LA SPECIALITÀ
REGIONALE
NELL’ORDINAMENTO
ITALIANO
E
IN
QUELLO
DELL’UNIONE
EUROPEA
Università di Brescia
SOMMARIO: 1. I diversi
modelli di specialità regionale. – 2. La
specialità regionale nella Carta costituzionale del 1948. – 3.
Il principio c.d. di “differenziazione
regionale” introdotto dalle leggi di riforma dell’ordinamento
italiano. – 4. La legittimità della specialità regionale
nell’ordinamento italiano: il carattere derogatorio dell’istituto.
– 5. Segue: Il problema della specialità regionale
intesa come “attuazione” anziché come “deroga”
del principio generale di eguaglianza. – 6. Segue: Il significato della riforma dell’autonomia
regionale alla luce della distinzione fra norme di deroga e norme di attuazione.
– 7. Le Regioni e la loro specialità
nell’ordinamento dell’Unione europea. – 8. Segue: Le applicazioni normative del principio della
specialità regionale nel diritto dell’Unione europea: le deroghe
al diritto della concorrenza. – 9. Segue: La
specialità regionale nella giurisprudenza della Corte di giustizia.
– 10. Conclusioni. – Abstract.
Negli ultimi anni
l’istituto della specialità regionale – che ha ispirato
originariamente la struttura organizzativa e territoriale del nostro
ordinamento giustificando la particolare posizione di autonomia di alcune
Regioni – è stato sottoposto a revisione, sollevando molte
discussioni a cui, il detto istituto e i principi che lo governano, già
da tempo erano soggetti in Italia. Perciò, accanto ad una
specialità tradizionale – della cui legittimità si è
spesso dubitato – è stato introdotto un nuovo modello di
diversità regionale non meno problematico, dei cui profili di
compatibilità con il nostro ordinamento giuridico nel suo complesso,
ancora oggi si discute. In particolare, esso solleva il problema dell’effettiva conformità di questo
istituto con il nostro ordinamento e, in particolare, con il principio di
eguaglianza; ed, inoltre, pone il problema dell’univocità dell’istituto della specialità
regionale e, quindi, della possibilità che questo possa essere
rappresentato da modelli normativi anche molto diversi fra loro.
Di fronte ad una tale
situazione, si presenta l’esigenza di mettere a fuoco l’istituto
della specialità regionale alla luce degli sviluppi normativi che esso
ha subìto nel nostro ordinamento, verificandone il contenuto e le
ragioni alla base del suo riconoscimento.
Una volta conclusa l’indagine sul piano interno,
sarà opportuno passare ad analizzare la specialità sul piano
europeo-comunitario. E’ noto al riguardo che nell’organizzazione
politica e istituzionale dell’Unione europea (UE) siano state rinvenute
le tracce di un ordinamento statuale di tipo federale e che di questo
ordinamento facciano parte ormai, non solo gli Stati membri, ma numerosi altri
“soggetti” fra cui anche le Regioni. In tal senso, l’indagine
punterà ad accertare quale sia, allo stato attuale, la posizione
occupata dalle Regioni italiane nell’Unione europea. In particolare, si tratterà
di capire se esse, alla luce del diritto vigente, possano essere assimilate
agli Stati membri; inoltre se, anche nell’Unione, la specialità
regionale abbia ottenuto riconoscimento e, in caso affermativo, se ciò
abbia influito sullo status soggettivo
delle Regioni nell’ordinamento dell’Unione.
La specialità regionale è un istituto assai
discusso del nostro ordinamento costituzionale. Lo stesso
“regionalismo” sul quale essa si innesta e che ha inteso
caratterizzare, fin dalle sue origini, la forma di governo del nostro
ordinamento statale solleva ancora oggi dubbi e problemi, con la ricerca di
soluzioni nuove e ad esso alternative prima ancora che ne risulti compiuta la
sua stessa attuazione ai sensi del dettato costituzionale[1].
Esso è ritenuto una minaccia per lo Stato centrale, al quale appare
sistematicamente contrapposto[2],
da un lato, perché ne mette in pericolo l’unità sul piano
interno e, dall’altro, perché è suscettibile di metterne in
gioco la responsabilità nei rapporti con altri soggetti internazionali.
E’ ovvio che, in questo
contesto, la scelta di attribuire un regime di specialità ad alcune
Regioni non poteva che alimentare queste critiche e la specialità essere
messa continuamente in discussione[3] al
punto di essere considerata una “corsia preferenziale”[4] per
queste Regioni a danno delle altre e, in tal senso, una violazione del principio
di eguaglianza che, anche in questo settore di rapporti, appare ispirare il
nostro ordinamento.
Sebbene, quindi, il dettato
dell’art. 114 della nostra Costituzione del 1948 [5] fosse
molto chiaro nel qualificare le Regioni ordinarie e speciali, insieme alle
Province e ai Comuni, come articolazioni decentrate dell’ordinamento
statale italiano che accanto a quelle centrali contribuivano a specificarne la
forma e la struttura, nondimeno la loro presenza è stata da sempre
considerata problematica e ingombrante. Talché, si è assistito
alla sistematica contrapposizione non solo di due diversi livelli istituzionali
dello Stato, quello centrale e quello decentrato (soprattutto regionale, per
via degli ampi poteri di cui le Regioni erano investite, diversamente da Comuni
e Province) come se entrambi non fossero derivazione del medesimo ordinamento
nazionale ed espressione della sua articolazione amministrativa e territoriale;
ma, altresì, all’interno del medesimo livello istituzionale
decentrato, fra Regioni ordinarie e Regioni speciali, come se le seconde
(indipendentemente dalle ragioni della loro specialità) ricevessero un
trattamento di «privilegio»[6]
basato sull’attribuzione ad esse di un’«autonomia
tendenzialmente maggiore»[7]
(anziché “maggiormente adeguata alla loro condizione”)
rispetto alle prime, in violazione dell’uniformità
dell’istituto regionale e dell’unità dello Stato italiano.
La situazione fin qui descritta,
lungi dall’essersi risolta, si è ulteriormente aggravata e, per
certi versi, complicata con la novella costituzionale del 2001 [8] e la
successiva legge di attuazione[9].
Da un lato, la legge n. 3 del
2001 (art. 3 modificativo dell’art. 117 Cost.) ha riformato
l’istituto dell’autonomia regionale nell’ambito del riparto
di competenze fra Stato centrale e regionale, attuando il decentramento a
favore delle Regioni in molti dei settori precedentemente riservati all’intervento
esclusivo dello Stato.
Dall’altro, essa ha
prospettato un ampliamento dell’autonomia regionale a casi diversi da
quelli delle cinque Regioni a statuto speciale. L’art. 2 della legge n. 3
del 2001, nel modificare l’art. 114 della Cost. it., ha in tal senso
stabilito:
«Il Friuli Venezia Giulia,
la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle
d'Aosta/Vallée d'Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di
autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.
La Regione Trentino-Alto
Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di
Bolzano.
Ulteriori forme e condizioni
particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma
dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo
alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e
s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su
iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei
principi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a
maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la
Regione interessata».
L’art. 10 della medesima
legge ha inoltre disposto che «1. Sino all'adeguamento dei rispettivi
statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche
alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di
Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie
rispetto a quelle già attribuite».
Secondo una parte della
dottrina, questa riforma avrebbe svuotato l’istituto della
specialità regionale rendendolo privo di valore ed efficacia. In questo
senso, vi è chi ha sostenuto che l’antica specialità non
appaia più in linea con i principi della Costituzione e vada, pertanto,
rivista[10]; vi
è anche chi ha sottolineato che l’autonomia speciale
«è venuta assumendo caratteri di obiettiva
recessività» e che, quindi, fosse «condannata ad un processo
di graduale dissoluzione»[11]; inoltre,
che occorresse procedere ad una «reinvenzione della
specialità»[12]
introducendo, ad esempio, il modello della «specialità
diffusa»[13]. In altre parole, la
specialità regionale sarebbe un istituto desueto così come lo
stesso termine utilizzato per definirla, talché è preferibile
parlare di «differenziazione»[14],
anziché di specialità regionale.
Secondo un altro approccio,
invece, la modifica introdotta al Titolo V della Cost. it. dalla novella
costituzionale del 2001, andrebbe interpretata nel senso che il nostro
ordinamento fa salva la specialità regionale[15], ma
introduce, accanto ad essa, uno strumento di “differenziazione
regionale” (da quantificarsi in termini di nuove attribuzioni alle
Regioni interessate) basata su criteri diversi da quelli del passato. Secondo
alcuni autori, questo strumento porrebbe rimedio alla situazione di vantaggio e
di maggiore autonomia di alcune Regioni – quelle speciali appunto –
fondata su criteri (di tipo identitario, come quello etnico, geografico,
storico, linguistico) ritenuti troppo «rigidi e statici»[16],
attraverso la predisposizione di nuove forme di autonomia di tipo
“differenziato” basate, viceversa, su criteri più
“flessibili”, (da determinarsi di volta in volta sulla base di
un’intesa con lo Stato centrale) orientati a valorizzare le
«potenzialità», il «merito» e
l’«efficienza» delle Regioni interessate[17].
In tal senso, specialità
e differenziazione non verrebbero a sovrapporsi, bensì preciserebbero e
darebbero sostanza all’articolazione e alla varietà complessiva
del nostro ordinamento regionale, innescando altresì una virtuosa
competizione fra le nostre Regioni.
A ben
guardare, la specialità (e, cioè, i suoi requisiti) e dunque il
grado (più o meno elevato) di autonomia regionale che da questa
discenderebbe, diventerebbero un aspetto negoziabile in quanto soggetto ad
intesa fra Governo centrale e regionale sulla base di fattori
“meritori” non meglio definiti. Questi ultimi in particolare, non
sono più i criteri che contraddistinguono ancora oggi le cinque Regioni
a statuto speciale istituite con la Costituzione del 1948 o altri criteri
generali a questi assimilabili. Al contrario, si tratterebbe di criteri da
definire di volta in volta in funzione delle “forme e condizioni
particolari di autonomia” che con essi si intendono conseguire. Oltre ai
criteri, anche le procedure cui è soggetto il riconoscimento del regime
differenziale regionale sono diverse: l’adozione degli Statuti speciali
si formalizza, infatti, a mezzo di una legge costituzionale, essendo tali
statuti considerati atti del Parlamento adottati sulla base di un procedimento
aggravato in virtù dell’art. 138 Cost.; l’adozione degli
atti di riconoscimento delle nuove forme di differenziazione regionale e di
attribuzione delle “ulteriori forme e condizioni particolari di
autonomia”, avviene, invece, ai sensi dell’art. 116 Cost., ultimo
comma, attraverso una legge dello Stato di iniziativa regionale, approvata a
maggioranza assoluta, sulla base di un’intesa tra lo Stato e la Regione
interessata, sentiti gli enti locali e nel rispetto dei principi di cui
all’art. 119 Cost.
L’istituto della
specialità introdotto dalla novella del 2001 sembrerebbe, pertanto, non
escludere una discrezionalità difficile da controllare, essendo basata
in definitiva (anziché su procedure e requisiti certi e prestabiliti) su
forme di equilibrio contingente ovvero di fortunato allineamento politico fra
Governo centrale e Governo regionale. Si tratterebbe, cioè, di un
istituto à la carte[18],
diversamente declinabile in termini di portata ed intensità, in quanto
soggetto a fattori relativi, aleatori, di carattere soggettivo e contingente,
concordati di volta in volta fra le istituzioni interessate[19].
Questa forma di regionalismo
«asimmetrico»[20],
peraltro, non è l’unica vigente in Italia. Essa, infatti, è
stata completata dal c.d. federalismo fiscale introdotto con la legge del 5
maggio 2009, n. 42 [21]. Nel
basarsi su un principio di territorialità per la determinazione degli
strumenti finanziari della politica regionale (e, quindi, nella copertura della
relativa spesa pubblica), la legge n. 42/2009 secondo la dottrina qui
richiamata, avrebbe introdotto “nuove forme di asimmetria”,
rispetto a quella originariamente accolta nel nostro ordinamento, distinguendo
le Regioni, sotto questo profilo, a seconda che fossero o meno “capaci e
competitive”[22].
Alla luce dei dati teorici e
normativi sopra illustrati, mette conto verificare se la
“specialità regionale”, come attualmente regolata, in modo
apparentemente articolato, nel nostro ordinamento costituzionale – avuto
riguardo sia alle attuali Regioni a statuto speciale, sia a quelle suscettibili
di diventarlo nel futuro – costituisca, in primo luogo, un istituto
unitario anche se normativamente frammentato; e, in secondo luogo, un istituto
complessivamente legittimo, in quanto compatibile con i principi fondamentali
del nostro ordinamento. In particolare, sarà opportuno accertare se la
nuova “differenziazione regionale” rappresenti, in effetti, una
nuova espressione della “specialità regionale”
originariamente prevista dal nostro ordinamento, e se essa sia conforme ai
principi fondamentali dello Stato e, quindi, non dia luogo a quelle accuse, che
in passato sono state attribuite alla specialità regionale, che
ravvisavano in quest’ultima un vero e proprio trattamento
“privilegiato”, rigidamente determinato e contrastante con i
caratteri del regionalismo comune e del principio di eguaglianza cui questo si
ispira.
Nel rispondere all’esigenza di disciplinare con una
normativa ad hoc una data categoria
di fatti meritevoli di tutela attraverso una modifica al diritto generale o
comune (al quale risulterebbe, altrimenti, sottoposta[23]),
l’istituto della “specialità” pone in relazione due
diversi ordini normativi[24]:
quello generale e quello speciale. Da un punto di vista giuridico, pertanto, la
specialità (anche quella regionale) confluisce nel concetto di deroga[25].
Nel sistema delle fonti di un ordinamento giuridico, la deroga rappresenta il
criterio chiamato a risolvere l'antinomia suscettibile di crearsi tra due
disposizioni giuridiche e i diversi livelli normativi cui esse appartengono.
Tale criterio, in particolare, stabilisce la preferenza della legge speciale su
quella di carattere generale, anche successiva, secondo il principio di origine
latina lex specialis derogat legi generali e lex posterior generalis non derogat legi priori speciali,
da intendersi nel senso che "la legge speciale deroga la legge generale”
e “la legge generale posteriore non deroga la precedente legge
speciale”.
Secondo quanto ora osservato, quindi, il diritto speciale
(in relazione ai fattori differenziali che esso mira a tutelare[26])
si configura come un diritto derogatorio,
finalizzato ad adottare una disciplina giuridica differenziata (speciale), rispetto a quella vigente
(comune), per la categoria di fattispecie che esso è chiamato a regolare[27].
Di tutta evidenza, nonostante la sua origine collegata ad un diritto
preesistente, il diritto speciale manifesta una propria autonomia che conserva
anche nel caso di un suo sviluppo normativo, con la conseguenza che le sue vicende giuridiche nel tempo saranno
distinte e separate da quelle del diritto generale da cui ha preso spunto.
Come ogni tecnica di produzione normativa, anche la
deroga deve soddisfare alcuni requisiti, di carattere formale e materiale, che
ne rendano la sua adozione valida e legittima, conformandola ai principi
dell’ordinamento nel quale si trova ad operare. Una siffatta circostanza
presuppone, pertanto, la preventiva e precisa ricostruzione di tali requisiti
ovvero dei parametri, limiti e valori dell’ordinamento nazionale[28]
che il diritto speciale, non solo non può violare, ma non è
neppure competente a derogare.
Ai fini, innanzitutto, della sua validità formale
la deroga deve potersi collocare nel sistema delle fonti
dell’ordinamento. Ciò significa che essa non potrà derogare
norme di rango superiore; inoltre, che la sua adozione debba essere autorizzata attraverso apposite previsioni che
individuino i valori meritevoli di tutela sui quali poggia il suo fondamento.
Sotto il profilo sostanziale, poi, la deroga non potrà superare i limiti
dedotti dalle particolarità della categoria di fatti che è
preposta a regolare e dovrà essere, in tal senso,
“ragionevole” e “proporzionata”[29].
La deroga, più in generale, deve essere conforme
al principio fondamentale di eguaglianza[30]
al quale appare ispirarsi il nostro ordinamento nelle diverse categorie di rapporti
sottoposti alla sua disciplina, come quella di cui si tratta[31].
Ad un’attenta analisi, la portata del principio di
eguaglianza nel nostro ordinamento non solo consente la deroga, ma ammette
espressamente l’adozione di un diritto speciale posto che «il
principio di eguaglianza comporta che, se situazioni uguali esigono uguale
disciplina, situazioni diverse possono richiedere differenti discipline»[32].
Si tratta di uno schema, quello ora riferito, presente fin dalle prime sentenze
nella giurisprudenza della nostra Corte costituzionale che – nel
descrivere il significato, la portata e la funzione del principio di
eguaglianza – precisa i corretti termini del rapporto fra il diritto
generale e il diritto speciale[33].
L’interpretazione del principio di eguaglianza prevede, altresì,
che il riconoscimento di forme di specialità non debba essere ispirato a
finalità discriminatorie. Si è accertato, infatti, che il
principio di eguaglianza appare controbilanciato da un altro principio, quello
di “non discriminazione”[34].
Anzi, secondo la dottrina il principio di eguaglianza nasce, nel nostro
ordinamento, in funzione “antidiscriminatoria”[35],
nel senso che esso incorpora nel suo precetto il significato e le
finalità del principio di “non discriminazione”. Quella ora
descritta rappresenta una dimensione del principio di eguaglianza che, di tutta
evidenza, va razionalizzata e resa coerente con la lettura (sopra
riferita) dello stesso principio in
termini di apertura ai valori della “differenza” (e, quindi, della
discriminazione) con la quale risulta – apparentemente – in
conflitto. La coesistenza di queste due opposte dimensioni nel principio
eguaglianza si spiega nel senso che il principio di eguaglianza ammette
certamente un diritto discriminatorio, tuttavia, con alcune limitazioni. Il
principio di eguaglianza esclude non soltanto che il diritto discriminatorio si traduca in un
trattamento preferenziale, ma
altresì che esso generi un trattamento deteriore, entrambi vietati dal nostro ordinamento. Il trattamento
discriminatorio, in altri termini, deve essere diretto a valorizzare la
diversità, a proteggerla, cioè, come un valore fondamentale e
ulteriore, che si aggiunge a quelli già protetti dall’ordinamento,
ed evita che essa scada in situazioni di privilegio o di svantaggio.
Ciò, del resto, è quanto affermato dalla stessa Corte
costituzionale allorché questa ha osservato che «un trattamento
differenziato potrebbe ritenersi “ragionevole” in quanto diretto a
realizzare altri e prevalenti valori dell’ordinamento» (corsivo aggiunto)[36].
Si tratta di un approccio, quello qui ricordato, che
dovrebbe poter essere applicato anche al tema della specialità regionale
senza subire conseguenze per effetto delle recenti modifiche costituzionali.
L’istituto dell’autonomia speciale, invero, assume il carattere di
valore fondamentale nel nostro ordinamento concorrendo, insieme agli altri
principi fondamentali, a determinarne la sua struttura in senso regionale e il
suo carattere pluralista e democratico e, proprio per questo, è circondato
da garanzie di carattere costituzionale riguardanti la sua interpretazione e
attuazione[37].
Con riguardo a questi aspetti vengono in rilievo alcune
recenti pronunce[38]
della Corte nelle quali essa ha affermato da un lato, che «le
disposizioni legislative statali» che sembrano interferire con competenze
statutarie, devono essere interpretate,
in modo da assicurarne la conformità
con la posizione costituzionalmente garantita alle Regioni speciali e alle
Province autonome e, dall’altro che, in riferimento alla legittimità
della c.d. clausola di maggior favore, per esprimere un giudizio di preferenza
tra diversi sistemi di autonomia ordinaria e speciale ai sensi dall’art.
10 legge cost. n. 3 del 2001 è necessario che «vengano considerati
“i due termini” della comparazione», in quanto solo dopo un
esame complessivo dei due sistemi
«è possibile ritenere che l’uno garantisca una forma di
autonomia eventualmente più ampia rispetto all’altro»[39]
(corsivo aggiunto). Ciò, secondo una parte della dottrina, lascerebbe
intendere che il regime ordinario “più favorevole” non osti
all’adozione di un nuovo diritto speciale, ma si limiti a compensarne la
“temporanea assenza”[40].
Se l’applicazione dei
parametri, fin qui delineati, ha giustificato in passato il riconoscimento di uno
statuto di specialità nei confronti di alcune Regioni italiane, occorre
ora verificare se, sulla base degli stessi, è possibile giustificare e,
in quali termini, le nuove forme di autonomia regionale regolate dal diritto
vigente.
Nell’accingerci a
verificare la legittimità e coerenza del regime di riforma
dell’autonomia e della specialità regionale rispetto ai parametri
fondamentali del nostro ordinamento, occorre previamente osservare che sebbene
la ricostruzione teorica (svolta al paragrafo precedente) dei criteri e
principi regolatori della specialità regionale appaia largamente
condivisa, viceversa, la sua applicazione ai casi della prassi non risulta
sempre chiara e convincente.
Si è detto, infatti, che
il nostro ordinamento ammette, espressamente, deroghe al regionalismo comune
dirette a salvaguardare differenze meritevoli di tutela e che, a tal fine, il
diritto differenziale deve essere orientato a valorizzare i fattori di
diversità tutelandoli alla stregua di interessi fondamentali. Secondo
questo approccio, inoltre, il diritto differenziale pur fondandosi su
presupposti, formali e materiali, che
giustificano in termini oggettivi e inequivocabili una deroga al diritto
generale deve, nondimeno, essere «conforme»[41] al
principio di eguaglianza e, quindi, alle norme che di questo sono espressione[42].
Proprio sul modo di intendere
una tale «conformità», tuttavia, si è creata una
certa confusione e dato adito a numerosi fraintendimenti che hanno indotto a
ritenere che il diritto speciale dovesse costituire «attuazione»
del diritto generale e, in particolare, del principio di uguaglianza cui questo
si ispira. Questo modo di accertamento della legalità del diritto
speciale rispetto a quello generale, appare in stridente contrasto con i
principi che regolano il nostro sistema delle fonti e che distinguono le norme
di deroga dalle norme di attuazione[43].
Sembra indiscutibile, infatti, alla luce dei detti principi che una norma
finalizzata ad introdurre una deroga al diritto vigente non possa, al contempo,
rappresentarne la sua attuazione, salvo andare incontro a una insormontabile
contraddizione tanto su un piano giuridico, quanto su quello logico[44].
D’altro canto, è pur vero che ogni principio generale,
affinché non resti un mero valore astratto, privo di riscontro sul piano
materiale, necessita di essere attuato nella prassi[45]. In
tal senso, anche il principio di eguaglianza, necessita di una sua applicazione
pratica al fine di essere un valore effettivo dell’ordinamento: anzi,
l’art. 3 Cost. sembra molto esplicito al suo 2° comma
nell’autorizzare il legislatore ad adottare misure dirette a
«rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano
«di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini».
Si tratta dell’enunciazione del principio di c.d. eguaglianza sostanziale
che (contrapposto al principio c.d. di eguaglianza formale, come affermato
all’art. 3, 1° comma Cost.) ha sollevato un grande dibattito in
dottrina[46] ma che non può
essere considerato uno snaturamento di quest’ultimo. Al contrario,
dovrebbe avere la funzione di dare “effettività” al
principio di eguaglianza formale consentendo a questo di non restare un principio
vago e generico, scritto solo sulla carta, ma di adattarsi alle
particolarità dei casi della prassi.
Anche a
volere considerare, comunque, che una norma di “deroga”
costituisca, a sua volta, “attuazione” del principio da cui essa
trae il proprio fondamento giuridico[47], si
tratta di due funzioni e finalità della medesima norma che non possono
essere sovrapposte essendo regolate da criteri di risoluzione delle antinomie
diversi nel sistema delle fonti, rispettivamente, quello di pari ordinazione e
di gerarchia.
Sembra evidente, pertanto, alla
luce di quanto osservato, che l’approccio contrario, sopra richiamato,
muove dalla falsa premessa che il principio di eguaglianza – e il diritto
che ad esso si ispira – abbia un carattere gerarchicamente superiore e
una portata onnicomprensiva e omologante con la conseguenza che qualunque norma
che non possa essere considerata una sua “attuazione” (inclusa la
deroga), debba essere automaticamente considerata una sua violazione. In
realtà, non tutte le norme che intervengono nel campo di applicazione di
una norma preesistente sono destinate a dare a questa attuazione e a definirsi
come “norme di esecuzione”; ve ne sono altre, infatti, destinate a
modificarla derogandone la portata ma, non per questo, esse debbono essere
qualificate come illegittime o, comunque, «cedevoli»[48], in
quanto tali soggette a modifica da parte di altre norme dell’ordinamento
giuridico.
Peraltro, si osservi che
l’approccio dottrinale qui richiamato è lo stesso[49] che
considera necessaria l’esistenza di un’apposita norma
costituzionale che autorizzi l’introduzione di una deroga ai principi
generali dell’ordinamento, come quello di eguaglianza. E non si capisce
il motivo di esigere un autonomo fondamento costituzionale per il diritto
speciale se questo poi finisce, di fatto, per essere ricondotto ad un altro
principio dell’ordinamento qual è, nel caso di specie, il
principio di eguaglianza. Le norme di diritto regionale speciale, infatti, non
possono essere considerate norme di attuazione del diritto regionale comune.
La questione messa in evidenza al paragrafo precedente
può, a prima vista, apparire secondaria e di mero valore accademico,
eppure la situazione di confusione che essa produce, può dare luogo a
numerose e molteplici conseguenze che, come si è cercato
esemplificativamente di illustrare al paragrafo precedente, risultano essersi
già delineate nella prassi. Questo modo di ragionare, infatti, ha dato
adito all’idea da un lato, che la specificità regionale
costituisca un privilegio (in contrasto con il principio di uguaglianza) e che,
pertanto, essa non abbia un fondamento certo e stabile nel nostro ordinamento[50];
dall’altro, che trattandosi di norme “cedevoli” ovvero
precarie e transitorie dell’ordinamento, le norme speciali debbano essere
intese come eccezionali e temporanee e, quindi, destinate ad estinguersi e a
cedere il passo ad altre norme. Di modo che, qualsiasi regime giuridico
successivo, di ispirazione egualitaria sarebbe idoneo ad incidere sulla loro
esistenza, con l’effetto di modificarla se non pure di abrogarla.
A questo riguardo, viene in rilievo la riforma
costituzionale che ha modificato, sotto vari profili, il nostro ordinamento
regionale venendo ad incidere sull’istituto della specialità in
esso regolato. Anche questa riforma, dunque, stando alla ricostruzione dei
principi fatta al paragrafo precedente, proponendosi di intervenire sul sistema
di decentramento, anche speciale, vigente nel nostro Paese, avrebbe dovuto
rispettare i requisiti (formali e sostanziali) che, come si è visto,
devono necessariamente contraddistinguere ogni misura di deroga. Tuttavia,
occorre osservare che la riforma di cui si tratta non ha realizzato una forma
di deroga nel senso anzidetto. Più esattamente essa, lungi
dall’adottare un nuovo modello di “specialità
regionale” che derogasse quello precedente, ha inciso sull’impianto
regionalistico di diritto comune rappresentandone una sua forma di attuazione.
Più espressamente, essa ha introdotto misure che non sono dirette a
proteggere la diversità, bensì l'eguaglianza, portando
“alle sue estreme conseguenze” il regionalismo di diritto comune.
Il significato della c.d. clausola del maggior favore[51], pertanto, non può
che essere inquadrato in questo contesto. In obiezione a coloro che
interpretano questa clausola come legittimante un meccanismo di assimilazione
delle Regioni a statuto speciale a quelle a statuto ordinario, pertanto, va
osservato che la riforma del regionalismo ordinario non può costituire
l’occasione per intaccare il regionalismo speciale che è
riconosciuto, dalla riforma stessa, come un aspetto strutturale e qualificante
del nostro ordinamento. Non si vede altra via, quindi, se non quella di
interpretare la clausola in questione nel senso che la riforma costituzionale
non autorizza forzature nell’attuazione uniforme della sua disciplina,
limitandosi a legittimare l’assimilazione e la parificazione nei casi in
cui queste ultime non violino ma, al contrario, siano rispettose della
diversità. Una soluzione questa che, evidentemente, terrebbe conto del
fatto che le Regioni speciali, nonostante la loro “separatezza”[52], sono pur sempre parti
integranti dell’ordinamento statale e restano, per ciò stesso,
soggette a suoi principi che non sono, evidentemente, solo quelli facenti capo
alla loro specialità. Tutto ciò, pertanto, che non appare
regolato dal diritto dello Stato a titolo di specialità rientra,
giocoforza, nell’ambito di applicazione del diritto generale. E la
riforma del 2001 prevede forme di “maggiore autonomia” non
regolate, in tutto o in parte, dagli Statuti speciali.
Peraltro, la riforma nei suoi aspetti collegati al c.d.
federalismo fiscale, ha introdotto elementi di politica della concorrenza[53]
suscettibili di alimentare, de facto,
la diversità (nel senso, stavolta, del divario e del disvalore che esso
rappresenta) fra le Regioni italiane in dispregio dell’eguaglianza.
Poiché, tuttavia, il regime di concorrenza presuppone una condizione di
parità ai “punti di partenza”[54], la sua istituzione
avrebbe reso necessaria la previsione di opportuni correttivi (misure c.d. di
“eguaglianza sostanziale”) diretti a garantire l’eliminazione
degli ostacoli impeditivi dell’effettiva parità fra tutte le
Regioni, indipendentemente dalla loro specialità e, meglio, per gli
aspetti da questa non disciplinati[55].
Si tratterebbe, esattamente, di misure che, lungi dal sostituire o compensare
le misure sulla specialità regionale attualmente in vigore, mirano a
completarne gli effetti allargando e articolando lo spettro degli strumenti di
tutela della diversità regionale
tale da prevedere tanto misure di
discriminazione della diversità regionale a garanzia di questa come
valore autonomo dell’ordinamento, quanto misure di non discriminazione della diversità regionale tese
ad evitare che questa si traduca in uno svantaggio ovvero in un disvalore (in
ossequio al principio di eguaglianza c.d. sostanziale)[56].
La riforma, al contrario, è entrata in vigore
senza prevedere questi meccanismi con conseguenze che si sono manifestate,
soprattutto nei confronti di alcune delle Regioni a statuto speciale[57],
con un abbassamento complessivo del livello di protezione ad esse riconosciuto
e in un aumento proporzionale del loro svantaggio, non a caso proprio sotto i
profili della riforma ricollegati ai fattori della loro diversità.
Peraltro, ciò ha inciso su uno stato di pregressa e protratta sofferenza
di queste Regioni dovuto alla ritardata e incompleta attuazione dei loro
statuti[58].
A ben guardare, dunque,
nell’ordinamento italiano il problema della specialità regionale
non appare collegato tanto alla sua legittimità (e, quindi, alla
determinazione del suo fondamento nel nostro ordinamento) quanto, invece, a
quello della corretta definizione e applicazione dei criteri che devono
giustificarne il riconoscimento nel caso concreto e della varia tipologia di
misure dirette a preservarla.
Conviene ora passare a
verificate le posizioni che le Regioni rivestono sul piano dell’UE al
fine di capire se esse contemplano o meno misure di specialità nei loro
confronti, analoghe a quelle fin qui viste sul piano nazionale.
Si è già avuto modo di accennare[59]
al fatto che l’Unione europea (UE) sia tenuta distinta dalle
organizzazioni internazionali esistenti in quanto rappresentativa di una
realtà «originale»[60], «sui generis»[61], che presenta molte delle
caratteristiche tipiche di un «ordinamento giuridico»[62] statuale di tipo federale
o pre-federale[63],
«alla quale gli Stati hanno trasferito una parte delle proprie
prerogative sovrane, ivi compresa la potestà normativa»[64].
In tal senso, il sistema di organizzazione e ripartizione dei poteri sovrani
fra gli Stati membri e le Istituzioni dell’Unione appare ispirato ad un
principio di leale collaborazione (art. 4 TUE) – ai sensi del quale
«[…] l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono
reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati»
– ad un principio di sussidiarietà (art. 5 TUE) – in base al
quale «l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi
dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente
dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale
e locale» – e ad un principio di prossimità (art. 1, co. 2 e
art. 10 par. 3 TUE) – in virtù del quale le decisioni devono
essere prese «il più vicino possibile ai cittadini»[65].
Nonostante le citate caratteristiche, l’Unione non
include nella propria organizzazione le articolazioni decentrate dello Stato[66].
Gli Stati, infatti, restano «al centro di questo sistema cui partecipano
come enti unitari, senza che emergano con una propria autonomia […] le loro
ripartizioni interne»[67].
e’
vero, infatti, che la normativa europea annovera iniziative, quali la Carta
comunitaria della regionalizzazione del 1988 [68],
dirette a uniformare il diritto pubblico istituzionale degli Stati membri in
vista di favorire il decentramento e valorizzare l’autonomia degli enti
territoriali minori[69].
Inoltre, che il diritto dell’Unione ha previsto l’istituzione di
apposite rappresentanze regionali con la creazione del Comitato delle Regioni[70].
Infine, che l’Unione europea ha dato risalto ai livelli regionali e alle
loro problematiche gestionali nell’ambito delle proprie politiche: in
particolare, nell’ambito della “politica di coesione” (detta
anche “politica regionale”) in relazione alla gestione e attuazione
dei finanziamenti erogati nell’ambito dei Fondi strutturali, e
nell’ambito della “politica di concorrenza” in relazione alle
ipotesi di aiuti a finalità regionale concessi in deroga ai principi
generali della materia.
Tutte le esperienze normative ora citate, tuttavia, non
sono espressione di una riforma dell’ordinamento dell’Unione con
una inclusione delle Regioni (o degli stessi Stati membri) nel suo tessuto
organizzativo e, in particolare, di un decentramento dell’Unione; al
contrario, esse confermano la struttura stato-centrica dell’ordinamento
dell’Unione in cui gli Stati membri rimangono i “gestori” (e,
quindi, i responsabili), unici ed originari, dei propri ordinamenti e dei
rapporti che questi hanno con l’UE. Esse, in tal senso, non influiscono
né sulla natura delle Regioni (e, quindi, sul loro status soggettivo), né sulla natura della loro autonomia
normativa (e, quindi, della loro specialità) in questo ordinamento[71].
Questa situazione discende dal modo di essere
dell’Unione europea e, precisamente, dalla natura e dai caratteri
dell’ordinamento giuridico (quello internazionale) in cui essa ha origine
e deriva il suo fondamento. E’ noto che l’Unione è
costituita[72]
a mezzo di uno strumento di produzione giuridica – il trattato – tipico
dell’ordinamento internazionale nel quale i rapporti fra i soggetti che
di esso fanno parte – gli Stati – risultano regolati in forma di
diritti ed obblighi reciproci, volontariamente definiti. Meno note sono le
conseguenze, sotto il profilo soggettivo, derivanti dall’assunzione di
diritti ed obblighi a mezzo della stipulazione di un accordo internazionale.
Gli Stati che hanno dato vita, nei primi anni cinquanta del secolo scorso, al
Trattato costitutivo della CEE (nonché a quelli della CECA e
dell’Euratom) e ai successivi Trattati di modifica sono, infatti, i
soggetti titolari dei diritti e degli
obblighi in essi stabiliti e i responsabili della loro attuazione.
In questo senso, si spiega l’affermazione della
stessa Corte di giustizia secondo cui gli Stati membri sono i
«titolari» e, perciò, i «destinatari» degli
obblighi comunitari e che «la nozione di Stato membro […] non
può estendersi agli esecutivi di Regioni o di comunità autonome,
indipendentemente dalla portata delle competenze attribuite a questi ultimi. Ammettere
il contrario equivarrebbe a mettere in pericolo l’equilibrio
istituzionale voluto dai Trattati»[73].
Non rientrando nel concetto di “Stato membro” dell’Unione, le
Regioni non possono neppure essere considerate “destinatarie” degli obblighi comunitari[74].
Anche quando il diritto comunitario prevede un loro “interesse ad
agire” sul piano dell’Unione (es. ai sensi dell’art. 263
TFUE), tale previsione non è preordinata ad incidere sulla posizione di
queste nell’ordinamento dell’Unione (con la conseguenza di
trasformarle in Stati membri e renderle, dunque, destinatarie[75] degli obblighi da esso
previsti) bensì, unicamente, sulla loro posizione nell’ordinamento
dello Stato di appartenenza in relazione alla capacità di questo di
adattarsi ai contenuti del diritto dell’Unione che le riguarda «direttamente
ed individualmente»[76]. L’intervento del
diritto comunitario, quindi, opera sempre nei confronti degli Stati membri
quali «portatori» o «gestori di un ordinamento sovrano»[77] chiamato ad adeguarsi
agli obblighi ad esso conseguenti, suscettibili di riguardare eventualmente,
anche forme di specialità regionale. Gli Stati membri, si dice, sono i
“padroni” dei trattati. Con ciò intendendo significare che
la sottoposizione dei rispettivi ordinamenti ai vincoli di natura comunitaria
dipende unicamente dalla loro volontà, così come manifestata nei
Trattati istitutivi e in quelli modificativi. Se gli Stati, dunque, sono gli
unici soggetti dell’ordinamento dell’Unione europea, le Regioni
– come ogni altra istituzione e ogni altro aspetto ed elemento dello
Stato membro – vengono in rilievo sul piano europeo in quanto e nella
misura in cui la loro qualità, status
o condizione interna siano disciplinati dal diritto dell’Unione, secondo
le modalità ora viste.
Da quanto osservato discende che le uniche forme di
specialità regionali suscettibili di rilevare a livello
dell’Unione sono quelle riferibili allo Stato in quanto membro
dell’Unione, inteso quindi, nella sua unità ed interezza. Le
specificità regionali, in altre parole, verranno in rilievo nel diritto
UE non in quanto “giuridicamente riconosciute alle Regioni”,
bensì ai rispettivi Stati membri nei termini e nei limiti della loro
disciplina. Ciò significa inoltre, che, nel diritto dell’Unione,
la “specialità regionale” non coincide con la
specialità di cui le Regioni godono nei loro ordinamenti statali[78], trattandosi di due
istituti che, anche quando la loro disciplina materiale venga a coincidere,
risultano regolati da ordini giuridici fra loro distinti e separati[79]. Tale cesura rimane anche
qualora il diritto dell’Unione abbia un c.d. “effetto
diretto” ovvero sia “direttamente applicabile” negli
ordinamenti interni senza la necessità di norme c.d. interposte o
intermedie[80].
Trattandosi, infatti, di una forma di “specialità” che ha
origine in un rapporto di diritti e obblighi fra gli “Stati membri”[81],
essa produrrà i suoi effetti in un ordinamento diverso da quello a cui
appartengono le Regioni, limitandosi a raggiungere queste ultime solo in quanto
“direttamente e individualmente” interessate ad esigere
l’applicazione di tali obblighi da parte dei loro legittimi destinatari.
Con riguardo a quest’ultimo aspetto merita di essere ricordato che le
Regioni, insieme alle altre persone giuridiche e fisiche, possono far valere le
conseguenze negative sulla loro sfera giuridica della mancata o distorta
applicazione delle misure comunitarie, sebbene queste abbiano per
“destinatari” altri soggetti (e, cioè, gli Stati di
appartenenza, in quanto membri UE), purché da esse “direttamente e
individualmente interessate”[82],
secondo quanto prescritto dal diritto dell’Unione.
L’accertamento della specialità regionale in
questo specifico ambito normativo, dunque, impone di tenere distinti due ordini
normativi diversi e indipendenti che, pur venendo a interfacciarsi e a
concorrere ai fini della sua attuazione effettiva tuttavia, non giungono mai a sovrapporsi
sul piano giuridico: quello cui appartengono gli Stati membri dell’Unione
e quello cui appartengono le Regioni[83].
Questo dualismo va sempre tenuto
presente nella materia in esame, sia perché assume oggettivamente una
grande importanza ai fini della formazione e dell’osservanza delle norme
comunitarie in materia regionale; sia perché, come si è potuto
osservare già in questa sede, la giurisprudenza della Corte di giustizia
mostra di averne piena contezza e di tenerlo in viva considerazione.
La disciplina della
specialità, nei termini particolari enunciati al paragrafo precedente,
è tutt’altro che una mera eventualità nel diritto
dell’Unione. Si tratta, invero, di una circostanza che annovera
più di un esempio nei Trattati UE in vigore. Esemplificativo, al
riguardo, è l’art. 4 del TUE che al suo 2° comma recita:
«L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti
ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura
fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie
locali e regionali. […]». In deroga, dunque, al principio di
parità degli Stati membri dell’UE e dell’irrilevanza della
loro organizzazione interna ai fini dell’assolvimento degli obblighi
derivanti dai trattati, questo articolo dà rilievo
all’identità nazionale degli Stati membri collegata alle
particolarità della loro organizzazione di governo intesa,
quest’ultima, anche con riferimento alla sua articolazione decentrata.
Sulla stessa linea, il preambolo della Carta dei diritti fondamentali recita che
l’«Unione contribuisce alla preservazione e allo sviluppo dei
valori comuni nel rispetto della diversità delle culture e delle
tradizioni dei popoli d’Europa, nonché dell’identità
nazionale degli Stati membri e dell’organizzazione dei loro poteri
pubblici a livello nazionale, regionale e locale».
Si tratta di due norme di carattere generale che si
limitano a ribadire il principio (di origine internazionale) di “non
ingerenza”[84]
del diritto comunitario negli affari interni dello Stato membro, fra
l’altro con particolare riferimento alla sua struttura di governo. Essa,
in tal senso, è indicativa della volontà degli Stati di non
delegare una materia così delicata alla competenza dell’UE
mantenendone salda la sovranità e rinviando le eventuali eccezioni alla
sua disciplina esclusiva a decisioni successive, concordate fra gli Stati
membri. In tal senso, anche nell’ordinamento dell’Unione europea,
così come negli ordinamenti nazionali (incluso, come si è visto,
quello italiano), il principio di parità – che regola i rapporti
fra gli Stati membri – può essere derogato a mezzo di norme
speciali dirette a valorizzare la diversità fra gli Stati membri e, in
particolare, la specificità della loro organizzazione interna. In
armonia con questa ipotesi, si è più volte pronunciata la Corte
di giustizia che, riecheggiando la nota formula di matrice statale, anche sotto
il profilo di cui si tratta ha affermato che «il principio di
parità di trattamento e di non discriminazione impone che situazioni
simili non siano trattate in maniera diversa e che situazioni
diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento
non sia obiettivamente giustificato»[85].
Carattere più incisivo possiede il Protocollo n. 2
sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di
proporzionalità allegato al Trattato di Lisbona in vigore dal 2009.
Entrando infatti nel dettaglio operativo dei due principi ora menzionati esso,
agli artt. 2, 5 e 6 [86], stabilisce le condizioni
relative alla loro applicazione sottolineando che questa deve garantire la
partecipazione dei livelli regionali e locali e dei loro rispettivi interessi.
In particolare, il Protocollo in esame attribuisce rilevanza giuridica
comunitaria alla responsabilità della Commissione e degli Stati membri
in caso di mancato o inadeguato coinvolgimento dei livelli regionali e locali
nella procedura di adozione dei progetti di atti legislativi dell’Unione[87].
Il Trattato sull’Unione mostra, inoltre, una certa
attenzione per aspetti particolari, quali la tutela delle minoranze, che, nel
diritto di alcuni degli Stati membri (come il nostro), connotano e danno
fondamento alla specialità regionale: in particolare, il suo art. 2
prevede che «l’Unione si fonda sui valori del rispetto […]
dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze»[88]. Questo non è, a
ben guardare, l’unico aspetto caratterizzante e identificativo della
realtà regionale preso a riferimento dal diritto dell’Unione: ve
ne sono altri, come il fattore geografico, economico, sociale, ecc. che vengono
in rilievo – come vedremo, a breve – nell’ambito della
politica di concorrenza e in quella di coesione.
I settori nell’ambito dei quali la
specialità regionale degli Stati membri è stata oggetto di una
particolare disciplina da parte dell’Unione sono, sicuramente, quello
relativo alla politica di concorrenza relativamente agli aiuti a
finalità regionale e alla politica di coesione economica, sociale e
territoriale (detta anche “regionale”).
Va osservato in proposito, che la politica di concorrenza
è un obiettivo fondamentale per l’Unione che caratterizza
quest’ultima fin dalle sue origini. Si tratta di un settore di competenza
esclusiva dell’Unione la cui realizzazione prevede limitate eccezioni.
Essendo orientata a garantire il corretto funzionamento del mercato interno a
parità di condizioni per tutte le imprese e gli altri fattori di
produzione, la politica di concorrenza vieta gli aiuti di Stato. Tuttavia, in
misura ridotta e con modalità tali da evitare effetti distorsivi della
concorrenza, sono ammesse alcune deroghe. Queste sono giustificate
dall’esigenza di perseguire obiettivi di interesse comune (come quello
della tutela ambientale, della lotta alla disoccupazione, dello sviluppo e
innovazione, ecc.) ma, molto più spesso, di rimediare ad un fallimento
del mercato. In particolare, gli aiuti di Stato a finalità regionale
hanno lo scopo di stimolare gli investimenti, la creazione di posti di lavoro e
l'insediamento di nuovi stabilimenti nelle regioni europee più
svantaggiate. Con riguardo agli aspetti che qui interessano vengono in rilievo,
l’art. 107 [89], parr. 2 e 3 e
l’art. 108, nonché l’art. 349 del TFUE.
Va altresì osservato che
la determinazione degli aiuti ammissibili è sottoposta alla valutazione
della Commissione, che li autorizza solamente quando rientrano in una delle
deroghe previste dagli articoli ora citati[90]. Per
l'applicazione della maggior parte delle deroghe la Commissione gode di un
ampio potere discrezionale anche se, tuttavia, è tenuta a motivare le
sue decisioni. L'articolo 108 del Trattato CE stabilisce che anche il Consiglio
possa statuire la compatibilità di un aiuto con il mercato comune e
disporne l’autorizzazione, ma questo deve avvenire su richiesta di uno
Stato membro, deliberando all'unanimità e solamente quando circostanze
eccezionali giustifichino una tale decisione. I casi sono dunque rari e le
valutazioni della Commissione in ordine all’ammissione di un aiuto sono
basate su una interpretazione molto rigorosa e restrittiva delle ipotesi
previste dall’art. 107 TFUE e seguenti[91].
Basti considerare che in alcune occasioni[92] la
Commissione ha interpretato in termini esclusivi[93] la
propria competenza, nella materia, ai danni di quella attribuita al Consiglio,
arrivando a contestare la compatibilità con il mercato degli aiuti da
questo concessi ai sensi della procedura disciplinata dal citato art. 108 TFUE.
La politica di coesione, invece, è una politica
più recente rispetto a quella della concorrenza e ne rappresenta una
deroga. Essa, infatti, nasce in vista della realizzazione di un mercato interno
ispirato a un regime di concorrenza con l’obiettivo deliberato di
stemperarne gli eccessi, prevenendo gli squilibri dovuti alla mancanza di
un’effettiva situazione di parità fra le Regioni quale
presupposto, quest’ultima, per una proficua ed equa competizione. La
politica regionale – che ai sensi dell’art. 4 TFUE rientra fra le
materie di competenza concorrente – è, dunque, l’espressione
della cooperazione e della solidarietà dell’Unione europea e, in
tal senso, lo strumento per il raggiungimento di una maggiore ed oggettiva
competitività sull’intero territorio europeo. Essa si fonda
attualmente sugli artt. 174-178 del TFUE ed ha come obiettivo il rafforzamento
della coesione economica, sociale e territoriale al fine di ridurre le disparità
di sviluppo fra le diverse regioni europee e, quindi, fra gli Stati membri.
Essa investe nelle potenzialità endogene delle Regioni per promuovere la
competitività delle loro economie e favorire il progressivo recupero
delle aree più arretrate[94]. E’ in quest’ambito,
che il diritto dell’Unione focalizza ulteriori aspetti, connotativi e
identificativi della realtà regionale, che sono suscettibili di tradursi
in altrettanti “svantaggi” – per quelle aree regionali, per i
loro Stati e l’Unione nel suo complesso – nell’ipotesi in cui
non beneficino di misure di protezione adeguate. Si tratta, in particolare, degli aspetti
che caratterizzano «le regioni più settentrionali con bassissima
densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di
montagna» (art. 174 TFUE)[95] e il cui riconoscimento
nel diritto primario dell’Unione costituisce un importante segnale di
apertura verso la particolare condizione di alcune Regioni europee e legittima
le Istituzioni dell’Unione ad adottare misure di attuazione dirette a rendere
effettiva – come più volte auspicato[96] – la coesione fra
le diverse aree territoriali europee.
Nei settori qui presi in esame,
peraltro, le “regioni” non vengono in rilievo in termini di
entità politico-amministrative incaricate del governo di un territorio,
bensì in quanto macroaree economico-sociali (NUTS)[97].
L’aspetto della specialità regionale che viene in rilievo (ovvero
lo svantaggio che determina, a seconda dei casi, l’ammissione al
finanziamento dei Fondi a finalità regionale o la legittimità dell’aiuto
di Stato) ai fini dell’UE, dunque, è quello incidente sulla
gestione delle due politiche della coesione e della concorrenza. Resta
ininfluente, al riguardo, l’eventuale autonomia interna delle Regioni
interessate e, in particolare, la qualità e la portata delle competenze
(legislative, amministrative, ecc.) ad esse riconosciute dall’ordinamento
dello Stato; salvo che nella normativa attuativa di uno dei due settori in
esame (come, ad esempio, capita in quella relativa all’azione dei Fondi
strutturali[98]) non sia previsto
diversamente e le Regioni, in tal senso, vengano ad assumere una rilevanza
giuridica che le abilita ad agire nei rapporti con l’Unione e le sue
Istituzioni. Si tratterebbe, pur sempre di un’attività regionale
concepita nel quadro dei rapporti fra Stati membri (e che, dunque, connota le
Regioni come organi dello Stato anziché come enti distinti) anche se,
non bisogna sottovalutarlo, essa consente alle Regioni di assicurarsi il
controllo (e a volte la responsabilità) dell’attuazione del diritto
dell’Unione da cui è interessata.
Certo va qui osservato, a titolo di prima e sommaria
conclusione, che il diritto dell’Unione mostra non solo di non ammettere
forme di tutela dirette a valorizzare la specialità regionale ma, non
diversamente dal diritto nazionale, di mal tollerare anche la previsione di
misure adatte ad escludere che la diversità regionale possa trasformarsi
in uno svantaggio.
L’analisi svolta al paragrafo
precedente ha messo in evidenza che la specialità regionale rappresenti
il risultato di una deroga utilizzata dagli Stati membri allorché questi
intendano attribuire rilievo alla propria specificità interna ai fini
dell’assolvimento dei propri obblighi comunitari. Si tratta, in
verità, di misure eccezionali che manifestano apertamente questa loro
caratteristica allorché da un piano generale – qual è
quello che attesta il divieto di ingerenza dell’Unione nei rapporti
soggetti alla sovranità degli Stati membri – ci si sposta ad un
piano settoriale qual è quello di disciplina della concorrenza:
nell’ambito di tale settore, infatti, la Commissione applica la deroga in
modo rigido e finalizzato oppure revoca quella già autorizzata
perché lesiva del regime di libera concorrenza, sollevando più di
una volta dubbi sull’effettiva situazione di parità degli attori
economici in competizione fra loro.
Nel caso di specie, inoltre, il
territorio regionale – anche quando coincide con quello amministrato
dall’ente pubblico decentrato – è preso in considerazione
unicamente come area beneficiaria[99]
dell’aiuto di Stato e al fine di calibrare l’entità
dell’aiuto in misura compatibile con il mercato interno. In linea di
principio, quindi, le attività delle Regioni – anche quando sono
espressione di competenze speciali coinvolte[100]
nella richiesta e nella gestione dell’aiuto – non hanno rilevanza
autonoma ai fini dell’assolvimento di tali obblighi, limitandosi a
costituire l’attività giuridicamente rilevante dello Stato membro
di appartenenza per l’osservanza degli obblighi di diritto
dell’Unione nella materia[101].
Ad un attento esame della
prassi, tuttavia, le Regioni (insieme ai loro Stati) sembrano non interpretare
correttamente il loro ruolo sul piano dell’Unione e il loro rapporto con
le sue Istituzioni. Questo punto sembra emergere, con particolare evidenza,
nella giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di inadempimento degli
obblighi UE nel settore degli aiuti di Stato – attinenti, precisamente,
al recupero delle somme indebitamente concesse – ed è
verificabile, peraltro, alla luce di un esame comparatistico
dell’esperienza maturata, al riguardo, dagli enti europei di livello
regionale.
In una sua recente sentenza[102], ad
esempio, la Corte dichiara che lo Stato (nel caso concreto, quello italiano)
«non ha correttamente eseguito la Decisione 2008/92 della
Commissione» e che, al riguardo, essa non abbia chiesto nemmeno una
modifica di tale Decisione per poter procedere alla sua attuazione in ordine al
recupero delle somme illegittimamente percepite. I motivi di ordine interno che
lo Stato interessato adduce, per eccepire il mancato adempimento dei propri
obblighi, secondo la Corte, infatti, non assumono in sé stessi alcuna
rilevanza per il diritto dell’Unione. «Lo Stato membro»
continua la Corte «è tenuto […] ad adottare ogni [altra]
misura idonea ad assicurare l’esecuzione di tale decisione» e che,
quindi, «consenta il rimborso
dell’aiuto» (corsivo aggiunto). In altre parole, secondo la
Corte di giustizia, lo Stato e, quindi, i suoi organi (le Regioni, nel caso di
specie), sono tenuti ad adoperarsi in ogni modo per eseguire gli obblighi
dell’Unione senza che assumano importanza, al riguardo, quelle
attività, e in particolare quegli ostacoli, di carattere interno che non
sono contemplati dal diritto dell’Unione. L’esistenza di
attività di diritto interno (nel caso della sentenza in esame, la
procedura di fallimento di una delle ditte coinvolte) che ostacolano e si
frappongono alla effettiva e corretta attuazione degli obblighi comunitari,
tuttavia, può essere fatta valere dallo Stato e dalle Regioni
interessate nell’ambito di una procedura davanti alla Commissione: questa
si attua invocando «l’impossibilità assoluta»[103] ad
eseguire la decisione con la quale la Commissione obbliga lo Stato al recupero
delle somme indebitamente concesse; o richiedendo alla Commissione di
modificare tale decisione «al fine di superare le difficoltà
connesse all’attuazione effettiva e immediata della medesima»[104] e
formulando proposte alternative al riguardo[105].
Alla luce di quanto ora
osservato emerge che l’assolvimento degli obblighi comunitari comporta lo
svolgimento di una serie di attività, sia statali che comunitarie,
dirette a realizzare ovvero a facilitare l’adattamento dell’ordinamento
statale ai detti obblighi. Non tutte le attività dello Stato,
però, sono idonee ad adempiere gli obblighi comunitari, ma soltanto
quelle attività prescritte dal diritto comunitario (nel caso di specie
quello adottato dalla Commissione) per adeguare[106]
l’ordinamento nazionale interessato agli obblighi in esso stabiliti. Lo
Stato, pertanto, come si è visto, non può opporre vincoli
derivanti dal proprio diritto interno per vanificare l’attuazione del
diritto comunitario e, quindi, eludere gli impegni assunti nei confronti degli
altri Stati[107]. In caso di una sua
“impossibilità assoluta” ad adempiere, però, lo Stato
può far valere (seguendo apposite procedure) le attività ostative
del diritto interno e chiedere la modifica delle modalità di adempimento
dei propri obblighi: in altre parole, esso viene messo in condizione di dare
rilevanza giuridica a situazioni (normative, procedimenti, rapporti, ecc.) di
diritto interno che, altrimenti, lo renderebbero inadempiente di fronte
all’Unione.
Dalla giurisprudenza presa in
esame si evince che gli Stati membri e, con essi, le Regioni, tuttavia, non
pongono in essere le giuste attività e non utilizzano gli strumenti e le
procedure messi a disposizione dall’Unione per onorare gli impegni
prescritti. A volte, perciò, essi si limitano a svolgere attività
informali (prive cioè di qualsiasi valore giuridico) che, non
concretandosi in atti della propria sovranità, sono inadeguati al
soddisfacimento dei propri obblighi sul piano dell’Unione[108];
altre volte, pongono in essere atti di sovranità non rilevanti ai fini
dell’osservanza dei propri obblighi in quanto non costituiscono misure di
adattamento al diritto dell’Unione[109].
Modalità, queste, che denotano una mancata presa di coscienza delle
particolarità del sistema comunitario e che, in definitiva, frustrano la
capacità dei soggetti interessati di inserirsi efficacemente nei
meccanismi di funzionamento del detto sistema e di incidere sui suoi obblighi.
Nelle pagine che precedono, si
è potuto accertare che il riconoscimento alle Regioni di posizioni di
specialità, in deroga al regime ordinario, è una circostanza
eccezionale che dipende, tanto sul piano nazionale quanto su quello
dell’Unione, dall’interpretazione e applicazione dei criteri in
base ai quali si valuta la sua opportunità.
In particolare, l’indagine
ha accertato che, con riguardo ad entrambi gli ordinamenti,
un’interpretazione riduttiva e distorta dei principi sui quali si basa il
suo riconoscimento, porta a fraintendere i caratteri e le finalità della
specialità regionale con conseguenze che si riflettono, inevitabilmente,
sulla determinazione delle misure più adatte a proteggerla, a
valorizzarla e ad evitare che essa si traduca in un disvalore contrario al
nostro ordinamento. Allo stato attuale, perciò, l’istituto della
specialità è insuscettibile di rispondere alle esigenze di tutela
della diversità regionale.
Se gli esiti della cattiva
gestione della specialità regionale sono analoghi nei due ordinamenti,
le cause di questo fenomeno manifestano viceversa alcune differenze su cui vale
la pena soffermarsi.
Con riguardo al piano nazionale,
in effetti, è fin troppo noto che una politica poco lungimirante ha
portato ritardi e lacune nell’attuazione degli statuti di diritto
speciale che hanno ostacolato l’effettiva valorizzazione della
diversità regionale; d’altro canto, la tensione, del tutto
attuale, verso forme di differenziazione regionale sempre più orientate
a promuovere i meriti, ma che nei fatti, invece, premiano i più forti
(cioè, i privilegiati), trascura (quando pure non ignora)
l’adozione di strumenti diretti ad evitare che la diversità si
traduca in uno svantaggio per le Regioni interessate e per l’intero
territorio nazionale.
Sul piano dell’Unione,
invece, da un lato, una rigida e rigorosa interpretazione della politica della
concorrenza (e anche della politica di coesione) – che, sostanzialmente,
non ammette deroghe alla sua applicazione e che, per il momento, non subisce
temperamenti nemmeno di fronte alla grave crisi economica in atto – e,
dall’altro, l’incapacità degli enti regionali di
organizzarsi con l’istituzione di appositi organismi e strumenti
(normativi, procedurali, istituzionali, ecc.) in vista di rapportarsi in modo
adeguato e consapevole agli standard
normativi comunitari, costituiscono un ostacolo per le Regioni per affermare la
loro specificità e la loro effettiva partecipazione alla logica e alle
politiche dell’Unione.
Si tratta, evidentemente, di
aspetti che aprono un complesso e delicato scenario sui problemi e le responsabilità
che affliggono l’istituto della specialità regionale, ma che non
si possono affatto continuare a trascurare e sui quali si gioca, evidentemente,
il suo rilancio nel futuro.
Due to their particular characteristics and conditions, a few Regions
are granted a special status, in the
national as well as in the European Union juridical order. Regional speciality
is normally guaranteed by means of two kind of measures aimed, on one side, to
protect and value the peculiar regional characteristics and, on the other side,
to avoid that this peculiarity becomes an handicap for the concerned Regions.
The practice, however, shows that - even if with some differences - both
in national and in European Union legal order, these measures are confused,
overlapped and adopted in a very limited range of cases. Regional speciality is
perceived as a pretext for a legal status
of privilege in violation of the principle of equality, so that it is generally
disregarded and also challenged.
This
situation evidences the necessity of rethinking regional speciality, verifying
the causes and responsibilities of its decadence, in view of relaunching it and
the territorial context to which these special Regions belong.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
[1] Sui ritardi nell’attuazione del
modello regionale nel nostro ordinamento v. G. Moschella, Principio di
specialità, forma di stato e forma di governo. Qualche riflessione
sull’autonomia regionale speciale, in Studi in memoria di Elio Fanara,
Milano, 2008, 592. Con particolare riferimento alla mancata attuazione del
modello regionalista nelle Regioni a statuto speciale v., inoltre, O. Chessa, Specialità e asimmetria nel sistema regionale italiano, in Diritto @ Storia, n. 10, 2011-2012; P. Giangaspero, I decreti di attuazione dello
Statuto speciale tra garanzia della specialità regionale ed esigenze di
tutela del ruolo costituzionale degli enti locali dopo la riforma del Titolo V,
Parte II, della Costituzione,
in Atti del Convegno 8 maggio 2006
- Villa Manin Passariano/ Codroipo, http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/export/sites/default/AALL/Servizi/pubblicazioni/allegati/conv8mag06normeAttuazStatuto-06marzo2007.pdf,
13 ss.
[2] Ritengono che il problema della
contrapposizione fra Stato centrale e decentrato sia stato superato dalla
riforma costituzionale E. Espa, M.
Felici, La riforma del Titolo V
della Costituzione: la ripartizione delle competenze, in Rapporto annuale 2003 sull’attuazione
del federalismo, 2003, p. 3 secondo cui il nuovo testo dell’art. 114
Cost. it. seguirebbe «una logica di equiordinazione […] senza
distinzione tra livelli gerarchici».
[5] Vale la pena ricordare il dettato
dell’art. 114 della Costituzione italiana del 1948 che recitava: «la
Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni».
[6] Così L. Antonini, Le Regioni a
statuto speciale e l’articolo 116 della Costituzione, in http://www.giuri.unipd.it/conferences/FOV2-00023BC3/FOV2-00023BC4/_24ottobre2012-1.pdf, 18; R. Bin,
L’autonomia e i rapporti tra esecutivo, legislativo e le commissioni
paritetiche, in A. Di Michele, F. Palermo, G. Pallaver (a
cura di), 1992 - fine di un conflitto,
Bologna, 2003, 205-218; G.C. De Martin,
Le autonomie regionali tra ambivalenze e
potenziali involuzioni e privilegi, in www.amministrazioneincammino.it ; G. Moschella, Principio di specialità cit., 596.
[7] Così riferisce A. D’Atena, La parabola delle autonomie speciali, in ID., Costituzione e Regioni. Studi, Giuffré Milano, 1991, 382.
[8] Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
3 Modifiche
al titolo V della parte seconda della Costituzione, in Gazz. Uff. n. 248 del 24 ottobre 2001.
[9] Legge 5 giugno 2003, n. 131 Disposizioni per l’adeguamento della
Repubblica alla legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3, in Gazz. Uff. n. 132 del 10 giugno 2003.
[10] Così L. Antonini, Le Regioni a
statuto speciale cit., 18; ID., Riforma
del Titolo V per invertire la rotta, in Il
Sole24ore, 4 ottobre 2012, 18; M. Bertolissi,
Federalismo fiscale: una nozione
giuridica, in Federalismo fiscale,
2007, 9 ss.
[11] In questo senso, A. D’Atena, La parabola delle autonomie speciali cit., 382. Il mantenimento del
principio di specialità era stato già in passato messo in
discussione: v. in tal senso M. Luciani,
Le Regioni a statuto speciale nella trasformazione del regionalismo italiano
(con alcune considerazioni sulle proposte di revisione dello Statuto della
Regione Trentino Alto Adige), in
Riv. dir. cost., 1999, 220.
[12] G. Mor,
Le Regioni a Statuto speciale nel
processo di riforma costituzionale, in Le
Regioni, n. 2/1999, 200.
[13] V. in tal senso, G. DEMURO, Regioni
ordinarie e regioni speciali, in T. GROPPI-M. OLIVETTI (a cura di), La
Repubblica delle autonomie, Torino, 2001, 47; A. Ruggeri, Prospettive di
una “specialità” diffusa delle autonomie regionali, in Nuove Autonomie, 2000, 845 ss.
[14] V., per tutti, M. Cecchetti, Le fonti della “differenziazione regionale” ed i loro
limiti a presidio dell’unità e indivisibilità della
Repubblica, in S. Pajno, G. Verde,
Studi sulle fonti del diritto. Le fonti
delle autonomie territoriali, II vol., Milano, 2010, 68 ss.; G. Moschella, Principio di specialità cit., 597; F. Palermo, Il regionalismo
differenziato, cit., 54 ss.
[15] In tal senso O. Chessa, La
specialità regionale tra leggi di
revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali, in Le
Regioni, 2/2009, 297 ss. Più in generale, sul valore attuale del
principio di specialità nel nostro ordinamento e sulla circostanza che
esso “costituisca un carattere fondamentale del nostro ordinamento
costituzionale e, come tale, indisponibile al potere di revisione costituzionale”
anche A. D’Atena, Dove
va l’autonomia regionale speciale?, in Rivista di diritto
costituzionale, 1999, 208; V. Onida,
Le costituzioni. Principi fondamentali della Costituzione italiana, in
G. Amato, A. Barbera (a cura di),
Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, 112; G. Moschella, op. cit., 596 e la dottrina ivi richiamata alle note 14-16.
[16] Così P. Caretti, (Editoriale,
in Le Regioni, 2000, 797) secondo cui
la riforma avrebbe dato vita a una «nuova specialità» che, anziché costruirsi a priori,
sulla situazione «storica» - criterio, questo, ritenuto
eccessivamente rigido e statico - può semmai fondarsi su elementi del
tutto diversi e «legati essenzialmente alla capacità di governo
delle esigenze e delle domande politiche delle comunità
regionali». Sul punto v. anche R. Bin,
L’autonomia e i rapporti tra esecutivo, legislativo cit., 205 il
quale constata che, eccettuate la Val d’Aosta e la Provincia di Bolzano,
nelle altre realtà, «le ragioni della specialità si
riducono a pochi tratti, a profili esclusivamente giuridici e a privilegi
finanziari che, privi di giustificazioni sociologiche, ormai sono odiosi, sono
visti dal resto della comunità nazionale come retaggi ingiustificabili,
privi di un valido fondamento istituzionale»; G. Moschella, Principio di
specialità cit., 596.
[17] Si esprimono in questo senso G. Moschella, op. cit., 617 ss.; L. Salomoni, Note in tema di problematiche attuative dell’art. 116 c.III Cost.
Il caso della Regione Lombardia, in Amministrazione
in cammino, 2010, 3 ss. In argomento v. anche i diversi punti di vista in A. Ferrara, G.M. Salerno (a cura di), Le nuove specialità nella riforma
dell’ordinamento regionale, ISSIRFA-CNR,
Milano, 2003.
[18] Così A. Morrone, Il regionalismo
differenziato Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in Federalismo fiscale, 2007, 143 ss.
[19] L’inopportunità di un
controllo da parte della Corte Costituzionale nella verifica delle condizioni
necessarie dell’autonomia di tipo “differenziato” è
sottolineata da A. Ruggeri, La
“specializzazione” dell’autonomia regionale: se, come e nei riguardi di chi farvi luogo,
http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0027_ruggeri.pdf , 9.
[20] Per questa espressione v. O. Chessa, Specialità e asimmetria cit., par. 1 ss.; è di F. Palermo, Federalismo asimmetrico e
riforma della Costituzione italiana, in Le Regioni, 1997, 291 ss.
[21] Si tratta
della Legge 5 maggio 2009, n. 42, "Delega al Governo in materia di federalismo
fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione", in Gazz.
Uff. n. 103 del 6 maggio 2009. Merita in proposito di essere osservato che,
in Italia, il federalismo fiscale, che non era
espresso nella Costituzione del 1948, è stato introdotto con la riforma
del Titolo V della Costituzione operata dalla legge cost. n. 3/2001 che,
all’art. 119, ne ha stabilito i principi regolatori, ed è entrato
in funzione a seguito dell'approvazione della legge 42/2009 in oggetto.
[23] Cfr. sul punto F. Palermo, Il regionalismo differenziato, in T. Groppi, M. Olivetti,
(a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo
Titolo V, Torino, 2003, 55 ss.
[24] Sul punto v. di recente S. Zorzetto, Lex specialis e ragionamento giuridico, in XVIII
Seminario Italo-spagnolo-francese di Teoria del Diritto, www.unibocconi.eu/wps/wcm/connect/35529f60.../Zorzetto.pdf , 24,
secondo cui «per tutti gli studiosi, nessuna norma è speciale di
per sé bensì la specialità è un concetto (attributo
o predicato) che sottende un rapporto o relazione di tipo logico-concettuale:
il cosiddetto rapporto di specialità o relazione da genere a specie o a
genere ad speciem».
[25] Sulla natura derogatoria del diritto
speciale regionale v. G. Moschella,
Principio di specialità cit., 21. Più in generale
sull’istituto della deroga v. G.U. Rescigno,
Deroga (in materia legislativa), in EdD, XII, 1964, 303 ss.
[26] Il principio di specialità, in
quanto, norma e valore autonomo di carattere fondamentale del nostro
ordinamento è suscettibile di manifestarsi in un’ampia
varietà di fattispecie, avuto riguardo al loro profilo oggettivo e
soggettivo: in particolare, con riguardo alle normative di tutela dei c.d.
gruppi vulnerabili. Per alcuni riferimenti bibliografici su questo concetto si
rinvia a v. L. Mura, I diritti delle donne e la tutela della diversità nel diritto
internazionale, in Riv. int. dir.
uomo, 1/2000, 47 ss.; E. Palici di
Suni Prat, La tutela delle
minoranze tra Stato e Regioni in Italia, in S. Bartole, N. Olivetti Rason, L. Pecoraro (a cura di), La tutela giuridica delle minoranze,
Padova, 1998, 149 ss. Sull’esistenza nel nostro ordinamento del principio
di specialità regionale e sul suo carattere fondamentale v. A. D’Atena, Dove va l’autonomia
regionale speciale?, in Rivista di diritto costituzionale, 1999,
208; V. Onida, Le
costituzioni. Principi fondamentali della Costituzione italiana, in G. Amato, A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico,
Bologna, 1997, 112; P. Pinna, Il ruolo della Regione nella riforma dello
Statuto, in Diritto @ Storia, n.
7, 2008.
[27] Sulla circostanza che, nel caso di una
loro abrogazione, le fattispecie di deroga rientrerebbero nell’ambito di
applicazione del diritto generale v. G. U. Rescigno,
Deroga cit., 303 ss.
[28] Cfr. Bartole,
L’elaborazione del parametro,
in Corte costituzionale e principio di
eguaglianza, Padova, 2002, 39.
[29] Sulla
necessaria rispondenza della deroga ai requisiti di
“ragionevolezza” e “proporzionalità” v. Corte
Costituzionale (Servizio Studi), I principi di proporzionalità e
ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, anche in rapporto alla
giurisprudenza delle Corti europee, Quaderno predisposto
in occasione dell’incontro trilaterale tra Corte costituzionale italiana,
Tribunale costituzionale spagnolo e Corte costituzionale portoghese. Roma, 25-26 ottobre 2013, http://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/RI_QuadernoStudi_Roma2013.pdf .
[30] E’ noto, in tal senso che, il
principio di eguaglianza oltre che norma e valore autonomo del nostro
ordinamento costituisce, altresì, un parametro di valutazione di
legittimità di tutte le norme del nostro ordinamento giuridico secondo
la nota teoria del tertium comparationis.
Su questa nota teoria, che considera il principio di eguaglianza come tertium comparationis nel giudizio di
costituzionalità delle leggi, si rinvia al suo insigne autore: L. Paladin, Il principio costituzionale d’uguaglianza, Milano, 1965. Sul
principio di eguaglianza come strumento di controllo e razionalità
dell’ordinamento e, in particolare, come limite, formale e sostanziale,
al potere legislativo dello Stato v. A. Moscarini,
Principio costituzionale, in I Diritti costituzionali, Torino, 2001,
162; S. Bartole, L’elaborazione
del parametro cit., 35 ss. Sul principio di uguaglianza, come parametro
fondamentale per determinare la legittimità del trattamento di
specialità riservato alle nostre Regioni v. da ultimo, G. Moschella, Principio di
specialità cit., 13-14.
[31] Secondo S. BARTOLE, op. cit., 39 l’accertamento della conformità della
deroga rispetto all’ordinamento nel suo complesso avrà come
termine di paragone principalmente il principio di eguaglianza. In questo
senso, anche la dottrina (v. A. Ruggeri,
La “specializzazione”
dell’autonomia regionale cit., 16) favorevole al c.d.
“regionalismo diffuso”, subordina la legittimità delle nuove
forme di “differenziazione” regionale al principio di eguaglianza.
[32] Così da ultimo Corte
costituzionale it., sentenza del 7 ottobre 2009, n. 262, punto 7.3.2.2. anche
in relazione al rapporto del principio di eguaglianza con la deroga.
[33] Così emblematicamente già
si esprimeva la Corte costituzionale nella sentenza n. 3 del 1957 laddove
affermava che il principio di eguaglianza «non va inteso nel senso che il
legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene
diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti
della vita sociale».
[34] Sia consentito, sul punto, rinviare al
nostro Il principio di eguaglianza nel
diritto dell’Unione europea alla luce della più recente
giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di assicurazioni, in Studi sull’integrazione europea,
3/2011, 555 ss., spec. 558-561.
[37] Secondo una parte della dottrina, un tale
principio, in realtà non dovrebbe neppure essere soggetto a revisione
costituzionale: cfr. P. Giocoli Nacci,
Enti territoriali e mutamenti dei
territori, Bari, 2005, 118 ss.; A. Morrone,
Il regionalismo differenziato cit.,
146; G. Moschella, Principio di specialità cit., 16-17 e dottrina ivi citata, nota
15, 16. Si tratta di una tesi sostenuta già prima della riforma del
2001: v. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna,
1997, 112; A. D’Atena, Dove
va l’autonomia regionale speciale?, in Rivista di diritto
costituzionale, 1999, 208; G. Mor,
Le modificazioni territoriali e
statutarie per il Friuli-Venezia Giulia tra limiti alla revisione
costituzionale, procedimenti super aggravati procedimenti semplificati, in Scritti in onore di P. Biscaretti di Ruffia,
Milano, 1994, 941 ss.; V. Onida, Le
costituzioni. Principi fondamentali della Costituzione italiana, in G. Amato, L. Paladin, La
potestà legislativa regionale, Padova, 1958, 53.
[39] Così, rispettivamente, le citate
sentenze n. 249 del 2005 punto 3.1 e n. 175 del 2006 punto 3. A suo tempo,
nella sentenza n. 103 del 2003 la Corte aveva dichiarato (punto 2) che le
disposizioni del Titolo V Cost. «non sono destinate a prevalere sugli
Statuti speciali di autonomia» e, più precisamente, che
«trattandosi di questione attinenti alla ripartizione di competenze tra
Stato e Provincia autonoma (così come per le Regioni a statuto speciale)
le disposizioni della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 non sono
destinate a prevalere sugli statuti speciali di autonomia e attualmente sono
invocabili (art. 10 della legge
costituzionale n. 3 del 2001) solo per le
parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie di quelle già
attribuite e non per restringerle». Sul punto v. G. Paganetto, Dimensione della competenza legislativa regionale e revisione dello
Statuto speciale: le indicazioni della giurisprudenza costituzionale, in G. Demuro (a cura di), L’Autonomia
positiva. Proposte per un nuovo Statuto della Sardegna, Cagliari, 2007, 55
ss.
[40] In tal senso G. Di Cosimo, Nuova disciplina del controllo sulle leggi regionali. Il caso delle
Regioni a statuto speciale, in Le
Istituzioni del Federalismo, 2/2002, 355 ss.
[42] Sulla circostanza che il diritto
speciale, una volta formato, dia origine ad un diritto nuovo e diverso,
soggetto a vicende giuridiche temporali distinte da quelle del diritto generale
dal quale si è emancipato (e pertanto sopravvive in caso di abrogazione
di quest’ultimo) v. R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino, 2001, 308; U. RESCIGNO, Deroga cit., 303.
[43] Si veda ad esempio A. Morrone, Il regionalismo cit.,
secondo cui con riferimento all’art. 116 Cost. «Tecnicamente,
quindi, siamo fuori dell’ipotesi di una “rottura” della
Costituzione (Verfassungsdurchbrechung), almeno nel senso di violazioni
di disposizioni costituzionali in uno o più casi determinati, come eccezione
e cioè nel senso che le disposizioni trasgredite per il resto
continuino a essere valide, senza essere né soppresse né sospese
(cfr. C. SCHMITT, Verfassungslehre (1928), Berlin, Duncker &
Humblot, 2003, 99)».
[44] Un tale problema è stato da noi
approfondito in Il principio di
eguaglianza cit., spec. 571. Sulla configurazione del problema in dottrina
v. G. Di Cosimo, Nuova disciplina del controllo sulle leggi
regionali. Il caso delle Regioni a statuto speciale, in Le Istituzioni del Federalismo, 2, 2002,
355.
[45] Sui problemi relativi
all’applicazione delle norme di principio nella prassi sia consentito
rinviare al nostro Gli accordi delle
Regioni con soggetti esteri e il diritto internazionale, Giappichelli,
Torino, 2007, 477 ss.
[46] Si v. L. Sitzia L., Pari dignità e discriminazione,
Napoli, 2011; F. Sorrentino, Eguaglianza,
Torino, 2011.
[47] Con riguardo al rapporto fra Statuti
speciali e norme di attuazione da un lato, e al rapporto fra queste ultime e la
legge ordinaria dall’altro, v. C.G. Carboni,
La Corte indica le ragioni
dell’autonomia finanziaria delle Regioni speciali e anticipa le scelte
della legge delega sul “federalismo fiscale”, in Le Regioni, 2009, 721; P. Giangaspero, I decreti di attuazione dello
Statuto speciale cit., 18
ss.
[51] L’art. 10 legge costituzionale 3
del 2001 relativo alla clausola di cui si tratta, è stato oggetto di
numerosi commenti: si v. per tutti
i vari contributi comparsi nel volume A. FERRARA, G.M. SALERNO (a cura
di), Le nuove specialità nella riforma dell’ordinamento
regionale, Milano, 2003; G. COINU, G. DEMURO, Regioni a Statuto speciale
e clausola di adeguamento automatico, in Osservatorio sulle fonti 2002,
Torino, 2001, 101 ss.; A. AMBROSI, La competenza legislativa delle Regioni
speciali e l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, in Le
Regioni, 2003, 825 ss.
[54] Si tratta di un’espressione di
einaudiana memoria (v. L. Einaudi,
L’uguaglianza nei punti di partenza, in Lezioni di politica
sociale, Einaudi, Torino, 2004, 182) fatta propria dall’Unione
europea in tema di diritti speciali.
[55] Nell’istituire un regime che
alimenta una “diversità” di fatto, la disciplina sulla
concorrenza non è adatta a compensare, né a completare le
situazioni tutelate dalla “specialità regionale
tradizionale”: lungi dal creare un circuito virtuoso atto a migliorare
l’azione regionale, essa accentua gli svantaggi esistenti fra le Regioni
(che, peraltro, la “specialità tradizionale”, in linea di
principio, non è preordinata a regolare). Assai indicativa, in tal
senso, è l’esperienza maturata nell’ambito della politica di
concorrenza dell’UE. In questo contesto, infatti, non solo le forze del
mercato non si sono dimostrate in grado di colmare le differenze di reddito, produttività
e occupazione tra le regioni europee ma, al contrario, con un processo di
integrazione economica incentrato sulla liberalizzazione degli scambi e dei
mercati e sulla libera concorrenza, alcune di queste disparità risultano
amplificate, soprattutto per le regioni più periferiche: questa, fra
l’altro, è una delle ragioni alla base dell’istituzione e
dello sviluppo della politica della coesione europea (sul punto v. infra, par. 7 ss.).
[56] Sulle misure di eguaglianza sostanziale e
sulla loro distinzione da quelle tese a proteggere la diversità sia
consentito rinviare ancora una volta al nostro Il principio di eguaglianza cit., spec. 558-561.
[58] Sul punto v. per tutti T. Martines, A. Ruggeri, C. Salazar, Lineamenti
di diritto regionale, Milano, 2008, 80 ss.
[60] Così A. Zanelli, G. Romeo, Profili
di diritto dell’Unione europea, Rubettino ed., Soveria Mannelli,
2002, 79.
[61]
Così A. DRZEMCZEWSKI, The sui generis Nature of the European
Convention on Human Rights, in Int’l & Comp. LQ, 1980, 54 ss.
[62] Secondo G.P. Orsello (Ordinamento
comunitario e Unione europea, Giuffré, Milano, 2001, 93)
l’Unione europea costituisce un “ordinamento giuridico” (sul
quale cfr. F. MODUGNO, Ordinamento
giuridico (dottrine), in Enciclopedia
del Diritto (voce), vol. XXX, Giuffré, Milano, 1980, 678-736 e
bibliografia ivi richiamata) vero e proprio seppure non ancora
«compiuto».
[63] Così F. Sorrentino, Profili
costituzionali dell’integrazione comunitaria, Torino, 1995, spec.
54-55.
[64] P. De
Cesari, Diritto Internazionale
privato dell’Unione europea, Giappichelli,Torino, 2011, 7.
[65] Su questi principi v. di recente F. Raspadori, La partecipazione delle regioni italiane all’Unione europea dopo
il Trattato di Lisbona, Torino, 2012.
[66] Così R. Adam, A. Tizzano,
Lineamenti di Diritto dell’Unione
europea, Torino, 2010, 15. Nello stesso senso G. Falcon, La
“cittadinanza europea” delle regioni, in Le Regioni, 2001, 329; V. Onida,
M., Cartabia,Le Regioni e la
Comunità europea, in M. P. Chiti,
G. Greco (diretto da), Trattato di
diritto amministrativo europeo, Parte
generale, Milano, 1997, 605.
[67] Ibidem,
con riferimento a Corte di giustizia, ordinanza 21 marzo 1997, causa C-95/97, Régione Wallone/Commissione, Raccolta, I-1787; e ordinanza 1°
ottobre 1997, causa C-180/97, Regione
Toscana/Commissione, Raccolta, I-5249.
[68] Nella Carta comunitaria della
regionalizzazione, adottata dal Parlamento europeo il 18 novembre 1988,
(Risoluzione PE 18/11/1988 GUCE, C 326/88) all’articolo 1 viene data la
seguente definizione del termine “regione”: «si intende per regione un territorio che
costituisce geograficamente un’entità propria o un insieme di
territori simili nei quali esiste una certa continuità o la cui
popolazione possiede certi elementi comuni e desidera salvaguardare la
specificità che ne risulta e svilupparla al fine di promuovere il
progresso culturale, sociale ed economico».
[69] In tal senso la Carta ha promosso
l’istituzione - o la conservazione laddove già esistessero –
di enti di tipo regionale da parte degli Stati membri (art. 2), aventi
personalità giuridica (art. 3), titolari di competenze legislative (art.
4) e direttamente eletti dai cittadini (artt. 6-7, 9).
[70] Va al riguardo osservato che questo, ai
sensi dell’art. 300 TFUE è composto «da rappresentanti delle
collettività Regionali e Locali che sono titolari di un mandato
elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale, o
politicamente responsabili dinanzi ad un’assemblea eletta». Il
Comitato delle Regioni, secondo la lettera dell’art. 307 TFUE, deve
essere consultato dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione nei
casi previsti dai trattati e in tutti gli altri casi in cui una di tali
istituzioni lo ritenga opportuno, in particolare nei casi concernenti la
cooperazione transfrontaliera»; esso può altresì
«formulare un parere di propria iniziativa» specie «qualora
ritenga che sono in causa interessi
regionali specifici». Sul Comitato delle Regioni v. di recente G. Fiengo, La valorizzazione della dimensione regionale nel Trattato di Lisbona:
il ruolo del Comitato delle Regioni, in Diritto
Pubbl. Comp. ed europeo, 2012, 25 ss.
[71] Cfr. sul punto M.P. Chiti, Per una dimensione europea del “nuovo regionalismo”, in
Il dibattito sulla riforma regionale,
in http://www.regione.emilia-romagna.it/affari_ist/supplemento_2_10/Chiti.pdf, 87 ss.
[72] Sull’utilizzo del termine
“costituzione” per definire l’atto istitutivo dell’UE
nonostante la mancata adozione del “Trattato che adotta una Costituzione
per l’Europa” v. A. Cantaro,
Il
costituzionalismo asimmetrico dell'Unione. L'integrazione
europea dopo il Trattato di Lisbona, Torino, 2010.
[74] La Corte di giustizia preferisce parlare,
al riguardo, di “beneficiari finali”: così l’ordinanza
9 luglio 2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea, non ancora
pubblicata in Raccolta, punti 4,46.
Su questa linea si colloca anche il Tribunale (Terza Sezione) con
l’ordinanza 8 luglio 2004, T-341/02, Regione
Siciliana/Commissione, Raccolta,
2004, II-02877, laddove al punto 62 osserva «A tale riguardo, si deve
sottolineare che un ente pubblico locale, quale la ricorrente, incaricato della
gestione, a livello regionale, dei fondi percepiti dal FESR non può
essere assimilato allo Stato membro stesso (ordinanza della Corte 21 marzo
1997, causa C-95/97, Région
wallonne/Commissione, Raccolta,
I-1787, punto 6)» e inoltre che «dalla pertinente normativa,
segnatamente dall’art. 4, n. 1, primo comma, del regolamento
n. 2052/88, emerge che viene ivi operata una chiara distinzione tra gli
Stati membri, da un lato, e gli organismi o le autorità competenti dal
medesimo designati a livello nazionale, regionale o locale,
dall’altro». La coincidenza fra la nozione di soggetto di un
ordinamento e quello di destinatario degli obblighi in esso stabiliti è
stata oggetto d’esame, con posizioni diverse, da da G. Arangio Ruiz, L. Margherita, E. Tau Arangio
Ruiz, Soggettività nel diritto internazionale, in Digesto
delle discipline pubblicistiche, 1999, 303 ss.; C. Focarelli, Lezioni di storia del diritto internazionale,
Morlacchi, Perugia, 2002, 7; U. Leanza,
I. Caracciolo, Il diritto internazionale: diritto per gli Stati e
diritto per gli individui, Torino, 2008, 116 ss.
[75] Cfr.
sul punto G. Conso, Conferenza stampa. Punto Y). Diritto
internazionale e Diritto comunitario, in La giustizia costituzionale nel 1990, 39) http://www.cortecostituzionale.it/documenti/download/pdf/Conso_confstampa150191.pdf ,
secondo cui «la sentenza 124 (292) […] ha precisato che, mentre nei giudizi per conflitto di
attribuzione la regione assume il ruolo di ente investito di competenza
legislativa ed amministrativa in materie determinate, per cui la sua
competenza (v. la sentenza 830 del 1988 (293)) non è comprimibile dallo
Stato, se non quando l’intervento statale sia indispensabile per
adempiere un preciso obbligo assunto formalmente in sede internazionale, nei giudizi di legittimità
costituzionale di norme regionali, la regione viene in considerazione come ente
destinatario degli obblighi internazionali dello Stato, ai quali essa è
tenuta a dare attuazione a livello locale nell’ambito delle proprie
competenze. Pertanto, anche gli obblighi internazionali dello Stato, per la
cui operatività è necessaria una normazione interna, diventano
parametri di valutazione della legittimità costituzionale delle leggi
emanate dalla regione nelle materie su cui tali obblighi vengono ad
incidere» (corsivo aggiunto).
[76] Così, da ultimo, Corte di
giustizia, ordinanza 9 luglio 2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione
europea, cit., punti 25, 31 e ss.
[78] Quelle
fin qui illustrate ci sembrano le ragioni per cui la specialità delle
cinque Regioni italiane non assume rilevanza sul piano europeo come sostenuto,
invece, da L. Antonini, Le Regioni a statuto speciale cit., 18:
«Molti studi hanno evidenziato che anche con la nascita dell'Unione Europea le ragioni e le giustificazioni delle
specialità storiche sono assai meno rilevanti di quanto lo furono in
passato […]. Questa situazione rende difficilmente giustificabile il
privilegio finanziario che le autonomie speciali hanno nel tempo conquistato:
le giustificazioni, vere o presunte, delle specialità storiche non
possono essere utilizzate per legittimare la loro presenza in un contesto
diverso».
[79] Circa il fatto che il processo di
integrazione comunitaria, lungi dal favorire il decentramento e la partecipazione
delle Regioni ai processi decisionali, abbia comportato una compressione delle
competenze regionali v., da ultimo, G. Iurato,
Le Regioni italiane e il processo
decisionale europeo, Milano, 2005, 44 ss.
[80] Su questa categoria di norme v., da ultimo,
Corte di giustizia, ordinanza Regione
Puglia cit., punti 31 e 43. Sul significato di questa tipologia di norme e,
più in generale, sul c.d. diritto strumentale sia consentito rinviare al
nostro Il diritto internazionale privato
italiano nei rapporti con il diritto internazionale, europeo e straniero,
Giappichelli, Torino, 2012, 23-38 e 55-68. Si cfr. sul punto F. Sorrentino, Profili costituzionali cit., 8-10 che, dopo aver osservato che
«i regolamenti comunitari» nel nostro ordinamento vengono
«qualificati come atti dotati di forza di legge» e che «i
loro rapporti con le fonti nazionali si definiscono in termini di competenza,
la cui linea è tracciata dai Trattati e dall’art. 11 Cost.»
(ivi, 8) attribuisce, tuttavia, un
valore limitato alla forma di
“continuità normativa” che, in conseguenza di ciò,
viene a crearsi fra ordinamento comunitario e nazionale. Secondo questo A. ,
infatti, tale “continuità” non esclude un potere di
adattamento agli obblighi comunitari dato che «resta fermo il principio
secondo cui solo lo Stato-persona è responsabile dell’attuazione
degli impegni internazionali in genere e comunitari in specie, sicché
alle Regioni può essere consentito di dare attuazione a disposizioni
comunitarie incidenti su materie di loro competenza, in quanto sia fatta salva
la possibilità di un intervento sostitutivo dello Stato in caso di
inerzia regionale» (ivi, 10).
[81] In tal senso, va intesa
l’affermazione della Corte di giustizia nell’ ordinanza 9 luglio
2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea, cit., punto
33 secondo cui «la titolarità del diritto al contributo»
nella specie quello del FERS ai sensi del regolamento n. 1260/99 «deve
essere riconosciuta in capo alla Repubblica italiana, in quanto destinataria
della decisione [controversa]».
[82] Ciò conformemente a quanto,
più volte, ribadito dalla stessa Corte di giustizia: sul punto v. la
giurisprudenza citata supra, nota 74.
Sul ricorso delle persone fisiche e giuridiche sistema processuale UE v. in
dottrina X. Lewis, Standing of Private Plaintiffs to Annual
Generally Applicable European Measures: If the System is Broke, Where should it
be Fixed, in FordHam, International
Law Journal, 2007, 1496 ss.; S. M. Carbone,
Le procedure innanzi alla Corte di
giustizia a tutela delle situazioni giuridiche individuali dopo il Trattato di
Lisbona, in Studi
sull’integrazione europea, 2008, 239 ss.
[83] In questo senso depone
l’affermazione della Corte di giustizia nell’ordinanza 9 luglio
2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea cit., punto 36
laddove, con richiamo alla giurisprudenza del Tribunale (si tratta
dell’ordinanza del 14 settembre 2011, T-84/10, Regione Puglia/Commissione, Raccolta,
II-282, punto 33), osserva che la richiesta di «rimborso
dell’importo del contributo […] discende non già dal diritto dell’Unione, bensì dal diritto nazionale» (corsivo aggiunto). V.
per contro L. GAROFALO, Costituzione
italiana, ruolo delle Regioni e dinamica attuale dei rapporti tra ordinamento
dell’Unione europea e ordinamento nazionale. Un approccio “multilivello”,
in Id. (a cura di), I poteri esteri delle Regioni, Napoli,
2013, 34 secondo cui i concetti di
“monismo” e “dualismo” «non sono in grado
di consentire un’esatta comprensione dell’attuale stato dei
rapporti tra diritto dell’Unione europea e diritto interno italiano
perché il diritto dell’Unione europea vige ed è applicabile
in Italia per effetto delle deleghe di sovranità effettuate dallo Stato
italiano e delle conseguenti limitazioni introdotte ai poteri sovrani del
medesimo Stato» (ibidem, 34).
Sul regime giuridico che attualmente connota i rapporti fra l’ordinamento
interno dell’Unione e quello interno degli Stati membri v. P. Fois, Dalla CECA all’Unione europea. Il declino della
sovranazionalità, in Studi
sulla integrazione europea, 3/2006, 479 ss.: Id., Rapporti tra
diritto interno e diritto comunitario, in EG, Aggiornamento, XV, 2007, 2 ss.; G. Tesauro, Il dialogo
tra giudice italiano e corti europee, in Atti del Convegno Nazionale “Nuovi assetti delle fonti del
diritto del lavoro”, 2012, caspur-ciberpublishing.it/index.php/atti_csdn/article/download/.../269
.
[84] Cfr. O. Porchia,
Indifferenza dell’Unione nei
confronti degli Stati membri e degli enti territoriali: momenti di crisi del
principio, in L. Daniele (a
cura di), Regioni e autonomie
territoriali nel diritto internazionale ed europeo, Napoli, 2006, 269 ss.
Sul principio di “non ingerenza” nel diritto internazionale v. B. CONFORTI, Le principe de
non-intervention, in M. BEDJAOUI (a cura di), Droit international-Bilan
et prespectives, volume I, Parigi, 1991, 627; N. RONZITTI, Non ingerenza
negli affari interni di un altro Stato, in Digesto IV delle discipline
pubblicistiche, 1996, 159 ss.
[85] Così
recentemente, la sentenza 17 ottobre 2013 C-101/12 H. Schaible/ Land Badem-Württemberg, non ancora pubblicata in Raccolta, punto 76; e, inoltre, la
sentenza 26 settembre 2013, C-195/12, Industrie du bois de Vielsalm & Cie (IBV)
SA/Région wallonne, non
ancora pubblicata in Raccolta che,
sul punto, richiama in particolare le sentenze: del 16 dicembre 2008, C-127/07,
Arcelor Atlantique e Lorraine e a., Raccolta, I-9895, punto 23; del 12
maggio 2011, C-176/09, Lussemburgo/Parlamento
e Consiglio, Raccolta, I-3727,
punto 31; nonché del 21 luglio 2011, C-21/10, Nagy, Raccolta, I-6769,
punto 47.
[86] Rispettivamente, l’art. 2 del detto
Protocollo prevede che «prima di proporre un atto legislativo, la
Commissione effettua ampie consultazioni» che «devono tener conto, se del caso, della dimensione regionale e locale
delle azioni previste. Nei casi di straordinaria urgenza, la Commissione
non procede a dette consultazioni. Essa motiva la decisione nella
proposta». L’art. 5,
inoltre, prevede che «I progetti di atti legislativi sono motivati con
riguardo ai principi di
sussidiarietà e di proporzionalità. Ogni progetto di atto
legislativo dovrebbe essere accompagnato da una scheda contenente elementi
circostanziati che consentano di valutare il rispetto dei principi di
sussidiarietà e di proporzionalità. Tale scheda dovrebbe fornire
elementi che consentano di valutarne l'impatto finanziario e le conseguenze,
quando si tratta di una direttiva, sulla regolamentazione che sarà
attuata dagli Stati membri, ivi compresa,
se del caso, la legislazione regionale. Le ragioni che hanno portato a
concludere che un obiettivo dell'Unione può essere conseguito meglio a
livello di quest'ultima sono confortate da indicatori qualitativi e, ove
possibile, quantitativi. I progetti di atti legislativi tengono conto della necessità che gli oneri, siano essi
finanziari o amministrativi, che ricadono
sull'Unione, sui governi nazionali, sugli
enti regionali o locali, sugli operatori economici e sui cittadini siano il
meno gravosi possibile e commisurati all'obiettivo da conseguire».
Infine, l’art. 6 prevede che «Ciascuno dei parlamenti nazionali o
ciascuna camera di uno di questi parlamenti può, entro un termine di
otto settimane a decorrere dalla data di trasmissione di un progetto di atto
legislativo nelle lingue ufficiali dell'Unione, inviare ai presidenti del Parlamento
europeo, del Consiglio e della Commissione un parere motivato che espone le
ragioni per le quali ritiene che il progetto in causa non sia conforme al
principio di sussidiarietà. Spetta
a ciascun parlamento nazionale o a ciascuna camera dei parlamenti nazionali
consultare all'occorrenza i parlamenti regionali con poteri legislativi»
(corsivi aggiunti). Sul valore dei protocolli e degli allegati al Trattato di
Lisbona del 2009 si v. La protezione dei
diritti dell’uomo nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona,
in Il Diritto dell’Unione europea,
2009, 1 ss., in particolare, v. S. AMADEO, Il protocollo n. 30
sull’applicazione della Carta a Polonia e Regno Unito e la tutela
“asimmetrica” dei diritti fondamentali: molti problemi, qualche
soluzione, ivi, 720 ss.
[87] Sul principio di sussidiarietà si
v. di recente, P. De Pasquale, L’esercizio
delle competenze dell’Unione europea ed il principio di
sussidiarietà, in Talitha Vassalli di Dachenhausen (a cura
di), Atti del Convegno in memoria
di Luigi Sico, Editoriale scientifica, Napoli, 2011, 211 ss.; C. Favilli, Il principio di
sussidiarietà nel diritto dell’Unione europea, in Archivio
giuridico, 3/2011, 257 ss. e la dottrina ivi citata.
[88]
Sull’importanza di questo riconoscimento nel diritto primario dell’Unione
v. A. Van Bossuyt, L’Union européenne et la
protection des minorités: une question de volonté politique,
in Cahiers de Droit Européenne,
2010, 427 ss.; D. Kochenov, EU
Minority Protection: A Modest case for a Synergetic Approach, in Amsterdam Law Forum, 2011, http://ojs.ubvu.vu.nl/alf/article/viewFile/236/425 .
[89] Ai fini che qui interessano, recita
l’art. 107 TFUE:
«Sono compatibili con
il mercato interno:
a) gli aiuti a carattere
sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza
discriminazioni determinate dall'origine dei prodotti;
b) gli aiuti destinati a
ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi
eccezionali;
c) gli aiuti concessi
all'economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che
risentono della divisione della Germania, nella misura in cui sono necessari a
compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione. Cinque anni dopo l'entrata in vigore del
trattato di Lisbona, il Consiglio, su proposta della Commissione, può
adottare una decisione che abroga la presente lettera.
3. Possono considerarsi compatibili con il
mercato interno:
a) gli aiuti destinati a
favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia
anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, nonché quello delle regioni di cui
all'articolo 349, tenuto conto della loro situazione strutturale, economica e
sociale;
b) gli aiuti destinati a
promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse
europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell'economia di uno Stato
membro;
c) gli aiuti destinati ad
agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche,
sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al
comune interesse;
d) gli aiuti destinati a
promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le
condizioni degli scambi e della concorrenza nell'Unione in misura contraria all'interesse comune;
e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su
proposta della Commissione.
[90] Va osservato, al riguardo, che il diritto
UE, per consentire alla Commissione di svolgere il suo controllo, prevede,
all’art. 108, 3° comma TUE un obbligo di notifica preliminare alla
Commissione «dei progetti diretti ad istituire o modificare aiuti».
Un aiuto concesso senza autorizzazione della Commissione europea (o del
Consiglio nei rari casi in cui questo avviene) ai sensi della suddetta
disposizione è automaticamente "illegittimo". Da alcuni anni,
tuttavia, la Commissione ha adottato alcune normative che esentano gli Stati membri
dall'obbligo di previa notifica: si tratta degli aiuti disciplinati dal
regolamento (CE) . 800/2008 della Commissione, del 6 agosto 2008 (in GUUE L
214, 9 agosto 2008, 3 ss.) per i quali gli Stati hanno esclusivamente
l’obbligo di comunicarli alla Commissione al momento della loro
attuazione; e gli aiuti c.d. de minimis
disciplinati dal regolamento n. 1998/2006 della Commissione, del 15 dicembre
2006 (in GUUE L 379, 28 dicembre 2006, 5 ss.) che non devono essere comunicati
alla Commissione, né preventivamente, né successivamente alla
loro adozione.
[91] In un suo recente parere (v. Parere del Comitato delle regioni
«Orientamenti in materia di aiuti di stato a finalità regionale
per il periodo 2014-2020, (2013/C 62/12), in GUUE, del 2 marzo 2013,
C 62/57) il Comitato delle Regioni ha chiesto, fra l’altro, una revisione
dei criteri per l’ammissibilità agli aiuti a finalità
regionale: esso, in particolare, ha sollecitato una «rifusione e semplificazione delle norme
europee relative agli aiuti di Stato» nonché un «miglior
coordinamento delle norme in materia di aiuti di Stato con le altre politiche
europee, in particolare la politica di coesione» ed ha invitato
«la Commissione europea a tener conto degli effetti della crisi
aumentando, da un lato, i massimali dei
tassi per gli aiuti e, dall'altro lato, la percentuale della popolazione interessata da questo tipo di
aiuti».
[92] Il riferimento è ad un recente
caso sottoposto al Tribunale dell’Unione: si tratta della sentenza 21
marzo 2012, T50/06 RENV, T-60/06 RENV, Eurallumina
S.p.A. et al./Commissione, non ancora pubblicata in Raccolta.
[93] Ibidem,
punto 105 in cui il Tribunale osserva, con riferimento alla decisione della
Commissione, che la «decisione impugnata, rimettendo direttamente in
discussione la validità delle esenzioni controverse concesse dalla
Repubblica italiana, dall’Irlanda e dalla Repubblica francese fino al 31
dicembre 2003, rimette altresì in discussione, indirettamente ma
inevitabilmente, la validità delle decisioni di autorizzazione del
Consiglio, da ultimo la decisione 2001/224, e taluni effetti ad esse inerenti.
Così facendo, essa viola il principio della certezza del diritto
nonché il principio della presunzione di legittimità degli atti
dell’Unione».
[94] Sulla politica di coesione v. M. Piantoni, Le politiche dell’Unione europea a favore delle imprese e delle
imprenditorialità, Giuffré, Milano, 2008; A. Scavo, La Politica di Coesione
dell’Unione Europea: tendenze ad una ri-nazionalizzazione nei negoziati
per il 2007-2013, University
of Catania, Catania, 2006, in http://aei.pitt.edu/11073/1/jmwp60.pdf.
[95] Recita precisamente l’art. 174
TFUE: «Per promuovere uno sviluppo armonioso dell'insieme dell'Unione,
questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il
rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale.
In particolare
l'Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie
regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite.
Tra le regioni
interessate, un'attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle
zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi
e permanenti svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più
settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari,
transfrontaliere e di montagna». L’ultimo paragrafo dell’art.
174 TFUE, come si è detto nel testo, rappresenta una novità
introdotta dal Trattato di Lisbona che attribuisce una vera e propria
priorità a quelle regioni più sfavorite, nelle quali
l’intervento dell’Unione dovrà puntare a ridurre lo scarto
tra queste e le altre regioni europee».
[96] V. da ultimo la 33° Assemblea
generale della Commissione delle Isole della CRPM, 20/21 giugno 2013 - Cagliari
(Sardegna, Italia). Recentemente, anche il Consiglio
europeo (Conclusioni (Quadro
pluriennale), dell’8 febbraio 2013, EUCO 37/13, CO EUR 5, CO EUR Concl. 3) si è espresso in
questo senso (punti 44 e 51),
sottolineando la necessità di maggiori forme di tutela per alcune aree europee.
[97] Per l'Italia la suddivisione è per aree sovra-regionali - Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud, Isole – che non corrispondono al territorio di alcuno
degli enti regionali previsti dal nostro ordinamento.
[98] Si v. in proposito, gli artt. 1, 8 e 9
del regolamento n. 1260/99 del Consiglio del 21 giugno 1999 recante
disposizioni generali sui Fondi strutturali, in GUCE L 161 del 26 giugno 1999,
1.
[99] Così Corte di giustizia, 9 luglio
2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea cit., punti 4
e 46.
[101] Cfr. ibidem,
punto 36 in cui la Corte di giustizia, con riferimento al rimborso di Fondi
FERS, sostiene che la sua «richiesta discende non già da diritto
dell’Unione, bensì dal diritto nazionale».
[102] Corte di giustizia, sentenza 21 marzo
2013, C-613/11, Commissione/Italia,
non ancora pubblicata in Raccolta. I
passaggi indicati nel testo sono, rispettivamente, i nn. 29, 32 e 42.
[103] Così da ultimo, Corte di
giustizia, sentenza 21 marzo 2013 Commissione/Italia
cit., punti 18, 27 e 36 e 37. La
possibilità di invocare “l’impossibilità
assoluta” costituisce, evidentemente, una forma di attuazione, nel
diritto dell’Unione, del principio internazionale rebus sic stantibus, in base al quale l’obbligo dello Stato
si estingue, in tutto o in parte, per il mutamento delle circostanze di fatto
esistenti al momento della sua formulazione. In argomento, v. Poch De Caviedes, De la clause “rebus sic stantibus” à la clause de
révision dans les conventions internationales, in Recueil des Cours, 1966, II, 105; L. Sico, Gli effetti del mutamento delle circostanze sui trattati internazionali,
Padova, 1983.
[105] La circostanza evidenziata ora nel testo
costituisce una chiara deroga del diritto UE al principio generale codificato
all’art. 27 (Diritto interno e rispetto dei trattati) della Convenzione
di Vienna sul diritto dei trattati (1969) che recita: «Una parte non
può invocare le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la
mancata esecuzione di un trattato […]».
[106] Cfr. sul punto L. Garofalo, Costituzione
italiana cit., 35, il quale dopo aver riferito che il «nuovo art.
117, 1° comma, Cost.» ha previsto «un obbligo di
“conformazione” del diritto interno» tanto al diritto
comunitario quanto al diritto internazionale (seppure questi
“diritti” siano stati oggetto di formulazioni
“separate”) osserva tuttavia che, con riferimento all’Unione,
occorre «ripensare complessivamente il concetto stesso di adattamento»
posto che «oggi, tale istituto, non sia più in grado di inquadrare
correttamente lo schema logico-giuridico che caratterizza i rapporti tra
diritto dell’Unione europea e diritto nazionale».
[107] In senso conforme la sentenza 29 marzo
2012, C-243/10, Commissione/Italia,
non ancora pubblicata in Raccolta, al
punto 47: «Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica
italiana riguardante la presunta buona fede e il legittimo affidamento delle
imprese alle quali sono stati concessi gli aiuti per finanziare progetti
d’investimento intrapresi anteriormente alla data di presentazione
dell’opportuna domanda, va sottolineato che un simile argomento non
può essere validamente addotto, dallo Stato membro interessato,
nell’ambito di un ricorso per inadempimento avente ad oggetto
l’attuazione di una decisione della Commissione che ordina il recupero
degli aiuti illegittimi. Infatti, ammettere siffatta possibilità
significherebbe privare di qualsiasi efficacia pratica le disposizioni di cui
agli articoli 107 TFUE e 108 TFUE, in quanto le autorità nazionali
potrebbero far valere in tal modo il proprio comportamento illegale al fine di
vanificare l’efficacia delle decisioni emanate dalla Commissione in
virtù di tali disposizioni del Trattato (v. sentenza del 19 giugno 2008,
Commissione/Germania, C-39/06, punto 24 e giurisprudenza ivi citata)» e
al punto 54: «la Repubblica italiana non può avvalersi delle
ordinanze dei giudici nazionali, che dispongono provvedimenti provvisori, per
giustificare la mancata esecuzione della decisione 2008/854 entro i termini
stabiliti».
Sull’ipotesi
normativa, diversa da quella ora indicata, introdotta dal diritto UE in deroga
al principio generale dell’irrilevanza del diritto nazionale ai fini
dell’adempimento di uno dei suoi obblighi v. le osservazioni svolte supra, nota 105.
[108] Si v. in tal senso Corte di giustizia,
sentenza 21 marzo 2013, C-613/11, Commissione/Italia
cit., punto 37: «la condizione relativa alla sussistenza di
un’impossibilità assoluta di esecuzione non è soddisfatta quando lo Stato membro convenuto si limita
a comunicare alla Commissione le
difficoltà giuridiche, politiche o pratiche che presentava
l’esecuzione della decisione interessata, senza intraprendere alcuna vera
iniziativa presso le imprese interessate» (v. anche punto 39); e,
inoltre, punto 38: «uno Stato membro il quale […] incontri
difficoltà impreviste o imprevedibili o si renda conto di conseguenze
non considerate dalla Commissione […] deve sottoporre tali problemi alla
valutazione di quest’ultima, proponendo appropriate modifiche della decisione
di cui trattasi». Nello stesso senso la sentenza 29 marzo 2012, Commissione/Italia cit., punto 41
«un’impossibilità assoluta di esecuzione non è soddisfatta quando lo Stato
membro convenuto si limita a comunicare
alla Commissione le difficoltà giuridiche, politiche o pratiche che
presentava l’esecuzione della decisione, senza intraprendere alcuna vera
iniziativa presso le imprese interessate al fine di recuperare l’aiuto e
senza proporre alla Commissione altre modalità di esecuzione delle
predetta decisione che avrebbero consentito di superare tali
difficoltà» (corsivo aggiunto).