Università del Piemonte Orientale
BREVI
NOTE SU ‘SOCIETAS CRIMINIS’
Inizio questo mio
contributo con un caveat: Antonio
Guarino, in una nota del suo Diritto Privato Romano, a proposito di ‘societas’ avverte: «‘Socius’ significa
‘compagno’ (colui che si accompagna ad un altro, eventualmente
seguendone le direttive) e ‘societas’
significa compagnia, compartecipazione, cooperazione tra due o più socii, sia per il bene che per il male
(es. C. 9.41[.4] parla di ‘societas
scelerum’). Ciò spiega la vastissima gamma di significati
delle due parole nelle fonti letterarie e giuridiche (per es. socii sono detti spesso i partecipi a
una ‘communio’). Una
ricostruzione della societas
consensuale romana non può essere dunque affidata troppo fiduciosamente
alla terminologia, ma deve, più di ogni altra ricostruzione, mirare all’individuazione
dei fatti caratterizzanti l’istituto dal punto di vista del
diritto»[1].
Ebbene, tenterò
nell’esposizione che segue di affrontare un percorso inverso rispetto a
quello indicato dall’illustre Maestro, pur conscio dei limiti (e dei
pericoli) costituiti dalla «vastissima gamma di significati» della
parola societas nelle fonti
(soprattutto giuridiche). Cercherò cioè di partire da alcuni e
ben specifici «fatti caratterizzanti l’istituto (societas) dal punto di vista del
diritto» – aggiungo privato – per tentare di giustificare un
impiego, per così dire, tecnico di societas
nel campo che noi oggi definiremmo del diritto penale in senso stretto, impiego
qualificato dall’accostamento a tale segno linguistico dei termini crimen o scelus, nelle locuzioni societas
criminis o societas sceleris, la
cui occorrenza è menzionata dallo stesso Guarino per mostrare con un
esempio la varietà di significati di societas.
Tenterò anche di dare una prospettiva comparatistica all’analisi
(in senso diacronico), senza ovviamente pretendere di affermare astoriche
dirette derivazioni dell’esperienza moderna da quella romana.
La locuzione societas criminis è presente in
un solo caso nelle fonti giuridiche romane, e precisamente in una costituzione
di Costantino CT. 9.24.1.pr.[2] del 320 che innova in
tema di ratto delle fanciulle. La sua variante (o il suo omologo) societas sceleris è altrettanto
infrequente: ricorre in un rescritto di Caracalla, C. 9.41.4 [3], forse del 216.
Altrettanto rara è qualche espressione simile, come societas latronum, riscontrabile in CT. 9.31.1 [4],
costituzione occidentale del 409, o delicti
socius che si riscontra in un rescritto di Diocleziano del 293 (C. 9.20.10)[5]. La
famosa Lex quisquis, CT. 9.14.3 [6],
costituzione orientale del 397, al par. 4 [7] impiega societas senza ulteriori qualificazioni
insieme a factiones (quo primum memorati de ineunda factione ac
societate cogitaverint), per indicare accordi (o meglio cogitationes) volti a commettere reati
(nel caso l’uccisione di viri
illustres o di senatores per
ragioni politiche, accordi/cogitationes
come tali assimilati al crimen maiestatis).
Per converso CT. 9.40.18 [8], del 399, costituzione
che verosimilmente abrogò almeno in parte la Lex quisquis, afferma che la societas
(qui intesa come comunanza di vita o vicinanza di rapporti personali) di per
sé sola non costituisce elemento per considerare complici di un crimine
i parenti o gli amici del reo o in genere le persone a lui vicine. Per quanto
riguarda le fonti giurisprudenziali, in tre passi – per quanto mi risulta
- si possono rinvenire espressioni assimilabili a quelle sopra ricordate: si
tratta di D. 27.3.1.14 (Ulp. 36 ad ed.)[9] e di D.
17.2.57 (Ulp. 30 ad Sab.)[10] che
parlano rispettivamente di societas
maleficiorum (al plurale) e di maleficii
societas (al singolare), e di D. 48.5.40(39).4 (Papin. 15 resp.)[11] in cui
si rinviene l’espressione latronum
societas. Qualche altro frammento contiene locuzioni non distanti da queste,
come D. 17.2.3.3 (Paul. 32 ad ed.)[12], D. 46.1.70.5 (Gai 1 de verb. oblig.)[13], D.
18.1.35.2 (Gai 10 ad ed. prov.)[14], D.
48.10.20 (Hermog. 6 iur. epit.)[15].
Torneremo più avanti su questi passi.
Anche nelle fonti
letterarie l’uso di societas
criminis/sceleris o espressioni
similari è piuttosto raro. Un controllo a campione ha trovato riscontri
più o meno diretti, per esempio, in Cicerone (Caec. 32: qui cum reo
criminum societate convinctus est; Verr.:
video enim permulta esse crimina, quorum
tibi societas cum Verre…; Clu.
35: sceleris societate coniuncta),
Tacito (Ann. 14.57: societate scelerum obstrictus),
Quintiliano (12.1.2: facultatem dicendi
sociam scelerum), Ammiano Marcellino (17.12.8: noxarum socii; 26.6.14: societate
coita nocturna).
Non ostante questa
oggettiva marginalità della locuzione e dei suoi omologhi, pare utile
tentare di approfondirne il significato nelle fonti giuridiche, anche nei
contesti d’uso. Ebbene, da tempo i penalisti hanno osservato che
l’espressione societas sceleris
ricorre con una certa frequenza nelle fonti medievali in relazione al tema
della correità[16]. Sembra perciò
che l’endiadi in esame abbia avuto una certa fortuna
nell’esperienza giuridica medievale, e questo può essere un
ulteriore motivo di interesse per sondarne il significato nelle fonti romane.
In questa sede peraltro non si intende indagare il tema della societas criminis anche
nell’età medievale[17]. Si
introdurranno soltanto alcuni elementi di comparazione con dati essenziali del
diritto penale italiano contemporaneo.
Ora, il tema della
‘compartecipazione al reato’ o ‘compartecipazione
criminosa’[18],
vale a dire ciò che il nostro Codice Penale chiama ‘concorso di
persone nel reato’[19], non
è stato oggetto di specifica riflessione o elaborazione nel pensiero
giurisprudenziale romano, né risulta presente in modo approfondito e
consapevole nelle norme autoritative. Le fonti giuridiche prima citate
consentono perciò, pur nel limite derivante dalla loro scarsità e
della loro laconicità, di tentare di rintracciare qualche elemento utile
a individuare le tracce della concezione della correità
nell’esperienza giuridica romana, specificamente tardoantica.
Un altro e parallelo
profilo che mi pare possibile sondare è quello della
confrontabilità di talune delle espressioni segnalate, in particolare societas latronum, con la moderna figura
dell’associazione a delinquere, prevista nel nostro Codice Penale, nella
parte riguardante i delitti ‘contro l’ordine pubblico’,
all’art. 416 C.P.[20] (a cui
la L. 13 settembre 1982 n. 646 ha aggiunto la figura
dell’“associazione di tipo mafioso” con l’inserimento
nel Codice Penale dell’art. 416 bis)[21].
Noto subito che l’art. 416 C.P. prevede un aggravamento della pena,
qualora “gli associati…scorrono in armi le campagne e le pubbliche
vie”, con fattispecie che a prima vista sembra avere connotati di
somiglianza con quanto le fonti antiche tramandano in merito alla repressione
dei latrones.
Per procedere nella
direzione indicata mi sembra utile assumere come punto di partenza il notissimo
principio, enunciato per esempio da Paolo (D. 17.2.3.3 Paul. 32 ad ed.)[22],
secondo cui è nulla (ipso iure
nullius momenti est) la societas costituita
dolo malo aut fraudandi causa. Senza
voler entrare nelle complesse problematiche relative al tema
dell’invalidità negoziale in diritto romano[23],
preciso subito che qui e altrove, a rischio di qualche consapevole
semplificazione (se non imprecisione), si ricorre ai termini
‘nullo/a’ e ‘nullità’, in quanto essi sembrano
alludere al fenomeno della non-validità della società (romana),
richiamando uno schema giuridico confrontabile con il diritto attuale e che ha
più di un elemento in comune con il concetto attuale di
‘nullità’ (in particolare, per quanto qui interessa, del
contratto di società). In proposito mi sembra suggestivo il confronto
con l’ordinamento giuridico italiano che disciplina in modo espresso
soltanto la nullità della società per azioni (art. 2332 C.C.),
mentre non dispone in merito alle società di persone, con la conseguenza
che si applicano a esse i princìpi generali dettati dagli artt. 1418 e
1420 C.C., dai quali, tra l’altro, si desume la nullità della
società che abbia oggetto sociale illecito[24].
Tornando al passo di
Paolo si può notare che esso giustifica la nullità della societas che sia dolo malo aut fraudandi causa coita, in base al principio che la società non
deve essere contraria alla fides bona
e dunque non può basarsi su frode e dolo (fraudi et dolo)[25]. Mi
pare che la pregnanza della bona fides
debba essere letta in duplice prospettiva, interna ed esterna[26]:
-
sul
lato interno necessità che i rapporti tra i soci siano improntati al
principio della buona fede;
-
su
quello esterno, che interessa ai nostri fini, che risponda a buona fede anche
l’oggetto per cui è stata costituita la società[27] e per conseguire il
quale i singoli soci pongono in essere atti a valenza esterna nei confronti di
terzi.
Questo secondo aspetto mi
pare possa ricavarsi anche da altre fonti. Segnalo, in particolare, il passo di
Ulpiano, anch’esso notissimo, D. 17.2.57 Ulp. 30 ad Sab.[28], secondo
cui constat nullam esse societatem,
qualora maleficii…coita sit[29].
Ulpiano in questo passo (sospettato di interpolazione, ma credo a torto,
giacché esso risulta in sintonia con i frammenti sia di Paolo sia dello
stesso Ulpiano citati prima, e anche con D. 46.1.70.5 Gai 1 de verb. oblig.[30], e
inoltre il giurista afferma trattarsi di un principio consolidato) aggiunge che
generaliter…traditur rerum
inhonestarum nullam esse societatem, quasi a voler sottolineare che il
principio di buona fede ha una portata ancora più vasta, così da
render nulla la società avente per oggetto qualsiasi res inhonesta, e non solo nel caso in
cui lo scopo che si sono preposti i soci è porre in essere maleficia in senso, per così
dire, tecnico.
Ora, le affermazioni
giurisprudenziali sopra brevemente richiamate attengono, a mio giudizio, ancora a un piano di significato diverso
e in certa misura prodromico rispetto a quello che si intende qui indagare.
Esse tendono a sottolineare i confini tra liceità e illiceità
della societas, avuto riguardo
all’oggetto sociale concordato dai soci e non si occupano perciò
direttamente della responsabilità dei soci rispetto agli illeciti, in
particolare delicta, da loro pur
singolarmente compiuti.
In tale direzione una
prima traccia utile ai nostri fini può essere riscontrata nel già
citato D. 27.3.1.14 (Ulp. 36 ad ed.)[31] - che
va letto con il precedente par. 13 [32] - che
instaura un parallelo tra la responsabilità dei cotutori per dolo comune
nel fatto dannoso commesso contro il pupillo e l’ipotesi di societas maleficiorum: il dolo comune
esclude che il singolo tutore citato in giudizio possa esercitare rivalsa pro
quota nei confronti dei cotutori, quia
proprii delicti poenam subit; è indegno, precisa il giurista, che
egli ottenga alcunché dagli altri compartecipi al dolo (quae res indignum eum fecit, ut a ceteris
quid consequatur doli participibus): e infatti non v’è
(è nulla la) societas costituita
al fine di commettere maleficia (e
non è giusta alcuna partecipazione al danno derivante da delitto: nec enim ulla societas maleficiorum vel communicatio iusta damni ex maleficio)[33].
Dal parallelo così
instaurato si possono trarre (o forse evocare) alcune caratteristiche generali,
che peraltro rispondono ai princìpi – ben noti - enunciati dalle
fonti in tema di responsabilità da illecito (civile) commesso da
più soggetti[34]:
-
la
responsabilità personale del singolo cotutore/socio;
-
la
indivisibilità della pena (pecuniaria) irrogata;
-
la
eventuale cumulatività soggettiva della pena;
-
la
mancanza di azione di rivalsa (dunque, nel caso della società,
ovviamente dell’actio pro socio),
qualora uno solo sia chiamato a rispondere e condannato alla pena (pecuniaria),
e ciò per nullità del patto sociale nell’un caso, o del
dolo comune per i cotutori.
Siamo, com’è
evidente, nel campo del diritto privato e delle obbligazioni ex delicto, ma i principi enucleati non
sembrano così distanti da quelli che sorreggono la disciplina (attuale)
del concorso di persone nel reato: art. 110 C.P. «Quando più
persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per
questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti»[35].
A questo punto può
essere considerato plausibile che gli impieghi di societas nel campo del diritto criminale, trovino la loro origine
nello schema, privatistico, della societas
‘costituita’ (o forse, meglio, ‘concordata’) al fine di
commettere delicta/maleficia, affetta da nullità.
D’altro canto si ha in questo caso uno spostamento di significato su un
piano di stretta contiguità, in particolare le conseguenze per i socii/complici appaiono in larga parte
analoghe o confrontabili. Vi sono inoltre due ulteriori elementi che possono
forse aver contribuito all’impiego dello schema societario cui,
ovviamente, rinvia il termine societas.
Il primo consiste nella irrilevanza esterna del patto sociale: ciascun socio
contrae nei confronti dei terzi in nome proprio e risponde personalmente nei
loro confronti. Lo schema può essere utilmente trasposto nel campo della
commissione di illeciti pubblici, ove il concorso di persone nel reato non muta
il titolo del reato stesso, non assumendo normalmente rilievo il pactum sceleris che sta alla base della
correità (a eccezione dell’ipotesi specifica, oggi,
dell’associazione a delinquere, o, nell’esperienza antica, forse
della societas latronum)[36].
Il secondo, più in
generale, consiste nella intrinseca semplicità e duttilità della societas, intesa come contratto. Si
tratta di una caratteristica più volte posta in evidenza dalla dottrina
romanistica. Vorrei ricordare l’efficace sintesi che sul punto ha
proposto da ultimo Gianni Santucci: «La mancanza di uno schema rigido di
società aveva dalla sua una notevole flessibilità di impiego, in
quanto capace di soddisfare interessi socio-economici fra loro anche molto
diversi; d’altra parte, però, poteva far sorgere inconvenienti di
identificazione del negozio e dei relativi obblighi rispetto ad istituti affini
in ogni momento della vita del contratto e, soprattutto, in quello della sua
morte»[37].
Questa semplicità e “flessibilità” di impiego può aver favorito l’uso del
segno linguistico societas, e del
corrispondente schema giuridico a cui esso allude, nel campo qui esaminato del
diritto criminale, con quella duplicità anche di significati –
concorso nel reato, reato associativo – di cui s’è
già detto.
Ripercorriamo, alla luce
di quanto finora evidenziato, i pochi esempi che le fonti ci attestano:
-
C. 9.41.4 [38] (pars ex rescripto imp. Antonini – Caracalla – come recita
la rubrica), utilizza la locuzione societas
scelerum, in riferimento al concorso di persone nel reato; la fattispecie
riguarda la chiamata in correità da parte di convicti confessique e la particolare prudenza da adibire in tali
occorrenze;
-
CT.
9.24.1.pr.[39]
(= C. 7.13.3), di Costantino (a. 320), che modifica la precedente normativa in
tema di ratto di vergini[40]. In particolare la
costituzione non solo esclude che l’assenso della puella successivo al rapimento – la responsio[41] –
esenti dalla pena il rapitore che non abbia in precedenza concordato il
fidanzamento con i genitori della fanciulla (come prima accadeva), ma punisce
con la stessa pena prevista per il rapitore[42] anche
la puella che abbia dato il suo
assenso con la responsio: nihil ei [il rapitore] secundum ius vetus prosit puellae
responsio, sed ipsa puella potius societate criminis obligetur. Mi sembra
qui di un certo rilievo che la puella
sia punita come compartecipe del reato di ratto sulla base della semplice
manifestazione di volontà espressa nella responsio; si tratta cioè di un elemento puramente ‘soggettivo’,
appunto il consenso, che forse può spiegare l’accostamento alla societas, che si caratterizza per essere
a sua volta consensu contracta;
-
CT.
9.14.3.4 [43]
(= C. 9.8.5.4), costituzione orientale del 397, la c.d. Lex quisquis: estende il crimen
maiestatis anche nel caso di attentato ai principali collaboratori
dell’imperatore (senatores,
illustres, cuiuslibet postremo qui nobis militat), riferendosi a factiones ac societates i cui aderenti
congiurino contro i predetti; lo scopo della legge è colpire in maniera
indifferenziata e la più ampia possibile i congiurati, la loro cerchia
di conoscenti e i loro stretti congiunti; l’impiego di societas accanto a factio potrebbe forse indicare che la cancelleria intendeva qui
porre l’enfasi sull’accordo criminoso di più compartecipi
attivi nella congiura (i promotori della congiura) rispetto all’adesione
- per così dire passiva - alla factio
già costituita[44];
-
due
anni dopo, nel 399, con CT. 9.40.18 [45] (= C.
9.47.22), la Cancelleria correggerà, in parte, le norme dettate dalla Lex quisquis, proclamando il principio ibi esse poenam, ubi et noxa est; nella
costituzione si usa il termine societas
inteso come ‘comunanza di vita’, ‘unione’ in senso
sociale o familiare, ‘frequentazione’: propinquos notos familiares procul a calumnia submovemus, quos reos
sceleris societas non facit.
Passiamo ora a un breve
richiamo dei casi in cui si riscontra l’uso del sintagma societas latronum:
-
D.
48.5.40(39).4 (Papin. 15 resp.)[46], che
riporta un responso papinianeo secondo cui non v’è l’obbligo
di divorziare dalla moglie, qualora quest’ultima sia stata condannata
all’esilio per aver partecipato a una latronum
societas;
-
CT.
9.31.1 [47], di
Teodosio II, del 409: vieta ai curiali, ai plebei e ai possessores di dare i figli a pastori affinché li nutrano,
mentre lo consente nei confronti di altri abitanti delle campagne (aliis rusticanis)[48];
chi non ottempera sarà considerato come appartenente a una societas latronum; la costituzione
è stata messa in relazione all’abigeato e alla lotta contro il banditismo[49];
l’equiparazione dei pastores ai
latrones è del resto presente
anche in un testo dioclezianeo C. 9.2.11 del 292 [50], che
contiene l’endiadi pastorum
latronumve (ad sequens crimen, id est
pastorum latronumve…).
È verosimile che
il sintagma societas latronum si
riferisca non tanto o non solo all’ipotesi di concorso di persone nel
reato, ma indichi piuttosto una fattispecie criminosa più
circostanziata, caratterizzata da un accordo criminoso permanente volto a
ruberie e spogliazioni, con organizzazione oggi si direbbe, in banda armata[51]. Il
riferimento attuale all’associazione a delinquere può apparire
perciò pertinente. La pericolosità sociale del fenomeno del
banditismo, delle scorrerie dei latrones,
sia per l’età del principato, sia per quella tardoantica, è
ben nota e studiata. Qui rileva, ancora una volta, l’uso del termine societas, che forse può esser
stato suggerito anche da alcune intrinseche caratteristiche del contratto di
società: in particolare la necessità dell’accordo
plurilaterale e della divisione dei rischi e degli utili.
Per abbozzare una
conclusione. Dall’analisi condotta a me pare che le locuzioni societas criminis, societas sceleris e societas
latronum abbiano nei contesti d’uso un’accezione
giuridico-tecnica e non siano da considerarsi espressioni di tipo
retorico/metaforico, giustificate dalla “vastissima gamma” di
significati del termine societas. Pur
impiegate in un linguaggio normativo – in particolare quello tardoantico
– spesso ad alto contenuto emozionale e non scevro da prolissità e
ridondanze anche atecniche, tali espressioni sembrano trovare la loro
giustificazione, per l’appunto giuridica, nella regolamentazione
privatistica della societas,
così come essa appare elaborata e consolidata nella riflessione
giurisprudenziale. Lo sforzo della Cancelleria tardoantica (ma qualche esempio,
come visto, è anteriore) sembra cioè rivolto a esprimere concetti
come quello della ‘compartecipazione criminosa’ o
dell’‘associazione a delinquere’ (o della ‘banda
armata’), ricorrendo a una terminologia che esprime, in modo sintetico ma
preciso, schemi giuridici deducibili dalla riflessione giurisprudenziale, senza
peraltro che la giurisprudenza stessa, per quanto ne sappiamo, li abbia
espressamente e consapevolmente enunciati. Se così è, si
tratterebbe di un lavoro che mantiene un non secondario contatto con le fonti
giurisprudenziali antiche, le conosce, ne riprende e rielabora la terminologia
e di conseguenza gli schemi concettuali, introducendo anche elementi di
novità, per i fini normativi a volta a volta prefissati nelle singole
costituzioni. Persino in una materia come il diritto criminale
l’eredità giurisprudenziale classica non viene dimenticata, ma
viene recepita e come detto rielaborata, con un filo di continuità che
almeno negli esempi qui addotti sembra, a mio giudizio, di non secondaria
rilevanza.
[I contributi della
sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei
promotori del Seminario e dei curatori della sezione, d'intesa con la direzione
di Diritto @ Storia].
[1] A.
Guarino, Diritto privato romano,
12ª ed., Napoli 2001, 916 in nota.
[2] Si
quis nihil cum parentibus puellae ante depectus invitam eam rapuerit vel
volentem abduxerit patrocinium ex eius responsione sperans, quam propter vitium
levitatis et sexus mobilitatem atque consilii a postulationibus et testimoniis
omnibusque rebus iudiciariis antiqui penitus arcuerunt, nihil ei secundum ius
vetus prosit puellae responsio, sed ipsa puella potius societate criminis
obligetur; la costituzione è ripresa dai Giustiniano, solo
parzialmente, con C. 7.13.3, che riproduce con modifiche solo una parte del
par. 4 (CT. 9.24.1.4), pertanto il tratto qui richiamato non è presente
nel Codex giustinianeo.
[3] Sicuti
convictis confessisque ad societatem scelerum vocantibus eos, a quibus
apprehensi custoditive sunt, facile credi non oportet, ita, si evidentibus
rationibus post commissum communiter facinus ad evitandam de se sententiam id
fecisse fuerint probati, publicae vindictae non sunt subtrahendi.
[4] Nemo
curialium plebeiorum possessorumve filios suos nutriendos pastoribus tradat.
Aliis vero rusticanis, ut fieri solet, nutriendos dari non vetamus. Si vero
post istius legis publicationem quisquam nutriendos pastoribus dederit,
societatem latronum videbitur confiteri; la costituzione non è stata
ripresa dai giustinianei.
[5] Comparantem
ab eo, qui abduxit plagio mancipia, si delicti socius non probetur, nullo
crimine teneri convenit.
[6] La costituzione è ripresa, con
marginali modifiche, da C. 9.8.5.
[7] Dotes
donationes, quarumlibet postremo rerum alienationes, quas ex eo tempore
qualibet fraude vel iure factas esse constiterit, quo primum memorati de
ineunda factione ac societate cogitaverint, nullius statuimus esse momenti.
[8] Sancimus, ibi esse poenam, ubi
et noxa est. Propinquos, notos, familiares procul a calumnia submovemus, quos
reos sceleris societas non facit; nec enim adfinitas vel amicitia nefarium
crimen admittunt. Peccata igitur suos teneant auctores nec ulterius
progrediatur metus, quam reperitur delictum. Hoc
singulis quibusque iudicibus intimetur; è interessante e chiarificatrice anche la relativa interpretatio: Poena illum tantum sequatur, qui crimen admisit. Propinqui vero,
adfines vel amici, familiares vel noti, si conscii criminis non sunt, non
teneantur obnoxii. Nemo de propinquitate criminosi aut de amicitiis timeat,
nisi qui scelus admiserit; la costituzione è ripresa, senza
modifiche, da C. 9.47.22.
[9] Plane
si ex dolo communi conventus praestiterit tutor, neque mandandae sunt actiones
neque utilis competit, quia proprii delicti poenam subit: quae res indignum eum
fecit, ut a ceteris quid consequatur doli participibus: nec enim ulla societas
maleficiorum vel communicatio iusta damni ex maleficio est.
[10] Nec
praetermittendum esse Pomponius ait ita demum hoc esse verum, si honestae et
licitae rei societas coita sit: ceterum si maleficii societas coita sit,
constat nullam esse societatem. generaliter enim traditur rerum inhonestarum
nullam esse societatem.
[11] Mulierem
ob latronum societatem exulare iussam citra poenae metum in matrimonio retinere
posse respondi, quia non fuerat adulterii damnata.
[12] Societas
si dolo malo aut fraudandi causa coita sit, ipso iure nullius momenti est, quia
fides bona contraria est fraudi et dolo.
[13] …in
quibus casibus illa ratio impedit fideiussorem obligari, quia scilicet in
nullam rationem adhibetur fideiussor, cum flagitiosae rei societas coita nullam
vim habet.
[14] Veneni
mali quidam putant non contrahi emptionem, quia nec societas aut mandatum
flagitiosae rei ullas vires habet: quae sententia potest sane vera videri de
his quae nullo modo adiectione alterius materiae usu nobis esse possunt: de his
vero quae mixta aliis materiis adeo nocendi naturam deponunt, ut ex his
antidoti et alia quaedam salubria medicamenta conficiantur, aliud dici potest.
[15] Falsi
poena coercentur et qui ad litem instruendam advocatione testibus pecuniam
acceperunt, obligationem pactionem fecerunt, societatem inierunt, ut aliquid
eorum fieret curaverunt.
[16] Così F. Antolisei, Manuale
di diritto penale, I. Parte generale,
16ª ed. (a cura di L. Conti),
Milano 2003, 547; cfr. anche F.
Mantovani, Diritto penale,
Padova 1979, 452 ss., secondo cui «antico quanto il reato, il fenomeno del concorso di persone
è una forma criminale in continua espansione. La complessità
crescente della vita moderna rende, infatti, l’associazione essenziale
non solo nelle attività imprenditoriali lecite, ma anche nelle imprese
criminali…» (ivi, 453):
è suggestivo il confronto tra le espressioni usate da questo A.
‘attività imprenditoriali lecite’, ‘imprese
criminali’, e la terminologia romana oggetto di analisi (tra
l’altro anche F. Mantovani menziona poco prima – ivi, 452 – la societas criminis dei pratici medioevali); in generale, per cenni
storici in tema di partecipazione al reato, v. V. Manzini, Trattato di
diritto penale italiano, 5ª ed. aggiornata (a cura di P. Nuvolone e G.D. Pisapia), II, Torino 1981, 530 ss.
[17] V., in merito, i recenti contributi in AA.VV., Concorso di persone nel reato e pratiche discorsive dei giuristi. Un
contributo interdisciplinare (a cura di R.
Sorice), Bologna 2013.
[18] Cfr., anche per questa terminologia, F. Antolisei, op. loc. cit.
[19] Il Codice Penale italiano nel libro I,
titolo IV, dedica il capo III al concorso di persone nel reato.
[20] ‘Associazione
per delinquere’ è la rubrica dell’articolo 416 C.P., che
recita: “Quando tre o più persone si associano allo scopo di
commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od
organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione
da tre a sette anni.
Per il solo fatto di partecipare
all'associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni.
I capi soggiacciono alla stessa pena
stabilita per i promotori.
Se gli associati scorrono in armi le
campagne o le pubbliche vie si applica la reclusione da cinque a quindici anni.
La pena è aumentata se il numero
degli associati è di dieci o più. (…)”.
[21] “Chiunque fa parte di
un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è
punito con la reclusione da sette a dodici anni.
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione
sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da nove a
quattordici anni.
L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno
parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere
delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il
controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni,
appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per
sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero
esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di
consultazioni elettorali.
Se l'associazione è armata si applica la pena della
reclusione da nove a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e
da dodici a ventiquattro anni nei casi previsti dal secondo comma.
L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno
la disponibilità, per il conseguimento della finalità
dell'associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in
luogo di deposito.
Se le attività economiche di cui gli associati intendono
assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il
prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi
precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la
confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e
delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne
costituiscono l'impiego.
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla
camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del
vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni
di tipo mafioso”. Il testo attuale dell’art. 416 bis è
frutto di successive modifiche introdotte dalla L. 24 luglio 2008 n. 125 (che
ha convertito il D.L. 23 maggio 2008 n. 92) e dalla L. 31 marzo 2010 n. 50 (che
ha convertito il D.L. 4 febbraio 2010 n. 4).
[22] Per il testo v. supra n. 12.
[23] Sul tema sono esemplari le pagine di M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 223 ss., il quale
osserva che «il modo con cui si esprimono i giuristi romani rispetto al
negozio nullo è differente, sotto il profilo concettuale e
terminologico, da quello attualmente corrente. Noi parliamo di ‘negozio
nullo’: affermiamo cioè l’esistenza di qualcosa che poi
qualifichiamo con l’aggettivo nullo, od a cui riferiamo la
nullità, volendo dire con ciò che il negozio non produce i suoi
effetti. I romani, invece, affermavano che non esisteva il negozio…Non si
tratta, in effetti, di due modi diversi di configurare la disciplina della
nullità, ma di due differenti formulazioni in relazione ad una
disciplina sostanzialmente coincidente».
[24] Cfr. in questo senso, per tutti, G. Ferri, Delle società [Commentario del Codice Civile a cura di A. Scialoja e G. Branca], 2ª ed., Bologna – Roma 1968, 50 ss.
È superfluo aggiungere che il regime speciale delle società per
azioni è giustificato dalla particolare rilevanza economico-sociale di
tale tipo di società e dal controllo pubblico che ne contrassegna tutte
le fasi della vita, a partire dalla costituzione, sicché esso non si
estende, in via di interpretazione analogica, alle società di persone:
così G. FERRI, Delle
società, loc. cit.
[25] Così anche, da ultimo, G. Santucci, ‘Fides bona’ e ‘societas’: una riflessione,
in AA.VV., Il ruolo della buona fede
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea [Atti del Convegno
internazionale di studi in onore di Alberto Burdese], a cura di L. Garofalo, Padova 2003, III, 359 ss.,
361 ss., sulla base della collocazione palingenetica del frammento paolino e
con rinvio al dibattito dottrinale sul punto.
[26] Nello stesso senso G. Santucci, ‘Fides bona’ e ‘societas’, cit., 360.
[27] Questo secondo aspetto non sembra
riguardare la c.d. societas omnium
bonorum, per la quale però possono comunque porsi i problemi
relativi al conferimento di acquisti illeciti o l’imputazione alla societas di quanto il singolo socio
abbia pagato a titolo di pena: v., in merito, M.
Talamanca, v. Società (dir. rom.), ED, 42, Milano 1990, 825 s.,
con rinvio a fonti e dottrina.
[28] Per il testo v. supra n. 10. Il brano ulpianeo in questione chiude una serie di
passi dedicati al tema degli acquisti illeciti nell’ambito di una
società lecita: si tratta di: D. 17.2.52.17 (Ulp. 31 ad ed.) [il par. 18, che chiude il
frammento, riguarda la fattispecie inversa dell’imputabilità alla societas omnium bonorum della pena da
illecito subita da un socio]; D. 17.2.53 (Ulp. 30 ad Sab.); D. 17.2.54 (Pompon. 13 ad Sab.); D. 17.2.54 (Paul. 6 ad
Sab.); D. 17.2.55 (Ulp. 30 ad Sab.);
D. 17.2.56 (Paul. 6 ad Sab.) e
appunto D. 17.2.57 (Ulp. 30 ad Sab.),
in cui Ulpiano sottolinea, ricordando adesivamente il parere di Pomponio, che i
princìpi in tema di conferimento dell’acquisto illecito illustrati
nei passi precedenti, (i quali, posta la non obbligatorietà del
conferimento, distinguono se esso sia poi di fatto avvenuto e se gli altri soci
siano o meno in buona fede), si applicano solo se la societas sia stata costituita per un oggetto onesto e lecito (si honestae et licitae rei societas coita
sit), giacché generaliter enim
traditur rerum inhonestarum nullam esse societatem; mi pare peraltro che vi
sia un certo scostamento tra quanto contenuto nei frammenti precedenti, che
riguardano, come detto, la societas
omnium bonorum, e D. 17.2.57, che invece sembra riguardare la societas per così dire ordinaria.
Su queste problematiche v., per tutti, M. TALAMANCA, v. Società, cit., 826 e n. 122.
[29] Cfr. M.
Talamanca, v. Società,
cit., 822 e n. 90, il quale precisa che in questo passo Ulpiano distingue la
‘nullità’ – su questa terminologia e sul correlativo
concetto da essa richiamata si vedano le osservazioni del compianto Maestro
citate supra n. 23 – del contratto di società che
abbia oggetto illecito, «dagli acquisti illeciti nel contesto di una
società lecita» e ricorda altri esempi in cui le fonti impiegano
il termine societas per indicare
‘patti’ o ‘accordi’ illeciti, quali il patto di quota
lite, definito societas futuri emolumenti
da D. 50.13.1.12 Ulp. 8 de omn. trib.,
o il patto di illecita cooperazione (obligationem
pactionem fecerunt, societatem inierunt) nel processo, punita con la poena falsi secondo D. 48.10.20 Hermog.
6 iur. epit. (per il testo v. supra n. 15). Quest’ultimo
frammento costituisce un’ulteriore testimonianza dell’impiego del
termine societas per indicare
l’‘accordo’ criminoso tra due o più soggetti, anche se
l’endiadi societas criminis non
è espressamente richiamata da Ermogeniano.
[31] Per il testo v. supra n. 9.
[32] Et
si forte quis ex facto alterius tutoris condemnatus praestiterit vel ex communi
gestu nec ei mandatae sunt actiones, constitutum est a divo Pio et ab imperatore
nostro et divo patre eius utilem actionem tutori adversus contutorem dandam.
[33] M.
Talamanca, v. Societas, cit.,
822 n. 90, in riferimento al passo di Ulpiano in questione (erroneamente
indicato come D. 27.3.1.4) e a D. 46.1.70.5 (Gai. 1 de verb. obl.), il cui testo è riportato supra n. 13, osserva acutamente che
«la nullità in parola è richiamata a proposito di
fattispecie in cui è difficile riscontrare, in linea di fatto,
l’esistenza di un vincolo sociale», adombrando forse la possibile
rilevanza della categoria dogmatica dell’inesistenza, anziché
quella della nullità, per un più esatto inquadramento di
fattispecie in cui l’accordo, per così dire, sociale ha per
oggetto la commissione di atti penalmente illeciti, siano essi delitti, siano
crimini. Peraltro il compianto Maestro ebbe a sollevare seri dubbi sulla
configurabilità sul piano giuridico della differenza tra nullità
e inesistenza: v., in proposito, M.
Talamanca, Istituzioni, cit.,
226. La laconicità e la vaghezza delle fonti sulla fattispecie qui in
discussione, non sembra consentire, a mio giudizio, di distinguere tra
l’una e l’altra specie di invalidità, né mi pare che
i giuristi romani si siano consapevolmente posti tale problema. Quel che invece
appare rilevante, come diremo meglio nel testo, è l’uso dello
schema giuridico ‘societas’
per descrivere la situazione in cui più soggetti si sono accordati per
commettere un illecito penale (o un crimen)
o lo hanno di fatto commesso. Va infine avvertito che la dottrina non ha
mancato di sollevare forti dubbi sulla genuinità del discorso ulpianeo
nel frammento qui discusso, ipotizzando un ampio rifacimento giustinianeo: v.,
per tutti, P. Voci, La responsabilità dei contutori e
degli amministratori cittadini, Iura, 21 (1970), 103 s.
[34] V., in generale, le pagine ancora oggi
esemplari di V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, 14ª
ed., Napoli 1972, 363 ss.
[35] Cfr. anche l’art. 112 C.P.:
«La pena da infliggere per il reato commesso è aumentata: 1) se il
numero delle persone, che sono concorse nel reato, è di cinque o
più… 2) per chi…ha promosso od organizzato la cooperazione
nel reato, ovvero diretto l’attività delle persone che sono
concorse nel reato medesimo...».
[36] Nel senso che fatti configurabili come
reati a sé stanti, come per esempio l’omicidio, sembrano essere
perseguibili come latrocinium,
qualora commessi in base al pactum
sceleris che dà vita alla banda di latrones; in quest’ottica appare suggestiva l’ipotesi
di B. Santalucia, v. Omicidio (dir. rom.), ED, 29, Milano 1979, 891 n. 53, ora in Studi di diritto penale romano, Roma
1994, 120 n. 53 secondo cui il latrocinium,
inizialmente represso in base alla Lex
Cornelia de sicariis quale fattispecie riconducibile all’ambulare cum telo, sia stato presto
configurato come crimen de vi publica
(cfr. D. 48.6.3 [Marc. 14 inst.]); v.
però le perplessità di S.
Morgese, Taglio di alberi e ‘latrocinium’, SDHI, 49 (1983), 171
s. n. 61.
[37] G.
Santucci, ‘Fides bona’
e ‘societas’, cit., 365 s.
[38] Per il testo v. supra n. 3.
[39] Per il testo v. supra n. 2.
[40] In merito v., per tutti, F. Goria, v. Ratto (dir. rom), ED, 38, Milano 1987, 714 ss., con rinvio a fonti
e precedente dottrina.
[41] Con la responsio la fanciulla rapita dichiarava di aver assentito al
rapimento o, forse, accettava il matrimonio ‘riparatore’: v. F. Goria, op. cit., 715.
[42] La pena capitale; è possibile
però che Costantino avesse previsto in CT. 9.24.1 una pena di morte
qualificata e che i compilatori del teodosiano abbiano omesso la relativa parte
della costituzione per renderla coerente con CT. 9.24.2 del 349 che commina la
pena capitale semplice, espressamente innovando rispetto alla disposizione
precedente: cfr. F. GORIA, op. loc. cit.
[44] Per questa interpretazione della lex quisquis, v., per tutti, M. U. Sperandio, ‘Dolus pro facto’. Alle radici del problema giuridico del
tentativo, Napoli 1998, 201 ss.; L.
Solidoro Maruotti, Profili storici
del delitto politico, Napoli 2002, 60.
[45] Per il testo v. supra n. 8.
[46] Per il testo v. supra n. 11.
[47] Per il testo v. supra n. 4.
[48] Su questa costituzione v. C. Lorenzi, ‘Si quis a sanguine infantem…conparaverit’. Sul commercio di figli nel tardo impero,
Perugia 2003, 54 ss., con ampi richiami a fonti e dottrina.
[49] Cfr. C.
Lorenzi, op. cit., 55 e n.
105.
[50] Si
quis homicidii crimen existimat persequendum, secundum iuris publici formam
debebit eum, qui in primordio homicidii postulaverat reum neque probaverat
ideoque reus absolutus est, praevaricationis arguere: id enim salubriter
statutis principum parentum nostrorum iurisque forma praescriptum est: vel si
id non putaverit agendum, ad sequens crimen, id est pastorum latronumve,
descendere eum coges atque id exsequi iudicio tuo, cum, si quidem id ab
incusato appareat esse commissum, ob ultionem publicam obnoxius legibus fiat.
[51] Va detto che il latrocinium potrebbe essere commesso anche da un singolo latro, anche se l’ipotesi normale
è che i latrones siano
più: in questo senso cfr. la puntuale analisi di S. Morgese, Taglio di
alberi e ‘latrocinium’, cit., 168 ss.; l’espressione societas latronum sembra cogliere
l’appartenenza dei latrones a
una organizzazione in banda, ma sul piano delle conseguenze sanzionatorie tale
circostanza sembra non rilevare: cfr. S.
Morgese, op. cit., 170.