degli interessi collettivi, in Giur. di mer., 1978, I, 95 ss.; Idem, L’informatica giuridica come strumento per la tutela di interessi collettivi, in Il Cons. di Stato, 1978, X, 1009 ss.; R. Bertoni, Giudici e interessi diffusi, in La giurispr. pen., 1979, VIII-IX, 504 ss.; Idem, La tutela giudiziaria degli interessi diffusi, in Vita not., 1979, 543 ss.; A. Cerri, Interessi diffusi, interessi comuni – azione e difesa, in Dir. e soc., 1979, I, 83 ss.; G. Cogo, Interessi diffusi e partecipazione, in Studi parlam. di pol. cost., XLV, 1979, 25 ss.; V. Vigoriti, Interessi collettivi e processo. La legittimazione ad agire, Milano, 1979, passim; Idem, Metodi e prospettive di una recente giurisprudenza in tema di interessi diffusi e collettivi, in Giur. it., 1980, XII, 305 ss.; A. D’Amato, Pubblicità commerciale e tutela degli interessi diffusi dei consumatori, in Giust. civ., 1979, VI, 205 ss.; L. Montesano, Sulla tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e sul difetto di giurisdizione per “improponibilità della domanda”, in Giur. it., 1979, X, 1493 ss.; I. Cappiello, Sociologia degli interessi diffusi, in Giur. agr. it., 1980, IV, 199 ss.; F. Delfino, Ambiente, interessi “diffusi” e tutela giurisdizionale, in Dir. e soc., 1980, III, 629 ss.; E. Marotta, Interessi diffusi e loro tutela, in Foro napol., 1980, I-II, 15 ss.; Morsillo, Rilevanza giuridica degli interessi diffusi e tutela giurisdizionale, in Giur. agr. it., 1980, XII, 687 ss.; F. Patroni Griffi, Note in tema di tutela giudiziaria degli interessi diffusi, in Giust. civ., 1980, VI, 294 ss.; G.F. Piga, Diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi diffusi e tutela giurisdizionale, in Giust. civ., 1980, III, 703 ss.; R. Raimondi, Cittadini, enti esponenziali, interessi diffusi, in Giur. di mer., 1980, III, 725 ss.; G. Santaniello, La tutela degli interessi diffusi dinnanzi al giudice amministrativo, in Riv. amm.va della Rep. it., 1980, XII, 821 ss; L. Zanuttigh, Profili costituzionali della legittimazione ad agire per la tutela di interessi diffusi, in Giur. it., 1980, V, 231 ss.; A. Martucci di Scarfizzi, Interessi diffusi e collettivi: consolidamento di una giurisprudenza e nuovi profili, in Il Foro amm.vo, 1981, III, 327 ss.; M. Poli, Gli interessi diffusi davanti al Consiglio di Stato, in AG, CC, 1-2, 1981, 65 ss.; B. Caravita, Interessi diffusi e collettivi, in Dir. e soc., 1982, II, 167 ss.; Idem, Corte dei Conti e interessi diffusi. Un caso di interpretazione estensiva, in Democr. e dir., 1982, III, 41 ss.; Idem, Elaborazione giurisprudenziale e intervento legislativo nella tutela degli interessi diffusi, in Riv. giur. dell’amb., 1986, I, 132 ss.; C. Rapisarda, Bilancio e prospettive della tutela degli interessi diffusi negli anni Ottanta (note in margine ad un recente convegno), in Foro it., 1982, V, 85 ss.; M. Zucculini, Ricostruzione dell’atteggiamento giurisprudenziale in materia di interessi diffusi, in Il Foro padano, 1982, I-IV, 82 ss.; Eadem, Interessi diffusi e interessi collettivi: una questione aperta, in Giur. di merito, 1983, I, 253 ss.; V. Denti, s.v. Interessi diffusi, in Noviss. dig. it. (appendice), 1983, 305 ss.; A. Ventrella, Interessi legittimi e interessi diffusi, in Nuova Rass. di legisl., dottr. e giurispr., 1983, XXI, 2214 ss.; M. Sensale, La tutela degli interessi diffusi: un problema ancora aperto, in Giust. civ., 1983, III, 140 ss.; R. Federici, Gli interessi diffusi. Il problema della loro tutela nel diritto amministativo, Padova, 1984, VII ss.; C. Festa, La legittimazione ad agire per la tutela degli interessi diffusi, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1984, III, 944 ss.; E. Gabrielli, Appunti su diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi collettivi, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1984, IX, 969 ss.; A. Cariola, Giudizio amministrativo, associazioni ecologiche, interessi diffusi, in Il Foro amm.vo, 1986, XI, 2555 ss.; F. Marilena, Tutela del territorio, interessi diffusi ed operato del giudice (ordinario, amministrativo, contabile), ibidem, 2603 ss.; S. Salmi, Legittimazione ad impugnare da parte di enti e associazioni che tutelano interessi collettivi e diffusi, in L’amm.ne it., 1986, IV, 596 ss.; C. Pantani, Dottrina e giurisprudenza in materia di interessi diffusi (brevi cenni di riferimento), in L’amm.ne it., 1987, IV, 579 ss.; N. Trocker, Gli interessi diffusi nell’opera della giurisprudenza, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1987, IV, 1112 ss.; Idem, s.v. Interessi collettivi e diffusi, in Enciclopedia giuridica Treccani, XVII, 1989, 1 ss.; B. Cianci, Tutela degli interessi diffusi, in Giur. di mer., 1990, III, 585 ss.; E. Ciani, Interessi diffusi e loro tutela giurisdizionale: linee evolutive giurisprudenziali, in Riv. amm.va della Rep. it., 1990, XI, 1546 ss.; A. Dinacci, Riconoscimento giuridico degli interessi diffusi, in Riv. amm.va della Rep. it., 1993, II-III, 216 ss.; R. Ferrara, Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Dig. disc. pubbl., VIII, 1993, 481 ss.; A. Lo Torto, La sensibilità del pubblico dipendente per la gestione produttiva degli interessi diffusi in seno alla collettività, in I Tribun. amm.vi reg., 1993, X, 333 ss.; F. Ancora, Organi di giustizia comunitaria, interessi diffusi e Parlamento europeo, in Il Foro amm.vo, 1994, VI, 1643 ss.; M. Milone, Brevi riflessioni sul sistema sanzionatorio per le violazioni degli “interessi diffusi” in materia di danno ambientale, in I Trib. amm.vi reg., 1994, V-VI, 173 ss.; U. Zingales, Nuove prospettive in tema di tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, sia collettivi che "adespoti", in I Trib. amm.vi reg., 1995, VII-VIII, 217 ss.; N.M. Bocci, Interessi diffusi, una tutela ancora collettiva, in Il Nuovo dir., 1996, VI, 502 ss.; A. Contaldo, Gli interessi diffusi: legittimazione attiva al procedimento amministrativo ma non al processo, in Giur. di mer., 1997, II, 367 ss.; M. Pò, La legittimazione ad agire in giudizio per gli interessi diffusi, in Enti pubbl., 1997, I, 29 ss.; P. Errede, L'azionabilità degli interessi diffusi nell'interpretazione giurisprudenziale, in Nuova Rass. di legisl., dottr. e giurispr., 1998, XIX, 1847 ss.; R. Rota, La tutela processuale degli interessi diffusi e collettivi tra diritto interno e diritto comunitario, in Dir. e giurispr. agr. alim. e dell'amb., 1998, I, 12, 662 ss.; A. Nardelli, Gli interessi diffusi fra "riconoscimento legale" e legittimazione a ricorrere. Gli orientamenti dottrinari e giurisprudenziali sulla legitimatio ad causam da parte dei portatori di interessi diffusi, in Nuova Rass. di legislaz., dottr. e giur., 1999, VII, 593 ss.; A. Pellegrini Grinover, Significato sociale, politico e giuridico della tutela degli interessi diffusi, in Riv. di dir. process., 1999, I, 17 ss.; S.A. Violante, Le questioni aperte in fine secolo. Tutela degli interessi diffusi e Corte dei Conti, in Nuova Rass. di legisl., dottr. e giurispr., 2000, III-IV, 341 ss.; C. Punzi, La tutela giudiziale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, in Riv. di dir. process., 2002, III, 647 ss.; C. Petrillo, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, Roma, 2005; Eadem, La tutela degli interessi collettivi e dei diritti individuali omogenei nel processo societario, in Riv. di dir. process., 2006, I, 135 ss.; R. Lombardi, La tutela delle posizioni meta-individuali nel processo amministrativo, Torino, 2008; C.R. Perfetti-A. Clini, Class action, interessi diffusi e legittimazione a ricorrere degli enti territoriali nella prospettiva dello statuto costituzionale del cittadino e delle autonomie locali, in Dir. proc. amm., 2001, 1435 ss.; C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, San Marino, 2012; vd. anche supra, nt. 6.

 

[15] Per l’applicazione alle sole azioni popolari suppletive dell’istituto della sostituzione processuale che, com’è noto, trova il suo fondamento nell’art. 81 Cpc., cfr., per primo G. Manca, Sulla natura giuridica dell’azione popolare, Cagliari, 1911; ma poi cfr. anche G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, I, Napoli, 1928, 4a ed., (rist. 1965), 600 ss.; F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, I, Funzione e composizione del processo, Padova, 1936, § 142, 379 ss.; E. Garbagnati, La sostituzione processuale nel nuovo Codice di procedura civile, Milano, 1942, particolarmente 214 ss.; A. Martino, Ancora sulle azioni popolari, in Nuova Rass. di legislaz., dottr. e giurispr., 1971, II, 1497 ss.; F. Carpi, L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, Milano, 1974, 99 ss. (spec. 115); C. Mignone, s.v. Azione popolare, in Dig. disc. pubbl., II, 1987, 149, il quale parla di «un potere di pura legittimazione, che scinde la titolarità dell’interesse processuale dalla titolarità della situazione sostanziale (che è sempre altrui)», mentre di una «situazione di mera legittimazione, ovvero un diritto di natura processuale cui non corrisponde alcuna situazione qualificata in capo all’attore» parla invece G. Taccogna, s.v. Azioni popolari, in Dig. disc. pubbl., XI, 1996, Appendice, 662. Peraltro, l’istituto della sostituzione processuale è ancora ampiamente accolto in giurisprudenza con riferimento alle azioni popolari: cfr., ad es. TAR Veneto Venezia, sez. III, 27 maggio 2004 n. 1728, in Urbanistica e appalti, XI, 2004, 1341 ss. con nota di M. Andreis, Azione popolare e atteggiamento dell’ente sostituito. Invece, per una critica di questa tesi, vd. già S. Satta, Azioni popolari e perpetuatio iurisdictionis, in Foro it., 1938, I, c. 705 (= in Teoria e pratica del processo, Roma, 1940, 361); e poi L. Paladin, s.v. Azione popolare, in Noviss. dig. it., II, 1968, 89 s.

 

[16] Cfr., ad es., G. Zanobini, L’esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici, in Primo Trattato di dir. amm.vo it., II.3, a cura di V.E. Orlando, Milano, 1935, 274 ss.; V. Crisafulli, s.v. Azione popolare, in Nuovo dig. it., II, 1937, 139; R. Juso, Il contenzioso elettorale amministrativo, Milano, 1959, 37.

 

[17] Cfr. in questo senso S. Agrifoglio, Riflessioni critiche sulle azioni popolari come strumento di tutela degli interessi collettivi, in Le azioni a tutela di interessi collettivi cit., 181 ss.; D. Borghesi, s.v. Azione popolare, in Enc. giur., IV, 1988, 2 ss.; peraltro, la logica appare quella stessa perseguita da M.A. Tucci, Spunti per un diverso approccio metodologico allo studio degli interessi collettivi, in I trib. amm.vi reg., 1983, VII-VIII, 165 ss.

 

[18]Private Attorney General’, mutuando una terminologia coniata nell’ambito delle class actions americane dal giudice Jerome Frank nel 1943 nella causa Newmann v. Piggie Park Enterprises. Per questa posizione, in Italia, vd. V. Denti, Relazione introduttiva, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi cit., 14.

 

[19] Cfr. E. Garbagnati, La sostituzione processuale cit., 223 ss.; e poi soprattutto E. Grasso, Gli interessi della collettività cit., 24 ss. e 33 ss.; F. Carpi, L’efficacia «ultra partes» cit., 113 ss.

 

[20] Cfr., L. Martino, Le azioni popolari in generale con particolare riferimento alla proponibilità di quelle in materia urbanistico-edilizia, in Nuova rass. di legisl., dottr. e giurispr., 1986, I, 31, il quale pretende di rintracciare addirittura nel diritto romano i prodromi di questa sua concezione.

 

[21] È la proposta di M. Cappelletti, Appunti sulla tutela cit., 200.

 

[22] Per il concetto di «adeguato portatore», che intende in qualche modo richiamare la «adequacy of representation», e la «certification» previste nel sistema delle class actions americane (per la verità a tutt’altro fine e interesse): cfr. A. Giussani, Studi sulle class actions, Padova, 1996, 110 ss.; vd. V. Vigoriti, Interessi collettivi cit., 145 ss.

 

[23] Secondo questa ricostruzione, in ogni caso, anche quando l’interesse ‘adespota’ abbia ‘mutato natura’ e si sia trasformato in interesse collettivo, trovando un portatore, esso deve comunque fare necessariamente capo ad un gruppo organizzato, al quale normalmente il legislatore attribuisce rilevanza, come un’associazione, un sindacato, un partito, ecc., e solo in questa veste esso troverebbe tutela: per questa ricostruzione, che quindi non rinuncia a vedere, in qualche modo, comunque nello Stato il ‘vero’ portatore ‘finale’ di tale interesse, cfr. P.L. Galassi, La tutela degli interessi collettivi, in I tribunali amministr., 1975, VII-VIII, 179 ss.; C.M. Bianca, Note sugli interessi diffusi, in La tutela giurisdizionale cit., 76 s.; ma cfr. anche C. Punzi, La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, ibidem, 17 ss.; per una critica, invece, vd. C. Vocino, Sui cosiddetti interessi diffusi, in Studi in memoria di S. Satta, II, Padova, 1982, 1879 (il quale, però, nega in radice l’esistenza di interessi definibili collettivi o diffusi); M. Nigro, Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987, V, cc. 7 ss., il quale sottolinea come il rischio sia proprio quello di schiacciare il profilo soggettivo sotteso ad ogni ‘interesse diffuso’, per valorizzarne l’accoglimento soltanto in sedi associative; L. Lanfranchi, Le animulae vagulae blandulae cit., 21 ss.; A. Carratta, Profili processuali della tutela degli interessi legittimi, in La tutela giurisdizionale cit., 79 ss.

 

[24] Si tratta della celebre decisione del Consiglio di Stato già ricordata supra alla nt. 5.

 

[25] È il caso previsto, ad es., dall’art. 225 del R.D. 4 febbraio 1915 n. 148, che subordina l’esercizio dell’azione del singolo all’autorizzazione della Giunta provinciale amministrativa.

 

[26] Cfr. D. Borghesi, Azione popolare, interessi diffusi e diritto all’informazione, in Politica del diritto, 16, II, 1985, 276.

 

[27] Per il concetto, tra il giuridico e il filosofico, cfr., tra i tanti, F. Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Bari, 2004; M. Esposito, I beni pubblici, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, VII, Torino, 2008, 1 ss.; A. Tagliaferri, Beni comuni: un nodo cruciale del rapporto pubblico-privato, in Publiscritture. Rivista di ricerca e cultura critica, 7, 2010, 23 ss.; La società dei beni comuni. Una rassegna, a cura di P. Cacciari, Roma, 2010; R. Petrella, Res publica e beni comuni: pensare le rivoluzioni del XXI secolo, Verona, 2010; I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del Codice civile, a cura di U. Mattei-E. Reviglio-S. Rodotà, Roma, 2010; P. Maddalena, I beni comuni nel Codice civile, nella tradizione romanistica e nella costituzione della Repubblica italiana, in www.Federalismi.it. Rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato, 19, 2011; U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, 2011; A. Lucarelli, Introduzione: verso una teoria dei beni comuni, in Rass. di dir. pubbl. eur., 27, fasc. 2, 3 ss.; Idem, Note minime per una teoria giuridica dei beni comuni, in Quale Stato, 3-4, 2007, 1 ss.; Idem, La democrazia dei beni comuni, Bari, 2013; M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012; L’Italia dei beni comuni, a cura di G. Arena e C. Iaione, Roma, 2012; S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, 2013; A. Di Porto, Res in usu publico e ‘beni comuni’. Il nodo della tutela, Torino, 2013. Invece, per una prospettiva storica, dopo P. Grossi, ‘Un altro modo di possedere’. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1977, 5 ss., vd. soprattutto A. Dani, Le risorse naturali come beni comuni, Grosseto, 2013, 7 ss.; per la prospettiva economica, basti qui il rimando a E. Ostrom, Governing the Commons. The evolutions of Institutions for Collective Action, New York, 1990 (trad. it. Governare i beni collettivi, Venezia, 2006, per il quale alla a. è stato conferito il premio Nobel per l’Economia 2009). Per una critica, vd. invece C. Iannello, Beni pubblici versus beni comuni, in www.forumcostituzionale.it. Utilissime sul punto, appaiono le riflessioni di un non giurista, come S. Settis, Azione popolare, cit., particolarmente 61 ss., il quale opportunamente richiama la tripartizione romana tra res communes omnium, res publicae e res privatae (cfr. Gai., 2 inst. D.1.8.1 pr. [=Gai. 2.10-11]; Marcian., 3 inst. D.1.8.2.1 [= I.2.2.1]; Pomp., 9 ad Sab. D.18.1.6 pr. ecc.); sul fatto che i ‘beni comuni’ non costituiscano affatto una categoria ‘nuova’, cfr. ora soprattutto P. Maddalena, I beni comuni nel diritto romano: qualche valida idea per gli studiosi moderni, in www.Federalismi.it . Rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato, 14, 2012.

 

[28] Sul punto, vd. le lucidissime osservazioni di G. Lobrano, Uso dell’acqua nel Mediterraneo. Uno schema di interpretazione storico-sistematica e de iure condendo, in Diritto@Storia, III, 2004; vd. anche Idem, Dottrine della ‘inesistenza’ della Costituzione e il “modello del diritto pubblico romano”, in Diritto@ Storia, V, 2006.

 

[29] Lo nota molto opportunamente E. Grasso, Gli interessi cit., 33; tale scelta, invece, è difesa da U. Ruffolo, Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, I, Il problema e il metodo – Legittimazione, azione e ruolo degli enti associativi esponenziali, Milano, 1985, 100 ss.

 

[30] Giustamente è stato detto che ‘interesse diffuso’ «appare essere la formula descrittiva di una estesa pluralità di interessi individuali, consistente in un rapporto diretto e proprio fra soggetto e bene e come tali potenzialmente capaci tutti e direttamente di tutela giurisdizionale»: vd. M. Nigro, Le due facce dell’interesse diffuso cit., 7 ss.

 

[31] Cfr. E. Codini, Beni a fruizione diffusa e giudice amministrativo, in Strumenti per la tutela cit., 139 ss.

 

[32] Esemplificativo di questo modo di ragionare mi pare quanto afferma A.D. De Santis, I disegni di legge italiani sulla tutela degli interessi collettivi e il «Class Action Fair Act of 2005», in Riv. trim. di dir. e proc. civ., LX, 2006, 606, secondo il quale l’interesse collettivo appartiene a tutti i membri della categoria, ma solo in quanto collettivamente considerati, ossia solo in quanto categoria», con la conseguenza che esso «non è nella titolarità né dei singoli né dell’associazione».

 

[33] Cfr. soprattutto A. Settis, Azione popolare cit., passim.

 

[34] Così come in altri ordinamenti; per un quadro di comparazione degli ordinamenti moderni sul tema, oltre a quanto detto supra, nt. 10 sul sistema giuridico latinoamericano, vd. Luo Zhimin, Riflessioni sull’azione popolare da una prospettiva comparatistica, in Fides Humanitas Ius. Studi in onore di L. Labruna, VIII, Napoli, 2007, 6065 ss. (che fa seguito ad una tesi di dottorato della a. dal titolo L’azione popolare e l’azione per la tutela degli interessi diffusi: dal diritto romano al diritto moderno, XIX ciclo, 2009).

 

[35] Osserva infatti giustamente L. Paladin, s.v. Azione popolare cit., 89, che se si riduce l’attore popolare a mero sostituto processuale dello Stato o di un ente pubblico, l’azione popolare finisce per scomparire nell’azione dell’ente stesso.

 

[36] In realtà, la giustificazione ultima dell’ostilità giurisprudenziale verso l’azione popolare va vista nel timore paventato dai magistrati che, permettendo a chiunque di agire, anche senza un personale e qualificato interesse, si rischierebbe di sovraccaricare di lavoro i tribunali, i quali di per sé già si troverebbero sull’orlo del collasso (sul punto, cfr. anche supra, nt. 4); peraltro, si tratta della stessa ratio che ha guidato più volte la nostra Corte Costituzionale nel negare l’incostituzionalità dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, nella parte in cui questo esclude i singoli lavoratori dall’esercizio dell’azione per discriminazione sindacale (cfr., tra le tante decisioni, Corte cost. 6 marzo 1974 num. 54, in Foro it., 1974, I, cc. 963 ss., in cui si paventa un danno all’attività imprenditoriale, derivante da un proliferare dei ricorsi individuali); per una critica a questa impostazione, vd. invece A. Cerri, Diritto di agire dei singoli, delle associazioni che li rappresentano, di entità destinate alla difesa di interessi collettivi. I progressivi ampliamenti della legittimazione e le ragioni che li giustificano, in La tutela giurisdizionale cit., 43 e A. Carratta, Profili processuali cit., 132. Del resto, opportunamente nota R. Donzelli, Considerazioni sul procedimento per la repressione della condotta antisindacale alla luce delle tecniche di tutela giurisdizionale per la repressione degli interessi collettivi, ibidem, 192 come non sia corretto sostenere che i diritti di libertà debbano cedere di fronte al timore di un disordinato ricorso alla giustizia.

 

[37] Vd. ad es. la famosa Sentenza, con cui la Corte di Cassazione a Sezioni unite (Cass. 8 maggio 1978 num. 2207) finì per negare l’ammissibilità della categoria giuridica degli interessi cd. collettivi, negando nel contempo che di essi potessero farsi portatori soggetti pure essi collettivi (ad es. associazioni culturali: nel caso concreto, Italia Nostra): cfr. la nota contraria di A. Postiglione, Iniziativa dei cittadini per la difesa di interessi collettivi, in Giust. civ., 1978, I, 1208 ss.

 

[38] È il caso della sopra (nt. 3) ricordata ‘decisione del chiunque’, alla luce della quale la Corte di Cassazione, muovendosi «in una prospettiva più politica che strettamente giuridica» (F. Carpi, L’efficacia «ultra partes» cit., 100 nt. 4; sul punto, per un inquadramento si vd. ora F. Saitta, L’impugnazione del permesso di costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero [ed imprecisato] ampliamento della legittimazione a ricorrere, in Riv. giur. dell’edil., 2008, I,2, 23 ss. [= in Cittadinanza ed azioni popolari, Atti del Convegno di Copanello 29-30 giugno 2007, www.lexitalia.it/articoli/saittaf_legittimazione.htm ]), ha ribadito il principio per cui la legittimazione attiva andrebbe attribuita non a ‘chiunque’, ma secondo il criterio dell’insediamento abitativo (residenza o domicilio).

 

[39] Per i termini della distinzione, anch’essa fatta propria dalla dottrina largamente dominante, cfr. A. Lugo, Azione popolare (in generale), in Enc. dir., IV, 1959, 867; L. Paladin, s.v. Azione popolare cit., 90 s.; D. Borghesi, s.v. Azione popolare cit. 7; A. Sgro, L’azione popolare suppletiva, in Nuova Rass. di legislaz., dottr. e giurispr., 1985, VII, 679 ss.

 

[40] Nelle azioni popolari suppletive, quindi, l’attore popolare sarebbe soltanto un rappresentante dello Stato (così vd. G. Zanobini, L’esercizio privato cit., 274 ss.) o, al massimo, una sorta di sostituto processuale di esso (cfr. in questo senso, gli aa. cit. supra, alla nt. 15).

 

[41] La contraddizione che si ha con il costruire lo Stato come protagonista (attivo o passivo) dell’azione popolare deflagra in Italia con l’introduzione delle azioni popolari in materia di editoria o di ambiente (maggiori approfondimenti in A. Saccoccio, Il modello delle azioni popolari romane cit., 765 e ntt. 149-150 con bibl.), in cui la controversia può instaurarsi tra un privato ed un altro privato (normalmente un’impresa), rispetto alle quali la pubblica amministrazione e lo Stato rimangono estranei: sul punto vd. anche D. Borghesi, s.v. Azione popolare, cit., 9; e Idem, Azione popolare, interessi diffusi cit., 271 ss., il quale parla della crisi della tradizionale bipartizione tra azioni popolari suppletive e correttive, postulando addirittura l’esigenza di un’azione popolare «atipica».

 

[42] Sul punto, vd. ora anche S. Settis, Azione popolare cit., passim; non mancano però posizioni di dissenso: cfr. E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Roma-Bari, 2013; T. Seppilli, Sulla questione dei beni comuni: un contributo antropologico per la costruzione di una strategia politica, in Oltre il pubblico e il privato cit., 125.

 

[43] Tale abbandono, poi, dovrebbe essere rafforzato dalla creazione di un tertium genus, genus intermedio tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, in cui dovrebbero confluire tutte queste istanze: vd. la proposta di L. Zanuttigh, Intervento, in Strumenti per la tutela cit., 174 s., ma cfr. anche supra, nt. 41.

 

[44] Ancora oggi la dottrina considera la legittimazione generale l’unica caratteristica in grado di raccogliere alcune fattispecie sotto il comune ‘cappello’ delle azioni popolari: per tutti, cfr. L. Paladin, s.v. Azione popolare cit., 88-90, il quale da questo punto di vista avvicina le azioni popolari ad istituti di democrazia diretta come il referendum.

 

[45] Cfr., a questo proposito, T. Bruno, s.v. Azione popolare, in Dig. it., IV,2, 1893-1899, 954; e poi anche E. Gardino, Le origini dell’azione popolare, in AG, CCXXII, 2002, 109. Rispetto all’andamento descritto, fa eccezione il periodo della fioritura dei Comuni in Italia, allorché l’azione popolare servì in realtà a spezzare «la catena della società feudale»: cfr. A.O. Albanese, L’azione popolare da Roma a noi, Roma, 1955, 83 ss.

 

[46] Questa osservazione risale a F. Casavola, Fadda e la dottrina delle azioni popolari, in Labeo, I, 1955, 131, ma è stata poi a più riprese rilanciata soprattutto da A. Di Porto, Interdetti popolari e tutela delle «res in usu publico». Linee di una indagine, in Diritto e processo nella esperienza romana. Atti del Seminario torinese (4-5 dicembre 1991 in memoria di G. Provera), Torino, 1994, 483; Idem, Res in usu publico cit., 9 s. Peraltro, la sparizione è facilmente constatabile anche riguardo ai manuali di diritto privato.

 

[47] Il merito di questa ricostruzione va indubbiamente attribuito a F. Casavola, Fadda e la dottrina delle azioni popolari, cit., 131 ss.; Idem, Studi sulle azioni popolari romane. Le “actiones populares, Napoli, 1958, 2 (rist. Martina Franca, 1991, con in appendice l’art. prima citato), 16. Per quanto riguarda l’opera di questo studioso, però, non pienamente riuscito appare il tentativo di dimostrazione che le azioni popolari intenderebbero colmare uno spazio vuoto tra le «due forme tradizionali della giuridicità romana, ordinate dalla bipolarità Stato e familia»: cfr., per uno sviluppo più articolato della critica, quanto dico in A. Saccoccio, Il modello delle azioni popolari romane cit., 735 ss.

 

[48] Cfr. C.F. von Savigny, Das Obligationenrecht als Theil des heutigen römischen Rechts, II, Berlin, 1853, 314; Idem, System der römischen heutigen Recht, II, Berlin, 1840, § 73, 131 ss.; T. Mommsen, Die Stadtrechte der lateinische Gemeinde Salpensa und Malaca in der Provinz Baetica, in Abhandl. d. Sachs. Ges. d. Wissensch., III, 1855, 461 ss. (= ora in Gesammelte Schriften, I, Juristische Schriften, I, Berlin, 1905, rist. Zürich und Hildescheim, 1994, 352 ss.); e poi, in risposta alla critica di Bruns (vd. nt. successiva) cfr. anche Idem, Die Popularklagen, in ZSS RA, XXIV, 1903, 1-12 (ora in Gesammelte Schriften, III, Juristische Schriften, III, Berlin, 1907, rist. cit., 375-385). Al tempo, la tesi fu accolta in maniera entusiastica da alcuni studiosi: cfr. R. Maschke, Zur Theorie und Geschichte der Popularklage. Erster Beitrag, in ZSS RA, 6, 1885, 226 ss.; V. Colonieu, Les actions populaires en droit romain, Paris, 1888, 40 ss.; H. Paalzow, Zur Lehre von den römischen Popularklagen – Inaugural Dissertation, Berlin, 1889, 15 ss.; A. Codacci-Pisanelli, Le azioni popolari, in AG, XXXIII, 1884, 317 ss.

 

[49] Cfr. K.G. Bruns, Die römischen Popularklagen, in ZRG, III, 1864, 341 ss. (ora in Kleinere Schriften, I, 1882, 313 ss.); R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I, Leipzig, 18915 (1a ed. 1852), § 14, 201 nt. 96 b.; V. Scialoja, Prefazione del traduttore alla trad. it. di K.G. Bruns, Le azioni popolari romane, in AG, XXVIII, 1882, 166 ss. (= in Studi giuridici, I, Diritto romano, I, Roma, 1933, 108 ss.); Idem, L’exceptio rei iudicatae nelle azioni popolari romane. Studio esegetico, in AG, XXXI, 1883, 213 ss.; C. Fadda, L’azione popolare. Studio di diritto romano ed attuale, I, Parte storica – Diritto romano, Torino, 1894 (rist. Roma, 1972), 296 ss.

 

[50] Significativo, ad esempio, appare quanto scrivono alcuni degli esponenti di maggiore spicco del clima culturale e giuridico dell’epoca: secondo R. von Jhering, Der Kampf ums Recht, , 4a ed,  18744, cito dalla trad. it. La lotta pel diritto, Bari, 19352, 75 nt. 1, nelle azioni popolari si dovrebbe Wien riconoscere «la più bella e la più elevata testimonianza che il sentimento del diritto possa porgere di sé»; ma vd. anche Idem, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I, Leipzig, 18915 (1a ed. 1852), § 14, 200 ss.; B. Brugi, L’azione popolare romana in materia di opere pie, in AG, XXVII, 1881, 440 ss., ad avviso del quale l’azione popolare costituiva un «prodotto bellissimo della Roma pagana», al punto che in essa si concentravano l’alto senso ideale del diritto romano, rafforzato dallo spirito filantropico del mondo moderno: l’azione popolare, sempre ad avviso del Brugi, esperita dal cittadino senza fini egoistici nel solo interesse del bene comune, rispondeva non solo al concetto elevato e dignitoso che si deve avere del diritto, ma era prova di fiducia nei confronti di quel cittadino ormai atto a vigilare da sé medesimo alla conservazione del diritto stesso; infine, secondo C. Fadda, L’azione popolare cit., 308., la «colleganza dell’interesse del singolo con quello della universalità deve appunto essere più minutamente studiata nell’evoluzione storica di Roma».

 

[51] Cfr. F. Casavola, Fadda e la dottrina cit., 133 ss.; alle stesse conclusione giunge peraltro anche D. Borghesi, Azione popolare cit., 261 s.

 

[52] Cfr. soprattutto F. Casavola, Studi sulle azioni popolari cit., 13 ss., il quale riconosceva come questa osservazione era stata già svolta dal Bruns, che però non l’aveva condotta alle sue conseguenze.

 

[53] Infatti, due vie sono possibili: la via di evidenziare la coppia ‘ius suum’, è stata percorsa dai fautori della tesi cd. procuratoria; al contrario, l’evidenziazione della coppia ‘suum-populi’ era sostenuta dai sostenitori della tesi cd. dello Stato-persona: cfr. sul punto quanto dico in A. Saccoccio, Il modello delle azioni popolari romane cit., 720 ss.

 

[54] D. 47.12.6 (Iul. 10 dig.) Sepulchri violati actio in primis datur ei, ad quem res pertinet. Quo cessante si alius egerit, quamvis rei publicae causae afuerit dominus, non debebit ex integro adversus eum, qui litis aestimationem sustulerit, dari. Nec potest videri deterior fieri condicio eius, qui rei publicae causa afuit, cum haec actio non ad rem familiarem eiusdem, magis ad ultionem pertineat.

 

[55] Cfr. D. 29.2.20.5 (Ulp., 61 ad ed.) Si sepulchri violati filius aget quamvis hereditarii, quia nihil ex bonis patris capit, non videtur bonis immiscere: haec enim actio poenam et vindictam quam rei persecutionem continet; D. 47.12.10 (Pap., 8 quest.) Quesitum est, an ad heredem necessarium, cum se bonis non miscuisset, actio sepuchri violati pertineret. Dixi recte eum ea actione experiri, quae in bonum et aequum concepta est: nec tamen si egerit, hereditarios creditores timebit, cum etsi per hereditatem optigit haec actio, nihil tamen ex defuncti capiatur voluntate, neque id capiatur, quod in rei persecutione, sed in sola vindicta sit constitutum.

 

[56] D. 9.3.1.1 (Ulp., 23 ad ed.) Summa cum utilitate id praetorem edixisse nemo est qui neget: publice enim utile est, sine metu et periculo per itinera commeari.

 

[57] Cfr. alla Rubrica di D. 47.23.

 

[58] Per la divisione delle res publicae in res in patrimonio publico e res in publico uso, vd. soprattutto D. 18.1.6 pr. (Pomp., 9 ad Sab.); sul punto, cfr., per un inquadramento e per le numerose altre fonti in materia, G. Branca, Le cose extra patrimonium humani iuris. Corso di esegesi delle fonti del diritto romano. A.a. 1946-47, Bologna, 1947; A. Dell’Oro, Le res communes omnium dell’elenco di Marciano e il problema del loro fondamento giuridico, in Studi Urbinati, XXX-XXXI, 1961-63, 239 ss.; R. Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino, 1968, 295 ss.; F. Sini, Persone e cose: res communes omnium. Prospettive sistematiche tra diritto romano e tradizione romanistica, in Diritto@Storia, VII, 2008 < http://www.dirittoestoria.it/7/Tradizione-Romana/Sini-Persone-cose-res-communes-omnium.htm > ; P. Maddalena, I beni comuni nel diritto romano cit.; M. Giagnorio, Il contributo del civis nella tutela delle res communes omnium, in Teoria e storia del diritto privato, VI, 2013, 5 ss. (dell’estratto); A. Di Porto, Res in usu publico cit., 26 ss.

 

[59] Cfr. A. Di Porto, Interdetti popolari cit., 513; Idem, Res in usu publico cit., XVII ss., dove però l’a. ipotizza che con l’avvento del principato l’azione popolare abbia subito una tale trasformazione, per cui essa non sarebbe più espressione della sovranità del populus; G. Sanna, L’azione popolare come strumento di tutela dei “beni pubblici”: alcune riflessioni tra “bene pubblico” ambiente nell’ordinamento giuridico italiano e res publicae nel sistema giuridico romano, in Diritto@Storia, V, 2006, 6 <http://www.dirittoestoria.it/5/Tradizione-Romana/Sanna-Azione-popolare-tutela-beni-pubblici.htm >  .

 

[60] Cfr. D. 43.8.2.2 (Ulp., 68 ad ed.): loca enim publica utique privatorum usibus deserviunt, iure scilicet civitatis, non quasi propria cuiusque…; sul punto vd. anche F. Casavola, Studi sulle azioni popolari cit., 18.

 

[61] Cfr. F. Casavola, Studi sulle azioni popolari cit., 98 ss.; il punto peraltro non è indiscusso in dottrina: contra, vd. già le Recensioni alla monografia di Casavola da parte di M. Kaser, in Labeo, IV, 1958, 344 e di G. Jahr, in ZSS RA, LXXVII, 1960, 472 ss., oltre a J. Danilović, Observations sur les «actiones populares», in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino, 1974, 18 ss.

 

[62] Dai testi dei giuristi romani, invece, sembra emergere una sorta di duplicità di tipologie di azioni popolari, perché accanto alle azioni popolari a legittimazione generale, ci sono azioni popolari che prevedono una legittimazione esclusiva dell’interessato, a cui può seguire, per sua mancanza o rinuncia o decesso, una legittimazione generale sussidiaria: vd. ad es. D. 47.12.3 (Ulp., 25 ad ed.): Praetor ait:’Cuius dolo malo sepulchrum violatum esse dicetur, in eum in factum iudicium dabo, ut ei, ad quem pertineat, quanti ob eam rem aequum videbitur, condemnetur. Si nemo erit, ad quem pertineat, sive agere nolet: quicumque agere volet, ei centum aureorum actionem dabo; D. 47.12.6 (Ulp., 10 dig.): Si quis in sepulchro habitasset aedificiumve habuisset, ei qui velit agendi potestas fit; D. 9.3.5.5 (Ulp., 23 ad ed.): Haec autem actio, quae competit de effusis et deiectis, perpetua est et heredi competit…; nam est poenalis et popularis: dummodo sciamus ex pluribus desiderantibus hanc actionem ei potissimum dari debere cuius interest vel qui adfinitate cognationeve defunctum contingat… Sed si libero nocitum sit, ipsi perpetua erit actio: sed si alius velit experiri, annua erit haec actio; D. 47.23.3.1 (Ulp., 1 ad ed.): in popularibus actionibus is cuius interest praefertur. In tutti questi casi, la presenza di un ‘più interessato’ (rispetto al quivis de populo) non fa di per sé venire meno la ‘popolarità’ dell’azione. Sottolinea correttamente F. Casavola, Studi sulle azioni popolari cit., 8 ss. che la mancata individuazione di questo punto si deve al fatto che il Fadda, nel momento in cui enuncia la sua tesi (che finirà, con qualche aggiustamento, per essere quella dominante in materia) vive un periodo in cui la dottrina si è in realtà appena svincolata dalla tesi mommseniana del mandato statale, e pertanto non riesce a negare del tutto la relazione dell’attore popolare con l’interesse statale, se non ricorrendo a quella sorta di ‘Stato attenuato’, somma di tutti i cittadini, che permetteva l’intreccio di interessi individuali e collettivi.

 

[63] Cfr., solo per limitarmi agli scritti più recenti sul tema, G. Sanna, L’azione popolare cit., 6, a parere del quale senza dubbio il tratto distintivo che accomuna tutte le azioni popolari romane è che «l’esercizio di esse spetta a qualunque cittadino, come tale»; M. Giagnorio, Brevi note in tema di azioni popolari, in Teoria e storia del diritto privato, 5, 2011, 1 ss. dell’estr., secondo il quale le azioni popolari si contraddistinguerebbero per essere «un rimedio processuale concesso dal pretore a quivis de populo, indipendentemente dall’esistenza o meno di un rapporto di credito o reale nei confronti della persona o della cosa contro o per la quale si agiva»; vd. invece, più opportunamente, A.O. Albanese, L’azione popolare cit., 17, secondo il quale con l’azione popolare chiunque può chiedere al magistrato la tutela di un diritto che, pur non appartenendogli in quanto singolo, gli appartiene comunque in quanto facente parte di una più vasta collettività.

 

[64] Cfr., quasi alla lettera, F. Casavola, Studi sulle azioni popolari cit., 16 s.

 

[65] F. Casavola, Studi sulle azioni popolari cit., 15 ss.

 

[66] Il riferimento è alla comparsa in Europa del nazionalsocialismo: cfr. F. Casavola, Fadda e la dottrina cit., 153. In particolare, il concetto di diritto soggettivo pubblico, che era esaltato dai regimi liberali, che esigevano una posizione attiva dell’individuo verso lo Stato, invitando i singoli a correggere o a supplire il potere pubblico stesso, finisce con l’essere completamente negato nella concezione nazista della Volksgemeinschaft: cfr. tra la vasta letteratura sul tema, U. Bielefeld-M. Wildt, Volksgemeinschaft. Die mörderische Sehnsucht nach ihrer Verwirklichung und ihr lange Auflösung, Hamburg, 2007; F. Bajohr-M. Wildt, Neue Forschungen zur Gesellschaft der Nationalsozialismus, Frankfurt am Main, 2007.

 

[67] Cfr. ad es. B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts I, 9a ed., Frankfurt am Main, 1906 (rist. Aalen, 1984), § 46, 197 nt. 2, dove la distinzione tra actiones populares e actiones privatae è definita «antiquiert», e II, § 326, 354 nt. 6, dove si legge: «die actiones populares sin heutzutage überhaupt unpraktisch», in quanto l’interesse pubblico deve essere fatto valere dallo Stato.

 

[68] Significativa, in questo senso, appare ad es. la dizione dell’art. 810 Cc. it. 1942, secondo il quale sono considerati beni giuridici «le cose che possono formare oggetto di un diritto».

 

[69] Cfr., oltre all’ormai famoso scritto di R. Orestano, Diritti soggettivi e diritti senza oggetto. Linee di una vicenda concettuale, in Jus, 11, 1960, 149 ss., le varie prese di posizione sul punto del prof. Pierangelo Catalano, tra le quali mi limito qui a ricordare P. Catalano, Diritto, soggetto ed oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D.1,1,12, in Iuris Vincula. Studi in onore di M. Talamanca, II, Napoli, 2001, 95 ss., dove cfr. ampia bibliografia sul punto; vd. anche quanto dice nella Premessa F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I, Libri e commentarii, Sassari, 1983, 6 s.; per una prospettiva diversa, ma pur sempre coincidente con la linea qui seguita nell’ambito della dialettica soggetto-oggetto, cfr. R. Fiori, Il problema dell’oggetto del contratto nella tradizione civilistica, in Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali, Napoli, 2003, 169 ss.

 

[70] Cfr., bene sul punto, P. Maddalena, Giurisdizione contabile e tutela degli interessi diffusi, in Strumenti per la tutela degli interessi diffusi della collettività. Atti del Convegno promosso dalla sezione di Bologna di Italia Nostra cit., 85 ss.; ma cfr. anche C. Biagini, L’azione popolare (e la tutela degli interessi diffusi), in Il Cons. di Stato, XXVIII.2, 1997, 870; U. Ruffolo, Interessi collettivi cit., 129 ss. Sulla «accentuazione dei profili patrimoniali» del diritto soggettivo a partire dagli anni ’30 del secolo passato si sofferma F. Lucarelli, Modelli privatistici e diritti soggettivi pubblici, Padova, 1990, 26 ss. Peraltro, la dottrina, avvertita del problema, per lungo tempo non ha fatto altro che segnalare l’inadeguatezza della tutela risarcitoria (peculiare per la tutela del diritto soggettivo) con riferimento ai diritti a contenuto non patrimoniale, ma senza tentare la via del superamento della nozione sul punto estraniante: si vd., ad es., F. Carpi, Cenni sulla tutela degli interessi collettivi nel processo civile e la cosa giudicata, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1974, III, 957 ss.; A. Proto Pisani, Nuovi diritti cit., 230. Vd. però, E. Russo, Interessi diffusi e teoria delle situazioni soggettive, in Vita notarile, 1979, 793 ss., il quale loda l’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori e l’art. 10 della L. 765/1967 (vd. supra, nt. 36), parlando del passaggio da un sistema fondato sul diritto soggettivo ad un sistema di actiones.

 

[71] Cfr. già supra, § 3.

 

[72] Per la visuale molto più concreta nell’ambito della quale si muovevano i romani vd. già R. Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» cit., 185 ss.; P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino, 1970; ma poi cfr. soprattutto G. Lobrano, Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, 2a ed., Sassari, 1994, soprattutto 5 ss.; Idem, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino, 1996, 19 ss.; e, da ultimo, Idem, Circa l’uso del diritto pubblico romano: dal Contrat Social di J.J. Rousseau alla Storia della costituzione romana di F. De Martino, in Roma e America. Diritto romano comune, 27/2009 (pubbl. 2010), 3 ss.; sul punto, vd., per qualche osservazione anche P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, Rimini, 1990, 51 ss.

 

[73] A proposito del rapporto pubblico-privato, significativo mi pare anche quanto scrive P. Grossi, I dominii collettivi come realtà complessa nei rapporti con il diritto statuale, in Riv. di dir. agr., 76, 1997, 268 s.: «è sterile è assurdo domandarsi se esse [scil. le proprietà collettive] appartengano all’una o all’altra dimensione»; sul punto, cfr. anche A. Dani, Tra «pubblico» e «privato»: in princìpi giuridici sulla gestione dei beni comuni e un «consilium» cinquecentesco di Giovanni Pietro Sordi, in Gli inizi del diritto pubblico, III, Verso la costruzione del diritto pubblico tra Medioevo e modernità. Die Anfänge des öffentlichen Rechts, III, Auf dem Wege zur Etablierung des öffentlichen Rechts zwischen Mittelalter und Moderne, a cura di G. Dilcher e D. Quaglioni, Bologna-Berlin, 2011, 599 ss.

 

[74] G. Lobrano, Uso dell’acqua cit., 1,d.

 

[75] Per questa impostazione, cfr. già F. Casavola, Studi sulle azioni popolari cit., 100 ss.

 

[76] F. Casavola, Studi sulle azioni popolari cit., 19; nello stesso senso, cfr. A. Di Porto, Interdetti popolari cit., 494; mentre non va sottovalutato il fatto che già M. Cappelletti, Appunti sulla tutela cit., 190 s. si esprimeva per l’insufficienza della dicotomia pubblico-privato per la tutela di effettivi bisogni nelle società moderne. Sul punto, cfr. anche infra, ampiamente nel testo.

 

[77] Di ‚Mittelfigur‘ tra ‚Vermögensrechte‘ e ‚öffentiche Interesse‘ parlava già A.F. Rudorff, Römische Rechtsgeschichte, II, Leipzig, 1859, 157.

 

[78] Cfr. D. 47.23.7.1 (Paul., 41 ad ed.): qui habet has actiones non intellegitur esse locupletior; ma vd. anche D. 35.2.32 pr. (Maec., 9 fideic.): eaedem actiones nihil bonis rei defuncto eo detrahunt.

 

[79] Opportunamente notano C.R. Perfetti-A. Clini, Class action, interessi diffusi cit., 1435 ss. che «andrebbe discusso se davvero le posizioni soggettive sostanziali siano incapaci di contenere pretese comuni ad altri individui o comunità, eppure, contemporaneamente, restare propri di chi agisce per la riparazione di una lesione patita».

 

[80] L. Monacciani, Azione e legittimazione, Milano, 1951, 398.

 

[81] Cfr. A. Postiglione, Il rapporto diritto-ambiente nel quadro della tutela degli interessi diffusi e collettivi, il ruolo della Corte di Cassazione, in Atti del Convegno promosso dalla sezione di Bologna di Italia Nostra cit., 72.

 

[82] L. Lanfranchi, Le animulae vagulae blandulae cit., XXI ss. e XLIV ss.

 

[83] Cfr. V. Denti, Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, in Strumenti per la tutela degli interessi diffusi della collettività. Atti del Convegno promosso dalla sezione di Bologna di Italia Nostra cit., 44 s. Sono cioè diritti pubblici degli uomini, e non dello Stato (supra, ntt. 72 e 73).

 

[84] Cfr. A. Halfmeier, Popularklagen im Privatrecht. Zugleich ein Beitrag zur Theorie der Verbandsklage, Tübingen, 2006, particolarmente 199 ss. e 357 ss.

 

[85] Ad esempio, se si perde la dimensione collettiva e sociale della lite su un cd. interesse diffuso si continua a pretendere di confinare la controversia nei limiti del risarcimento del danno, mentre invece potrebbero essere concessi strumenti più adeguati, come i rimedi di tipo inibitorio: cfr. sul punto V. Denti, Profili civilistici cit., 48 ss., ma anche M. Zucculini, L’azione inibitoria come strumento di tutela degli interessi diffusi, in Giur. di merito, 1983, IV-V, 1055 ss.

 

[86] Cfr. L. Lanfranchi, Le animulae vagulae blandulae cit., XLVII; cfr. anche A. Carratta, Profili processuali cit., 132 s., il quale nota come, «una volta che si riconosca la configurabilità degli interessi collettivi e diffusi come situazioni giuridiche superindividuali rilevanti per l’ordinamento concorrenti con i diritti soggettivi e gli interessi legittimi dei singoli», non sussistono ragioni plausibili per negare il diritto di agire in giudizio all’appartenente alla categoria alla quale è riferibile l’interesse diffuso.