Professore Emerito
nell’Università di Genova
(1927-2012)
COESISTENZA
E CONNESSIONE TRA «IUDICIUM PUBLICUM» E «IUDICIUM PRIVATUM»
Ricerche sul diritto tardo classico
Articolo di FRANCA AVONZO, Assistente
nell’Università di Genova, pubblicato in
Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano,
vol. LIX-LX (1954), 125-198.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Significato
e importanza del praeiudicium come
decisione giudiziaria anteriore. – 3. Inesistenza
di una regola edittale sulla precedenza del iudicium
publicum capitale. – 4. Praeiudicium e rapporti tra azione penale privata e mezzo
pubblico di repressione. – 5. Il iudicium publicum nella cognitio extra ordinem. – 6. Esame dei vari delitti perseguibili con mezzi di
repressione pubblici e privati: I) rapina; II) spoglio violento del possesso;
III) omicidio di uno schiavo; IV) plagio; V) ingiurie. – 7. Riflessi processuali del cumulo dei procedimenti
pubblico e privato. – 8. Connessione e pregiudizialità tra iudicium publicum e iudicium privatum.
9. Conclusioni.
Il problema dei rapporti tra delictum e crimen e la
concorrenza dei mezzi di repressione coi quali essi sono rispettivamente
perseguibili, è tuttora uno dei punti più delicati del diritto penale e processuale
romano. È noto che nell’ordinamento processuale dell’avanzata età repubblicana
si sviluppò in Roma la fondamentale distinzione dei delitti in privati e
pubblici, esistente in germe già nella primitiva legislazione decemvirale. I
delitti privati o delicta, essendo
considerati dal solo punto di vista del torto arrecato da un individuo ad un
altro, erano puniti con una pena pecuniaria perseguibile nelle forme del
processo privato: mentre i delitti pubblici o crimina, e cioè offese fatte non al solo individuò ma alla società
intera, erano repressi dalla Città nella pubblica procedura delle quaestiones. Questa distinzione si
attenuò in seguito, quando l’intervento degli imperatori e della loro
cancelleria mutò variamente la configurazione dei singoli fatti illeciti, fino
a riunirli tutti in un unico sistema di repressione penale a carattere
statuale. Secondo i momenti di questa evoluzione variano i problemi sopra
accennati, nascenti appunto dal fatto che la distinzione dei reati portava al
concorso dell’azione penale privata con il mezzo pubblico di repressione
ogniqualvolta un fatto illecito venisse preso in considerazione
dall’ordinamento penale sia come delictum
che come crimen.
Le maggiori difficoltà per lo studio di questo argomento
sorgono dalla circostanza che i giuristi romani non sentirono la necessità di
impostare il problema su basi sistematiche, distinguendo cioè la questione dei
rapporti tra delitti pubblici e privati, da quella delle relazioni tra i
rispettivi procedimenti: è infatti evidente che questo secondo problema, di
carattere processuale, è strettamente connesso con il primo, che si pone nel
campo del diritto penale sostanziale, ma non è identico. Nella dottrina romana
non si incontra una tale distinzione; e ambedue le questioni si manifestano e
vengono risolte, nelle trattazioni dedicate dagli ultimi giuristi classici ai
singoli delitti, dal punto di vista dell’importanza pregiudiziale che uno dei
processi concorrenti può assumere nei confronti dell’altro.
Si determina dunque un interesse a chiarire, in primo
luogo, i diversi significati che i termini praeiudicium / praeiudicare
assumono nel linguaggio giuridico romano[1].
Nella dottrina romanistica tradizionale, tale indagine è
già stata fatta da due differenti punti di vista: l’argomento è stato studiato,
da un lato, in tema di questioni pregiudiziali[2]; d’altro
lato, nelle trattazioni di diritto penale, ove, nelle parti dedicate al
concorso di più reati, o al concorso d’azioni, è esaminato anche, almeno
parzialmente, il problema dei rapporti tra delitti pubblici e privati e tra i
relativi mezzi di repressione[3]. Anche a
prescindere dalla considerazione che l’epoca cui risalgono queste opere non
consentiva l’impiego del metodo interpolazionistico quale, giunto ad un grado
di perfetto affinamento, noi possiamo usare oggi, bisogna osservare che il loro
carattere, imponendo una sistemazione generale di vari argomenti, non permetteva
una esatta visione dei problemi in essi implicati. Per questa ragione, nella
risalente dottrina non si tengono sufficientemente presenti le varie fasi che
attraversa l’ordinamento processuale romano nel suo sviluppo storico, nelle
quali va inquadrato il diritto penale sostanziale con le sue progressive
modificazioni; e inoltre non si distingue tra concorrenza dei mezzi di repressione pubblici e privati, che si
verifica quando uno stesso fatto viene preso in considerazione nei due sistemi
penali, e connessione tra gli stessi mezzi, quando due processi siano collegati
per una ragione di logica giuridica, pur essendo tra loro diversi e
indipendenti.
L’argomento ha poi avuto una revisione critica nella più
recente dottrina; dapprima De Sarlo, studiando in particolare il concorso tra
azione penale privata e iudicium publicum
legis Corneliae testamentariae, dedica anche una indagine approfondita ai
problemi generali[4]. Non mi sembra però che il
lavoro, che parte da una esatta impostazione critica e sistematica, sia giunto
a risultati accettabili perché, prescindendo dalla determinazione dell’epoca il
problema del concorso, applica a questo regole sorte in età diverse e quindi in
diverso ambiente e con altro significato. Nemmeno mi sembra possibile
accogliere l’opinione espressa da Siber[5], in una
ricerca sotto alcuni aspetti efficace: essa, tutta volta a risolvere le
contrastanti formulazioni dei giureconsulti classici, giunge ad una
sistemazione perfettamente logica della materia; tuttavia non è dimostrata né
dal punto di vista dell’evoluzione storica degli istituti, né attraverso
l’esegesi testuale.
Non credo quindi inutile riesaminare il problema: a tale
scopo, ritengo anzitutto necessario indagare sulla reale esistenza di: una
dsposizione normativa astrattamente intesa a regolare in maniera generale ogni
possibile ipotesi di concorso. È stato infatti affermato che una norma
introdotta dal pretore nel suo editto avrebbe riconosciuto la maggior
importanza del iudicium publicum, fissandone la precedenza in
ogni caso di interferenze tra procedimenti pubblici e privati. Io penso
tuttavia che una norma siffatta, che si suole chiamare regola pregiudiziale,
non abbia mai fatto parte dell’ordinamento processuale romano: esisteva nel
diritto dell’epoca classica il riconoscimento dell’importanza pregiudiziale che
una decisione giudiziaria anteriore può esplicare su un giudizio successivo;
essa però non si sostanziò mai in un comando giuridico inteso a stabilire un
ordine cronologico nei processi concorrenti.
Dopo accertata l’inesistenza della regola
pregiudiziale, solo un esame senza preconcetti della casistica offerta dalle
fonti potrà rivelare quale soluzione il diritto romano adottasse nei singoli
casi.
All’esame delle varie ipotesi di concorso tra
azione penale privata e mezzo pubblico di repressione è però opportuno
premettere un breve cenno sui risultati dell’ultima critica intorno alla,
correlazione tra crimen e iudicium publicum, e sul mutevole significato di questo termine in relazione
al prevalere della procedura straordinaria nella giurisdizione criminale. La
precisazione sarà importante al fine di poter determinare la prassi e le
tendenze del sistema processuale nel momento storico in cui si pone ai
giureconsulti romani il problema del concorso. Sarà quindi possibile accertare
quale fosse l’indirizzo concretamente seguito per regolare la concorrenza tra i
procedimenti pubblico e .privato e, conseguentemente, i rapporti tra i
giudicati.
Infine, esaminerò il regime della connessione tra
iudicium publicum e iudicium privatum: esso è stato solo
incidentalmente studiato in rapporto agli stessi problemi ora accennati. Una
certa esteriore somiglianza unisce infatti i due argomenti, in quanto sia l’una
che l’altra relazione tra i procedimenti pubblici e privati apre il problema
dei rapporti tra giudicato civile e criminale; tuttavia essi sono
essenzialmente diversi nei presupposti e diversamente regolati anche nel
processo romano.
In un primo significato, le espressioni praeiudicium praeiudicare
si trovano usate nel linguaggio romano ad indicare ogni circostanza che
apparentemente e probabilmente influenzerà il giudice nella valutazione dei
fatti sui quali è chiamato a rendere la sentenza. Un gran numero di passi
tratti dalle opere di Cicerone[6], ci
rivela l’importanza che egli attribuiva al praeiudicium
di qualunque genere: d’ordine politico o processuale, tratto da giudizi resi su
controversie altrui come su proprie, da decisioni giudiziarie come anche da
semplici atti e dichiarazioni di volontà o dalla personalità morale di una
persona. In molte sue orazioni Cicerone si sforza in modo particolare di
ovviare all’influenza sfavorevole (praeiudicium)
che precedenti giudiziari o semplici fatti, d’altronde affatto indipendenti dal
processo attualmente discusso, possono esercitare sul giudice, mettendo in
dubbio l’onorabilità del suo cliente e rendendone più facile la condanna[7] Praeiudicium è ogni fatto capace
d’influire su un futuro giudizio; tra questi, naturalmente, la decisione
giudiziaria anteriore[8] occupa
un posto particolare. Cicerone stesso la pone tra i mezzi di prova che elenca
in
De
Orat. II.27.116. tabulae,
testimonia, quaestiones, pacta conventa, leges, senatus consulta, res
iudicatae, decreta, responsa[9],
cose
diverse tra loro per natura giuridica, riunite solo per il valore di
convincimento logico che possono assumere per il giudice nella libera
valutazione che gli è concessa in fatto e in diritto.
Il significato di praeiudicium
come mezzo di prova va inteso secondo l’insegnamento
di Quintiliano V.1.7, dove classifica i praeiudicia
tra le probationes artificiales (rumores, tormenta, tabulae, jusjurandum,
testes), in opposizione alle probationes inartificiales (signa, argomenta, exempla); e in V.2,
dedicato ai praeiudicia in
particolare:
Jam praeiudiciorum vis tribus in
generibus versatur; rebus, quae aliquando ex paribus causis sunt iudicatae,
quae exempla rectius dicuntur, ut de rescissis patrum testamentis, vel contra
filios confirmatis; iudiciis ad ipsam causam pertinentibus: unde etiam nomen
ductum est; qualia in Oppianicum facta dicuntur et a Senatu adversus Milonem;
aut cum de eadem causa pronuntiatum est, ut in reis deportatis et adsertione secunda, et in partibus centumviralibus,
quae in duas hastas divisae sunt.
Prescindiamo dal primo gruppo: exemplum, che possiamo tradurre con giurisprudenza[10], e
dall’ultimo, comprendente ipotesi non perfettamente chiarite[11], e
inoltre di carattere eccezionale; il significato di praeiudicium come abbiamo visto essere inteso da Cicerone è qui
spiegato nel secondo gruppo, dal quale Quintiliano dice esser stato tratto il
nome. Gli esempi sono presi dal Pro Cluentio e dal Pro Milone: nel primo Cicerone inferisce, dal fatto che prima di Oppianico
fossero stati condannati per veneficium
Scamandro e Fabrizio, che anche Oppianico sia stato condannato giustamente; nel
secondo l’oratore si sforza di dimostrare che il Senatus consultum de republica defendenda, che giudicava delitto
contro la repubblica l’uccisione della via Appia, non deve influenzare i
giudici dell’attuale processo contro Milone. Questi esempi, il primo dei quali
si riferisce ad un giudizio anteriore che non è direttamente connesso con
l’attuale processo contro Cluenzio, ma è portato come prova della poca moralità
di questi, dimostrano che il praeiudicium
è inteso come mezzo tecnico di prova, valutabile dal giudice alla stessa
stregua della prova documentale o testimoniale ecc., Quintiliano continua:
V.2.2. Confirmantur praecipue
duobus: auctoritate eorum qui pronuntiaverunt, et
similitudine rerum de quibus quaeritur; refelluntur autem raro per contumeliam
iudicum, nisi forte manifesta in iis culpa erit; vult
enim cognoscentium quisque firmam esse alterius sententiam, et ipse pronuntiaturus,
nec libenter exemplum quod in se fortasse reccidat facit.
Secondo Quintiliano le decisioni anteriori sono
generalmente confermate nel secondo processo per non recar offesa al primo
giudice: ove pertanto questi non abbia manifestamente sbagliato nel suo
giudizio, esso sarà seguito poiché nessun giudice vorrà, rendendo una sentenza
difforme, costituire un precedente che possa da altri essere imitato contro la
sua stessa sentenza, Quintiliano poi continia, dal suo punto di vista di
retore, insegnando ai suoi allievi come possano evitare che il giudice si basi
su precedenti decisioni giudiziarie nel formare il proprio convincimento,
avendo nello stesso tempo cura di non offenderne la suscettibilità: a questo
scopo consiglia di non formulare alcuna critica alla condotta del precedente
processo, o di farla cadere sulla incapacità e trascuratezza delle parti e dei
loro rappresentanti, o sulla attendibilità dei testimoni; di far invece notare
le differenze tra la fattispecie anteriore e l’attuale; e infine,
eventualmente, di ricordare alcuni famosi esempi di errori giudiziali, pregando
il giudice di volersi formare un’opinione personale piuttosto che seguire
quella altrui[12].
Da questi insegnamenti di Quintiliano[13] ai suoi
discepoli, possiamo trarre la conclusione che il giudice può liberamente
servirsi del praeiudicium come mezzo
di prova, mentre spetta all’avvocato il cercare di scartarlo quando esso sia
sfavorevole al suo cliente. Ciò corrisponde pienamente a quanto sappiamo sul
regolamento dell’istruzione probatoria nel processo romano dell’ordo judiciorum:
è noto infatti che mentre la valutazione delle prove è totalmente lasciata
all’arbitrio del giudice, questi non ha invece nessuna possibilità di
iniziativa nell’assunzione di esse, dovendo accontentarsi di quelle che le
parti gli presentano[14]. La
considerazione d’ordine psicologico con la quale Quintiliano spiega la
frequenza dell’impiego di sentenze anteriori come mezzo per formare il proprio
convincimento da parte di un secondo giudice non dovette troppo impressionare i
Romani: il rispetto per la suscettibilità della classe giudicante, sul quale
Quintiliano mette l’accento, doveva infatti essere equilibrato, da un lato, dal
più importante e obbiettivo rispetto per l’interesse generale, e, d’altro lato,
dall’osservazione dei vantaggi che indiscutibilmente ha una costante e concorde
giurisprudenza[15].
Una diversa importanza il praeiudicium assume nel processo romano quando il pretore, per
mezzo della condizione quod praeiudicium
non fiat, stabilisce la successione
di processi connessi. A questo scopo fu introdotto l’editto quilus causis praeiudicium fieri non oportet[16], nel
quale il pretore, in vista dell’importanza che una decisione anteriore può
avere sulla successiva, ordina che la causa ritenuta principale abbia la
precedenza sull’altra. La proibizione di pregiudicare era stabilita a favore
della petizione d’eredità nei confronti della rei vindicatio delle singole cose ereditarie, e della
rivendicazione immobiliare in relazione all’actio
confessoria servitutis. La precedenza
dei processi privilegiati è assicurata con la concessione della
exceptio
quod praeiudicium hereditati non fiat[17] nel primo caso;
exceptio quod praeiudicium
fundo partive non fiat[18] nel
secondo.
A queste ipotesi in cui l’editto prevede la
precedenza obbligatoria di un processo su un altro si suole aggiungerne una
terza: essa sarebbe stabilita a favore del iudicium
publicum nei confronti del iudicium
privatum. Ho già accennato che non mi sembra provata l’esistenza di una
regola pregiudiziale che, introdotta dal pretore nel suo editto già nell’età
repubblicana, accorderebbe al processo criminale questo privilegio.
Prima di esaminare i testi che dovrebbero
dimostrarla, è bene chiarire che la pretesa regola edittale è affermata
limitatamente al processo criminale capitale. Lenel[19] infatti
collega a questa regola
D. 48.1.2 PAULUS 15 ad edictum,
Publicorum iudiciorum quaedam capitalia sunt, quaedam non capitalia. capitalia
sunt, ex quibus poena mors aut exilium est ... non capitalia sunt, ex quibus
pecuniaria [aut in corpus aliqua coercitio] poena est[20].
La distinzione dei iudicia publica in capitalia
/ non
capitalia sarebbe stata introdotta al fine di sapere
se un processo civile dovesse o no essere sospeso fino alla sentenza su un
processo criminale: e tutte le decisioni riportate dalle fonti in questa
materia confermerebbero che esclusivamente le cause capitali godevano di tale
prerogativa.
In realtà, non solo non tutti i processi
privilegiati addotti ad esempio sono effettivamente capitali, ma non abbiamo
nemmeno alcun indizio per ritenere che la loro precedenza fosse attuata in base
ad una regola pregiudiziale stabilita nell’editto. Io ritengo che nel diritto
repubblicano esistesse da un lato il riconoscimento della possibile influenza
della sentenza anteriore su un successivo giudizio connesso con il primo; e
d’altro lato un generico rispetto per la maggior importanza del iudicium publicum[21]. Queste
due considerazioni però non giunsero a determinare l’emanazione di un comando
giuridico inteso a stabilire in ogni caso la precedenza del processo capitale.
Esaminiamo ora i due passi di Cicerone e il fr.
delle Pauli Sententiae, con i quali
si suole dimostrare l’esistenza della cosidetta regola pregiudiziale. Poi
vedremo i testi classici in cui è affermata la precedenza di un iudicium publicum capitale, per indagare
se essa sia effettivamente attuata per obbedire ad un comando pretorio o non
abbia piuttosto, come io ritengo, una più precisa ragione giuridica, essendo in
questi casi il processo privilegiato pregiudiziale al processo privato.
Cic. In Verrem 2.3.152. Postulavit ab L. Metello ut ex edicto suo
iudicium daret in Apronium QUOD PER VIM ET METUM ABSTULISSET … Non impetrat, cum hoc diceret ei
Metellum, praeiudicium se de capite C. Verris per hoc iudicium nolle fieri.
La decisione di Metello di non accordare l’azione
contro Apronio è evidentemente arbitraria, poiché non è possibile credere
all’esistenza di una regola pregiudiziale così illimitata da prevedere la
sospensione di qualunque processo privato fino alla sentenza su un processo
capitale tra due parti differenti; e questo nota anche Cicerone, aggiungendo
che Metello, scartando il pregiudizio che sarebbe derivato a Verre dalla
sentenza dei recuperatori, ha però egli stesso già dato su di lui un più grave
giudizio: infatti ha dimostrato di credere che, con la condanna di Apronio,
anche Verre sarebbe apparso condannato. Ma un’altra ragione induce a ritenere
che la denegatio della formula
Octaviana non possa esser riferita alla pretesa esistenza della regola
pregiudiziale, e cioè il fatto che il crimen
repetundarum non portò mai ad una condanna capitale: ora, mentre si spiega
che Cicerone abbia potuto parlare di praeiudicium
capitis, in quanto nei retori si
incontra spesso la confusione della pena capitale con le pene conseguenti all’interdictio aquae et ignis[22], è
invece difficile credere che Metello si sia espresso così come Cicerone
riferisce[23].
Altrettanto poco probante per l’esistenza della
regola pregiudiziale, è il secondo passo sul quale si appoggia l’opinione
tradizionale:
De
Inventione 2.59. Exemplum autem
translationis in causa positum nobis sit huiusmodi: cum ad vim faciendam quidam
armati venissent, armati contra praesto fuerunt et equiti Romano quidam ex
armatis resistenti gladio manum praecidit. Agit is, cui manus praecisa est,
iniuriarum. Postulat is, quicum agitur, a praetore exceptionem[24]: "EXTRA QUAM IN REUM CAPITIS PRAEIUDICIUM
FIAT". [60] Hic is, qui agit, iudicium purum postulat;
ille, quicum agitur, exceptionem addi ait oportere. Quaestio est: excipiundum
sit an non? Ratio: "Non enim oportet in recuperatorio iudicio eius
maleficii, de quo inter sicarios quaeritur, praeiudicium fieri". Infirmatio rationis: "Eiusmodi sunt iniuriae, ut de
iis indignum sit non primo quoque tempore iudicari". Iudicatio: atrocitas
iniuriarum satisne causae sit, quare, dum de ea iudicatur, de aliquo maiore
maleficio, de quo iudicium conparatum sit, praeiudicetur?
Torneremo in seguito sulla fattispecie ipotizzata
da Cicerone; per il momento è sufficiente osservare che l’oratore in questa
parte dell’opera si occupa della translatio
retorica[25] e ne dà nel cap. 20 un
esempio scolastico: exemplum
translationis in causa. Non decide però se il magistrato debba nel caso
previsto concedere l’exceptio, ma si
domanda se il convenuto possa, e con quale argomenti, postularla. Da questa
circostanza la dottrina ha già dedotto che l’eccezione menzionata non fosse
espressamente prevista nell’editto[26];
inoltre la discussione fatta da Cicerone sull’opportunità di sospendere o no il
processo privato in considerazione della gravità dell’ingiuria sofferta, mi
sembra dimostrare che l’idea pregiudiziale era molto imprecisa e che non
esisteva un criterio tecnicamente certo e delimitato, in base al quale attuare
la precedenza del processo capitale. I due passi considerati non danno alcuna
indicazione che valga a chiarire il fondamento della regola pregiudiziale
nell’età ciceroniana, e non si può pertanto da essi argomentare l’esistenza e i
limiti della regola stessa in età posteriore.
Un’altra massima comunemente riportata alla
nostra materia è
Paul. Sent.
I.12.8(9) = D. 5.1.54. Per minorem causam maiori [cognitioni]
praeiudicium fieri non oportet [: maior enim quaestio minorem
causam ad se trahit][27].
Si è voluto vedere in questo frammento «eine wohl in den
Anfangen schon zu Ciceros Zeit geltende ... , alte
Praejudizialregel»[28];
d’altro lato, si riconosce che la contrapposizione causa maior causa minor è
troppo indefinita per essere utilizzata come criterio discretivo dei processi
che devono essere sospesi in ragione della regola stessa: e si conclude quindi
negativamente sul valore del passo[29]. Questa
conclusione è giusta, nel senso che esso non ci illumina sul regime seguito in
epoca classica nel caso di interferenze tra processi pubblici e privati; mi
sembra però che si possa fare un’osservazione sul valore che esso assume
nell’epoca di composizione delle Sententiae[30]. Lo
studioso compilatore dell’opera segue in questa parte l’ordine dell’editto[31]: ora,
per quanto nel titolo edittale dedicato alle questioni pregiudiziali non
trovasse posto l’exceptio extra quam in
reum capitis praeiudicium fiat, tuttavia ad esso può essere riferita la
prima frase del frammento che, sebbene indeterminata, aveva forse un valore
indicativo dei rapporti tra quei processi che abbiamo visto esser privilegiati,
e quelli sospesi per far luogo alla precedenza dei primi. Constatiamo poi che
nel titolo delle Sententiae (I.XII De iudiciis] corrispondente a quello
edittale, si trovano massime relative ai processi criminali: da questa
circostanza e tenendo presente il fatto che nell’età postclassica il regime
della connessione per pregiudizialità si viene modificando e precisando, mi
sembra possibile dedurre che l’autore dell’opera abbia voluto riferirsi alla
precedenza accordata al processo criminale, commentandola secondo i nuovi
concetti: la seconda frase infatti esprime tendenze certamente esistenti
nell’età dioclezianea[32].
Nel Digesto, un solo frammento è, secondo il
piano dell’editto ricostruito, sicuramente da riportare al titolo relativo ai praeiudicia:
D. 5.3.5.1 ULPIANUS 15 ad edictum.
Divus Hadrianus
Trebio Sergiano
rescripsit, ut Aelius Asiaticus
daret satis de hereditate
quae ab eo petitur, et sic falsum dicat: hoc
ideo, quia sustinetur hereditatis petitionis iudicium, donec falsi causa
agatur.
La petitio
hereditatis, pur essendo essa stessa privilegiata nei confronti della rei vindicatio delle singole parti
dell’eredità, deve esser sospesa fino al termine del processo criminale di
falso, qualora il convenuto con la petitio
dichiari di voler intentare l’accusatio
falsi. egli dovrà però, secondo la decisione di Adriano, prestare una
cauzione. Lenel[33] afferma che questo fr,
doveva appartenere ad una spiegazione della precedenza accordata ai iudicia capitalia. osservo però che la
regola non sarebbe assoluta nemmeno in questo caso, poiché Ulpiano stesso in
una ipotesi analoga decide che se alcuno pretenda un legato da un testamento
che si dica esser falso, il processo con cui si reclama il legato può essere
istruito prima della sentenza sul processo di falso. Questo avrà la precedenza
solo nel caso in cui sia lo stesso legatario ad intentarlo[34].
D. 40.12.7.4 ULPIANUS 54 ad edictum. Sunt et aliae causae, ex
quibus in libertatem proclamatio denegatur, veluti si quis ex eo testamento
liber esse dicatur, quod testamentum aperiri praetor vetat, quia testator a
familia necatus esse dicatur: [cum enim in eo sit iste, ut supplicio forte sit
adficiendus, non debet liberale iudicium ei concedi] sed et si data fuerit,
[quia dubitatur, utrum nocens sit an innocens,] differtur liberale iudicium,
donec constet de morte eius, qui necatus est [: apparebit enim, utrum supplicio
adficiendus sit, an non][35].
Allo schiavo che dichiari d’essere stato
manomesso per testamento, il liberale
iudicium non deve esser concesso, o se già lo sia stato deve esser sospeso,
qualora si sospetti che il testatore sia stato assassinato dalla sua familia: poiché in questo caso tutti gli
schiavi, anche quelli eventualmente manomessi nel testamento, devono essere
sottoposti alla tortura secondo le disposizioni del senatoconsulto Silaniano[36], la causa liberalis dovrà essere sospesa
fino alla decisione sul processo criminale. Anche in questa ipotesi, il
processo privato non è sospeso per dar la precedenza al iudicium publicum in quanto tale, in omaggio ad una antica regola
sulla proibizione di recar pregiudizio al iudicium
capitale[37]. la precedenza del processo
d’omicidio, come quella del processo di falso in ULP. D. 5.3.5.1 si basa invece
su una ragione di logica giuridica, essendo qui il giudicato criminale
condizionale rispettivamente per la concessione della libertà allo schiavo, e
per la rivendicazione dell’eredità.
Troppo poco quindi sappiamo sulla regola
pregiudiziale per trarre delle conclusioni. Forse essa esistette nel diritto
repubblicano, con lo scopo di impedire che la sentenza resa in una causa
privata potesse costituire un mezzo di prova per il processo pubblico capitale;
d’altronde il riconoscimento della forza probatoria del praeiudicium in Quintiliano dimostra che ciò non avvenne in ogni
caso: e infatti tutte le decisioni che ci sono conservate nel Corpus Iuris in materia di successione
di cause affermano la precedenza del processo capitale solo quando esso sia
pregiudiziale alla causa privata, quando cioè in esso debba essere risolta una
questione che, per ragioni d’ordine logico e giuridico, si presenti come
presupposto del fatto costitutivo del
diritto che si fa valere con l’azione privata. Che i giuristi romani non
abbiano impostato il problema, teoricamente, dal punto di vista della
pregiudizialità della questione condizionante sulla questione condizionata non
può recare stupore, stante la loro abitudine alla concretezza, né farci
dubitare che tale concezione fosse tuttavia alla base delle singole decisioni
con cui giuristi ed imperatori regolarono la successione dei processi connessi.
La teoria della precedenza accordata nell’editto
al iudicium publicum capitale in ogni
caso di interferenze con un iudicium
privatum, affermata in generale sulla base dei testi esaminati, viene poi
adoperata per chiarire il regolamento del concorso tra azione penale privata e
mezzo pubblico di repressione. Abbiamo già accennato che la distinzione romana
dei delitti in pubblici e privati conduce alla concorrenza dei due mezzi di
repressione ogni volta che un fatto illecito venga preso in considerazione sia
come delictum, punibile nelle forme
del processo’privato, che come crimen,
represso secondo la pubblica procedura delle quaestiones[38]. Il
concorso della repressione privata con la repressione statuale è studiato dalla
dottrina romanistica con una singolare confusione di dogmi repubblicani
classici e postclassici: così si cerca di comprendere il regime classico
risalendo all’antica regola pregiudiziale, e questa poi si vuoi conciliare con
una costituzione di Valente, Graziano e Valentiniano (a. 378):
Th. 9.20.1 pr. = C. 1.9.31.1
pr. A plerisque prudentium generaliter definitum est, quotiens de re familiari
civilis et criminalis competit actio, utraqne licere expediri, sive prius
criminalis sive civilis actio moveatur[39], nec si
civiliter fuerit actum, criminalem posse consumi, et similiter e contrario[40].
Da questa costituzione, interpretata senza le
aggiunte giustinianee, e basandosi sull’accenno iniziale ai plerique prudentium, si sono voluti
ricostruire i princìpi fissati dalla giurisprudenza classica: il concorso
sarebbe cumulativo nel caso che l’azione penale privata sia stata esperita
prima del iudicium publicum, mentre
la decisione resa anteriormente su questo avrebbe effetto esclusorio nei
confronti dell’azione privata. Tale regime troverebbe riscontro nei frammenti
veramente classici che ci sono giunti; né sarebbe in contrasto con la
prevalenza anticamente[41]
stabilita a favore del iudicium publicum:
essa «emerge effettivamente dal sistema classico in materia di concorso tra
azione penale privata e mezzo di repressione pubblica» perché «mentre esperita
l’azione privata è ancora possibile la repressione pubblica, non è vera la
reciproca»[42].
Vedremo in seguito quale significato assuma
l’accenno ai plerique prudentium in
C.Th. 9.20.1; ma bisogna intanto osservare, in primo luogo, che la precedenza
stabilita a favore del iudicium publicum non è basata su una pretesa
prevalenza del processo criminale, sia essa intesa come maggior importanza
della repressione statuale[43],
oppure, come altri ha voluto, come «ein Schutz des Beklagten»[44]. In
epoca classica, essa si riferisce all’ordine dei processi solo quando questi si
trovino tra loro in rapporto di connessione e non di concorrenza: il concorso
di un’azione penale privata con il mezzo pubblico di repressione non poteva
infatti essere considerato da una regola pregiudiziale stabilita dall’editto,
perché essendo l’illecito privato e quello pubblico sempre assolutamente
indipendenti tra loro, i rispettivi mezzi di repressione posti eventualmente a
tutela di uno stesso atto delittuoso erano cumulabi. La causa privata non era
considerata concorrente con quella pubblica: in senso tecnico si può infatti
parlare di concorso solo quando diversi mezzi di repressione esistenti in
ragione di uno stesso fatto abbiano la stessa funzione: ora ciò non può
ovviamente dirsi dei mezzi con i quali erano rispettivamente perseguibili
l’illecito privato e quello pubblico. Il fondamento giuridico delle due forme
di repressione non era uguale perché, pur tendendo ambedue alla punizione del
colpevole, la persecuzione privata conduceva al pagamento di una pena
pecuniaria a guisa di vendetta, la persecuzione statuale invece ad una pena
pubblica prevista dalla legge. Pertanto, quando il fatto illecito presentasse
una diversità di aspetti giuridici per cui veniva preso in considerazione, con
un diverso titolo, sia dal diritto penale privato che da quello pubblico, i
diversi mezzi di repressione previsti dall’ordinamento giuridico romano si
ponevano come coesistenti e non come concorrenti. Non si può quindi affermare
che la persecuzione pubblica avesse un effetto per così dire assorbente
rispetto all’azione privata[45], nel
senso cioè che questa risultasse esclusa da quella. Io ritengo quindi che alla
distinzione tra delictum e crimen corrisponda la coesistenza dei
rispettivi mezzi di repressione: ed era precisamente dalla possibilità di far
valere ambedue questi mezzi che sorgeva il problema dei rapporti tra i diversi
procedimenti, poiché è evidente che il primo giudicato veniva ad esplicare
un’influenza (pratica ma non giuridica, in ragione della diversità di struttura
e di funzione tra processo pubblico e processo privato) sul secondo giudizio.
Abbiamo d’altronde già visto che tale possibile influenza non fu ragione capace
di determinare i giuristi romani a proibire che il praeiudicium si verificasse, o fosse utilizzato dal secondo giudice
come mezzo per formarsi la propria opinione.
Se queste considerazioni generali sono esatte,
bisogna tuttavia interpretare alcuni frammenti giurisprudenziali sui quali la
dottrina tradizionale si basa per sostenere l’effetto esclusorio della sentenza
criminale nei confronti dell’azione penale privata: le fonti infatti ci
presentano con una certa frequenza, nella tarda epoca classica, ipotesi di delictum e crimen esistenti in ragione di uno stesso fatto illecito, e
troviamo le espressioni praeiudicium praeiudicare
usate in formule contrastanti: necque
debet publico iudicio privata actione praeiudicari[46]; nec enim prohibendus est privato agere
iudicio, quod publico iudicio praeiudicatur[47]; interdum evenit ut praeiudicium per privatum
iudicium iudicio publico fiat[48]. Poiché
io non credo che essi possano essere accordati con la pretesa antica prevalenza
del processo capitale, bisogna accertare quale sia il significato di praeiudicium quando, come in questi
frammenti, esso è riferito alla coesistenza di mezzi di repressione pubblici e
privati.
È opportuno premettere qualche osservazione
sull’evoluzione storica che si compie nell’età dei Severi, maturandosi il
passaggio dalla procedura penale repubblicana, regolata definitivamente da
Augusto con la lex Julia iudiciorum
publicorum, alle nuove forme processuali della cognitio extra ordinem, È noto che dopo l’emanazione di questa
legge, il diritto criminale legittimo, elaborato dalla giurisprudenza negli
ultimi secoli della repubblica, non si evolve più; per le nuove fattispecie
assoggettate a repressione non vengono create nuove quaestiones, ma vi provvede il magistrato con i suoi poteri di coercitio. Tuttavia, il procedimento
usato in questi casi nella prima età imperiale non è sempre lo stesso: e mentre
da un lato si creano autonomi crimina
extraordinaria, raggruppando fatti particolari che hanno un elemento
comune, d’altro lato si allarga la sfera di applicazione di una legge,
istitutiva di un iudicium publicum,
per ricondurre sotto l’orbita di essa le nuove situazioni ritenute meritevoli
di protezione statuale[49].
Bisogna inoltre distinguere a seconda che la subsunzione di nuovi fatti
nell’ambito di questa o quella legge sia avvenuta ad opera di senatoconsulti, o
dell’interpretazione giurisprudenziali, o di rescritti imperiali: non si può
infatti affermare che le varie fonti di produzione giuridica operassero nello
stesso modo per quel che riguarda l’ampliamento dei fatti punibili. La
riconduzione di nuove ipotesi al principio sistematico su cui è basato un reato
già esistente avvenne in modo particolare all’inizio dell’età imperiale, in cui
senato ed imperatori operarono sullo stesso piano; in prosieguo di tempo,
mentre andava esaurendosi l’attività normativa del Senato acquistava autonomia
e maggior importanza l’attività della cancelleria imperiale, sia creando nuove
fattispecie punibili senza alcun richiamo ad una lex precedente[50], come
dapprima era consuetudine, sia trasformando in crimina extraordinaria fatti illeciti in un primo tempo puniti solo
attraverso il diritto penale privato[51], sia
infine innovando profondamente nel sistema delle pene[52].
Quindi, piuttosto che separare nettamente il diritto criminale delle quaestiones dal successivo sviluppo di
esso, affermando che «tutti i nuovi istituti (di diritto ... penale pubblico)
entrati da quel momento nell’ordinamento giuridico romano non ebbero
protezione...attraverso quaestiones,
ma soltanto secondo la cognitio extra
ordinem»[53], bisogna ritenere invece
che «ordo iudiciorum e cognitio coesistono, si integrano, talora
si intersecano, l’uno indebolendosi e gradatamente svuotandosi, l’altro
rinforzandosi ed arricchendosi di sempre nuovo contenuto»[54].
In quale rapporto si trovavano le nuove ipotesi
punibili, alle quali fossero state estese le pene previste da una legge, con il
iudicium publicum creato dalla legge
stessa? Nella tarda epoca classica si distingue, nei processi criminali, tra iudicia publica e extraordinaria:
D. 48.1.1 MACER. I
de publicis iudiciis. Non omnia
iudicia, in quibus crimen vertitur, et publica sunt, sed ea tantum, quae ex
legibus iudiciorum publicorum veniunt, ut Julia maiestatis, Julia de
adulteriis, Comelia de sicariis et veneficiis, Pompeia parricidi, Julia
peculatus, Comelia de testamentis, Julia de vi privata, Julia de vi publica,
Julia ambitus, Julia repetundarum, Julia de annona[55].
L’espressione iudicium
publicum che stava dapprima ad indicare i processi promossi con accusa
pubblica e repressi da una quaestio
con una pena pubblica, ora indica invece i processi che si riferiscono a delitti
configurati dalle leges iudiciorum
publicorum. Perché si è conservata questa qualifica, basata su un criterio
affatto esteriore, quando lo stesso Macro parla in generale di cognoscere extra ordinem de iudiciis
piublicis[56], e Paolo avverte che ordo exercendorum iudiciorum <publicorum> capitalium
in usu esse desiit[57]? La
ragione si trova nel fatto che la cognitio
rispettò, sostituendosi alle quaestiones,
le regole che erano proprie di queste, tranne naturalmente quelle relative alle
giurie[58].
Infatti, a prescindere dai casi in cui venissero creati nuovi crimini, rispetto
ai quali il potere d’iniziativa del magistrato poteva esplicarsi completamente,
la cognitio extra ordinem si sostituì gradualmente a tutti i processi pubblici,
sia nella repressione di delitti già previsti da leggi, che nell’ipotesi in cui
la sfera d’applicazione di una legge venisse allargata, con la riconduzione di
nuovi casi allo stesso principio informatore di un delitto già esistente:
questi anzi nascevano spesso in occasione di cognitiones del tribunale imperiale[59]. In
questi casi, pur restando nel magistrato quel potere personale
d’investigazione, proprio al magistrato quanto alieno alle giurie, vennero
recepite in quel processo molte delle regole proprie di queste: e in primo
luogo il principio accusatorio non scomparve insieme alle quaestiones, ma accolto nella cognitio
si confuse progressivamente con il principio della libera inquisitio magistratuale, giungendo i due principi ad assimilarsi
in un unico processo tra la fine del II e l’inizio del III secolo quando,
scomparse le quaestiones[60], la cognitio assorbì completamente il iudicium publicum. Questo termine
continua ancora a designare i processi criminali previsti dalle leges iudiciorum publicorum, ma benché
essi non si svolgano più dinanzi alle giurie essendosi loro sostituita la cognitio, quest’ultima, riferita a tali
processi è tuttavia informata al principio accusatorio. Esso viene d’altronde
ristretto, non solo nel senso che la posizione degli accusatori è limitata
nella cognitio dai più larghi poteri
del magistrato, ma anche perché in molti casi il diritto di accusare viene in
questo processo limitato all’offeso,e ai suoi prossimi parenti. Così, mentre da
un lato l’accusa pubblica non è più ritenuta.necessaria per i nuovi crimina, sorti durante il Principato,
d’altro lato si riconosce privilegiata la posizione di colui che persegue con
l’accusa suas suorumque iniurias[61].
Concludendo, si può dire che l’antitesi iudicium publicum /
cognitio extra ordinem che è alla base
delle elaborazioni sistematiche del diritto criminale fatte dai giureconsulti
classici[62], non sempre corrisponde
all’altra accusatio – inquisitio: sotto il profilo processuale
iudicium publicum è il processo che
si svolge con caratteri di unilateralità[63], e su
iniziativa di un privato, che può essere secondoi casi, una determinata persona
o qualsiasi cittadino romano. Il fatto che un dato crimen sia previsto da una lex
o posteriormente ad essa, che represso da una quaestio o dal tribunale imperiale o senatorio, che l’iniziativa
processuale sia pubblica o limitata all’offeso, non significa necessariamente
che esso dia o non dia luogo ad un iudicium
publicum[64].
Le precedenti osservazioni sono importanti poiché
nei passi dedicati dai giureconsulti classici ai rapporti tra i diversi
procedimenti penali, la menzione del praeiudicium
è sempre in relazione il iudicium
publicum[65]: è quindi opportuno aver
presente il mutevole significato di questo termine nel sistema processuale
romano per poter studiare il problema della coesistenza di iudicium privatum e iudicium
publicum, senza tralasciare di inquadrarlo nelle tendenze del momento
storico in cui esso si pone. Alla luce di queste osservazioni, possiamo ora
esaminare partitamente le singole ipotesi in cui le fonti attestano che uno
stesso fatto illecito fu considerato come delictum
e come crimen, con la conseguenza di
mezzi proce suali privati e pubblici previsti per reprimerlo.
I) L’ipotesi in cui il problema è maggiormente
complicato l’abbondanza dei mezzi a disposizione dell’offeso è quella di
danneggiamento o furto commesso con violenza. Essa era contemplata nel diritto
dell’età repubblicana da un editto emanato dal pretore regrino M, Lucullus
Licinianus[66], che concedeva un’azione
contro chi saccheggiasse beni altrui con bande armate o con una folla anche
senz’armi: hominibus armatis coactisve[67]. La
rapina, e cioè il furto commesso con violenza da un solo, non sorse come
delitto a sé, ma fu originariamente considerata come un caso di furto. È
difficile stabilire se l’azione pretoria contro il damnum datum hominibus armatis coactisve sia stata ad essa estesa
ad opera della giurisprudenza, oppure se un secondo editto de bonis vi raptis abbia seguito quello di Lucullo[68];
ambedue le formule furono certamente provocate dal desiderio di reprimere più
severamente quei fenomeni di sopraffazione rivoluzionaria che si verificarono
ovunque in Italia nell’epoca tra la dittatura di Siila e la congiura di
Catilina[69] e vennero nell’uso comune
unificate sotto il nome di actio vi
bonorum raptorum[70]. È
quindi opportuno tener separate le diverse ipotesi per individuare i casi in
cui si ebbe la possibilità che le menzionate azioni coesistessero con il iudicium publicum ex lege Julia de vi (publica seu privata).
Il concetto di vis, intesa come esercizio di una costrizione atta a ridurre allo stato
passivo colui che ne è oggetto, è alla base dell’azione pretoria de bonis vi raptis come del iudicium publicum creato dalla lex Julia[71]: di qui
la possibilità, almeno in teoria, che il rapinatore venga perseguito sia con
l’una che con l’altro. D’altronde non ogni violenza è repressa pubblicamente
come vis publica o’ privata: ma talune ipotesi vengono
tutelate, per tutta la durata dell’età classica, solo dal diritto penale
privato[72]. Una di
queste è precisamente il furto compiuto con la violenza ma senz’armi: esso fu
attratto nella sfera del crimen vis
solo da norme posteriori[73]. A
discussioni da luogo l’origine della repressione criminale della rapina a mano
armata: si soleva ritenere che essa fosse prevista dalla lex Julia de vi privata, ma ciò è stato recentemente posto in
dubbio dal Niedermeyer, il quale afferma «dass nicht nur der Raub, der nicht
mit Waffengewalt ausgeführt ist, nicht unter die lex Julia de vi privata fällt, sondern dass der Raub überhaupt
grundsätzlich durch die extraordinaria
cognitio gebüsst wurde»[74],
L’autore osserva che non vi sono passi genuini dai quali appaia la possibilità
di reprimere criminalmente la rapina sulla base della lex Julia[75], mentre
in qualche testo si parla, in connessione con la rapina, di crimen vis o anche semplicemente di crimen, senza riferimento alla lex Julia[76]. Su
questi passi Niedermeyer si basa per affermare l’esistenza, accanto alla lex Julia de vi privata, di un crimen extraordinarium costruito allo
scopo di colmare le lacune della legge. Contro questa concezione reagisce
Lauria[77],
riaffermando la dottrina tradizionale secondo la quale la rapina era
originariamente contemplata nel dispositivo della lex Julia[78].
In realtà, non abbiamo alcuna prova
dell’esistenza di un crimen
extraordinarium vis indipendente dalla lex
Julia in quanto inadeguato a dimostrarla è il fatto che Macro ed Ulpiano[79]
menzionino in questa materia un crimen
senza qualificarlo, mentre nulla certamente può trarsi dalle costituzioni di
Diocleziano e posteriori, addotte da Niedermeyer, al fine di distinguere le
fattispecie regolate dalla cognitio
da quelle previste dalla legge. Inoltre, non appare convincente la
dimostrazione delle molte interpolazioni che egli è costretto a supporre.
Tuttavia, ciò non significa che la rapina a mano armata sia necessariamente da
riportare alla lex Julia: abbiamo
visto infatti come operasse la cancelleria imperiale nell’allargare la sfera
d’applicazione di una legge, e come non debbano a tali nuove fattispecie esser
negate le caratteristiche del iudicium
publicum. Ora, la repressione criminale della rapina è attestata in D, 48.
6. 3. 2, della cui sostanziale genuinità non si può dubitare, con un generico
riferimento alla lex Julia de vi publica[80].
D. 48.6.3.2.3 MARCIANUS 14 institutionum. In eadem causa sunt, qui
pessimo exemplo convocata seditione villas expugnaverint et cum telis et armis
bona rapuerint. Item tenetur, qui ex incendio rapuerit aliquid praeter
materiam.
È noto[81] che le
espressioni hac lege (oppure item) tenetur in eadem causa sunt huius
legis poena punitur non introducono le disposizioni originarie di una
legge: l’unica locuzione tecnica per indicare queste è lege ... cavetur. Esse sono invece usate per raggruppare
sistematicamente intorno ad una legge tutte le fattispecie che ad essa vengono
ricondotte per via d’elaborazione giurisprudenziale o per opera di
senatoconsulti o attraverso l’intervento diretto della cancelleria imperiale.
Questo metodo d’esposizione, spesso seguito da Marciano nelle sue Istituzioni[82], mentre
conferma la supposizione che la rapina non rientrasse originariamente nella lex Julia, c’impedisce però di sapere
l’epoca in cui divenne possibile la sua repressione criminale, in quanto non ci
resta che una concisa enunciazione di fattispecie punibili, elencate l’una dopo
l’altra senza alcun riferimento alla fonte ad opera della quale esse furono
originariamente previste. Si può quindi soltanto supporre, argomentando dalle
testimonianze che altri giureconsulti ci hanno tramandato in materia di
repressione criminale della violenza, che anche per quel che riguarda la rapina
a mano armata l’attività imperiale abbia incominciato ad esplicarsi nel II
secolo[83].
Nemmeno il danno arrecato da uomini armati o da
una folla anche senz’armi, sanzionato dall’azione pretoria creata da Lucullo,
dovette essere previsto dalla lex Julia
de vi: non prova, per le ragioni testé accennate,
D. 48.6.10.1 ULPIANUS
68 ad edictum = D. 48.7.2 SCAEVOLA 4 regularum. Hac lege tenetur et qui
convooatis hominibus vim fecerit, quo quis verberetur et pulsetur, neque homo
occisus sit.
Neppure si può addurre
D. 48.2.15 ULPIANUS 56 ad
edictum. In eum, cuius dolo malo hominibus coactis <armatisve>[84] damni
quid datum esse dicatur, non debet cogi actor omissa actione civili crimen
intendere.
Infatti è possibile che, estendendo al danno hominibus armatis coactisve datum la
pena della legge Julia, l’accusa relativa venisse tuttavia concessa all’offeso[85]. Una
conferma del fatto che l’illecito penalmente represso da Lucullo non fu in
origine sanzionato anche dalla lex Julia
si ha considerando che la clausola dell’editto contro il danno non previde la
violenza come elemento del delitto stesso, in quanto si rifaceva al damnum iniuria datum della legge
Aquilia, aggravato con gli elementi del dolo e dell’attruppamento[86]: la
violenza fu invece ad esso riferita solo da Giustiniano, che sviluppando nuove
concezioni sorte nelle scuole bizantine, unificò le due clausole dell’editto,
sopprimendo ogni elemento di diversificazione tra di esse[87].
Il problema dei rapporti tra l’azione pretoria
contro la rapina o il danno e il iudicium
publicum ex lege Julia de vi si pone quindi al più presto nel II secolo.
Non v’è dubbio che fino a quando l’accusatio
vis fu portata dinanzi alla quaestio
ex lege Julia, qualora essa tendesse a reprimere un fatto considerato
punibile anche a norma del diritto penale privato, lo stesso fatto avrebbe
potuto essere perseguito anche secondo quest’ultimo: il pretore cioè avrebbe
accordato all’offeso la formula prevista dall’editto, senza preoccuparsi della
successione cronologica dei due giudizi[88]. Ora, è
possibile che, essendo la rapina assoggettata alla pubblica persecuzione solo
in un secondo tempo, e dovendo quindi il crimine esser giudicato dal
funzionario imperiale anziché dalla giuria, i rapporti tra delictum e crimen fossero
regolati in maniera differente? Vi sono alcune testimonianze testuali
apparentemente in questo senso, in quanto sembrano negare il principio
dell’indipendenza dei mezzi di repressione coesistenti:
D. 47.8.2.1 ULPIANUS 56 ad edictum, [Hoc edicto contro, quae vi committuntur, consuluit
praetor. Nam si quis se vim passum docere possit, publico iudicio de vi potest
experiri, neque debet iudicio privata actione praeiudicari quidam putant: sed
utilius visum est, quamvis praeiudicium legi Juliae de vi privata fiat, nihilo
minus tamen non esse denegandam actionem eligentibus privatam tionem].
D. 48.1.4 PAULUS 37 ad edictum. Interdum evenit ut praeidicium <per privatum
iudicium>[89] iudicio publico fiat,
sicut in actione legis Aquiliae et furti et vi bonorum raptorum et interdicto
unde vi et de tabulis testamenti exhibendis [: nam in his de re familiari
agitur].
II passo ulpianeo afferma, nel suo attuale
tenore, una generica concorrenza dell’actio
vi bonorum raptorum e del iudicium
publicum ex lege Julia de vi privata, e nonostante la contraria opinione di
alcuni giureconsulti secondo i quali il processo pubblico dovrebbe avere la
precedenza, nel testo si ritiene, in base a considerazioni di utilità, che la
scelta tra il mezzo di repressione pubblico e l’azione privata sia lasciata
all’interessato. Questa decisione corrisponde piuttosto ai princìpi
giustinianei che a quelli classici: e non mancano infatti nel frammento
abbondanti indizi formali di alterazione che inducono a: non crederlo genuino[90].
Immediatamente dopo di: esso Lenel[91] colloca
D. 48.2.15 [92], in cui Ulpiano afferma che, chi sia stato
danneggiato hominibus armatis coactisve
non deve essere costretto a rinunciare ad ottenere soddisfazione nelle forme
del processo privato, per intentare l’accusa criminale. Anche qui dunque, pur
non facendosi menzione del praeiudicium,
si nota la preoccupazione di ripetere che la coesistenza dei due mezzi di
repressione non deve essere regolata con la precedenza accordata al iudicium publicum: ma mentre D. 47.8.2.1
afferma la concorrenza elettiva, presentandola come contraria ai princìpi e
concessa solo, per un criterio di utilità, in D. 48.2.15 è semplicemente e con
chiarezza definita la libertà dell’attore di intentare l’accusa criminale o
l’azione privata[93]. Questa decisione è
quindi coerente con i princìpi esposti. Per determinare il rapporto tra i due
frammenti, Niedermeyer ritiene che esistessero, al tempo della compilazione del
Digesto, ambedue questi passi come introduttori all’editto sulla rapina: uno di
essi, D. 48.2.15, avrebbe fatto parte del genuino commento ulpianeo alla
clausola sul danno arrecato hominibus
coactis; l’altro invece, ammettente la generale concorrenza dell’azione
pretoria con il crimen vis, sarebbe
postclassico. Quest’ultimo, poiché era nella linea della legislazione
giustinianea, fu conservato, mentre una parte del primo veniva inserita in D.
48. 2, titolo dedicato alla teoria del diritto penale pubblico[94].
Niedermeyer però non si domanda quale principio giuridico fosse alla base
dell’affermazione neque debet publico
iudicio privatam actione praeiudicari ... sed utilius visum est non esse
denegandam actionem eligentibus privatam persecutionem. Se essa infatti
avesse veramente origine come scolio pregiustinianeo[95],
rivolto ad estendere la repressione ex
lege Julia ad ogni caso di violenza, come potremmo trovare
quell’espressione, in un’epoca in cui non si distingue più tra iudicium publicum e iudicium privatum[96], e con
riferimento ad un passaggio sicuramente genuino in cui non era parola della pretesa
«alte Prävalenz des iudicium publicum
über die Privatklage »[97]? Si può
pensare piuttosto che l’introduttorio di Ulpiano all’editto considerasse la
coesistenza con la repressione pubiblica anche per la clausola sui bona vi rapta, poiché abbiamo visto non
potersi negare l’estensione della lex
Julia a certi casi di rapina. Non è possibile ricostruire il frammento nel
suo tenore originario, poiché esso è molto largamente rielaborato; è tuttavia verosimile
supporre che la decisione non fosse contrastante con quella resa per la
clausola sul danno.
La stessa ipotesi è considerata anche da Paolo in
D. 48.1.4 [98]. Una prima cosa da notare in questo frammento è
il fatto che Paolo presenti come eccezionale (interdum evenit) la possibilità di praeiudicium fieri iudicio publico, pur comprendendo poi nella sua
esemplificazione tutti i casi in cui un fatto illecito è sanzionato sia
dall’azione penale privata, sia attraverso la repressione pubblica. Il fr. 4 cit.
è portato come argomento a dimostrare che l’ordine d’esercizio delle azioni è
libero qualora si tratti di mezzi a tutela della proprietà[99]: in
questo caso cioè, in contrasto con la regola che stabilisce la precedenza del
processo criminale, si ammette che il giudizio privato venga esperito prima,
restando tuttavia possibile il successivo esercizio del mezzo criminale, e il
primo giudicato «eserciterà un influsso sul seguente giudizio penale pubblico»[100]. Gli
autori traggono conferma per la loro tesi dal fatto che con il fr. 4 si accordi
CTh. 9.20.1 pr.[101], e ne
deducono che il regolamento del concorso rimane immutato anche in epoca
postclassica. L’osservazione è certamente giusta: meglio ancora D, 48.1.4 si
accorda con la redazione giustinianea della costituzione, inserita in CI. 9.31
con rubrica Quando civilis actio
criminali praeiudicet et an utraque ab eodem exerceri potest, collocazione
che attribuisce alla costituzione importanza di norma generale. La formulazione
della rubrica è significativa perché in essa si domanda quando l’azione civile
possa essere esperita cumulativamente[102] con
l’azione criminale[103] e la
risposta che dà il testo della costituzione è nel senso di permettere il cumulo
quotiens de re familiari civilis et
criminalis competit actio, decisione identica dunque a quella di Paolo.
Inesatta tuttavia mi sembra la conseguenza che da tale identità si è voluto
trarre: poiché essa, piuttosto che il permanere della dottrina classica nella
legislazione posteriore, dimostra che il frammento di Paolo fu elaborato dai
compilatori per inserirlo nella teoria generale del diritto penale pubblico[104].
Il fr. 4, tratto dal libro 37 ad edictum, è riportato da Lenel[105] all’actio de moribus. Questo mezzo processuale resta per noi oscuro, essendo
stato abolito da Giustiniano[106];
sembra tuttavia che esso trovasse applicazione in seguito alla condanna della
donna sulla base della lex Julia de
adulteriis, per far valere in giudizio le conseguenze patrimoniali del
divorzio risultante dalla sua cattiva condotta[107]: il publicum iudicium era in tal caso
pregiudiziale all’azione privata e questa doveva pertanto essere sospesa fino
alla decisione su quello. Nel suo commento al iudicium de moribus quindi Paolo doveva stabilire la precedenza del
processo criminale, condizionante quello privato. In tale occasione egli poteva
commentate che una simile precedenza non era invece stabilita a regolare le
ipotesi in cui la sfera d’applicazione di certi crimini fosse stata allargata
fino a ricomprendervi fattispecie già punibili nelle forme processo privato: sicut in actione legis Aquiliae et furti et
vi bononorum raptorum. L’originale di D. 48.1.4 e CTh. 9.20.1 si
spiegherebbero dunque a vicenda, poiché il passo di Paolo era certamente
presente alla cancelleria imperiale che redasse la costituzione del 378 [108], mentre l’attuale tenore del fr. 4 sarebbe stato
determinato dal desiderio dei compilatori giustinianei di adeguarlo a quella,
da essi inserita nel Codice con importanza di norma generale.
Possiamo ora individuare le ragioni che
condussero i giureconsulti dell’età dei Severi ad occuparsi dei rapporti tra iudicium publicum e iudicium privatum: diverse circostanze infatti, introdottesi con il
prevalere della cognitio extra ordinem,
concorrono in questo periodo ad alterare l’indipendenza che regolava, secondo
il diritto processuale ordinario, la coesistenza di actio ex delicto e crimen
in ragione di uno stesso fatto. Una di esse sta nell’involuzione del principio
accusatorio, che si manifesta nella tendenza a limitare all’offeso
l’attribuzione dell’iniziativa processuale: ciò indubbiamente portò a
riconoscere importanza predominante al diritto sostanziale nei confronti della
procedura, permettendo di vedere come, sotto il profilo della funzione, i due
mezzi di repressione ora a disposizione dell’offeso non possono considerarsi
differenti[109]. Una seconda ragione di
perplessità per i giuristi di quest’epoca si può vedere nella teoria della cosa
giudicata che si viene sviluppando in tutte le sue conseguenze: appartiene all’età
dei Severi infatti l’elaborazione e la regolamentazione unitaria della eadem res come criterio oggettivo[110], e
della teoria dei limiti soggettivi della cosa giudicata: questa è spesso
considerata sotto il profilo dell’importanza pregiudiziale che la sentenza non
deve assumere nei confronti di altri: res
inter alios iudicatae nullum aliis
praeiudicium faciant[111].
L’elaborazione del concetto di res
iudicata, quale si compie nell’età dei Severi attraverso la corrispondente
elaborazione dell’appellatio[112], messa
in relazione con la circostanza testé; esaminata[113],
dovette convincere i giuristi e gli imperatori del tempo ad occuparsi dei
rapporti tra processo privato e processo criminale, per negare che la decisione
su uno di essi, pur essendo resa tra le stesse parti, dovesse impedire lo
svolgimento dell’altro[114]. La
circostanza che il problema della regolamentazione di tali rapporti si sia
posto per la prima volta nell’avanzata età classica, spiega le incertezze e le
divergenze che troviamo nelle fonti in argomento: gli ultimi giuristi dovevano
qui costruire con le loro sole forze, senza potersi appoggiare ai grandi
maestri che li avevano preceduti, in una materia delicata che non era stata
regolata dalla legislazione né dalla dottrina precedente.
Essi quindi furono indotti a riferire alla
coesistenza dei mezzi di repressione l’espressione con cui originariamente era
stata discussa l’opportunità di tutelare lo svolgimento del processo criminale
ritenuto di maggior importanza. A tale scopo il pretore avrebbe impedito che
azioni private aventi qualche elemento comune con una questione sottoposta a iudicium publicum, venissero intentate
prima di quest’ultimo. Tuttavia, mentre in quel caso la proibizione di recar
pregiudizio alla causa capitale aveva un preciso riferimento tecnico, in quanto
il magistrato avrebbe provveduto a farla rispettare denegando l’azione privata,
quando nella elaborazione giurisprudenziale la regola viene riferita a ipotesi
di coesistenza, essa assume un semplice valore indicativo dell’indipendenza dei
giudicati; per cui da un lato si ammette la possibilità che l’azione privata
preceda il iudicium publicum, dall’altro si afferma che tale
precedenza non attribuisce alla prima sentenza valore vincolante nei confronti
del successivo giudizio.
Praeiudicium
iudicio publico fieri in actione vi bonorum raptorum, fu pertanto sempre possibile nel senso che non si
proibì l’esercizio dell’azione privata in vista del possibile processo pubblico
successivo; e ciò non per la ragione affermata dai compilatori nel frammento di
Paolo (nam in his de re familiari agitur),
che giustifica il cumulo in qualsiasi ipotesi in cui il delitto abbia
conseguenze patrimoniali, ma perché nonostante le nuove tendenze che potevano portare
a dubitarne, si tenne fede al principio dell’indipendenza tra i mezzi
processuali, che si basava sulla distinzione strutturale tra iudicium publicum e iudicium privatum[115].
II) Nel fr. 4 cit.,
Paolo si occupava ancora dei rapporti tra interdictum
unde vi e accusatio vis ex lege Julia:
questa ipotesi è compresa anche nell’elenco esemplificativo fatto in CTh.
9.20.1.1 [116], e alla stessa situazione si riferisce inoltre:
CI. 8.4.4
Impp.DIOCLETIANUS et MAXIMIANUS A A. Theodoro. Si de possessione vi deiectus es, eum[117] et
legis Juliae vis privatae reum postulare et ad instar interdicti unde vi
convenire potes, quo reum causam omnem praestare, in qua fructus etiam, quos
vetus possessor percipere potuit, non quos praedo percepii, venire non
ambigitur (a. 294).
Nella costituzione viene affermato che sia la
difesa interdettale che la repressione criminale sono accordate all’offeso
contro chi l’abbia con la violenza spogliato del possesso: ma non è stabilita
alcuna precedenza a favore del processo criminale, né è detto che questo
precluderà l’esercizio dell’interdetto. Infatti la natura di quest’ultimo è
tale che una simile preclusione non poteva venire in questione: poiché funzione
della postulatio è tuttora solo la
punizione del reo di violenza, mentre con l’interdetto, o con l’azione che ne
consegue qualora l’ordine del magistrato non venga seguito, l’offeso potrà
ottenere la restituzione del fondo e dei frutti maturati durante la sua forzata
assenza[118].
Poiché i due mezzi processuali hanno fini
giuridici ben diversi l’uno dall’altro, sarebbe stato assurdo impedirne il
cumulo. Il fatto che Paolo accosti in D. 48.1.4 questa ipotesi a quella
precedentemente esaminata e relativa alla rapina, conferma che egli non
attribuiva al praeiudicium la portata
che si suole ricollegarvi in ordine all’effetto esclusorio della sentenza sul crimen, ma solo un valore indicativo dei
rapporti tra giudicato civile e criminale[119].
La precedenza del crimen vis sulla controversia relativa alla proprietà appare in un
decreto di Antonino Pio:
D. 48.6.5.1 MARCIANUS 14 Institutionum. Si de vi et possessione
[vel dominio][120] quaeratur, ante
cognoscendum de vi quam de proprietate rei divus Pius tù koinù tîn Qess£lwn Graece rescripsit: sed et decrevit ut prius de vi
quaeratur quam de iure dominii sive possessionis[121].
II rescritto menzionato nella prima parte del
frammento va riferito[122]
all’obbligo di decidere prima sulla questione di violenza (che ha dato luogo
all’emanazione dell’interdictum de vi)
e poi sulla questione di proprietà; ad esso fa seguito un decreto sulla
precedenza accordata al iudicium publicum de vi nei confronti della rei vindicatio. Poiché, come abbiamo
visto, non esisteva alcuna norma tendente a. regolare in maniera generale la
successione cronologica dei giudizi in considerazione dell’influenza che il
primo avrebbe potuto esplicare sul successivo, bisogna interpretare il decreto
di Antonino[123] come relativo ad un
determinato caso di violenza i cui particolari elementi indussero l’imperatore a
considerare opportuna la precedenza del processo criminale. Ciò non significa
che questo avesse generalmente importanza predominante, né che l’imperatore
abbia inteso, con la sentenza in questione, andare oltre il regolamento del
caso singolo, per porre una norma procedurale di carattere generale.
Una opposta decisione per un caso apparentemente
analogo, ci è conservata in una sentenza di Settimio Severo:
C.I. 7.62.1 SEVERUS A. dixit:
Prius de possessione pronunciare et ita crimen violentiae excutere praeses
provinciae debuit. quod cum non fecerit iuste provocatum est (a. 209).
L’imperatore ritiene giustamente proposto
l’appello contro una sentenza del praeses
provinciae che aveva giudicato, in un processo per violenza, senza tener
conto della questione relativa al possesso. Osservo anzitutto che qui si tratta
per la decisione sul possesso, di una sentenza interlocutoria con valore di
accertamento[124]: Severo infatti si
riferisce ad un processo extra ordinem,
e afferma che la pronuncia sul possesso spetta allo stesso magistrato che deve
decidere anche sul crimen violentiae;
inoltre è anche questa certamente decisione di un caso particolare, del quale
non. ci sono riferiti gli estremi.
Queste costituzioni quindi confermano l’ipotesi
che non esistesse una regola generale per stabilire a priori la successione dei
mezzi processuali civili e penali a disposizione di chi avesse sofferto una
violenza, ma essendo essi tutti esperibili, l’ordine in cui dovevano essere
esercitati era determinato da esigenze di logica giuridica, le quali come tali
si imponevano anche al magistrato competente.
IlI) Le osservazioni precedenti sulla coesistenza del
mezzo pubblico di repressione con l’azione penale privata nell’ipotesi di
violenza ci aiuteranno a chiarire anche gli altri casi in cui le fonti
considerano i rapporti tra i due mezzi di repressione dal punto di vista
dell’importanza pregiudiziale che il giudicato civile può assumere per lo
svolgimento del processo criminale. Uno di questi si ha nell’ipotesi si dolo servus occisus sit.
La lex
Aquilia de damno contiene disposizioni contro il damnum iniuria datum, e stabilisce nel primo capitolo che
l’uccisore di uno schiavo debba pagarne al padrone il più alto prezzo avuto
nell’anno anteriore al delitto[125]. È
questa la disposizione che ci interessa, in quanto l’uccisione del servo cade
anche sotto la sanzione della lex
Cornelia de sicariis: giuristi ed imperatori si occuparono anche in questa
ipotesi del problema dei rapporti tra i due mezzi di repressione. Abbiamo già
visto che in D. 48.1.4 la legge Aquilia è menzionata tra le azioni penali
private, per mezzo delle quali evenit ut
praeiudicium iudicio publico fiat. Inoltre:
GAI. III.213.
Cuius autem servus occisus est, is liberum arbitrium habet vel capitali crimine
reum facere eum qui occiderit, vel hac lege damnum persequi.
D. 9.2.23.9 ULPIANUS 18 ad edictum. Si dolo servus occisus sit,
et lege Cornelia agere dominum posse constat; et si lege
Aquilia egerit, praeiudicium fieri
Corneliae non debet.
C. 3.35.3 Imp. GORDIANUS A.
Dolenti. Ex morte ancillae, quam caesam conquestus es, tam legis Aquiliae damni sarciendi gratia actionem quam criminalem
accusationem adversus obnoxium competere posse non ambigitur (a. 241).
Nell’ipotesi si
servus occisus sit abbiamo dunque tre diverse soluzioni date
rispettivamente da Gaio, Ulpiano e Paolo: e mentre il primo sembra introdurre
la concorrenza alternativa, il secondo esclude la possibilità che si verifichi
il praeiudicium e il terzo infine
ammette che ciò avvenga, Nel Codice poi, Gordiano, senza usare il termine praeudicium né l’ordine da seguire
nell’esercizio delle due azioni, afferma che ambedue competono contro
l’uccisore. Il cumulo assoluto è attestato anche, nelle Istituzioni, da
Giustiniano che ricalcando Gaio trasforma i due vel in et[126], Di
fronte a tali diverse soluzioni date da giuristi ed imperatori, è legittimo il
dubbio se sia possibile trarne un significato apprezzabile per capire quale
fosse il regolamento della coesistenza di iudicium
publicum e iudicium privatum nell’ipotesi di uccisione di un servo.
In realtà, anche qui la retta comprensione dei
rapporti tra i due mezzi di repressione è oscurata dal voler connettere
all’ordine di successione dei processi la menzione di un praeiudicium, mentre questo non può essere riferito all’esistenza
di una regola pregiudiziale. Bisogna invece vederne il significato
nell’affermazione dell’importanza probatoria che la sentenza anteriore può
assumere per il processo successivo, pur non avendo essa determinato i Romani
ad impedirla radicalmente con l’obbligo di sospendere il processo meno
importante fino alla decisione dell’altro, ritenuto di maggior importanza.
Quando Paolo dice: evenit ut praeiudicium
iudicio publico fiat .... in actione legis Aquiliae[127], ciò
non può significare che (come abbiamo già visto nell’analogo caso relativo al
delitto di rapina) ammettere la possibilità di accusare ex lege Cornelia indipendentemente dal fatto che già sia stata
esperita contro l’uccisore l’actio legis
Aquiliae, Ulpiano si pone da un punto di vista diverso ma non contrastante:
mentre infatti gli esempi di Paolo erano probabihnente presentati come
eccezionali di fronte al regime dell’actio
de moribus, Ulpiano usa in D. 9.2.23.9 la
stessa espressione in forma negativa, preoccupandosi di chiarire che la coesistenza
dei due mezzi di repressione da lui affermata nella prima parte del paragrafo,
non significa che l’uno di essi possa escludere l’altro[128].
Nel paragrafo gaiano invece il
problema dei rapporti tra i due mezzi processuali, e dell’importanza pregiudiziale
del giudicato anteriore non è ancora posto: esso va inteso piuttosto come
affermazione della contemporanea spettanza al dominus sia l’actio legis
Aquiliae[129] che dell’accusa
criminale per omicidio; i due vel che
appaiono introdurre la concorrenza alternativa, indicano invece
l’impossibilità, logica se non giuridica, di porre in essere contemporaneamente
i mezzi di repressione pubblico e privato. Altrimenti sarebbe da interpretare
il passo, qualora Gaio regolasse i rapporti tra azione penale e accusa pubblica:
così, esso conferma l’ipotesi che questo problema si ponga per la prima volta
ai tardi giuristi classici, in relazione alle nuove tendenze che abbiamo sopra
individuato.
Anche Gordiano, nella costituzione del 241, si
pone evidentemente dal punto di vista del diritto sostanziale, e ribadisce che
contro il colpevole competono sia l’azione penale privata che il mezzo pubblico
di repressione: nessun accenno alla precedenza della persecuzione statuale, né
alla preclusione del processo privato operata da quello[130].
È inoltre opportuno ricordare che la legge di
Silla sull’omicidio non era certamente in origine, applicabile all’uccisione
dello schiavo, ma fu ad essa estesa nella prassi giuridica posteriore[131]. Non è
possibile determinare con precisione l’epoca in cui ciò avvenne: si suole
pensare che la repressione ex lege
Cornelia fosse concessa contro l’uccisore di uno schiavo altrui già sotto
Claudio, argomentando da
SUET. Claud. 25. Quod si quis necare quem (sc. mancipium) mallet quam exponere,
caedis crimine teneri.
Tuttavia, dalla circostanza che Claudio ritenga
colpevole di omicidio il padrone che uccida il proprio schiavo infermo, non si
può dedurre che alla quaestio inter
sicarios spettasse di giudicare questo e gli analoghi casi. Sappiamo
infatti da Tacito[132] che
già Augusto aveva affidato al praefectus
urbi la vigilanza sul comportamento de servi e la sua competenza si estende
in seguito al trattamento che questi ricevevano dai propri padroni[133]. È
quindi verosimile che al prefetto stesso piuttosto che alla quaestio spettasse la cognitio sul caedis crimine di cui non sappiamo con quanta esattezza
terminologica parla Svetonio: e d’altronde, è già stato visto che questa
attività di Claudio «deve interpretarsi per vero più come un’ordinanza di
polizia che come un precetto giuridico»[134].
La repressione criminale dell’omicidio
ingiustificato del’proprio servo è invece da Gaio attribuita ad Antonino Pio,
nel quale, probabihnente per l’influenza delle idee stoiche[135], è da
vedere l’autore di sostanziali riforme a favore degli schiavi:
GAI. I.53. Nam ex constitutione
imperatoris Antonini qui sine causa servum suum occiderit, non minus teneri
iubetur, quam qui alienum servum occiderit.
Tuttavia la costituzione di Antonino[136], come
l’affermazione di GAI. III.213, non ci illuminano sulla disposizione
originaria ad opera della quale fu punita con la poena legis Corneliae l’uccisione dello schiavo altrui: sappiamo
solo che l’estensione è certamente già avvenuta intorno alla metà del II
secolo.
IV) Anche per il furto ci è attestata la possibilità
della coesistenza di azione penale privata e iudicium publicum: ancora da Paolo in D. 48.1.4, dove non viene
determinato quale sia il iudicium publicum, e in altri testi nei quali è
genericamente ammessa l’esperibilità sia dell’actio furti sia dell’accusatio
ex lege Fabia.
La natura del giudizio creato da questa legge e
gli elementi del reato di plagio sono stati recentemente messi in discussione
da vari autori, i quali vedono in modo diverso la questione dei rapporti tra lex Fabia e plagium, e lo sviluppo
storico di questo reato in relazione alla cognitio
extra ordinem e alla legislazione dioclezianea. Niedermeyer[137]
infatti ricostruisce la storia del reato di plagio partendo dalla
considerazione che alla lex Fabia era
estraneo il termine plagium: essa quindi avrebbe creato un crimen ex lex Fabia,
senza altra denominazione, punibile a Roma con una pena pecuniaria; mentre di
plagio si sarebbe parlato solo in provincia, dove la legge non era applicabile
e lo stesso reato era represso in via straordinaria. Il vero creatore del crimen plagii sarebbe quindi
Diocleziano, al quale è dovuta la fusione dei due concetti: «der festgefügte,
aber erweichte und erweiterte Tatbestandsrahmen der lex Fabia, die Strafsätze aber der Praxis der extraordinaria cognitio entnommen wurden»[138].
Questo punto centrale della tesi di Niedermeyer è già stato criticato[139], e in
realtà non è del tutto convincente. In particolare non è affatto dimostrata la
differenza intercedente tra lex Fabia
e cognitio in ordine alla
configurazione del reato: è infatti di tutta evidenza l’osservazione che, se
anche la legge effettivamente non avesse usato il termine plagium, ciò sarebbe insufficiente a dimostrare una diversità tra
il crimen legis Fabiae e il reato represso
in via straordinaria nelle provincie, convincendoci invece del contrario la
considerazione che nel linguaggio giuridico il nome plagium è usato correntemente a designare il reato contemplato
dalla legge Fabia e dalle successive disposizioni che la integrarono e
modificarono[140].
La lex Fabia mirò in origine solo alla
repressione della usurpazione della patria
o dominica potestas, in relazione all’anarchia sociale regnante in Italia alla
fine della Repubblica, la quale rese necessario punire severamente il commercio
che si faceva di uomini liberi e di schiavi sottratti[141].
Questo è ancora lo scopo della legge nel II secolo:
D. 48.15.6 pr. CALLISTRATUS 6 de cognitionibus. Non statim plagiarium esse, qui furti crimine[142] ob servos
alienos interceptos tenetur, divus Hadrianus in haec verba rescripsit: ‘Servos
alienos qui sollicitaverit aut interceperit, crimine plagii, quod illi
intenditur, teneatur nec ne, facit quaestionem[143]: et
ideo non me consuli de ea re oportet, sed quod verissimum in re presenti
cognoscitur sequi iudicem oportet. plane autem scire debet posse aliquem furti
crimine ob servos alienos interceptos teneri nec idcirco tamen statim
plagiarium esse existimari’.
Adriano rifiuta di pronunciarsi sui limiti di
separazione del plagium dal furtum, dicendo spettare al giudice la
decisione, secondo i princìpi (quod
verissimum in re presenti cognoscitur). Egli d’altronde non offre
espressamente alcun elemento d’individuazione, limitandosi ad affermare che non
ogni furto di schiavo è anche un plagio. In un altro rescritto dello stesso
imperatore, riportato nel § seguente da Callistrato, viene poi fornito un
esempio:
Idem princeps in haec verba
rescripsit: ‘Apud quem unus aut alter fuerit fugitivus inventus, qui operas
suas locaverint ut pascerentur, et utique si idem antea apud alios opus
fecerint, hunc supprcssorem non iure quis dixerit’.
Da questo rescritto si può dedurre che secondo
Adriano per concretare un plagio è necessario l’esercizio di atti di dominio
sullo schiavo, poiché egli esclude il reato di plagio qualora esistano un
contratto di locazione e analoghi precedenti che tolgano al contratto stesso
ogni carattere di eccezionalità[144]. Ora
ciò conferma che in epoca classica l’usurpazione della dominica potestas era un elemento costitutivo del plagio, mentre
una simile precisazione non si trova più a partire da Diocleziano, il quale
generalizzando la portata della lex Fabia,
portò a considerare plagio ogni atto di disposizione dello schiavo[145].
Dopo queste osservazioni, utili a chiarire perché
in età postclassica il plagio potesse venire presentato come un semplice caso
di furto, dal quale più non si distingueva per l’elemento caratteristico
originario, possiamo tralasciare lo studio dello sviluppo storico del reato,
che si concluse con la concessione di
Diocleziano Plagii criminis accusatio
publici sit iudicii[146];
Passiamo invece a considerare i rapporti tra actio furti e iudicium legis
Fabiae: i testi affermano. il cumulo dei due mezzi di repressione,
confermando ancora una volta l’inesistenza di una regola sulla successione dei
processi[147].
La possibilità di cumulare persecuzione pubblica
e privata ci è indirettamente testimoniata da CALL. D. 48.15.6: per quanto
infatti in questo frammento si dichiari che non ogni furto di schiavo è anche
un plagio, ne risulta la possibilità di ipotesi in cui si esauriscano gli
estremi di entrambi i reati.
D. 47.2.83(82).2 = Paul. Sent. II.31.31. Qui ancillam non
meretricem libidinis causa subripuit, furti actione tenebitur et, si
subpressit, poena legis Fabiae coercetur.
Chi rapisce una schiava libidinis causa è colpevole di furto e, se esercita su essa atti di
dominio, incorre anche nel reato di plagio. La dichiarazione non meretricem
mette in rilievo l’atto del subprimere,
con il quale il rapitore compie gli estremi del plagio[148].
Nel Codice la stessa ipotesi[149] è
prevista da
CI. 9.20.1 Imp. ANTONINUS A.
Placido. Pater tuus adversus eum, a quo sollicitatam ancillam, plagio quoque
facto exportatam quaeritur, apud suum iudicem civiliter in rem actione
instituta consistat. si in causa tenuerit, etiam legis Fabiae crimen persequi
poterit (a. 213)[150].
Contro chi abbia fatto fuggire una schiava, è
possibile tanto esperire l’accusatio
legis Fabiae[151],
quanto agire civiliter: Caracalla non
specifica quale sia il mezzo civile concesso in questo caso; si può pensare
all’actio ad exhibendum o all’actio furti[152]. In
ANTON. CI. 9.20.2 coesistono invece crimen
legis Fabiae e actio servi corrupti,
e infine CTh. 9.20.1.2 ha un’affermazione di carattere generale.
Quo in genere habetur furti actio
et legis Fabiae constitutum ... ut, cum altera prius actio intentata sit, per
alteram quae supererit iudicatum liceat retractari.
Essa si spiega per la considerazione che la lex Fabia dà ora luogo ad un crimen publicum, ed è inoltre difficile,
per l’allargamento del concetto di plagio, distinguerlo dal semplice furto di
schiavo; pertanto gli imperatoli possono presentare l’actio legis Fabiae quasi come un mezzo d’appello concesso a chi è
stato vinto nel processo privato.
Il crimen
legis Fabiae coesiste ancora con l’interdictum
de nomine libero exhibendo, e viene affermato il cumulo dei due mezzi:
D. 43.29.3 pr. ULPIANUS 71 ad edictum. Quod et lex Fabia prospexit, neque hoc interdictum aufert
legis Fabiae executionem; nam et hoc interdicto agi poterit et nihilo minus
accusatio legis Fabiae institui. et versa vice qui egit Fabia, poterit nihilo
minus etiam hoc interdictum habere[, praesertim cum alius interdictum, alius
Fabiae actionem habere possit][153].
Decisione conforme ai princìpi e al carattere
dell’interdetto.
V) Vediamo infine se anche per l’ultimo dei delitti
tipici, l’iniuria, fosse possibile la coesistenza dell’azione
privata con il iudicium publicum e,
eventualmente, come esso fosse regolato.
L’ingiuria consiste
nell’offendere una persona con atti che significano disprezzo di essa; può
essere reale o verbale:
Paul. Sent. V.4.1. Iniuriam patimur aut in corpus aut extra corpus:
in corpus verberibus et illatione stupri, extra corpus conviciis et famosis
libellis.
Contro l’ingiuria intesa come lesione personale,
che era già prevista dalle XII Tavole, il pretore concesse una formula, detta actio iniuriarum aestimatoria, alla
quale seguirono poi altre clausole edittali, che compresero nell’ingiuria le
varie specie di contumelia. È possibile che alcuna delle ipotesi previste
dall’editto fosse considerata punibile anche come crimen sulla base di una legge istitutiva di un iudicium publicum[154].
In primo luogo viene qui in considerazione il
passaggio del De inventione in cui
Cicerone discute se si possa in
recuperatorio iudicio eius maleficii de quo inter sicarios quaeritur
praeiudicium fieri[155]. A
questo proposito bisogna osservare che, contrariamente a quanto fu creduto, il crimen de sicariis non può essere
intentato per la ferita inferta al cavaliere da uno ex armatis resistenti gladio, ma per il fatto che alcuni uomini
armati si fossero riuniti ad vim
faciendam. Infatti le semplici ferite[156] non
erano considerate dalla lex Cornelia:
solo Adriano prescrisse che fosse punito come omicida chi avesse arrecato
ferite allo scopo di uccidere[157]. La
legge prevedeva invece l’ambulatio cum
telo hominis occidendi causa[158]; essa
poteva quindi essere applicata al caso ipotizzato da Cicerone. È inoltre da
considerare che, qualora l’interpretazione tradizionale fosse esatta, il
convenuto con l’actio iniuriarum,
ottenendo l’eccezione postulata, sarebbe giunto al risultato di costringere
l’attore ad intentare l’accusa criminale invece dell’azione pretoria: ciò che
non avrebbe potuto volere. Egli aveva invece interesse ad accusare prima
d’essere giudicato per l’ingiuria fatta al cavaliere, in considerazione del
pregiudizio morale che da tale sentenza gli sarebbe derivato.
Cicerone non discuteva quindi l’opportunità di
concedere l’exceptio per regolare la
coesistenza di actio iniuriarum e iudicium de sicariis; essa invece
avrebbe avuto lo scopo di impedire che il giudicato potesse influenzare la
giuria chiamata a decidere il processo criminale[159].
L’ipotesi che si suole ricollegare al passaggio
ciceroniano è invece fatta in
D. 47.10.7.1 ULPIANUS 57 ad edictum. [Si dicatur homo iniuria
occisus, numquid non debeat permettere praetor privato iudicio legi Corneliae
praeiudicari? idemque et si ita agere velit ‘quod tu venenum dedisti hominis
occidendi causa’? rectius igitur fecerit, si huiusmodi actionem non dederit,
adquin solemus dicere, ex quibus causis publica sunt iudicia, ex his causis non
esse nos prohibendos, quominus et privato agamus. est hoc verum, sed ubi non
principaliter de ea re agitur, quae habet publicam executionem. quid ergo de
lege Aquilia dicimur? nam et ea actio principaliter hoc continet, hominem
occisum non principaliter: nam ibi principaliter de damno agitur, quod domino
datum est, at in actione iniuriarum de ipsa caede vel veneno ut vindicetur, non
ut damnum sarciatur. quid ergo, si quis velit iniuriarum agere, quod gladio
caput eius percussum est? Labeo ait non esse prohibendum: neque enim utique
hoc, inquit, intenditur, quod publicam habet animadversionem, quod verum non
est: cui enim dubium est et etiam hunc dici posse Cornelia conveniri]?
In questo prolisso e certamente alterato[160]
frammento, sono discussi i rapporti tra actio
iniuriarum e iudicium publicum ex lege Cornelia de sicariis per l’uccisione di
uno schiavo. La fattispecie è analoga a quella già esaminata, in cui lo stesso iudicium publicum coesiste con l’actio legis Aquiliae spettante al padrone dello schiavo per il danno derivantegli
dall’uccisione di esso; qui viene in considerazione l’actio iniuriarum in
quanto essa è concessa al dominus per
l’ingiuria[161] arrecata al servo. La
menzione del praeudicium deve
appartenere ad Ulpiano che probabilmente dava per questo caso una soluzione
analoga a quella data per l’ipotesi precedente in D. 9.2.23.9[162]. I
compilatori, trovando tale parola, che essi invece usavano ad indicare
l’effetto esclusorio del primo giudicato, inseriscono nel passo una lunga
discussione di valore teorico per distinguere i casi in cui tale effetto
dovesse operare, da quelli in cui era invece permesso il cumulo. II criterio
discretivo qui applicato tende ad ammettere l’effetto
esclusorio del primo giudicato in tutti quei casi in cui principaliter de ea re agitur, quae
habet publicam executionem, mentre lo esclude in ogni altro caso.
Coerentemente si proibisce il cumulo della persecuzione pubblica con l’actio iniuriarum, perché in questa si
vede l’appagamento della stessa vendetta che trova soddisfazione anche in quella;
e a tale azione viene contrapposta l’actio
legis Aquiliae, la quale, avendo per diritto giustinianeo funzione di
risarcimento del danno[163], non
deve esser esclusa dall’avvenuto processo criminale. Inoltre, e sempre nello
stesso ordine di idee, viene respinta la decisione di Labeone[164],
considerando che anche nell’ipotesi di percosse a mano armata, che ricade ora
sotto la pena della lex Cornelia, la
funzione dell’azione di ingiurie è identica a quella del mezzo pubblico di
repressione. Il passo, prezioso per conoscere il punto di vista giustinianeo,
non può essere utilizzato per la conoscenza della dottrina classica: Ulpiano,
la cui decisione è impossibile ricostruire esattamente, doveva limitarsi ad
indicare che, qualora un’azione fosse punibile sia privatamente come ingiuria,
sia pubblicamente attraverso la lex
Cornelia de sicariis (ad esempio appunto nell’ipotesi di omicidio del servo
e nell’ipotesi di ferite arrecate allo scopo di uccidere), i diversi mezzi di
repressione a disposizione dell’offeso erano tra loro indipendenti.
Un altro passo che ha dato occasione ad
interpretazioni inesatte è
D. 47.10.6 PAULUS 55 ad edictum. Quod senatus consultum
necessarium est, cum nomen adiectum non est eius, in quem factum est: tunc ei,
quia difficilis probatio est, voluit senatus publica quaestione rem vindicari.
ceterum si nomen adiectum sit, et iure communi iniuriarum agi poterit: nec enim
prohibendus est privato agere iudicio, quod publico iudicio praeiudicatur [,
quia ad privatam causam pertinet. plane si actum sit publico iudicio,
denegandum est privatum: similiter ex diverso].
II passo è certo rimaneggiato[165]; esso
tratta la repressione del libello infamante[166] che
non contenga l’espressa menzione del nome di colui contro il quale è diretto:
per questa ipotesi, a causa della difficoltà che questi avrebbe trovato a
dimostrarsi legittimato, Paolo richiama un senatoconsulto attraverso il quale
la fattispecie viene repressa publica
quaestione, Di un’attività del senato in materia di libelli famosi abbiamo anche altre .testimonianze, che permettono
di determinarne il contenuto. In un primo tempo, il Senatoconsulto fu
ricollegato al crimen maiestatis
attraverso il quale, secondo Tacito, Augusto fece giudicare dal senato Cassio
Severo, per aver pubblicato scritti diffamatori contro persone d’alto rango[167].
Questa teoria fu però criticata dal Levy[168], il
quale ritiene invece che il senatoconsulto abbia esteso alla fattispecie la
pena della lex Cornelia de iniuriis:
l’applicazione della legge (che originariamente contemplava le sole ipotesi in
cui alcuno se pulsatum verberatumve
domumve suam vi introitam esse dicat[169]
sarebbe stata necessaria qualora nel libello fosse mancato il nome, o
dell’autore o di colui contro il quale era diretto. Tuttavia, la repressione
attraverso la legge Cornelia è bensì possibile nella prima ipotesi, ma non
nella seconda, poiché per la legge unico legittimato all’accusa è l’interessato[170], il
quale avrebbe pertanto trovato le stesse difficoltà ad accusare ex lege Cornelia, come ad esperire la
normale actio iniuriarum. D’altronde, proprio per questa ipotesi, la
testimonianza degli storici rende verosimile, come già vide Mommsen,
l’applicazione della lex maiestatis[171].
Uno scritto diffamatorio poteva dunque dar luogo
sia all’actio iniuriarum che al iudicium publicum ex lege Julia maiestatis: a proposito dei rapporti tra i
due mezzi di repressione Paolo afferma che l’azione privata non deve essere
impedita in vista del processo criminale futuro. L’ultima parte del fr.
rispecchia esattamente il pensiero giustinianeo: la giustificazione data della
possibilità di esperire l’azione d’ingiurie è (oltre che formalmente scorretta)
troppo banale per poter essere attribuita a Paolo, e infatti la privata causa
corrisponde alla res familiaris con
la quale in D. 48.1.4 i compilatori spiegano, dal loro punto di vista, una
analoga espressione classica[172].
L’ultima frase poi si spiega per il ragionamento visto sopra, per cui
Giustiniano nega il cumulo della repressione pubblica con l’actio iniuriarum, in quanto questa ha
funzione esclusivamente penale[173].
Dal punto di vista del diritto sostanziale, il
principio del cumulo regola dunque nella tarda epoca classica la coesistenza
della repressione pubblica e privata in ragione di uno stesso fatto: abbiamo
visto infatti non potersi affermare che l’esercizio di uno dei mezzi di
repressione abbia effetti preclusivi nei confronti dell’altro. Questo principio
apre d’altronde il problema processuale dei rapporti tra i procedimenti: esso
fu certamente visto dagli ultimi giuristi classici, i quali proprio in
considerazione dell’importanza della prima sentenza si preoccuparono di negare
la forza del firaeiudicium, Qual’è dunque, nella procedura romana, l’influenza
del giudicato su un successivo processo relativo allo stesso fatto? È opportuno
studiare partitamente le diverse ipotesi in cui tale influenza può esplicarsi:
a) dopo la sentenza resa sulla controversia
privata, l’offeso o qualunque cittadino per i crimini la cui accusa è pubblica,
intenta nelle debite forme il publicum
iudicium;
b) viceversa, terminato questo, l’interessato
agisce in via privata per ottenere soddisfazione dell’offesa mediante il
pagamento della pena pecuniaria.
Nelle fonti, che non distinguono i diversi casi,
né li prevedono tutti espressamente, assume particolare rilievo l’ipotesi in
cui, definito con sentenza il processo privato viene posto in essere il
processo criminale: essa è l’unica considerata nelle discussioni fatte, dai
giuristi sull’ammissibilità del praeudicium,
è questo è sempre menzionato come praeiudicium
iudicio publico. Tuttavia, ancora una volta, ciò non significa che
l’ipotesi inversa non fosse possibile per l’effetto assorbente del mezzo processuale
pubblico nei confronti di quello privato; significa invece che, per diverse
ragioni che vedremo, l’importanza del giudicato criminale sul successivo
processo privato non venne considerata dai giuristi sotto l’aspetto messo in
rilievo per il caso contrario. È quindi opportuno esaminare questo in primo
luogo.
Questa ipotesi, che non dà luogo a difficoltà
qualora il processo criminale ammetta la pubblica accusa e venga intentato da
un qualisiasi cittadino, fu invece maggiormente discussa in relazione alla
limitazione dell’accusa a pochi interessati[174]:
tuttavia la pubblicità o meno dell’iniziativa del processo non porta a
differenti riflessi per quel che concerne i rapporti tra i giudicati. Gli
autori mo derni che hanno visto il problema[175] si
limitano ad indicare, sulla base dei frammenti del Digesto già esaminati,
quando l’azione privata pregiudichi il crimen;
e quando invece non si verifichi il praeiudicium;
il significato dell’espressione d’altronde è stato talvolta frainteso, talvolta
non sufficientemente chiarito, Così la dottrina tradizionale elenca una serie
di casi[176] in cui un pregiudizio
può delinearsi; ma senza poi concludere, ciò che più importa dal punto di vista
della tecnica processuale, quali siano le conseguenze di questa possibilità: e
mentre sembra si faccia riferimento ad un generico influsso del primo
giudicato, si vuole però riportare al praeiudicium
l’effetto esclusorio con il quale il publicum
iudicium opererebbe nei confronti dell’azione penale privata[177].
La visione del problema è certamente stata
complicata dalla costituzione del 378[178] la
quale, unendo una riforma di Valente, Valentiniano e Graziano in tema di crimen falsi a decisioni fraintese di
giuristi classici, ha potuto sviare le ricerche della dottrina moderna presentando
come dogma risalente una ibrida teoria costruita nella cancelleria
postclassica.
È ormai stata chiarita la ragione che indusse gli
imperatori ad emanare la cost. cit., a completare la riforma con cui due anni
prima avevano innovato in tema di falso documentale. In CTh. 9.19.4 = CI. 9.22.23 (a. 376), gli stessi imperatori avevano stabilito
che, qualora nel corso di un processo sorgesse contestazione circa l’efficacia
probatoria di un documento, due vie fossero aperte per discuterne il valore:
era possibile cioè de falso criminaliter
o de scripturae fide civiliter experiri. L’ipotesi del falso documentale da
quindi luogo alla possibilità di agere
tanto in via civile che in via criminale[179], pur
essendo configurata esclusivamente come crimen;
il concorso tra i due mezzi processuali è dapprima retto dal principio
dell’elettività[180], in
seguito viene introdotto anche quello del cumulo, nel caso che il civiliter agere abbia avuto la
precedenza. Questa innovazione è fatta appunto con CTh. 9.20.1, per presentare
la quale gli imperatori si richiamano a precedenti classici, che dovrebbero
illustrarla e conferirle maggior autorità[181].
Tuttavia il riferimento è inesatto: infatti, mentre nei casi discussi per
diritto classico il cumulo era assoluto e giustificato per la circostanza che
essi, erano, in astratto, considerati sia dall’ordinamento privato che dal
diritto criminale, ciò non è vero per il falso documentale. I redattori della
costituzione, considerando erroneamente analoghe le diverse situazioni,
riferiscono gli esempi classici facendo precedere la menzione dell’azione
privata al mezzo criminale[182]
ottenendo il risultato di presentare quest’ultimo «quasi come un mezzo
d’appello concesso a chi è stato vinto nel processo civile»[183]. Il
regime introdotto nel 378 (ed espresso in modo esplicito dalla frase: cum altera prius actio intentata sit, per
alteram quae supererit, iudicatum liceat retractari) è quindi ben lontano
dalla dottrina classica ricordata nel pr. con l’accenno ai plerique prudentium.
Questi, ammettendo il cumulo tra azione penale
privata e mezzo pubblico di repressione, non intesero certamente dare al
secondo una funzione di revisione del primo processo: la diversità di struttura
e funzione che caratterizza la contrapposizione iudicium publicum - iudicium
privatum, esclude, più ancora che la mancanza di ogni testimonianza
testuale in altro senso, che i giuristi classici potessero impostare il
problema dei rapporti tra i mezzi processuali coesistenti nel senso rilevato in
CTh. 9.20.1 [184]. I due; processi dovevano invece, coerentemente
alla netta distinzione menzionata, essere indipendenti l’uno dall’altro: e
l’influenza che il primo giudicato non poteva mancare di esercitare sul
successivo influenza che, vista dai giureconsulti del III secolo, li condusse ad
esaminare il problema , fu esclusivamente di fatto. Essa va intesa secondo gli
insegnamenti dati da Quintiliano in materia di praeiudicia: questi cioè, presi nel senso letterale di decisione
giudiziaria anteriore, costituiscono per il secondo giudice un argomento di
prova, e vengono pertanto in considerazione nella sua sentenza come elemento
logico, basato su qualunque fatto umano gli serva per formarsi una ragionata
opinione[185].
In questo senso, e cioè come fatto, la decisione
sull’azione penale privata non poteva non influenzare il giudice del processo
criminale, data l’ampia libertà concessagli nella valutazione dei fatti e delle
prove. Per questo non mi sembra possibile aderire alla conclusione che Siber
vuol trarre dall’esame dei testi[186], nei
quali appare la menzione del praeiudicium.
Egli afferma che la regola pregiudiziale sulla prevalenza della causa maior[187] non
può aver riferimento alla successione dei processi, né alla obbligatorietà
giuridica delle sentenze anteriori per i processi futuri; praeiudicium ha il valore di mezzo di prova, non giuridicamente
vincolante e tuttavia abitualmente seguito: la regola pregiudiziale
significherebbe quindi che il giudice della causa
maior non avrebbe dovuto servirsi della sentenza già resa sulla causa minor come elemento probatorio,
per risparmiarsi un nuovo: esame dettagliato delle singole prove, mentre ciò
sarebbe stato ammissibile nel caso inverso[188]. Ora
tale conclusione, anche a prescindere dalla considerazione che l’esarne delle
fonti non dà un risultato che permetta in ogni caso un’affermazione univoca,
incontra un ostacolo insuperabile nel sistema romano dell’istruzione
probatoria.
Ho già accennato, ed è generalmente noto, che
l’ordinamento romano non regolò questa parte del processo, affidandola ai prin
cipi elaborati nella prassi giudiziaria. I dati testuali in nostro;possesso
sono quindi molto scarsi,, tuttavia si può» ritenere che due .elementi
fondamentali caratterizzassero la posizione del giudice ordinario[189], sia
nella procedura privata sia nella procedura pubblica: il principio della
passività nella raccolta delle prove (e ciò perché, potendo il giudice essere
scelto anche tra cittadini privi di conoscenza tecnica del diritto, egli era
sprovvisto d’ogni mezzo personale d’azione) e il principio dell’indipendenza
nel giudizio, basato sul fatto che il giudice non era sottoposto ad alcuna
autorità. Il principio della passività importava che la produzione delle prove
e l’andamento della discussione su esse era totalmente rimesso alle parti ed ai
loro rappresentanti; e l’attitudine di passiva imparzialità dei giudice, mentre
non gli permetteva di servirsi di informazioni personali, gli imponeva d’altra
parte di tenere in considerazione tutti quegli elementi che gli venissero
presentati[190].
Di fronte a questi princìpi non possiamo
ammettere, senza una esplicita testimonianza in tal senso, l’esistenza di un
limite fissato alla libera valutazione del giudice con riferimento alla nostra
materia. Il giudice del processo criminale poteva quindi ripetere la decisione
già resa dal giudice privato: tuttavia ciò non sarebbe avvenuto
necessariamente, poiché non era compito suo, ma delle parti raccogliere tutti
gli elementi utili affinché potesse formarsi un’opinione. Pertanto, mentre è
innegabile l’influenza che il giudicato civile poteva esercitare sul giudice
criminale qualora egli ne fosse a conoscenza, tale influenza non poteva però
essere sufficiente a fargli rendere una nuova sentenza basata esclusivamente
sulla prima: sia per il principio dell’indipendenza che regolava la valutazione
delle prove da parte del giudice, sia perché l’interesse della parte vinta nel
primo processo l’avrebbe indotta non solo a svalutare la prima sentenza nel
senso già insegnato da Quintiliano, ma anche a portare nuove e più efficaci
prove a suo vantaggio.
La stessa libertà nel giudizio doveva regolare
l’ipotesi inversa[191],
quella cioè in cui l’azione penale privata venga intentata dopo la sentenza
resa sul processo criminale in ragione dello stesso fatto. Abbiamo già
osservato che le fonti non parlano mai di praeiudicium
iudicio privato: a questo proposito bisogna osservare che tale ipotesi ha
minori probabilità di verificarsi: infatti, se la sentenza è di assoluzione,
nessun praeiudicium[192] può
derivare al processo privato, in quanto il fatto che una data azione non venga
giudicata criminosa secondo l’ordinamento penale pubblico non significa che in
essa non possa tuttavia vedersi un illecito privato[193]; se la
sentenza è di condanna (e supponendo che questa non sia capitale, poiché in tal
caso verrebbe meno ogni possibilità di far valere un’azione privata nei
confronti del condannato), difficilmente sarà poi intentata anche l’azione
penale privata, dato che il magistrato può direttamente condannare il reo anche
ad una pena pecuniaria a favore dell’offeso[194]. La
difficoltà pratica che questa ipotesi si verificasse spiega perché i giuristi
abbiano esaminato la questione dei rapporti tra i processi solo per il caso
contrario: tuttavia, poiché essa non si può, almeno in teoria, escludere
assolutamente, tale questione va risolta in modo identico per ambedue le
ipotesi.
Rimane ancora un problema da esaminare. Finora
abbiamo visto che, sul piano del diritto sostanziale, il crimen non assorbe il delictum
quando in uno stesso fatto si vedano i presupposti dell’uno e dell’altro; e che
la coesistenza di essi, nei suoi riflessi processuali, dà luogo al cumulo del
mezzo di repressione pubblico con quello privato. A sua volta, il cumulo è
retto dal principio dell’indipendenza dei procedimenti, nel senso che nessuna
precedenza cronologica è stabilita a favore di uno dei due e, inoltre, che
nessun obbligo o limite è fissato al secondo giudice in relazione alla
valutazione della forza probatoria della sentenza anteriore. Da questi princìpi
discende la possibilità di un conflitto tra il giudicato criminale e il
giudicato in materia penale privata: è infatti evidente come la cumulabilità
dei due procedimenti, che possono esser condotti al loro termine, l’uno
indipendentemente dall’altro, possa portare come conseguenza ad avere, su uno
stesso fatto, due sentenze tra loro contrastanti. Ora, videro i Romani questa
possibilità? E, se la videro, con quale mezzo si proposero di risolvere
l’eventuale conflitto?
In realtà, i dati testuali in nostro possesso non
ci consentono di dare con certezza una risposta affermativa alla prima di
queste domande, per cui cade la possibilità di rispondere anche alla seconda,
individuando un mezzo preciso, inteso a regolare la materia in modo generale, e
cioè un mezzo processuale astrattamente riferibile alla risoluzione di ogni
possibile caso di conflitto tra i giudicati. Infatti, mentre le discussioni che
abbiamo trovato negli ultimi giuristi classici a proposito dell’ammissibilità
del praeiudicium sono risolte in modo
uniforme (nel senso che, pur mancando una regola che valga a definire il
principio dell’indipendenza dei procedimenti, questo ritorna costantemente,
ogniqualvolta l’osservazione che un determinato fatto illecito cade
contemporaneamente sotto le disposizioni repressive dei diversi sistemi penali
conduca a chiarire i rapporti tra esse), facendoci pensare che il problema
debba esser stato visto anche nella sua estrema conseguenza, tuttavia questa,
che si manifesta sotto l’aspetto del conflitto tra giudicato civile e
criminale, non appare mai presa in considerazione.
Bisogna quindi pensare che l’ordinamento
processuale romano non abbia inteso la contraddizione tra le due sentenze che
concludono rispettivamente il iudicium
publicum e il iudicium privatum
come causa determinante la invalidità di una di esse, in quanto giuridicamente
inconciliabile con l’altra. Non si può infatti riferire alla nostra materia
CI. 7.64.1 Imp. ALEXANDER A. Apollinario et aliis. Datam
sententiam dicitis, quam ideo vires non habere contenditis, quia contra res prius
iudicatas, a quibus provocatum non est, lata sit cuius rei probationem, si
promptam habetis, et citra provocationis adminiculum quod ita pronuntiatum est
sententiae auctoritatem non obtinebit (a. 222).
Non è qui certamente il caso di entrare nella discussione
implicata dalla c. cit. a proposito della classicità, che viene posta in
dubbio, del concetto di nullità della sentenza, e dei rapporti di esso con
l’istituto della consunzione giudiziale[195]. Ma,
qualunque soluzione voglia darsi al problema, non è possibile pensare che la
nullità della sentenza che qui si afferma conseguire alla difformità con un
precedente giudicato possa esser riferita all’argomento del concorso di azione
privata e repressione pubblica: l’espressione contra res prius iudicatas infatti presuppone che anche il secondo
processo sia avvenuto de eadem re,
ciò che esclude trattarsi di due giudizi, uno pubblico e uno privato, sullo
stesso fatto.
Posta l’inesistenza di una regola generale per
risolvere astrattamente ogni caso di conflitto tra il giudicato civile e il
giudicato criminale, è opportuno considerare partitamente i diversi aspetti del
problema: è ovvio infatti che non ogni ipotesi in cui si abbiano su uno stesso
fatto una sentenza privata e una pubblica che non siano ambedue di condanna o
di assoluzione deve necessariamente metter capo ad un conflitto tra i
giudicati.
Distinguiamo quindi le varie ipotesi possibili:
a) una sentenza di condanna conclude il processo
privato, seguita dall’assoluzione dell’accusato nel processo criminale
intentatogli in ragione dello stesso fatto;
b) una sentenza assolutoria conclude il processo
criminale; seguita dalla condanna nel processo privato;
c) una sentenza di condanna conclude il processo
criminale, seguita dall’assoluzione nel processoprivato;
d) una sentenza assolutoria: conclude il processo
privato; seguita dalla condanna nel processo criminale.
Nelle ipotesi fatte sub a) e b) non si verificherà il conflitto tra i
giudicati, per la ragione che i presupposti della punibilità del fatto non
coincidono nei due ordinamenti penali, privato e pubblico[196]. Il
conflitto è invece possibile nel caso visto sub c): ma essa ha in pratica poche probabilità di verificarsi, per le
ragioni già viste che inducono a ritenere difficile che il condannato in un
processo criminale sia nuovamente convenuto nelle forme del indicium privatum[197].
Conflitto di giudicati può poi determinarsi
nell’ipotesi vista sub d): infatti la
circostanza che tutti i casi di procedimenti, sopra individuati attraverso
l’esame testuale sorgano per la sussunzione nel campo criminale di fattispecie
dapprima considerate punibili solo nel campo del diritto penale privato,
importa che nel crimen si riscontrino
tutti gli elementi del delictum,
aggravati con l’elemento costitutivo della punibilità del fatto nel sistema
penale pubblico[198].
II cumulo del mezzo di repressione pubblico con
l’azione penale privata può quindi dar luogo al conflitto dei giudicati solo
nell’ipotesi in cui actione privata praeiudicium
iudicio publico fiat, quella cioè che
diede origine alle discussioni giurisprudenziali in materia: ma la risoluzione
di esso non è prevista dall’ordinamento processuale romano.
Va chiarito, d’altronde, che il conflitto è
d’ordine pratico, in quanto le due sentenze decidono in senso contrastante il
medesimo fatto e sono quindi tra loro logicamente inconciliabili, ma il
rapporto giuridico che viene definito è diverso nell’una e nell’altra: per
questa ragione forse, stante la rilevata indipendenza dei sistemi penali
pubblico e privato, i Romani non videro la contraddizione come inconciliabilità
giuridica, e non si preoccuparono quindi di regolarne le conseguenze[199].
Dobbiamo infine esaminare i rapporti tra
giudicato civile e giudicato criminale nell’ipotesi di connessione tra iudicium privatum e iudicium publicum: a questa materia si riferiscono le notizie che
possediamo sul principio pregiudiziale in omaggio al quale sarebbe stata
stabilita la precedenza del processo capitale. Sebbene esse siano insufficienti
a dimostrare l’esistenza di una norma edittale in tal senso in qualunque
momento del diritto romano, tuttavia è opportuno occuparsene brevemente in
questa sede, poiché nelle frasi ciceroniane in cui quella regola sarebbe
documentata ritorna il termine praeiudicium,
in un’espressione simile a quella con la quale i giuristi romani indicano i
rapporti tra procedure coesistenti; e questa circostanza ha dato luogo
all’equivoco per cui la dottrina ha creduto di poter unire la trattazione dei
due argomenti.
Nel senso più lato, si verifica connessione tra
procedimenti quando tra essi intercede una qualunque relazione processuale:
tuttavia, se in questa definizione rientrano le ipotesi riferite da Cicerone[200], nelle
quali avrebbe operato la regola pregiudiziale, dobbiamo però rilevare che un
concetto di connessione così largo non può essere tecnico, non può cioè essere
utilizzato per definire quali relazioni tra diverse procedure fossero regolate
con la precedenza del processo criminale. Per l’epoca più antica dobbiamo
pertanto limitarci a concludere, riunendo i dati positivi che possediamo in
materia, esser verosimile che, in rispetto alla maggior importanza del iudicium publicum, il pretore potesse in determinati casi sospendere
l’azione privata la cui decisione avrebbe potuto influenzare l’opinione della
giuria chiamata a giudicare un crimen capitale. Non possiamo sapere per quanto
tempo, né entro quali limiti, abbia operato questa idea pregiudiziale nel periodo
che segue l’età di Cicerone: né ci risulta che essa abbia trovato posto
nell’editto di Salvio Giuliano, in una disposizióne pretoria espressamente
diretta ad impedire che si agisse nelle forme del processo privato prima della
definizione di un crimen capitale con quello connesso. Poiché anche questo
problema non può essere risolto che attraverso l’esame testuale, bisogna
convincersi che la precedenza del processo pubblico, in epoca classica, ci è
attestata in alcuni casi ben diversi tra loro e che non si prestano ad essere
riuniti sotto una generalizzazione concettuale.
In un primo caso, dà luogo alla sospensione del
processo civile il crimen falsi ad
esso incidentale: ULP. D. 5.3.5.1; CI. 9.22.2 (ALEX., a. 223); CTh. 9.19.2 (CONST. a. 320)[201].
In altra ipotesi il iudicium publicum precede la controversia privata quando il pretore
non concede il liberale iudicium allo
schiavo che si dica manomesso per testamento, perché egli non si sottragga alla
tortura disposta al fine di indagare sulla morte del testatore: ULP. D.
40.12.7.4 [202].
Infine, l’accusatio
adulterii è pregiudiziale al iudicium
de moribus in PAP. D. 48.5.12.3.13; CI.
9.9.32 (THEOD. ARCAD. HONOR., a. 392)[203].
In tutti questi casi, il iudicium publicum è con il iudicium
privatum in rapporto di connessione per pregiudizialità, in quanto la
previa risoluzione del primo è condizionale per la risoluzione del secondo.
Tuttavia è evidente rimpossibilità di riunire le diverse ipotesi sotto un
concetto tecnico di pregiudizialità che giustifichi la precedenza del processo
criminale in ognuno dei casi esaminati, poiché questi sono tra loro
giuridicamente differenti: se noi chiamiamo pregiudiziale in senso tecnico
quella questione che si presenti come presupposto non solo logico ma giuridico
della questione che viene proposta in un secondo processo, tale qualifica
spetta al crimen falsi sorto
incidentalmente nel corso di una controversia privata e al crimen adulterii nei confronti dell’iudicium de moribus; ma non può invece essere usata a definire
l’ultima ipotesi in cui le fonti affermano la precedenza del iudicium publicum.
Infatti, lo schiavo manomesso non deve ottenere
il liberale iudicium perché anch’egli
dev’essere sottoposto alla tortura prescritta dal SC. Silanianum per tutta la familia del testatore ucciso; ora, non
si può dire che l’inchiesta sull’omicidio sia presupposto logico e giuridico
della libertà che lo schiavo otterrebbe per mezzo della causa liberalis, in quanto il risultato di quella lascia comunque
impregiudicata la questione della manumissione[204].
Diversa è l’ipotesi della sospensione del iudicium de moribus, poiché quest’azione
non esiste se non in seguito ad una condanna per adulterio, con lo scopo di
definire le conseguenze patrimoniali di un divorzio risultante dalla cattiva
condotta della donna: in questo caso pertanto la precedenza del processo
criminale è bensì dovuta ad una ragione di pregiudizialità logica e giuridica,
ma questa a sua volta non si manifesta sotto il profilo dell’influenza che il
primo giudicato può assumere per il secondo giudice. Non essendo possibile far
valere una pretesa nel processo privato se non come conseguenza della sentenza
criminale di condanna, il giudice della causa
de moribus deve necessariamente tener conto di essa e non può quindi
determinarsi conflitto tra i giudicati.
II problema si pone invece nell’ipotesi del falso
incidentale: quando cioè nel corso di un processo privato venga sollevata
questione intorno alla validità di un documento. In tal caso, per diritto
classico, l’autenticità di esso può essere controllata in due modi: da un lato,
il convenuto sulla base di una disposizione contenuta in un documento può
discuterne con qualunque mezzo il valore probatorio durante lo stesso dibattito
che si svolge in sede civile per la formazione del giudizio di fatto: il
giudice (il quale, mancando l’ordinamento romano di un sistema di prova legale,
ha piena libertà nella valutazione dell’efficacia probatoria del documento) può
scartare la prova che gli appaia falsa. Attraverso questo mezzo di difesa colui
che si sia servito di un falso strumento perde il beneficio della prova
arrecata, ma non si giunge ad una dichiarazione sulla falsità di essa né alla
punizione del colpevole[205].
D’altro lato, il convenuto che voglia accertare l’autenticità di un . documento
e ottenere la condanna del reo di falso, può promuovere contro di lui un
processo criminale accusando ex lege
Cornelia: in tal caso, il giudice sospende la causa privata per permettere
che la questione incidentale venga preliminarmente accertata in un iudicum publicum[206].
Questo secondo mezzo attraverso il quale il
convenuto può discutere la validità di un documento che ritiene esser
falso (da ultimo studiato in riferimento alla riforma con la quale nel 378
viene introdotta la possibilità di accertare, in un autonomo procedimento
civile, l’autenticità di scritture probatorie[207], a noi
interessa qui sotto il profilo dei rapporti tra la sentenza sul crimen falsi e il processo privato
incidentalmente al quale esso è sorto.
Una costituzione di Alessandro Severo ci illumina
sul significato e sulle conseguenze della precedenza accordata al processo
criminale nei confronti della controversia civile:
CI. 4.21.2 Imp. ALEXANDER A.
Maniliano. Si uteris in strumento, de quo alius accusatus falsi victus est, et
paratus es, si ita visum fuerit a quo pecuniam petis, eiusdem criminis te reum
facere et discrimen periculi poenae legis Corneliae subire, non oberit
sententia, a qua nec is contra quem data est appellavit, nec tu, qui tunc
crimini non eras subiectus, appellare debuisti (a. 223).
La sentenza con la quale alcuno fu condannato
come reo di falso non oberit contro
chi esibisca nuovamente lo stesso documento che ad essa diede occasione:
l’attore può cioè portarlo a sostegno della propria pretesa, sapendo però che,
qualora il convenuto ritenga opportuno intentare l’accusatio falsi, egli si espone al pericolo di subire a sua volta
la pena della legge Cornelia[208]. La
ragione per cui Alessandro afferma che l’attore creditore può esibire
nuovamente un documento già riconosciuto falso in altro processo criminale,
senza che la precedente sentenza possa venirgli opposta, è da vedere nel fatto
che egli non era tunc crimini subiectus,
e non aveva pertanto avuto la possibilità di interporre appello: sarebbe stato
ingiusto che la condanna operasse contro chi non aveva avuto modo di essere
ascoltato in giudizio. È quindi il principio così spesso ripetuto in
quest’epoca, per il quale res inter alios
iudicatas aliis non praeiudicare, che viene qui applicato e che esclude
l’estensione della condanna per falso a chi usi in altro processo il documento
che ad essa aveva dato luogo[209]. Da
questo principio discende l’assoluta indipendenza della sentenza civile dal
giudicato criminale: poiché il giudice, in coerenza con i princìpi che regolano
la sua attività nella formazione del giudizio di fatto, deve decidere sulla
pretesa dell’attore creditore secondo le prove che gli vengono presentate; e
pertanto, qualora il convenuto non intenti la accusa, né riesca ad impugnare
durante il dibattito l’efficacia probatoria della scrittura presentata, il
giudice deciderà la controversia in base al contenuto del documento, anche se
eventualmente egli conosca l’esistenza della precedente condanna criminale[210].
Dalla c. 2 cit. si deduce d’altronde,
argomentando a contrario, che inter
partes, qualora il convenuto intentasse l’accusatio falsi, la sentenza criminale era condizionale ed
obbligatoria per la soluzione della controversia privata, la quale pertanto
doveva essere decisa in conformità con quella.
La decisione di Alessandro si inserisce in
perfetta coerenza nell’ordinamento processuale classico, in quanto con essa
viene ribadita una volta di più l’indipendenza tra iudicium publicum e iudicium
privatum, basata sulla differenza nella struttura degli stessi, la quale
permette che il risultato del procedimento criminale, vólto unicamente alla
punizione del reo, non abbia alcun effetto nel sistema privato, ciò che
avverrebbe invece se, in base a quello, si imponesse la distruzione o almeno si
impedisse l’uso del documento riconosciuto falso. Ciò spiega perché, pur
essendo ovvio come questi princìpi riaffermati da Alessandro possano portare
ancora ad una contraddizione tra i giudicati, giuristi ed imperatori non si diano
pensiero di tale eventualità, ammettendo anche qui che l’incompatibilità logica
tra due sentenze non dia luogo a conseguenze giuridiche.
In una costituzione di non molto posteriore, i
rapporti tra causa civile e questione criminale incidentale sono invece
regolati in maniera fondamentale diversa:
CI. 3.8.3 Impp. VALERIANUS et GALLIENUS
AA. Demetrio. Cum civili disceptationi principaliter motae quaestio criminis
inciderit [vel crimini prius instituto civilis causa adiungitur], potest iudex
eodem tempore utramque quaestionem sua sententia dirimere (a. 262).
In essa si afferma che, qualora incidentalmente
nel corso di una controversia privata venga proposta una questione penale, oppure
pendente un processo criminale sorga un incidente di natura civile, il giudice
adito in via principale può definire ambedue le questioni contemporaneamente e
con una sola sentenza. Questa cost., apparentemente inconciliabile con i
princìpi già visti, non dà tuttavia luogo a difficoltà nell’interpretazione.
Infatti (ove si tolga la frase vel -
adiungitur, che generalizza la portata della decisione imperiale fino ad
attribuire ad ogni giudice la competenza a definire con una sola sentenza
qualsiasi questione che, nel corso del processo principale, appaia con quello
connessa), essa si spiega secondo i nuovi princìpi introdotti dalla cognitio extra ordinem e ormai
pienamente operanti. Fino a quando i giudizi si svolgono nelle forme stabilite
dall’ordo iudiciorum, non si ha
certamente la possibilità che lo stesso giudice decida contemporaneamente due
questioni in materia civile e criminale, poiché l’ordinamento processuale è
ancora interessato alla distinzione tra iudicia
publica e iudicia privata: ma questa
si va svuotando del suo significato e nel 262 per il progressivo generalizzarsi
della procedura di cognizione ufficiale, gli imperatori possono prescindere
dalla prassi risalente e permettere che il praeses
provinciae[211]
risolva con una sola sentenza la causa civile principale, e la questione
criminale sorta incidentalmente. Valeriano e Gallieno, nel concedere la
riunione dei procedimenti, potevano valersi di alcuni precedenti classici, che
nel campo della cognitio extra ordinem
avevano già ammesso questa possibilità[212].
Inoltre un precedente diretto, ed espresso quasi negli stessi termini, della
costituzione del 262 si trova in una cost. di Alessandro Severo di cui nel
Codice ci sono conservati due frammenti:
CI. 6.34.1 Imp. ALEXANDER A. Severae. Civili
disceptationi crimen adiungitur, si testator non sua sponte testamentum fecit,
sed compulsus ab eo qui heres est institutus [, vel quoslibet alios quos
noluerit scripserit][213] (a.
229).
CI. 7.45.4 Imp.
ALEXANDER A. Severae. Prolatam a praeside sententiam contra solitum iudiciorum
ordinem auctoritatem rei iudicatae non obtinere certum est (a. 229).
Sono note le discussioni che sorgono dalla c. l.
cit., in ordine al problema della validità del testamento coatto; le varie
opinioni sostenute in proposito sono tutte volte a cercar di determinare il
significato della civilis disceptatio
cui Alessandro dice dar luogo la costrizione a testare[214],
L’espressione però (indicando il dibattito tra le parti nell’istruzione
preliminare della causa o nel vaglio dei rispettivi mezzi di prova), è troppo
indeterminata e conviene a qualunque mezzo fosse attualmente in discussione per
far valere l’invalidità dell’istituzione d’erede estorta con violenza o cori
dolo: si suole quindi concludere che «l’imperatore si limita a dire che oltre
la disceptatio civilis è intentabile
l’azione penale contro colui che estorse con violenza il testamento»[215]. Io
credo però che, se AIessandro avesse voluto indicare le conseguenze giuridiche
della coazione secondo il diritto sostanziale,
come si ritiene per concorde dottrina, avrebbe maggiormente precisato i
mezzi per diritto civile e criminale competenti contro l’autore della violenza,
invece di limitarsi ad una generica formulazione; e sopratutto, da questo punto
di vista, resta inesplicabile la seconda parte della cost., contenuta in CI. 7.45.4: essa, prendendo in
considerazione la validità della sentenza, induce a pensare che Severa si fosse
rivolta all’imperatore sottoponendo al suo parere un giudizio già avvenuto,
piuttosto che per chiedergli quali fossero i mezzi a sua disposizione nella
fattispecie concreta[216], Da
questa precisazione mi sembra riceva luce la frase crimen adiungitur, con la quale forse Alessandro afferma che la
controversia civile deve essere risolta in base all’esito dell’indagine sulla
violenza fatta al testatore, condizionale per sapere se il testamento fosse o
no giuridicamente valido. Con questa disposizione non si è ancora arrivati alla
fusione delle due istanze quale, in seguito, vediamo ammessa da Valeriane e
Gallieno, giacché l’affermazione che il crimen
debba esser aggiunto alla discussione civile non dimostra ancora, in mancanza
di espressa testimonianza in tal senso, che le due questioni possano essere
risolte con una sola sentenza. La costituzione di Alessandro però, certamente
presente ai compilatori di C. 3.8.3, chiarisce l’origine di questa
disposizione, con la quale il problema dei rapporti tra procedimenti pubblici e
privati (in quanto si presenti nell’ambito della cognitio extra ordinem, gli organi della quale hanno competenza in
materia sia civile che criminale) viene risolto con la possibilità loro
concessa di esaminare in un unico procedimento entrambe le cause[217].
Tuttavia, i nuovi princìpi ora visti non operano
obbligatoriamente: potest iudex utramque
quaestionem dirimere, dicono gli
imperatori. Che anche in questo caso l’ordinamento romano non abbia
autoritativamente abolito le forme più antiche, lasciando che esse si
esaurissero progressivamente, è dimostrato da due costituzioni, dove Costantino
richiama l’antica prassi, secondo la quale i procedimenti in materia civile e
criminale erano tra loro indipendenti:
CTh. 9.19.2 pr. Imp. COSTANTINUS
A. ad Maximum p. u. Cum in praeterito is mos in iudiciis servaretur, ut
prolatis instrumentis, si ea falsa quis diceret, a sententia iudex civilis
temperaret eoque contingeret, ut imminens accusatici nullis clausa temporibus
…(a. 320).
Non ci interessa qui la riforma introdotta con
queste parole, volta a far cessare gli abusi dei debitori che, convenuti sulla
base di una disposizione contenuta in un documento, riuscivano a ritardare il
processo con la minaccia di volerne impugnare l’autenticità: importante è
invece rilevare come il regime classico dei rapporti tra causa civile e accusatio falsi sia rimasto
sostanzialmente immutato: infatti il mos
riferito da Costantino corrisponde alla dottrina che abbiamo visto insegnata
dai giureconsulti[218]. Lo
stesso regime è ancora ribadito, alcuni anni più tardi, in
CI. 3.8.4 Imp. COSTANTINUS
A. ad Calpurnianum. Quoniam civili
quaestione intermissa saepe fit, ut prius de crimine iudicetur, quod utpote
maius merito minori praefertur: ex quo criminalis quaestio quocumque modo
cessaverit, oportet civilem causam velut ex integro in iudicium deductam
discingi, ut finis criminalis negotii ex eo die, quo inter partes fuerit lata
sententia, initium civili tribuat quaestioni. (a. 336).
Mentre in CTh. 9.19.2 il mos secondo il quale il processo criminale ha la precedenza sulla
controversia principale è riferito solo ai rapporti tra causa civile e accusatio falsi, qui la massima è
ripetuta in modo generale, come applicabile ad ogni caso in cui si abbiano
interferenze tra procedimenti civili e criminali. È difficile stabilire
esattamente il valore di questa prassi riferita da Costantino, poiché l’unica
ipotesi in cui essa si accordasse con la dottrina classica della connessione
per pregiudizialità ha ormai ricevuto una diversa regolamentazione, proprio
attraverso c. 2 cit., che la ricorda per lamentare gli inconvenienti da essa
derivanti. Non mi sembra possibile pensare che in C. 3.8.4 il principio
classico sia riportato con valore storico[219], in
quanto, se l’antica prassi non fosse più operante in quest’epoca, difficilmente
l’imperatore si sarebbe indotto a regolare il modo (velut ex integro) e i termini (ex
eo die quo fuerit lata sententia) in cui deve esser ripresa la causa civile
sospesa per giudicare la questione criminale sorta incidentalmente. Io ritengo
che, poiché Costantino dice saepe fit,
egli abbia in questa cost. inteso regolare le relazioni tra procedimenti in una
di quelle ipotesi in cui la precedenza della questione criminale, come
determinata da esigenze di logica giuridica, debba essere rispettata dal
giudice competente pur in mancanza di una espressa disposizione in tal senso[220].
In questa indagine ci eravamo proposti di cercare
come fossero regolati nel diritto romano i rapporti tra processi pubblici e
privati. La ricerca ci ha condotto a mettere in luce alcune tendenze
determinate, sullo scorcio del Principato, dal passaggio dalla procedura
ordinaria a quella dell’età postclassica.
Abbiamo visto in primo luogo non esser dimostrata
l’esistenza nell’ordinamento romano di una regola pregiudiziale, inserita nel
l’editto per stabilire la precedenza del processo pubblico in ogni caso di
interferenze con un processo privato: il riconoscimento dell’influenza
pregiudiziale che una sentenza può esplicare sullo svolgimento di un giudizio
successivo, non si sostanzia mai in un comando giuridico pretorio.
Per valutare quindi in concreto i singoli casi di
rapporti tra iudicia publica e iudicia privata, bisogna anzitutto
distinguere a seconda che essi siano esperibili in ragione di uno stesso fatto,
oppure si svolgano su fatti diversi e indipendenti, pur essendo collegati per
una ragione di logica giuridica.
II primo problema non poteva porsi per i Romani
sotto il profilo del concorso dei mezzi di repressione pubblici e privati,
poiché la loro caratteristica differenza di funzione e di struttura implicava
che essi fossero considerati come coesistenti e non come concorrenti.
L’impostazione del problema da questo punto di vista conduce all’indipendenza
tra iudicium pubblcum e iudicium privatum e infatti l’esame dei singoli delitti ha rivelato come
essi fossero sempre cumulabili. Tale indipendenza poi, sul piano processuale,
importa che nessun obbligo o limite sia fissato al secondo giudice in relazione
alla possibile influenza del primo giudicato; una ulteriore conseguenza ne è da
vedere nel fatto che l’eventuale conflitto tra i giudicati non fosse
considerato come inconciliabilità giuridica determinante l’invalidità di una
delle sentenze contrastanti.
Nella tarda epoca classica però si sviluppano
alcune tendenze, determinate dall’evoluzione del diritto penale sostanziale e processuale.
Da un lato cioè l’elaborazione del diritto criminale da parte del Senato e
della cancelleria imperiale porta ad allargare il campo d’applicazione delle
leggi criminali, ricomprendendovi nuove fattispecie dapprima considerate
punibili solo nelle forme del processo privato. D’altro lato, una
corrispondente evoluzione del diritto processuale conduce a limitare all’offeso
la possibilità di accusare, in un primo tempo concessa a qualunque cittadino:
si attenua così quella netta distinzione di funzione e di struttura che
esisteva tra procedimenti pubblici e privati. Tuttavia il nuovo punto di vista
che i giuristi romani non poterono mancare di considerare, non li indusse a
regolare diversamente i rapporti tra processi coesistenti. Solo con la completa
fusione della procedura pubblica e privata nella unificata cognito extra ordinem, che in Roma non è anteriore all’età
dioclezianea, il problema può essere impostato sotto il profilo del concorso
tra causae civiles e causae criminales, distinte in relazione
all’oggetto della controversia, ma non più da un punto di vista strutturale.
In certo modo corrispondente è il regolamento
della connessione tra processi: nell’ordinamento romano dell’età classica la
precedenza del processo criminale sulla causa civile con quello connessa è
certamente stabilita solo nell’ipotesi del crimen
falsi incidentale ad una controversia privata: e ciò in considerazione
della pregiudizialità della questione di falso sul processo civile, che deve
esser deciso in base all’esito di quello. Per altri casi di interferenze tra
processi pubblici e privati è da ritenere che non esistesse una regola generale
per determinare la successione cronologica dei giudizi: essi erano indipendenti
in coerenza con la diversità nella loro struttura: ma qualora, per ragioni
d’ordine logico e giuridico, una questione si presentasse come pregiudiziale
rispetto ad un’altra, la precedenza di quella doveva esser attuata dal
magistrato competente. Il problema, nella stessa epoca classica, vien posto in
una nuova luce dal diffondersi della cognitio
extra ordinem, poiché in questa i giudizi si distinguono in relazione
all’oggetto e non più alla struttura, e gli organi del processo hanno
competenza sia in materia civile che criminale. In questa procedura quindi, dapprima
eccezionalmente e poi con maggior sicurezza, si venne affermando il principio
che le questioni connesse potevano essere decise nello stesso giudizio e con
una sola sentenza.
[1] Non sarà evidentemente il caso
dì esaminare tutti i significati che il termine riveste nel linguaggio tecnico
del processo romano, ma solo quelli in cui esso è importante per la materia in
esame. In altra accezione praeiudicium
(o praeiudicialis formula) significa
processo di accertamento, nel quale si ottiene una decisione condizionale per
un altro processo ovvero per il prodursi di determinati effetti giuridici: GAI.
IlI, 123; IV. 44. Il termine ritorna in due eccezioni concesse al fine di
stabilire la precedenza di processi ritenuti privilegiati: ULP, D. 5. 3. 5. 2;
ULP. D. h. t. 7; ULP. D. 8. 5. 1. Infine, praeiudicium
indica l’autorità della cosa giudicata, alla quale consegue l’impossibilità che
un secondo giudizio abbia luogo sullo stesso rapporto giuridico già definito
con sentenza: MACER D. 42. 1. 63; MOD. D. 44.1. 40; ULP. D. 44. 2. 1; ecc.
[2] Pissard, Les questions
préjudicielles en droit romain, Paris 1907, con la precedente letteratura.
[3] Rein, Das Criminalrecht
der Römer von Romulus bis auf Justimanus, Leìpzig 1844, 253 ss.; 258 ss.; Ferrini, Diritto penale romano, Milano 1899, 222 ss.; Id., Esposizione storica e dottrinale del divitto penale romano, in Enciclopedia Pessina, Milano 1902, 133
ss.; Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899; tr.
fr, Droit penal romain, Paris 1903,
v. IlI, 221 ss.
[4] De Sarlo, Sulla
repressione penale del falso documentale in dir, rom., in Riv. Dir. Proc. Civ. 14 (1937) I, 313
ss.
[6] Riuniti da Bekker, Die Aktionen des römischen Prìvatrechts, Berlin 1871, 249 ss., 377.
Cfr. anche Merguet, Handlexikon zu Cicero, Leipzig 1905, s.
v. praeiudicium, praeiudicare.
[8] È questo il significato
originario della parola, cfr. Ernout
e Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1932, s. v. ius.
[10] Sull’autorità della
giurisprudenza, v. ULP. D. 1.3.34 e CALL, D. h. t. 38, Pseudo Asconius in
Divin. in Caec., 4.12 (Orelli 1.104)
commenta le parole di Cicerone De quo non
praeiudicium sed iudicium con Praeiudicium dicitur res quae cum statuta
fuerit affert iudicaturis exemplum quod sequantur.
[11] V. Pissard, Les questions préjudicielles, cit., 10 ss.; Siber, Praeiudicia als
Beweismittel, cit., 48.
[12] V.2.3; XI.1.75-78.
[13] II valore di essi non è
diminuito dal fatto che si tratti di una fonte letteraria, poiché l’opera dei
retori è la più valida testimonianza in materia di sistema probatorio: Cfr. Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romains, Paris 1928, 882; Tozzi, L’evoluzione del giudizio di fatto nel processo romano, in Riv. Dir. Proc. Civ. 17 (1940), I, 143
ss.
[14] Wenger, Istituzioni di
proc. civ. rom., München 1925; trad. it., Milano 1938, 190 ss.; Costa, Cicerone, giureconsulto, Bologna 1926, I, 33 ss.; da ultimo a fondo
sull’argomento Lemosse, Cognitio, Paris 1944, 158 ss. Su alcuni
problemi dell’istruzione probatoria in dir. rom., cfr. anche Levy, Beweislast im klassischen Recht, in Jura, III (1952), 155 ss.
[20] Per l’intp. v. Brasiello, La repressione penale in dir. rom., Napoli 1937, 64. Altra
soluzione per eliminare la sconcordanza formale propone Mommsen, ad h. l.
[21] Non bisogna dimenticare che è dell’epoca
ciceroniana la regolamentazione, ad opera di Silla, delle quaestiones perpetuae (dapprima organizzate solo in via
eccezionale), nelle quali si vedeva rappresentato tutto il popolo, cui spettava
la persecuzione di un crimine che aveva offeso l’intera collettività.
[23] Levy Bruhl, La denegatio actionis sous la procedure
formulaire, Lille 1924, 48, afferma che Metello giustifica il suo rifiuto
di concedere la formula rifacendosi direttamente alle prescrizioni del suo
editto che proibiva di portar pregiudizio ad una causa capitale: ma, pur se si
voglia ammettere l’esistenza di una norma edittale così concepita non mi sembra
che un simile riferimento ad essa si trovi documentato nel testo ciceroniano.
[24] Wlassak, Praescriptio
und bedingter Prozess, in ZSSt.
33 (1913) 144, vede in questa exceptio
una praescriptio pro reo, che operando come una denegatio
sotto condizione non deduce l’azione in giustizia.
[25] Questa translatio, costruita dai retori (Cic. De
inv. 2.19.57-58; QUINT. Inst. Or.
III.6.46, 53 ss.)
ad imitazione dell’analoga meta/lhyij
dei Greci, non va confusa con la translatio
judicii: Cfr. KOSCHAKER, Translatio
judicii, 1905, 17 n. 1
[26] Così Pissard, 99 ss. e, dubitativamente, Lenel, 1. c. per quel che riguarda l’editto adrianeo: secondo
questi autori, la precedenza del processo capitale sarebbe comunque assicurata
per mezzo della denegatio dell’azione
privata.
[27] L’intp. è segnata da Biondi, La compensazione in dir. rom., Cortona 1927, 57, il quale nota come
la prima parte del fr., nella quale si afferma l’indipendenza delle cause, sia
in contrasto con la frase seguente. Non mi sembra però che si possa addurre a
conferma del principio classico D. 44.1.21, dove si troverebbe sancita in ogni caso la
proibizione di portar pregiudizio ad una causa
maior. Nel fr. cit., invece, Nerazio
si limita a definire in quale ipotesi si verifichi il praeiudicium: e cioè quando ea
quaestio in iudicium deducitur, quae vel tota vel ex aliqua parte communis est
quaestioni de re maiori: anche questa formulazione è evidentemente troppo
comprensiva per poter essere tecnicamente usata a regolare ipotesi di
connessione tra processi.
[29] Pissard, notando che i giuristi non definirono la res maior, conclude: « quand les textes
qui nous s’ont parvenus parlent de praeiudicium,
c’est que le proces prefere doit ètre une causa
maior » (148 n. 2). Siber,
59: «Für die Reihenfolge der Entscheidungen ergäbe hiernach die Kasuistik von minor und maior causa ein ganz
unzutreffendes Bild».
[30] La dottrina più recente tende
ad attribuire la compilazione delle Sententiae
ad un giurista contemporaneo di Diocleziano: v. Arangio ruiz, Storia
del dir. rom., Napoli 1950, 300, con bibliografia.
[31] Cfr. Schulz, Das
Ediktssystem in den Paulus Sentenzen, in ZSSt. 47 (1927), 43; Scherillo,
L’ordinamento delle Sententiae di Paolo,
in Studi Riccobono, I, 44.
[32] V. infra § 8. Diversamente Siber cit., 63, che pur accettando la correzione
di Biondi interpreta la seconda frase del fr. come indicativa della funzione
della regola pregiudiziale in epoca classica.
[34] D. 5.3.6 ULP. 75 ed. Si testamentum falsum
esse dicatur et ex eo legatum petatur, vel praestandum est oblata cautione vel
quaerendum an debeatur, etsi testamentum falsum esse dicatur. Ei tamen qui
falsi accusat, si suscepta cognitio est, non est dandum. Sull’obbligo del
legatario di prestare una cauzione per il caso d’evizione dell’eredità, v.
PROC. D. 31.48.1; PAUL. D. 35.2.41; ULP. D. 35.3.3.6; PAUL. D. h. t. 4 pr.; CALL. D. h. t.
6; IUST. C. 3.31.12.1
[35] L’intp. è segnata, sulla base
di indizi formali di alterazione, da Beseler
(Miscellanea, in ZSSt. 44 (1925) 247; Romanistische
Studien, in Tijdschrift vor
Rechisgeschiedenis X (1930) 187) in una esatta critica esegetica, ma senza
giustificazione dal punto di vista storico. Il pretore completando le
disposizioni del SC. Sìlanianum aveva
vietato di aprire il testamento di chi fosse stato ucciso dai suoi servi prima
della fine dell’indagine sull’omicidio, proprio per evitare che gli schiavi in
esso manomessi si sottraessero alla tortura. Il iudicium liberale quindi non viene differito fino alla sentenza
sull’omicidio perché si possa stabilire in conseguenza di essa se anche gli
schiavi liberati per testamento debbano esser sottoposti alla tortura, ma,
viceversa, perché essi non si sottraggano alla tortura, disposta al fine di
indagare sulla morte del testatore. Tuttavia il mutamento d’indirizzo è certo
anteriore a Giustiniano, e le tre frasi inserite nel fr. 7.4 sono forse da
considerare come glossemi| esplicativi.
[37] Così invece Pissard, 184 ss., il quale, seguendo Lenel cit., riunisce intorno al concetto
di praeiudicium proibito tutti i casi
in cui le fonti attestino la precedenza di un processo capitale su un processo
privato.
[38] Sulla distinzione tra delictum e crimen, v, Rein, Criminalrecht cìt., 98 ss.; Pernice, Labeo, II, 2 ed. 1895, II ss.;
Mommsen, Dr. Pen, cit., I, 62 ss.; 202 ss.; Ferrini, Esposizione
cit., 11 ss.; Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano,
Bologna 1921, 17 ss.; Id., Storia del
dir. rom. priv., 2 ed., Torino 1925, 313. Si veda inoltre Albertario, Delictum e crimen nel dir. rom. classico e nella legislazione
giustinianea, in Pubbl. Univ. Catt.
IlI (ora in Studi di dir. rom. IlI,
Milano 1936, 141 ss.); e per alcune critiche alla troppo rigida concezione di
Albertarìo Lauria, Contractus delictum oblgatio, in SDHI IV (1938) 163 ss.
[41] A sua volta, l’esistenza di
questa norma risalente sarebbe provata dall’exceptio
che Cicerone menziona in De Inv. II.20.59.
[45] Così invece De sarlo cit., 350. Egli ritiene che,
ad impedire l’esercizio dell’azione privata dopo quello del mezzo pubblico, la denegatio pretoria abbia sostituito
nell’età dei Severi l’exceptio extra quam
riferita da Cicerone. A prescindere da ogni altra obbiezione contro questa
costruzione, osservo che non si può collegare effetto esclusorio alla denegatio actionis, poiché come è noto
questa impedisce bensì la litis
contestatio e quindi il processo, ma non ha invece alcun effetto
sull’azione, Cfr. Pugliese, II processo formulare, II, Lezioni
Genova 1948-49, 149.
[49] Mommsen, I, 220 ss.; Levy,
Kapitalstrafe cit., 64; ID., Gesetz und Richter im kaiserlichen
Strafrecht, in BIDR 45 (1938) 133
ss.; Brasiello, Repressione, 40 ss.; ID., Sulle linee e i fattori dello sviluppo del
dir. pen. rom., in Arch. Giur.
CXX (1938) 73 ss.; Archi, Problemi in tema di falso nel dir. rom.,
in Studi Sc. Giur. Università di Pavia
26 (1941).
[50] Nel Digesto, questi nuovi
crimini occupano i titt. 11-22
del lib. 47; seguono quindi i titoli dedicati ai delitti privati, e precedono
l’esposizione dei publica iudicia.
[52] Mentre nell’ordo la pena era fissa, i rescritti
imperiali davano solo elastiche direttive, che il giudice era tenuto a seguire
ma che gli lasciavano molta libertà, anche se richiamavano una pena legale: v. Levy, Gesetz und Richter cit., 96 ss.
[53] Lauria, Accusatio
Inquisitio, in Atti Accad. Sc., Mo.
Polit. di Napoli, 56 (1933) 5 estr. Coerentemente con la visione dello
sviluppo storico del diritto criminale da un punto di vista processuale tutto
basato sul contrasto tra ordo iudiciorum
- cognitio extra ordinem, Lauria
considera poi, sul piano del diritto sostanziale, come autonomi crimina extraordinaria tutti i nuovi
casi che, essendo previsti dopo la lex
Julia, non potevano essere repressi da una quaestio né perseguibili con accusa popolare.
[55] Brasiello, 51 e n. 78, ritiene che l’elenco di Macro abbia
solo un valore esemplificativo in quanto mancherebbero il falso, il peculato e
il plagio. Ora, mentre i primi due delitti sono compresi nell’elenco (lex Julia peculatus, Cornelia de testamentis), mancano
effettivamente il plagio e le iniuriae
previste dalla lex Cornelia, Lauria, 60-62,
pensando invece che Macro enumeri tassativamente i crimini perseguiti con
accusa pubblica, rende ragione di questa mancanza con la considerazione che
l’accusa per il plagio e per le iniuriae,
crimini perseguibili in processi speciali, non era però concessa a quivis de populo. Si può notare che
probabilmente ciò non è vero per il plagio (Huvelin,
Études sur le furtum, I, Lion 1915,
105; Berger, Note crìtiche ed esegetiche in tema di plagio, in BIDR 45 (1938) 275; Pugliese, Studi sull’iniuria, Milano 1941, 130 ss.); inoltre, la lex Julia de adulteriis limita l’accusa
al marito e al padre dell’adultera ed è tuttavia compresa nell’elenco. Non
credo pertanto che questo comprenda l’enumerazione completa ed esclusiva dei
crimini che, essendo perseguibili con accusa pubblica, sono tuttora qualificati
publica, né che tale qualifica debba
quindi essere negata a tutti i giudizi regolati dal Principe o dal Senato con
la subsunzione di altre fattispecie sotto la figura criminosa prevista da una lex.
[57] D. 48.1.8
PAUL. lib. sing. de publ. iud. Brasiello 209-10, ritiene che capitalium sia stato da Giustiniano
sostituito a publicorum. Sembra però
preferibile pensare alla semplice omissione di questa ultima parola; Mommsen, I, 224 n. 2 e Levy, Gesetz und Richter cit., 160 n. 479. Sull’argomento v. anche Girard, Les leges Julias iudiciorum publicorum et privatorum, in ZSSt. 34 (1933) 306 n. 1.
[58] Le linee di questa evoluzione
sono messe in luce da Pugliese, Processo privato e processo pubblico, in
Riv. Dir. Proc. v. 3 (1948) 92 ss.
[59] Minore importanza dovette avere
la repressione straordinaria attuata dalle commissioni senatorie, sia per la
probabile limitatezza del campo affidato alla giurisdizione del Senato che per
il rapido decadere della sua attività. Su quest’argomento sappiamo tuttavia ben
poco: v. Mommsen cit.,293 ss.; Staatsrecht, ed.
fr. 1891, VII, 266 ss.; Costa, Crimini e pene cit., 81 ss.; e alcuni
brevi cenni nei manuali di Storia del
Diritto Romano.
[60] Le giurie non sono più ricordate
dopo Settimio Severo: Mommsen I,
255 ss.; Pugliese, Processo cit., 96 n. 1; Arangio ruiz, Storia cit.,
325. Gli argomenti di Brasiello,
45 ss., volti a
dimostrare il permanere almeno formale delle quaestiones fino all’epoca di Diocleziano, in realtà non sono
probanti per l’età successiva ai Severi. Che la cognitio sia ormai imperante provano invece i testi citati nelle
nn. 56 e 57.
[62] La maggior parte delle opere
sui iudicia publica, pur comprendendo la trattazione di casi di giudizi
straordinari, parte sempre dalla procedura ordinaria ed esamina quelli in
contrapposto a questa.
[63] Prescindendo cioè dall’accordo
delle parti e di fronte ad un magistrato: questi caratteri distintivi del iudicium publicum furono definitivamente
chiariti da Wlassak, Anklage und Streitbefestigung im
Kriminalrecht der Römer, Wien 1917.
[64] Cfr., oltre agli Autt. cit.
nella n. 49, Levy, Von den römischen Anklägevergehen, in ZSSt. 53 (1933) 209, 225 ss.
[65] Cfr. i testi citt. nelle nn.
46, 47, 48.
[66] Secondo l’opinione comune, nell’anno 66 a.C. Perozzi, Istituzioni di
dir. rom., Milano 1928, II, 334; Arangio
Ruiz, Istituzioni di dir, rom.,
Napoli 1952, 371.
[69] CICERONE Pro Tull. 4.8: hoc iudicium
paucis hisce annis propter hominum malam consuetudinem iniuriamque licentiam constitutum
est ... cum multae familiae dicerentur in agris longinquis et pascuis armatae
esse caedesque facere ... (5.10) cum
ex bello diuturno atque domestico res in eam consuetudinem venisset, ut homines
minore religione armis uterentur ...
[70] ULP. D. 47.8.2.17. È difficile
dire in quale rapporto fossero le due formule all’epoca di Ulpiano: certamente
però la definitiva identificazione di esse avvenne ad opera di Giustiniano; che
le unificò in D. 47.8: vi bonorum
raptorum et de. turba,
abbreviando fortemente la trattazione dì Ulpiano in D. 47.8.2 pr. Cfr. Lenel, 393;
NIEDERMEYER, St. Bonfante cit. II,
405 ss.
[72] Alcuni testi che proverebbero il
contrario sono generalmente riconosciuti interpolati allo scopo di introdurre
la nuova legislazione giustinianea, secondo la quale vis publica si identifica con violenza armata, mentre vis privata corrisponde ormai a sine armis. Così due testi attribuiti ad
Ulpiano: D. 43.16.1.2;
D. 50.17.152 pr. La dimostrazione dell’intp. di questi frammenti è stata data
da Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, in Enciclopedia Pessina, Milano 1902, 375 e 377; Girard,
Les leges Juliae cit., 326 ss.,
seguiti dagli autori più recenti.
[73] Su questo punto non esistono
contrasti in dottrina: Mommsen,
II, 376; Coroï cit., 228; Niedermeyer cit., 408 ss,; Id., Ausgewälte Introduktorien zu Ulpian und zur Rechtslehre von der vis,
in Studi Riccobono, Palermo 1936, I,
204; Flore, Di alcuni casi di vis publica, in Studi Bonfante IV, 344 e n. 29. Non credo tuttavia che già Ulpiano
ammettesse una persecuzione generale ex
crimine vis contro eum qui rapit:
così Mommsen, II, 376 n. 2, basandosi su ULP. D. 50.17.152,
dal quale però abbiamo visto non potersi trarre alcun argomento per la dottrina
classica; e Coroï, 228, che cita
ULP. D. 47.8.2.2. Egli è probabilmente indotto a tale opinione dal precedente §
1: ma anche questo è compilatorio (v. infra).
Quanto alle disposizioni che attrassero nell’orbita del crimen vis determinate ipotesi di rapina qualificata, per quel che
concerne la rapina in occasione di naufragio ci è testimoniata una vasta
attività di Antonino Pio: MARC. D. 48.7.1.2 ex
constitutionibus principis extra ordinem, qui de naufragiis aliquid diripuerint, puniuntur: nam et divus Pius rescripsit nullam vim nautis fieri debere
... (Il § 1 è intp.: in esso forse i compilatori si proposero di operare lo
spostamento, che non venne poi compiuto, della repressione straordinaria alla lex Julia de vi privata). Altre
decisioni dello stesso imperatore in materia ci sono riferite da PAUL. D.
47.9.4.1 e da VOL. MAEC. D. 14.2.9 (De
robertis, Arbitrium iudicantis e
statuizioni imperiali, in ZSSt.
59 (1939) 238 n. 1, ritiene invece che esse vadano riferite ad Antonino
Caracalla). Più difficile sembra pensare, in ordine alla repressione criminale
della rapina in occasione di naufragio, al senatoconsulto d’età claudiana (ULP.
D. 47.9.3.8) o all’attività di Adriano (CALL. D. 47.9.7), in quanto essi ne
regolarono solo i riflessi di diritto privato. In generale, la repressione
straordinaria della rapina qualificata è testimoniata da ULP. 47.1.1 quamquam sint de his facinoribus etiam
criminum executiones . . . Cfr. Costa, Crimini e pene cit., 118.
[75] Sarebbero quindi intp. MARC. D.
48.7.1.1 (402 n. 77); ULP. 47.9.1| (ibid.); MACER D. 47.12.8 (401 n. 69); ULP. D. 47.8.2.1 (408); MARC. D. 6.3.2.3.5 (403 n. 78); la
frase hac lege fecerit in MACER D.
48.7.3.2 (ibid.).
[76] N. si basa prevalentemente su
ULP. D. 48, 2. 15; MACER D. 48. 2. 11. 1; C. 7.62.1 (SEVERUS, a. 209), che attesterebbero
l’esistenza del crimen extraordinarium
vis per l’epoca classica; le testimonianze aumenterebbero nelle costituzioni
dì Diocleziano e Costantino: cfr. ad esempio C. 8.4.3 (a. 294); C. 4.I9.I5 (a. 293);
C. 9.12.4 (a. 293); ecc.
[78] Lauria afferma: a) che non risulta provata, questa lacuna
delle leges Juliae; b).che le stesse
furono indifferentemente messe la base delle quaestiones e della extraordinaria
cognitio. In primo luogo, sono giuste le osservazioni con cui L. contesta
la qualifica di crimen e. o. che
sarebbe stata data alla rapina; ma ciò non prova che essa costituisse una delle
fattispecie previste dalla lex Julia,
essendo ugualmente possibile l’attrazione posteriore nella sfera di questa; per
la stessa ragione, nulla prova il crimen
intendere di ULP. D. 48.2.15, né il bona
rapuerint di MARC. D, 48.6.3.2,
di cui effettivamente non è provata l’intp. (Su ciò v. nel testo). Quanto; alla
seconda argomentazione di L., essa non è che una conseguenza del suo
ragionamento, criticato nel § 5, per cui sono straordinari e quindi repressi
d’ufficio tutti i crimini non originariamente previsti da una legge.
[81] Levy, Kapitalstrafe
cit., 35 ss., BIDR 45, 134 ss., ha
chiarito il significato di poena legis
nelle opere sistematiche dei giuristi e nelle costituzioni imperiali. Sulle
conseguenze che da ciò si possono trarre, cfr., per il crimen falsi Archi, Problemi cit., 10 ss. e per il crimen plagii, Berger, BIDR 45
cit., 284 ss.
[82] V. in proposito le penetranti osservazioni
di Archi, 1.c. Partendo dalla
considerazione fatta alla n. precedente, egli mette in luce come Marciano (la
cui opera era destinata all’insegnamento nell’ambiente provinciale), superando
le risalenti antitesi processuali, ordini le varie fattispecie di un reato
senza richiamarsi alla norma originaria, mettendo così in rilievo gli elementi
di affinità sostanziale esistenti tra esse. L’indirizzo seguito da Marciano,
per la sua maggior aderenza alla realtà del tempo, è ripreso nelle Sententiae, dove sotto le rubriche delle
singole leggi sono enumerate le varie ipotesi punibili, anche qui senza
distinguere quelle previste dalla lex
da quelle introdotte posteriormente attraverso la cognitio. Questo metodo di esposizione rimase poi nella
compilazione dove le Istituzioni di Marciano, proprio per la loro aderenza al
diritto sostanziale, danno inizio alle trattazioni sulle diverse leges.
[85] Abbiamo visto che Lauria, 23 n. 3, vuol trarre dal fatto
che il crimen intendere di questo
passo sì riferisce all’accusatio vis,
la prova.che la rapina fosse prevista dalla lex
Julia, lo stesso Niedermeyer
ammette, in St. Riccobono cit., 204,
che ciò sia possibile. Mi sembra però che di questo ci manchi non solo la prova,
ma anche qualsiasi indizio: inutile è anche addurre C. 9.12.4, di Diocleziano,
e pertanto di un’epoca in cui il richiamo alla legge non può considerarsi
probante ai fini di distinguere l’origine della disposizione. La sussunzione
della rapina nel concetto di violenza nel tempo, che non può essere
maggiormente precisato, tra gli Antonini e i Severi, è invece verosimile anche
per la considerazione che gli imperatori del II secolo repressero gradualmente
in via criminale anche altri illeciti dapprima sanzionati dalla sola azione
penale privata: Mommsen, 376 n. 2; porta ad esempio il crimen stellionatus, che venne concesso in ogni caso in cui il dolo
fondava un’azione penale privata; si può aggiungere che ULP. D. 47.2.93 conosce
la possibilità di agire criminaliter
per il furto. (Il fr. è genuino: v, Wlassak,
Anklage cit., 87 n. 14; anche la
correzione proposta da Levy, ZSSt. 53, 166 n. 2, non attacca la
classicità del pensiero contenuto nel passo). Lo stesso vale probabilmente per
l’iniuria (v. ULP. D. 37.14.1 e HERM.
D. 47.10.45) e per alcune ipotesi di damnum
iniuria (v. infra), Mentre il
furto e le ingiurie, in quanto appartenenti al campo criminale, furono
perseguibili extra ordinem, per
l’impossibilità di ricondurli ad un iudicium
publicum già esistente, la rapina fu ricondotta, con il procedimento già
chiarito, al crimen ex lege Julia de vi.
[88] Abbiamo visto che non esisteva
una regola pregiudiziale alla successione di mezzi di repressione coesistenti;
e comunque chi ne afferma l’esistenza limita l’applicazione di essa ai processi
capitali, mentre la rapina ricadde sotto la lex
Julia de vi privata, che non portò mai ad una pena capitale (Cfr. Brasiello, Repressione
cit., 92 ss.).
[90] Niedermeyer, St.
Bonfante cit., 408, segna contra ea
quae vi commituntur, espressione imprecisa e inadeguata a definire la
clausola commentata; consulere contra,
usato solo qui; il legittimato è una volta designato con quis, poi con eligentibus;
inoltre nihilo minus tamen non e
l’introduzione della concorrenza alternativa. SIBER, Fest. Wenger cit., 59, ritiene intp. il testo da quidam alla fine. Ciò, mentre salva la
logicità della decisione, tuttavia non rende ragione delle generiche ed
inesatte affermazioni contenute nel principio del passo. Io ritengo quindi
impossibile ricostruirlo. Per la genuinità del testo, De SARLO, op. cit., 348.
[95] L. c., n. 99, dove N., richiamando Karlowa, Römische
Rechtsgeschichte, 1338, indica l’attività delle scuole del V secolo come
probabile fonte del passo. Cfr. anche St.
Riccobono cit., 203 ss.
[99] Mommsen, II, 376; III, 227; in senso sostanzialmente analogo Rein, Criminalrecht cit., 258; De
sarlo, op. cit., 347, 350.
[102] Questo è infatti per
Giustiniano il significato di praeiudicare,
usando egli la parola ad indicare i casi in cui l’esercizio dell’azione privata
renda impossibile la successiva repressione pubblica. Ciò risulta anche dall’elaborazione
di ULP. D.47.8.2.1.
[103] Vedremo (infra, n. 184) come
l’antìtesi iudicium publicum - iudicium privatum si sia in epoca
postclassica trasformata nell’altra causa
civilis - causa criminalis.
[104] Esso è ritenuto intp. da Niedermeyer, St. Bonfante cit., 416, per una diversa ragione: «Unmöglich aber
ist, dass sich ... Paulus an unserer Stelle so leichten Herzens mit der
alten Pravalenz des iudicium publicum über die Privatklage
abgefunden hätten, wenn sie die Frage überhaupt
anschnitten». Dopo
ciò, non capisco perché egli metta tra uncini l’ultima frase [nam agitur] (seguito da De sarlo, Riv. Dir. Proc. cit., 347), lasciando invece la prima parte del
passo, nella quale appunto quella regola viene negata.
[107] CTh. 9.7.7 = CI. 9.9.32 (a.
392); PAP. D. 48.5.12.3, 13. Cfr. Lenel
l. c.; Mommsen, III, 224; Bonfante,
Corso di dir. rom. I, 345 ss.
Inesatto Perrozzi, Istituzioni cit., I, 399 n. 2.
[108] L’elenco esemplificativo della
costituzione presenta tre ipotesi che ci sono riferite anche da Paolo: e cioè
il concorso dell’interdetto unde vi
con l’accusatio ex lege Julia de vi; dell’interdetto ex lege Cornelia; dell’actio
furti con il iudicium legis Fabiae de
plagio. È inoltre significativo che in CTh. 9.20.1 si presenti come
eccezionale di fronte al regime dei casi dell’elenco, quello del iudicium de moribus (et cum una excepta sit causa de moribus,
frase che viene eliminata nella redazione giustinianea della cost.).
[109] È questa, per il momento, più
che altro una tendenza, che potrà svilupparsi solo con il generalizzarsi della cognitio extra ordinem sia nel campo
criminale che in quello civile. Cfr. Pugliese,
Riv. Dir. Proc. cit., 99 ss.
[110] La letteratura in argomento è
vastissima. V. per tutti Betti, Diritto romano, Padova 1935, 616 ss. Ivi
ampia .bibliografia.
[111] ULP. D. 44.2.1. Inoltre MACER D. 42.1.63; Mod. D. 44.1.10; C. 7.56.2 (GORD. a. 239). V. su ciò la profonda e definitiva indagine
di Betti, D. 42.1.63. Trattato dei
limiti soggettivi della cosa
giudicata in diritto romano, Macerata 1922.
[113] Non ho menzionato la prima e perentoria
causa di questa evoluzione, da vedersi almeno per la rapina nel fatto che essa
non era, nella procedura ordinaria, perseguibile criminalmente: è evidente che
fino a quando non fu possibile si verificassero ipotesi di mezzi repressivi
coesistenti, non poteva nemmeno porsi il problema dei rapporti tra processo
pubblico e processo privato. Non voglio tuttavia escludere, stante la rilevata
incompiutezza dei testi pervenutici che rende difficile risalire all’origine
delle norme ad opera delle quali un fatto determinato diviene punibile, la
possibilità che simili casi si siano verificati anche prima del II secolo: le
osservazioni fatte nel testo sono comunque sufficienti a rendere ragione del
diverso punto di vista dal quale si pongono i giuristi del tempo nel commentare
la materia dei rapporti tra azione penale privata e mezzo di repressione
pubblico.
[114] Ciò tuttavia non deve essere
inteso nel senso che Cicerone e Quintiliano non conoscessero il valore della
cosa giudicata, perché parlano
dell’importanza del praeiudicium
in maniera generale e come riferentesi a chiunque, e che la restrizione inter easdem personas sia in epoca
classica applicata all’argomento, per analogia con la consunzione giudiziaria
(così Erman, D. 44.2.21.4. Études de droit classique et byzantin, in Mélanges Appleton, Lyon 1903, 285). I due significati del termine praeiudicium non discendono l’uno
dall’altro; e se è esatto affermare che la teoria della cosa giudicata sia una
conquista dei giuristi dell’età dei Severi, d’altronde non si può dire che
attraverso essa si sia giunti ad una nuova regolamentazione dell’influenza
pregiudiziale del primo giudicato (quale è ricordata da Quintiliano), avendo
piuttosto i nuovi princìpi portato a chiarire come la restrizione inter easdem personas non fosse
sufficiente ad escludere un nuovo processo sullo stesso fatto, quando esso
fosse reso possibile dalla coesistenza di mezzi di repressione pubblici e
privati.
[115] Poiché non mi propongo in
questo studio una sistemazione completa dei princìpi che regolano questa
materia nelle diverse epoche del diritto romano, posso prescindere
dall’esaminare l’importanza che il praeiudicium
assume nel linguaggio giustinianeo. È tuttavia indispensabile accennarvi almeno
brevemente, giacché devo servirmi di testi interpolati. La dottrina accolta nel
Corpus luris è la stessa dalla
dottrina tradizionale attribuita ai giuristi classici: Giustiniano infatti:
usa il termine praeiudicium ad indicare l’effetto esclusorio che ora, caduta la
distinzione strutturale tra processi pubblici e privati, consegue in
determinati casi al primo giudicato su una causa
criminalis nei confronti della causa
civilis, possibile in ragione dello stesso fatto. .Ciò risulta dalla
redazione giustinianea di CTh. 9.20.1 (= CI. 9.31.1, v. infra § 7); e dalle intp, operate sui testi classici in materia.
Per distinguere le ipotesi in cui si ammette che si verifichi il praeiudicium (cioè, secondo i nuovi
princìpi, che si possa far valere e l’azione privata e la repressione
pubblica), Giustiniano si basa sul criterio della funzione dei diversi mezzi
coesistenti; quindi il cumulo è ammesso qualora all’azione penale privata si
attribuisca funzione di risarcimento, mentre è escluso nei casi in cui essa
abbia unicamente scopo penale (ciò che avveniva sempre per diritto classico: la
correlazione tra natura e funzione nelle azioni penali è dimostrata da Voci, Risarcimento e pena privata, Milano 1939). In questo secondo caso,
la proibizione che praeiudicium iudicio
publico fiat esprime l’impossibilità di far valere l’azione penale privata,
la quale a sua volta viene ottenuta attraverso la denegatio actionis, è facile vedere come anche questa costruzione
della denegatio con funzione consuntiva anziché sospensiva nei confronti dell’azione,
si differenzi dai princìpi classici (per i quali v. supra, n. 45).
[116] Sic denique et per vim possessione deiectus, si de ea recuperanda
interdicto unde vi erit usus, non prohibetur tamen etiam lege Julia de vi
publico iudicio instituere accusationem.
[118] All’argomento si può riferire
anche CTh. 9.10.3 = CI. 9.12.7 di Costantino (a. 319): Si quis ad se fundum vel quodcumque aliud adserit pertinere ac
restitutionem sibi competere possessionis putat, civiliter super possedendo
agat aut imputa solemnitate iuris crimen violentiae opponat … Quod si omissa
interpellatione vim possidenti intulerit, ante omnia violentiae causam
examinari praecipimus ... ut ei quem constiterit expulsum amissae possessionis
iura reparentur, eademque protinus restituta, violentus poenae non immeritus
destinatus in totius litis terminum differatur, ut agitato negotio principali,
si contra eum fuerit iudicatum, in insulam deportetur … In questa cost. i
rapporti tra i processi civile e criminale appaiono complicati dal fatto che
qui si giunge alla definizione della controversia sul possesso e alla
restituzione del fondo attraverso la causa
violentiae, mentre in epoca classica
il giudizio criminale si proponeva solo la punizione del reo di violenza. Sulla
dottrina postclassica e giustinianea in argomento v. ora Levy, West Roman Vulgar Law, The
law of property, Philadelphia 1951, 243 ss.; 266 ss.
[119] Diverso il significato che il
richiamo alla fattispecie assume in CTh. 9.20.1.1, in relazione appunto al
diverso regime dei rapporti tra i giudicati in epoca postclassica. (Su ciò v. infra).
[120] Probabile glossema esplicativo,
cfr. Siber, Vorbereitung - und Ersatz zweck der Besitzinterdikte, in Scritti Ferrini, Milano 1949, IV, 125.
[121] Cfr. CALL. D. 5.1.37. Si de vi et possessione quaeratur, prius
cognoscendum de vi quam de proprietate rei divus Hadrianus tù koinù tîn Qess£lwn Graece rescripsit. È ormai generalmente riconosciuto trattarsi di uno stesso
rescritto, dai due giuristi attribuito a diversi imperatori (cfr. Siber, l. c.). Invece la Glossa, ad h. 1, ammetteva un rescritto di
Adriano sui rapporti tra interdetto e rivendicazione, e un decreto di Antonino
Pio sui rapporti tra crimen e rei vindicatio.
[123] Il rescritto contenuto nella
prima parte del fr. 5.1.
cit., non ci interessa. Qui. È inoltre superfluo avvertire che anche in questa
ipotesi il problema dei rapporti tra procedura civile e criminale non si pone
sotto il profilo del concorso tra persecuzione pubblica e privata.
[126] Inst. IV.3.11. Liberum
est autem ei, cuius servus fuerit occisus, et privato iudicio legis Aquiliae
damnum persequi et capitalis criminis eum reum facere. La dottrina giustinianea è
espressa anche in D. 19.5.14.1 e D. 47.10.7.1, ambedue di Ulpiano e
interpolati.
[128] Per de sarlo, op. cit.,
343, conforme alla sua posizione di principio, il passo significa che dopo
l’esercizio dell’azione privata, il giudizio di fronte alla quaestio de sicariis potrà svolgersi
ugualmente, mentre non è vera la reciproca. Così anche Mommsen, III, 227 n. 4 e Ferrini,
Diritto penale romano, Milano 1899, 239. Esatto Siber, Festschr. Wenger cit., 64, in ordine al cumulo dei mezzi di repressione in
qualunque ordine esperiti.
[129] L’espressione di Gaio vel hac lege damnum persequi non deve
far credere che l’actio legis Aquiliae
sia volta al risarcimento del danno anziché al pagamento di una pena pecuniaria
che valga come soddisfazione della vendetta: alla natura penale di questa
azione corrisponde per diritto classico una funzione esclusivamente penale.
Cfr. Voci, Risarcimento cit., 94 ss.
[130] È appena il caso di discutere
la dottrina di arnò (Le «magnae varietates» in tema di «lex
Aquilia» e di «concursus actionum», in Studi
Riccobono, Palermo 1936, II, 169 ss.), il quale vuol vedere nelle
contrastanti formulazioni dei giuristi a proposito del concorso dell’actio legis Aquiliae con il iudicium legis Corneliae una delle
divergenze d’opinione che divisero le scuole dei serviani e dei muciani in
materia di concorso d’azioni. Il muciano Ulpiano, secondo gli insegnamenti
della sua scuola, vorrebbe in questa ipotesi il cumulo dei mezzi d’azione,
mentre Gaio e Paolo serviani ammetterebbero la consunzione dell’uno per mezzo
dell’altro: e cioè l’espressione praeiudicium
fiat significa per Arnò che, quando si sia agito con l’azione privata, non
è più possibile la pubblica accusa. Ora è certamente arbitrario attribuire a
Paolo e a Gaio, sulle traccie dell’antico giureconsulto Servio, la possibilità
di reciproca consunzione tra un’azione penale privata e un iudicium publicum, quando è proprio Gaio ad insegnare (III.181-182;
IV.107) che consunzione si ha soltanto nei iudicia
legitima in personam con formula in
ius concepta. Ma anche se si voglia far rientrare nel concetto di
consunzione l’effetto esclusorio che può seguire, per gli altri iudicia, in via giudiziale o pretoria,
non si può tuttavia ammetterlo in questo caso, poiché tale effetto opera in
base alla litis contestatio e richiede pertanto che ambedue i processi si svolgano
secondo la procedura formulare. Nemmeno GAI. III.213 può quindi essere portato
a dimostrare la teoria che «i Serviani ammettevano in modo rigorosissimo la
consumazione per litis contestatio»
(183).
[131] Cfr. Mommsen, II, 329, L’estensione è compiuta
nell’età dei Severi: MARC. D. 48.8.1.2 qui
hominem occiderit, punitur non habita differentia, cuius condicionis hominem
interemit; ULP. Coll. 1.3.2 compescit (lex) eum qui hominem occidit, nec
adiecit cuius condicionis hominem; ut et ad servum et peregrinum pertinere haec
lex videatur.
[133] SEN. De ben. III.22.3 così ne ricorda l’attività: atqui
de iniuriis dominorum in servos qui audiat positus est, qui et saevitiam et libidinem
et in praebendis ad victum necessariis avaritiam compescat.
[136] Cfr. ULP. Coll. 3.3 = D. 1.6.2 = I. 1.8.2.
La costituzione è rivolta ad alcuni praesides
provinciarum, ai quali l’imperatore
attribuisce la competenza a portare auxilium
contra saevitiam vel famem vel intolerabilem iniuriam, cioè per le stesse
cause di matrattamenti che, in Roma, erano affidate al praefectus urbi. Ciò avvalora la congettura che anche la cognitio sull’omicidio spettasse in Roma
a questo magistrato, nel normale esplicamento dei suoi poteri nella
giurisdizione straordinaria criminale. Sulla competenza del prefetto cfr. ora
SCHILLER, The Jurists and the Praefects
of Rome, in BIDR n. s. 16-17
(1953), 60 ss.
[139] Lauria, Appunti sul
plagium, in Annali Univ. Macerata
VIlI (1932) 196 ss.; Id., Accusatio cit., 20 ss.; Berger, BIDR 45 cit., 268; Id.,
Lex Fabia, in Pauly Wissowa R. E. Suppl. VII, col. 387 ss.
[140] Cfr, in questo senso Lauria, Accusatio, 21 n. 1; Berger,
BIDR 45 cit., 274. Tuttavia le
critiche mosse a Niedermeyer non tolgono valore ad alcuni punti della sua tesi,
che sono, stati trascurati dai suoi recensori; così, in particolare, mi sembra
certo che la repressione del plagio in provincia, svolgendosi secondo forme più
libere che non in Roma, .abbia potuto innovare per quel che riguarda la pena da
irrogarsi ai plagiarii, preparando in
questo ambiente la nuova concezione del reato che Diocleziano completerà.
[142] L’espressione furti crimine sarebbe indizio di
alterazione secondo Albertario, Delictum e crimen cit., 62. Cfr. però Lauria,
SDHI IV cit., 186 ss. e Berger, BIDR 45 cit., 278 n. 46.
[144] Gli elementi del delitto, che
si possono dedurre da questo rescritto in ordine alla distinzione tra plagio e
furto, sono visti inesattamente sia da Mommsen
(92 n. 1: «la seule difference à signaler est que le furtum usus n’est pas
compris dans le plagium») che da Huvelin, Études cit., 106: «Le crimen
plagii se distingue du crimen furti
en ce que le premier suppose necessairement la mauvaise foi du detenteur de
l’esclave, tandis que le second ne la suppose pas».
[145] CI. 9.20.9 (a. 293): Eum qui mancipium alienum celat, Fabiae
legis crimine teneri non est incerti iuris. ULP. D. 11. 4. 1 pr. afferma
solo: Is qui fugitivum celavit fur est.
Sui rapporti tra Senatus consultum de fugitivis
e legge Fabia in relazione all’allargamento del concetto di plagio, v. Lauria, Appunti cit., 200 ss., dove sono esaminate anche altre ipotesi
ricondotte al plagio, ma che prescindono completamente dall’elemento
dell’usurpazione della patria o dominica potestas. L’evoluzione è
compiuta al tempo della compilazione della Collatio:
nell’elenco attribuito ad Ulpiano (Coll. 14.3.5), delle fattispecie punibili a
norma della legge Fabia, sembra ricadere qualunque furto di schiavo.
Altrettanto completo è Paul. Sent.
5.30.1, che non distingue tra plagio d’uomo libero e di schiavo. Cfr. Niedermeyer, St.
Bonfante, 391 ss., 397.
[146] CI. 9.20.13. Non è infatti il
caso di prender posizione sulla questione, che non si può dire ancora
definitivamente risolta, se l’accusatio
legis Fabiae fosse originariamente pubblica o limitata all’offeso. Cfr. da
un lato Mommsen, 92; Huvelin cit., 105; Berger, BIDR 45 cit., 2.75; Pugliese,
Studi cit., 130 ss. D’altro lato Ferrini, Esposizione cit., 426; Lauria,
Appunti, 196; Accusatio, 20, 57.
[147] Si potrebbe osservare che
questa ipotesi non sarebbe retta dalla regola sulla precedenza del processo
criminale, in quanto il iudicium publicum
istituito dalla legge non era capitale. (Su ciò concordano per quel che
riguarda la disposizione originaria, gli autori citati alla n. precedente).
Abbiamo visto però che il praeiudicium
è attestato in materia di repressione della rapina e che, in quanto ricadente
sotto la lex Julia, essa non fu
punita con pena capitale.
[148] Cfr. Volterra, Sull’uso delle
Sentenze di Paolo presso i compilatori del Breviarium e presso i compilatori
giustinianei, in Atti Congr.
Internaz. Dir. Rom, Bologna 1933, I, 136 ss. Nello stesso ordine di idee
ULP. D. 47.2.39, (nella ricostruzione di Volterra,
1. c.), afferma che non è plagio il
furto di una schiava meretrice.
[149] Non si può invece parlare di
concorso di procedura civile e criminale a proposito di Diocl. e MAXIM.
CI. 9.20.12 (così Archi, «Civiliter vel criminaliter agere» in tema
di falso documentale, in Scritti
Ferrini, Milano 1947, I, 3 n. 2), in quanto qui l’actio furti è concessa in ragione delle res
furtivae sottratte dallo schiavo fuggitivo (v. anche ULP. D. 47.2.36.2),
mentre Diocleziano parla solo di plagio per il fatto di aver accolto lo schiavo.
[150] La frase finale della cost., quod si per violentiam mancipium abreptum
est, accusationem vis non prohibetur intendere, è aggiunta compilatoria:
Cfr. Niedermeyer, 387 n. 19,
seguito da Flore cit., 351 n. 55;
Volterra cit., 137 n. 1. Contra, Lauria, 1. c.
[151] È anche qui chiaramente
espresso come, per poter accusare, non sia sufficiente la sollicitatio della schiava, ma sia necessario commettere anche un
atto di plagio.
[152] Più difficile è credere, con la
Glossa (ad h. l.) che l’azione civile
sia la rei vindicatio utilis: questa vindicatio contro chi dolo desiit habere è probabilmente introdotta da Giustiniano. Cfr. Arangio Ruiz, Ist. cit., 217 n. 3; Perozzi,
Ist. cit., I, 720 ss.
[153] Questo testo è addotto da
Lauria a dimostrare che l’accusatio legis
Fabiae era limitata a pochi interessati: infatti la differenza di
legittimazione presupposta nell’ultima frase del passo si spiegherebbe solo in
quella ipotesi. Ma appunto quella frase è da ritenersi interpolata: cfr. Pugliese, Studi, cit., 131 ss.
[154] Non ci interessa invece, in
questa sede, il concorso tra la normale actio
iniuriarum e l’actio iniuriarum ex
lege Cornelia su cui v. Pugliese,
Studi cit., 152 ss.
[157] MARC. D. 48.8.1.3 Divus Hadrianus rescripsit eum ..,. qui
hominem non occidit, sed vulneravit ut occidat, pro homicida damnandum. Cfr. anche Labeone in ULP. D.
47.10.7.1, che nega aversi publicam
animadversionem per il fatto quod
gladio caput eius percussum est. La testimonianza è però autentica?
[158] MARC. D. 48.8.1.1. Questa
disposizione era contenuta nel testo originario della legge, poiché già
Cicerone afferma non esservi alcuna differenza inter eum qui hominem occidit et eum qui cum telo occidendi hominis
causa fuit (Pro Rab. 6.19).
[159] L’opinione tradizionale è
sostenuta da Mommsen, III, 226; Pissard cit., 100 e in generale, almeno implicitamente, da
quanti, sulle tracce di Mommsen, si basano su questo passo per affermare
l’esistenza di una regola pregiudiziale in materia di concorso tra mezzi di
repressione pubblici e privati. D’altronde, non si può obbiettare che
l’eccezione ciceroniana non sia idonea a raggiungere lo scopo indicato nel
testo, in quanto l’actio iniuriarum nella
quale essa fosse inserita verrebbe consumata per litis contestatio con l’effetto di render impossibile la ripresa
del processo dopo la sentenza sul crimen:
Wlassak ha dimostrato (in ZSSt. 33 cit., 144 ss.) che l’exceptio ha qui il valore di una denegatio sotto condizione, la quale
impedisce di proseguire il processo ma non ha alcun effetto sull’azione.
[162] Siber, l. c.,
sottoponendo tutto il paragrafo a critica radicale, ricostruisce così il
principio di esso: si dicatur homo
iniuria occisus, non debet privato iudicio legi Corneliae praeiudicari.
[164] Siber, 66, ritiene che il richiamo a Labeone avesse
riferimento, come la massima di Ulpiano nel principio del paragrafo,
all’uccisione dello schiavo, che nell’età augustea non fondava alcun iudicium publicum (cfr. § 6 III); essa è
negata come assurda dai compilatori, poiché la riferiscono all’omicidio dello
uomo libero. Ma, se è esatto che nella prima parte del § il concorso dei mezzi
di repressione è discusso in relazione all’omicidio del servo (homo iniuria occisus indica lo schiavo
nel c. 1 della legge Aquilia: GAI. III.210), non possiamo però escludere che nella seconda
parte Ulpiano discutesse l’applicabilità degli stessi mezzi all’ipotesi del
tentato omicidio di un uomo libero, ipotesi che egli poteva decidere in senso
diverso da Labeone, in quanto la repressione criminale delle percosse arrecate
allo scopo di uccidere risale all’epoca adrianea (v. n. 157).
[165] Ho tolto solo l’ultima parte,
che esprime la dottrina giustinianea, ma anche nel principio si possono
riscontrare imperfezioni formali: ei
non è a posto: anche la correzione enim
(krüger ad h. l.) non convince; prohibendus
per prohibendum; quod per qua. Esse
possono tuttavia esser dovute ad errori derivanti dalla tradizione manoscritta.
Più grave il pertinet senza soggetto;
agere riferito al publicum iudicium.
[171]Mi sembra che tale congettura
sia avvalorata anche da Paul. Sent. V.4.15, dove si dice che, per la
repressione del libello anonimo, un senatoconsulto ha stabilito la pena della
deportazione: l’ipotesi di Levy,
che nel passo, siano confuse due notizie: quella relativa all’estensione della
legge Cornelia, e quella tramandata da Tacito, sull’applicazione della pena del
crimen maiestatis a Cassio Severo,
non mi sembra confermata da argomenti positivi.
[173] § 6 V. È appena il caso d’avvertire
che nella dottrina tradizionale questa ultima frase dovrebbe indicare la
dottrina classica: così De Sarlo,
342, il quale espunge dal fr.
6 solo le parole similiter ex diverso.
[174] Ciò, ripeto; va inteso nel
senso che la procedura straordinaria, nella quale sono giudicati alla fine
dell’età classica anche crimini che vengono fatti rientrare nell’ambito .di una
legge preesistente (con la probabile conseguenza della limitazione dell’accusa
all’offeso ed ai consanguinei), permise l’affermarsi di nuove tendenze, per cui
i giuristi considerarono il problema sotto una nuova luce.
[175] Citati nei singoli luoghi.
Aggiungasi Wenger, Istit. cit., 136-37; tra gli autori meno
recenti, qualche accenno in Bekker,
Aktionen cit., 249 s. e Rein, Criminalrecht cit., il quale fa alcune considerazioni in materia di
concorso di reati (253 ss., 258 ss,), ma si disinteressa dell’aspetto
processuale della questione. Non ho potuto consultare Bülow, Prozesseinreden
und Prozessvorawssetzungen, 1895; Naber,
in Mnemosyne n. s. 53 (1925).
[176] Cioè in generale tutti i casi
di coesistenza, ad eccezione della ipotesi in cui coesistano actio iniuriarium e iudicium legis
Corneliae, qui il dovrebbe esser evitato in forza del ragionamento dai
compilatori attribuito ad Ulpiano (in D. 47.10.7.1), ea res habet publicam executionem. V. le note alle diverse ipotesi.
[178] È opportuno riportarla qui
integralmente. CTh. 9.20 Victum
civiliter agere et criminaliter posse. Imppp. Valens, Gratianus et
Valentinianus aaa. ad Antonium pf. p. A plerisque prudentium generaliter definitum est, quoties de re
familiari et civilis et criminalis competit actio, utraque licere experiri, nec
si civiliter fuerit actum, criminalem posse consumi. Sic denique et per vim
possessione deiectus, si de ea recuperanda interdicto unde vi erit usus, non
prohibetur tamen etiam lege Iulia de vi publico iudicio instituere
accusationem; et suppresso testamento quum ex interdicto de tabulis exhibendis
fuerit actum, nihilo minus ex lege cornelia testamentaria poterit crimen
inferri; et quum libertus se dicit ingenuum, tam de operis civiliter quam etiam
lege visellia criminaliter poterit perurgeri. Quo in genere habetur furti actio
et legis fabiae constitutum. Et quum una excepta sit causa de moribus, sexcenta
alia sunt, quae enumerari non possunt, ut, quum altera prius actio intentata
sit, per alteram, quae supererit, iudicatum liceat retractari. Qua iuris
definitione non ambigitur, etiam falsi crimen, de quo civiliter iam actum est,
criminaliter esse repetendum.
[179] Nella redazione giustinianea
della costituzione si parla addirittura di de
falso ... civiliter experiri.
[181] Su tutto ciò v. la profonda
indagine di Archi, Civiliter e criminaliter cit., Archi
però vuol trarre (3), dalla circostanza che per alcuni degli esempi portati
nella cost. esistono precedenti decisioni della cancelleria imperiale
postclassica, la conseguenza che i redattori abbiano tratto l’esemplificazione
da queste, anziché essersi veramente rifatti alle opere dei prudentes. Tuttavia non esistono, come
egli stesso riconosce, costituzioni imperiali per i rapporti tra interdictum de tabulis exhibendis e crimen falsi, e non è esatto riferire ai
rapporti tra actio furti e actio legis Fabiae CI. 9.20.12 (cfr. n. 149). Io ritengo quindi che i redattori
avessero effettivamente presenti testi classici in cui i vari casi venivano
esaminati, e specialmente (per le ragioni viste § 6.I) PAUL. D. 48.1.4. Essi
fraintesero però le soluzioni date dai giureconsulti, nel senso indicato nel
testo e osservato dallo stesso A.: per cui non perde valore la sua considerazione
tendente a dimostrare la mancanza di un esame approfondito delle opere
classiche e, in conseguenza, che l’accostamento dei princìpi in esse contenuti
alla riforma in tema di falso non si giustifica da un punto di vista di logica
giuridica.
[182] La cancelleria fu forse indotta
in tale errore dalla circostanza che, come abbiamo più volte rilevato, i
giuristi classici discutono la possibilità del praeiudicium iudicio publico,
mentre non menzionano mai un praeindicium
iudicio privato. Più difficile è pensare ad una evoluzione che abbia portato,
nel IV secolo, ad ammettere veramente il cumulo solo quando in precedenza sia
stata esperita l’azione privata.
[183] Archi, 5. Egli chiarisce poi, 44-45, come ciò corrisponda al
fine dell’innovazione del 378, dovuta al desiderio di risolvere gli
inconvenienti sorti con la possibilità, introdotta con CTh. 9.19.4, di
giudicare su un crimen falsi in sede
civile.
[184] Nella c. cit. si coglie anche
un altro aspetto della nuova teoria processuale: il concetto tecnico di consumptio, strettamente legato per
diritto classico al criterio oggettivo della eadem res (GAI. III.181; IV.107), è ora riferito anche all’effetto esclusorio
derivante dalla sentenza nell’ipotesi di concorso tra causa civilis e causa
criminalis. (Sulla non classicità dell’espressione cfr. Wlassak, Anklage cit., 31. Levy, Die
Konkurrenz der Aktionen und Personen, Berlin 1918, I, 67 n. 1). È questa una conseguenza della
tendenza, già in atto sul finire dell’epoca classica per i procedimenti sorti
nel dominio della cognitio extra ordinem,
e sviluppatasi completamente in quest’epoca, per cui l’antica divisione dei
processi in pubblici e privati viene sostituita da una distinzione tra causae civiles e criminales, relativa all’oggetto della controversia, ma non
giustificabile dal punto di vista strutturale. Cfr. Pugliese, Processo
cit., 99 ss.
[185] L’elemento logico della
sentenza, come prodotto dell’intelligenza del giudice, è messo in luce da Biondi, Appunti intorno alla sentenza nel processo civile romano, in Studi Bonfante, IV, 32-33.
[186] L’esame è d’altronde limitato:
Siber non considera affatto i testi in cui si afferma la possibilità di praeiudicium fieri, e ricostruisce
sistematicamente quelli intp. in modo da farne apparire, senza incertezze e
senza contrasti, la massima iudicio
publico praeiudicium fieri non debet.
[187] Poiché, con la risalente
dottrina, anche Siber ne ammette l’esistenza e ad essa riconduce tutte le
decisioni in cui si fa menzione del praeiudicium
in riferimento alla coesistenza di repressione pubblica e privata.
[188] Festschrift Wenger cit., 63 «der Richter über die maior causa durfte eine Vorentscheidung
über die minor nicht durch Anschluss an diese als Beweismittel verwenden, um sich
die Erhebung anderer Beweise zu ersparen»; 64 «der Kriminalrichter sich die erneute
Beweiserhebung nicht durch Bezugnahme auf das Urteil .,. ersparen darf, während
das Umgekehrte zulässig ist»: in questo senso viene intesa la seconda parte di P.S. I.12.8(9) maior enim quaestio minorem causam ad se trahit.
[190] Per quel che concerne il
processo criminale, questi elementi essenziali sono chiariti da Mommsen, II, 99 ss. Cfr. anche, con
riferimento al processo privato, Lemosse,
Cognitio cit., 158 ss., 166 ss.
[191] Ciò sembra discendere dai
princìpi, ai quali bisogna richiamarsi in mancanza di qualsiasi testimonianza
delle fonti in materia.
[193] Così, ad esempio, non ogni
furto di schiavo è un plagio: dopo esser stato assolto per questo crimine,
l’accusato poteva certamente essere convenuto con l’actio furti, e il giudicato criminale non avrebbe potuto
influenzare il giudice privato. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, poiché i
presupposti della punibilità del fatto non coincidono nei due ordinamenti
penali, pubblico e privato.
[194] Ferrini, Dir.
pen. rom., 238; Esposizione cit.,
141-42; Mommsen, III, 228; da
ultimo Schulz, Classical Roman Law, Oxford 1951, 573:
«Most probably the competing criminal procedure in which the judge was also
entitled to award damages to the offended came in practice to supersede
gradually the private penal actions». Ciò vale naturalmente solo per i casi in cui il iudicium publicum
si svolga dinanzi al magistrato; invece, fino a quando il processo criminale si
svolse di fronte alla quaestio, con
accusa e pena pubbliche, una ovvia considerazione di giustizia avrebbe imposto
che, qualora il fatto fosse punibile anche come delitto privato, dopo la
condanna criminale l’offeso potesse ottenere il pagamento della pena pecuniaria
attraverso l’azione penale.
[195] V. Biondi, Appunti intorno
alla sentenza cit., 74: «Come è possibile che il secondo giudicato sia
nullo? È chiaro che di fronte ad un principio generale di tal fatta la exceptio rei iudicatae su cui tanto si
affaticavano i giuristi romani» avrebbe perduto ogni importanza, poiché la
parte vittoriosa avrebbe potuto far valere la nullità assoluta del secondo
giudicato de eadem re», L’argomento è
studiato con nuova revisione di fonti da Apelt,
Die Urteilsnichtigheit im römischen
Prozess, Schramberg, senza data, 109 ss., che riconosce non potersi dare
una risposta definitiva ai problemi sollevati da C. 7.64.1. Cfr. anche Wenger, Istit. cit., 203 ss.
[197] Non bisogna però confondere
questa ragione concreta storica, per cui in molti casi il solo processo
criminale sarà effettivamente intentato contro il colpevole, con quella (non solo
difficile attuazione pràtica, come riconosce De
Sarlo, op. cit., 350, ma anche
inesatta secondo l’ordinamento processuale classico) per cui i compilatori e al
loro seguito la dottrina tradizionale ammettono che l’azione privata venga
assorbita dalla persecuzione pubblica.
[198] Così, ad es., se non sempre
un’ipotesi di rapina concreta anche una violenza punibile in sede criminale,
d’altro lato è evidente che la sentenza con cui si giudichi aver compiuto un crimen vis chi abbia asportato cose
altrui con la violenza, è in aperta contraddizione con una precedente
assoluzione sulla base dell’actio vi
bonomm raptorum. Tuttavia, è anche in questo caso possibile che,
svolgendosi il processo criminale dinanzi al funzionario imperiale anziché alla
giuria, egli condanni il reo a pagare all’offeso una pena pecuniaria (cfr. n.
194).
[199] Altrimenti sarebbe da
considerare il problema, qualora uno stesso rapporto giuridico venisse deciso
con due sentenze contrastanti: in tal caso, il diritto romano risolve il
conflitto ammettendo la nullità del secondo giudicato: cfr. CI. 7.64.1. È
inoltre opportuno chiarire che in nessun caso la contraddizione delle sentenze
avrebbe potuto esser ovviata con l’appello: questo mezzo processuale non entra
qui in considerazione perché parlando di conflitto tra giudicati si intende
appunto la contraddizione tra due sentenze che abbiano acquistato il valore di
cosa giudicata o per non essere state impugnate entro i termini, o perché già
confermate da una o più pronuncie successive di giurisdizioni superiori (Cfr. Orestano, Appello cit., 399).
[201] In D. 5.3.5.1, abbiamo già
visto la regola affermata per i rapporti tra crimen falsi e hereditatis
petitio: la stessa regola risulta per una fattispecie analoga da MOD. D.
48.2.18 (sul testo cfr. Wlassak, Anklage cit., 211 ss.). Le norme sorte
in relazione al falso testamentario vengono estese, per l’evoluzione della
tecnica documentale nel mondo romano, a qualunque tipo di documento solo nella
tarda epoca classica (forse con Settimio Severo: cfr. Archi, Problemi
cit., 91 ss., 97). In seguito infatti, la precedenza del falso incidentale
sulla causa civile ci è attestata, per documenti di credito, da Alessandro in
CI. 9.22.2 Satis aperte divorum parentum
meorum rescriptis declaratum est, cum morandae solutionis gratia a debitore
falsi crimen obicitiir, nihilo minus salva executione criminis debitorem ad
solutionem compelli oportere. Poiché Alessandro afferma aver spesso gli
imperatori ripetuto che, qualora la accusatio
falsi sia intentata dal debitore a scopo dilazionatorio, il pagamento deve
precedere la discussione sul crimen,
è evidente l’esistenza nel suo tempo di una prassi secondo la quale appunto il crimen falsi interrompeva il corso della
controversia civile per esser deciso prima di questa. Infine, in CTh. 9.19.2.
Costantino riferisce la prassi classica come relativa a documenti di qualunque
contenuto.
[204] La tortura cui deve esser
sottoposto lo.schiavo non è una pena, ma un mezzo per indagare sulla morte del
padrone (Cfr. Brasiello, Repressione cit., 256-57): qualora
dall’inchiesta risulti la colpevolezza della familia anche lo schiavo che
avrebbe dovuto esser manomesso sarà punito come omicida; altrimenti, nulla più
si oppone a che egli ottenga la libertà.
[205] La possibilità di discutere il
valore probatorio di una scrittura senza accertare il dolo di chi la produca,
prescindendo cioè da una inchiesta penale, è messa in luce da Archi, Studi Ferrini cit., 9 ss., sulla base di un brano di Quintiliano (Inst. Or. V.5). Cfr. anche Lemosse, Cognitio cit., 247 ss.
[208] Interpreto il testo, nella
lezione proposta da Kruger (ad h. l.), secondo l’esegesi di Wlassak, Anklage cit., 28, che mi pare l’unica possibile. (Per la dottrina
risalente, che leggeva paratus est
seguendo i manoscritti più antichi, v. Wlassak
cit., 27 e n. 47).
[209] II principio trovava
applicazione anche nel processo criminale: C.I. 7.56.3 (DiocL. a. 289): luris manifestissimi est et in
accusationibus his, qui congressi iudicio non sunt, officere non posse, si quid
forte praeiudicii videatur oblatum.
[210] Resta naturalmente aperta al
convenuto condannato la possibilità di intentare in seguito l’accusatio falsi: e se riuscirà a
dimostrare nel processo criminale d’essere stato condannato in base a documenti
falsi, otterrà la restitutio in integrum:
C.I. 7.58.2 (ALEX., a. 224). Un’analoga decisione era già stata presa da
Adriano (CALL. D. 42.1.33), contro la condanna ottenuta per mezzo di false
testimonianze.
[211] Gli imperatori parlano di iudex: ma appunto questo termine designa
ora abitualmente il governatore della provincia: cfr. Mommsen, I, 291 n. 3.
[212] Si vedano gli esempi riportati
da Orestano, Appello cit., 65 n. 1. Ad essi si può forse aggiungere C.I. 9.22.11
(Diocl. et Max., a. 287). Si lis pecuniaria apud pedaneos iudices remissa est, etiam de fide
instrumenti [civiliter] apud eos iuxta responsum viri prudentissimi Pauli
requiretur. Dal testo bisogna eliminare la parola civiliter, poiché il falso incidentale dà luogo ad un procedimento
civile solo dopo la riforma del 378; il responso di Paolo doveva ammettere la
competenza dei iudices pedanei (e
cioè dei giudici delegati del processo straordinario) ad esaminare la questione
incidentale: naturalmente però le due istanze, pur decise dallo stesso organo,
dovevano esser giudicate separatamente, in quanto scopo del processo criminale
è tuttora solo la punizione del reo. (In questo senso cfr. Lemosse cit., 249). È stato però
ritenuto (Archi, op. cit., 14) che la cost. sia più
gravemente alterata, e cioè che gli imperatori negassero la competenza dei
giudici pedanei ad indagare sul falso e rimandassero, per l’indagine sulla fides instrumenti, al dibattito privato
durante lo svolgimento della lis
pecuniaria.
[213] L’intp. è segnata da Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgescäft, in ZSSt. 43 (1923) 190, e accolta da tutta la seguente dottrina.
[214] La vastissima letteratura in
argomento è ricordata da Caporali,
Della violenza come motivo del testamento,
in RISG. IV (1887) 3 ss.; per quella
posteriore si veda Betti, Dir. rom. cit., 309 n. 2.
[215] Così Sanfilippo, II metus
nei negozi giuridici, Padova 1934, 61. Analoghe formulazioni in Biondi, Corso di diritto romano, I, Successione
testamentaria, Milano 1936, 119; e Longo,
Note critiche in tema di violenza morale,
in BIDR n, s. 1 (1934) 105. Tuttavia
non si: è ancora cercato di determinare con esattezza il crimen concretato dalla violenza testamentaria. (La fattispecie è
considerata criminosa anche da PAP. D. 26.9.3 e in CI. 6.34.1 di Diocleziano e
Massimiano). Il solo Lenel fornisce una indicazione, con la collocazione del
fr. 3 nella Palingenesia sotto, rubrica ad
legem Corneliam de falsis et SC.
Libonianum (v. anche il richiamo ad essa, Das erzwungene Testament, in ZSSt.
X. (1889), 74 n. 3): non mi sembra però possibile che Papiniano abbia
individuato un falso nel testamento coatto. È più probabile che la repressione
criminale della fattispecie ricadesse nell’ambito del crimen vis, come indica lo sc.
1 Bas. 35.4.4: nella tarda epoca
classica questo crimine viene esteso anche ad ipotesi di violenza morale, cfr.
MARC. D. 48.6.5 pr. (Lege Iulia de vi
publica tenetur) ... qui per vim sibi
aliquem obligaverit ... (La frase finale è certamente intp., come il
riferimento alla vis publica anziché privata: cfr. Longo, op. cit.,
101. Su questo testo v. anche Coroï,
Violence cit., 205 ss.).
[216] Questo è tuttavia l’unico
elemento positivo che si può trarre dalla c. 4 cit., giacché non è possibile
determinarne il valore per il caso in esame. Si può pensare infatti che la
nullità della sentenza consegua alla mancata osservanza della disposizione
tendente a far risolvere la controversia privata in base al giudicato sul crimine
a quella connesso: ma, poiché non ci sono riferiti gli estremi del caso
sottoposto all’imperatore da Severa, ciò rimane solo una congettura. Se tale
fosse il significato del solitus ordo
iudiciorum, dovremmo concludere che esistesse una regola generale,
stabilita sotto pena di nullità, secondo la quale il crimen vis incidentale ad una lita privata deve esser deciso prima
di questa: ma, ancora una volta, non possiamo giungere ad una simile
conclusione in base a questo solo testo.
[217] Questo indirizzo rende
finalmente ragione di P.S. 1.12.8(9) = D. 5.1.54 (cfr. § 3) dove la seconda
frase esprime, a quanto mi sembra, la possibilità di riunire i procedimenti
connessi.
[218] Supra, n. 201. Mi sembra quindi ingiustificata l’affermazione che essa
«non abbia nessun appoggio testuale nelle dottrine a noi tramandate dai
giureconsulti classici. Questi, in simili casi di interferenze tra procedimento
civile e criminale, discutevano se il giudizio dell’uno potesse costituire praeiudicium nei confronti dell’altro,
ma non fissavano alcuna precedenza cronologica a favore di uno dei due» (Archi, op. cit., 36-37).
I giureconsulti classici parlavano bensì di praeiudicium
senza fissare precedenze nell’ipotesi di processi coesistenti, ma stabilivano
anche che il processo civile venisse sospeso in caso di falso incidentale;
questa prassi del resto risulta, oltre che dai testi già visti; anche
dall’editto di VALERIUIS EUDAIMON (sul quale v. Gradenwitz, Rescripte
auf Papyrus, in ZSSt. 23 (1902)
371 ss.), richiamato dallo stesso Archi come precedente storico della nostra
costituzione.
[220] Un’ipotesi di questo genere
poteva essere quella per cui Severa si rivolge all’imperatore (cfr. CI. 6.34.1; 7.45.4): la nullità che Alessandro
afferma conseguire alla sentenza pronunciata contra solitum iudiciorum ordinem potrebbe esser dovuta alla
mancata osservanza di una delle disposizioni regolanti la ripresa della causa
civile dopo la decisione su quella criminale. La Glossa saepe fit (ad h. l.)
interpreta nam quandoque aliter fit, ut
cum civilis est praeiudicialis: l’affermazione è esattissima, ma non serve
a spiegare l’espressione di Costantino il quale evidentemente si occupava nella
c. 4 cit. di questioni criminali incidentali.