Università di Sassari
SOMMARIO: 1. Introduzione. –
2. Eternal Rule e “strana dottrina”.
– 3. Gli «inconvenienti» dello
stato di natura. – 4. La ragione come
interprete. – 5. Dal dovere al diritto.
– 6. Legge positiva ed appello al cielo.
– 7. Conclusioni – Abstract.
Si possono individuare almeno due livelli di
lettura dei testi politici di John Locke. Il primo è quello che attiene
alla definizione della filosofia politica
dell’autore: ricerca dell’ordine legittimo, determinazione dei limiti dell’obbligazione
politica, teoria dei «diritti naturali», etc[1]. E’ su questo piano
che il pensiero di Locke si articola all’interno di quel
«tornante» del costituzionalismo moderno[2] di cui egli sarà
uno dei più significativi rappresentanti.
Si tratta, però, di una scrittura
attraversata da una serie di scarti, spaziature, spostamenti che determinano il
passaggio ad un diverso livello di riflessione. Cambia il sistema di domande,
si risponde a nuovi e diversi problemi. Dalla filosofia politica si passa alla filosofia del diritto, dalla conoscenza delle cose politiche alla creazione di concetti.
Locke ha bisogno di questa doppia scrittura,
perché solo essa gli consente di definire un nuovo oggetto teorico,
senza il quale la sua ideologia politica non potrebbe essere pensata e
resa disponibile. Questo oggetto è la legge. La legge non è un fatto,
né la semplice espressione di un comando, di una prescrizione. La legge,
diversamente, è il prodotto, il risultato di un’arte particolare:
quella di «formare, di inventare, di fabbricare concetti»[3].
Locke possiede quest’arte, e fabbrica un
nuovo concetto di legge. In queste pagine, si tenterà di seguire e
ricostruire i differenti passaggi
retorici, semantici, lessicali (spostamenti di senso, stratificazioni,
interruzioni, riscritture, etc.) che consentiranno al filosofo inglese questa
invenzione, questa creazione.
Nelle pagine che seguono, si tenterà
pertanto di ripercorrere brevemente le differenti operazioni compiute da Locke
nella definizione del concetto di legge, con particolare riferimento al Secondo Trattato sul Governo.
Si deve, tuttavia, quantomeno accennare ad
alcuni caratteri generali – ma validi anche per Locke – relativi a
questa attività di creazione dei concetti. Anzitutto, tra le due
scritture, tra i due “livelli” – politico e giuridico –
non c’è separazione, ma reciproca implicazione, un continuo gioco
di rimandi. Ogni filosofia è, infatti, pratica: «anche quella più contemplativa»
è sempre un’«arma sociale e politica»[4]. C’è sempre,
in altri termini, una prassi che
è implicata nel concetto, una lotta politica che si esprime attraverso
quest’ultimo (ed ogni discorso giuridico è dunque in un certo
rapporto con un contro-discorso interno di lotta).
In secondo luogo, occorre ricordare come
ciascun autore sia costretto a riflettere i propri problemi ed a pensare i
propri concetti entro un certo «campo ideologico fondamentale».
Esiste, in ogni tempo, un sistema di riferimenti, un certo sistema di domande
che governano determinate risposte, entro il quale ogni autore inizia a
pensare. È quella che Althusser chiama la necessità della contingenza dell’inizio.
Ogni
autore si trova allora obbligato a formulare la propria scoperta, a pensare i
propri problemi, mediante i concetti teorici già esistenti in quel
momento. Per questa ragione non si crea un concetto nuovo che utilizzando
concetti o parti di concetti già esistenti, “muovendo” in un
certo modo i significati già consolidati, spingendoli al limite, verso un punto di
rottura. Punto di rottura che rivela il carattere polemico di ogni filosofia, il fatto che essa sempre «si
afferma contro (o a favore) della filosofia dominante»[5].
Vi
sono, qui, tutta una serie di operazioni possibili, le quali tuttavia
rispondono alla stessa logica, alla stessa arte («l’arte di dire
ciò che si sta per scoprire usando proprio ciò che si
dovrà dimenticare»[6]).
Un
filosofo crea un nuovo concetto quando riesce a scrivere al di là del
linguaggio che è costretto ad usare, quando crea al suo interno un nuovo
senso, quando impone una sorta di lingua straniera.
La creazione dei concetti avviene così: spostandosi e «cambiando la lingua».
Si deve ritornare, allora, a questa
“strana arte”: imparare a dire dimenticando. Il che significa
anche: imparare a dire tacendo. C’è tutta un’arte del
silenzio, arte del tacere, che accompagna la filosofia, la creazione di concetti.
Leo Strauss ha insistito, proprio con riferimento a Locke, su questo punto[7], sull’arte di tacere
che si nasconde nei concetti: arte della dissimulazione, del non-detto. Arte
che separa il testo dall’opera, arte che scrive sempre attraverso due
registri distinti, che ci obbliga sempre a domandarci se «il libro che si
è appena letto, è proprio l’opera che si deve
leggere»[8].
Bisogna sempre lavorare sui silenzi propri di
ogni filosofia, su ciò che l’autore «necessariamente
sottintendeva» sul «non detto che pure è presente in
ciò che dice»[9].
Un’ultima considerazione, infine. Ogni
filosofo apre ad un non-pensato. Come
scrive Heidegger, quanto più grande è l’opera di pensiero
di un pensatore, tanto più ricco è ciò che in essa
è impensato, vale a dire ciò che solo ed esclusivamente grazie a
tale opera emerge come il non-ancora pensato[10]. Si potrebbe aggiungere:
ogni filosofo, in un certo senso, «dice ciò che non sa»[11].
Questo non-pensato è ciò che ci
permette di seguire il «divenire del concetto». I concetti, una
volta prodotti, una volta “montati”, si intersecano, si oppongono,
si “urtano” con altri concetti, formando storie, serie, unendo i
rispettivi problemi da cui nascono[12].
L’arte di Locke, la sua scrittura della
«legge comune» come eternal
rule, costituisce in questo senso un passaggio obbligato all’interno
della storia della cultura giuridica moderna e, in particolare, dello studio
dei mutamenti interni a
quell’«entità indefinibile»[13] che è la
costituzione inglese.
Nella definizione del concetto di legge, Locke
insiste più volte sulla necessità di pensare legge naturale (law of Nature) e legge positiva come
momenti di una stessa «norma eterna» (eternal rule), identificata con la volontà di Dio (o legge
divina). «E’ lui che comanda ciò che la ragione
comanda». Dio è l’autore
della legge naturale[14], dei «limiti» da essa imposti (within the bounds of the law of Nature),
dei reciproci doveri da essa prescritti.
In
apertura del Secondo Trattato, la
ripresa del giusnaturalismo “classico” – attraverso il
ricorso all’autorità di Hooker – consente a Locke di
presentare la legge di natura come definita essenzialmente a partire dal dovere, dall’obbligo. Gli uomini sono uguali, infatti, in quanto servi di Dio (all the servants of one sovereign master):
«tutti servitori di un solo supremo Signore, invitati nel mondo per suo
ordine e per i suoi intenti, essi sono proprietà di colui di cui sono
opera»[15].
La
condizione di uguaglianza non è, come in Hobbes, fattuale (equality of ability),
ma già normativa: è
uguaglianza nei doveri, negli obblighi reciproci[16].
Così Locke: «il saggio Hooker considera questa eguaglianza
naturale così evidente in se stessa e al di là di ogni dubbio, da
porta a fondamento di quell’obbligo al reciproco amore fra gli uomini sul
quale egli basa i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri»[17].
The judicious Hooker: riferimento «sospetto», dettato da ragioni
essenzialmente di «prudenza»[18].
Il giusnaturalismo di Locke, come si vedrà in seguito, si articola
infatti a partire da almeno uno scarto
essenziale rispetto alla concezione “classica”. Saranno infatti i diritti, e non i doveri, il fatto etico fondamentale e primario della dottrina
moderna del diritto naturale[19].
Lo ius è anzitutto diritto, e
non, come nel giusnaturalismo classico, dovere, officium.
Questo
riferimento al dovere, alla legge di
natura come vincolo, obbligo,
risponde in realtà ad un problema preciso, particolare. La definizione
della legge di natura come obbligazione
(«In Dio si risolve, infatti, in definitiva, ogni obbligazione»[20])
non pone, per Locke, la questione di individuare il contenuto della legge (se non attraverso il richiamo, retorico,
all’obbligo «to mutual love amongst men»[21]).
Locke,
diversamente, “sposta” i termini del problema. Ciò che
interessa, infatti, è la distinzione tra libertà e obbligazione,
tra ius e lex, stato di natura e stato civile, pensata da Hobbes. La legge,
in Locke, è già da sempre presente come obbligazione (ed al
contempo come libertà) in quanto eternal
rule, norma e regola eterna di condotta.
Non
c’è separazione tra obbligo e libertà bensì
continuità e identità tra la «perfetta libertà di
regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e persone» ed i
«limiti della legge di natura», in quanto limiti posti direttamente
da Dio. Per questa ragione la legge positiva non crea nuovi obblighi, ma si
limita a rafforzare (enforce) quelli
della legge naturale:
Gli obblighi della legge
di natura non vengono meno nella società, ma anzi in molti casi
diventano più stretti, e le leggi umane vi associano sanzioni tanto note
da rafforzarne il rispetto. Così la legge di natura costituisce una
norma eterna per tutti gli uomini, per i legislatori come per gli altri. Le
norme che essi dànno per le azioni degli altri uomini devono essere
– come pure le loro proprie azioni e quelle altrui – conformi alla
legge di natura, cioè alla volontà di Dio di cui quella è
una manifestazione […][22];
Le leggi civili positive
infatti non sono obbliganti di per sé, per forza propria, o in qualsiasi
altro modo se non in virtù della legge di natura[23].
Questa
definizione della legge come eternal rule
consente due operazioni fondamentali. Anzitutto, Locke definisce la legge come
se vi fosse un’identità fondamentale tra i differenti livelli in cui essa si articolerà nel corso del Secondo Trattato: legge di Dio / legge
di natura / legge definita dal magistrato («potere comune di
appello») / legge dell’assemblea («legge positiva»).
Locke insisterà più volte su questo punto: è sempre la
stessa legge, summa ratio, legge che
è ciò che la ragione scopre. Lo ripeterà sino alla fine
del suo ragionamento: la legge positiva deve coincidere con la legge naturale.
Eppure,
proprio nella transizione da un livello all’altro, Locke “lavora”
sul concetto di legge, spostandone il senso, cambiandone il significato. Il
riferimento ad una «legge eterna», sempre identica a se stessa,
consentirà a Locke di compiere una serie di spostamenti di senso – ossia di creare un concetto di legge
radicalmente diverso da quello inizialmente presentato sulla scorta di Hooker
– senza che sia messa mai in discussione la definizione della legge di
natura come legge di Dio.
In
secondo luogo, la definizione della legge naturale come già da sempre
efficace, valida e vincolante permette a Locke di pensare lo «stato di
natura», lo stato in cui «gli uomini si trovano naturalmente»
(estate all men are naturally in), da
un punto di vista differente da quello di Hobbes. Per quest’ultimo,
infatti, lo stato di natura è definito essenzialmente dallo ius, dalla libertà, ossia
dall’assenza della legge.
Sarà allora il problema della definizione dell’autorità del
legislatore che verrà
principalmente discusso all’interno del discorso hobbesiano.
In
Locke, la prospettiva è spostata. Lo stato di natura si definisce,
infatti, in riferimento al problema della costruzione
dell’autorità del magistrato:
«Quando gli uomini vivono insieme secondo ragione (Men living together according to reason) senza un superiore comune
sulla terra (without a common superior on
the earth), con l’autorità di giudicarsi tra loro (with authority to judge between them),
si ha propriamente (properly) lo
stato di natura»[24].
Ciò
che separa la «legge di natura» dalla «legge positiva»
non è, pertanto, l’obbligazione in sé considerata, quanto
l’autorità di decidere le controversie (authority to decide controversies):
Coloro che sono riuniti
in un sol corpo (into one body) e
hanno una legge comune stabilita (a
common established law) e una magistratura cui appellarsi (judicature to appeal), dotata
dell’autorità di decidere le controversie tra loro insorte e di
punire i trasgressori, si trovano gli uni con gli altri in società
civile (civil society); ma coloro che
non dispongono di questo comune appello (common
appeal) – sulla terra, intendo – sono ancora nello stato di
natura, ciascuno essendo – laddove non c’è alcun altro
– di per sé stesso giudice ed esecutore […][25].
La
mancanza di un common appeal, di un
giudice comune, è ciò che separa lo stato di natura dalla società
civile. Nello stato di natura, infatti, in cui tutti gli uomini sono uguali e
la legge naturale stessa vieta ogni rapporto di subordinazione e dominio,
l’esecuzione di quest’ultima non può che essere affidata
nelle mani di ciascuno (§7). È quella che Locke definisce una
«strana dottrina»[26],
e che tenta pertanto di definire e giustificare.
Ogni
uomo ha il dovere, per natura, di conservare se stesso e, correlativamente,
preservare gli altri uomini, a meno che egli non sia chiamato a «far
giustizia di un trasgressore» (to
do justice on an offender). Come
ogni legge, infatti, anche la legge di natura sarebbe vana se non ci fosse
qualcuno «che nello stato di natura ha il potere di renderla esecutiva (power to execute that law) e così
proteggere gli innocenti e reprimere i trasgressori». Questo potere, in
natura, appartiene necessariamente a ciascuno:
Infatti in quello stato
di perfetta uguaglianza, dove per natura non ci è alcuna
superiorità o giurisdizione (there
is no superiority or jurisdiction) di uno su un altro, ciò che uno
può fare per rendere esecutiva quella legge (do in prosecution of that Law) ognuno deve di necessità
avere il diritto di farlo[27].
È
solo con l’esecuzione della legge, scrive Locke, che si consegue un
potere su un altro uomo, il quale, tuttavia, deve intendersi limitato alla
retribuzione, ossia all’afflizione di un male proporzionale alla
trasgressione della legge di natura posta in essere.
Questo
diritto di «fare del male legalmente» (lawfully), si fonda sul fatto che chi trasgredisce la legge di
natura si pone fuori dalla ragione e dalla comune giustizia, ossia fuori dalla
servitù imposta da Dio sugli uomini e che è funzionale alla loro
reciproca sicurezza:
Essendo questo un reato
contro l’intera specie (a trespass
against the whole species) e la sua pace e sicurezza cui presiede la legge
di natura, ogni uomo, in base al diritto che ha di provvedere alla
sopravvivenza dell’umanità in generale (by the right he hath to preserve manking in general), può
reprimere – o se è necessario – distruggere ciò che
è ad essa nocivo[28].
L’uomo,
con la trasgressione della legge, dichiara guerra al genere umano (declared war against all mankind), diventa una creatura nociva (a noxious creature): «degrada se
stesso dal rango di uomo a quello di animale con l’usare la forza come
norma del suo diritto».
Ciascuno
ha il diritto di proteggere la propria specie, abbattendo il brutale assassino,
uccidendolo come si fa con un leone, una tigre o «una di quelle bestie
selvagge con cui gli uomini non possono mettersi in società né
riceverne sicurezza».
«Siffatti
uomini – aggiunge Locke – non sottomettendosi ai vincoli della
comune legge di ragione (they are not
under the ties of the common law of reason) e non avendo altra regola che
quella della forza e della violenza (have
no other rule but that of force and violence), possono essere trattati come
bestie da preda (beast of prey),
creature pericolose e nocive»[29].
L’esecuzione
individuale della legge di natura si fonda sul giudizio che ciascuno può dare dell’avvenuta
trasgressione della legge naturale e sulla conseguente esecuzione di
quest’ultima. Si tratta di un giudizio che, in assenza di un comune
potere di appello, di una giurisdizione, ognuno dà in coscienza: «Di ciò posso
giudicare solo io stesso, nella mia propria coscienza (of that I my self can only be judge in my own conscience)»[30].
A
questo punto della trattazione, Locke introduce una possibile obiezione. L’anticipazione di
eventuali obiezioni da parte di un ipotetico lettore, costituisce una tecnica retorica. Locke, però, sposta
immediatamente il problema: riconosce senza esitazioni che questa obiezione, in
effetti, «confuta» quella “strana dottrina” che, fino a
quel momento, egli aveva difeso[31].
L’obiezione
è, apparentemente, semplice: nessuno può essere giudice in causa propria, così che
ciascuno finirà per «esagerare nel punire gli altri». Locke,
in realtà, riformula, anche se impercettibilmente, l’obiezione
stessa, nel momento in cui dichiara di volerle concedere campo:
[…] concedo
facilmente (I easily grant) che il governo civile sia il rimedio
adatto agli inconvenienti dello stato di natura, che debbono certamente essere
gravi qualora gli uomini possono essere giudici nella propria causa,
giacché è facile immaginare che
chi sia stato così tanto ingiusto da recare offesa al proprio fratello,
non sarà così giusto da condannarsi a causa di ciò[32].
Si
veda, anzitutto, come Locke riformula l’eccezione: nemo iudex in causa sua significa, per Locke, che nessuno che
commetta una trasgressione della legge sarà disposto, per questo solo
fatto, a condannarsi.
È
una riscrittura dell’obiezione, come Locke l’aveva presentata da
principio: «non è cosa ragionevole che gli uomini giudichino della
propria causa; si dirà che l’amor di sé li renderebbe parziali verso se stessi e i
propri amici, mentre la malvagità naturale, la passione e lo spirito
vendicativo li porterebbe a esagerare nell'atto di punire gli altri»[33].
Locke
ha spostato il senso del principio «nessun giudice in causa
propria». Esso rischia di non essere rispettato non perché gli
uomini sarebbero parziali nel giudicare gli
altri, quanto piuttosto perché nessuno, violando la legge, sarebbe
disposto a riconoscere la propria
colpevolezza.
Questa
modifica dell’argomentazione obbliga ad una riflessione. Locke aveva, nei
Saggi sulla legge di natura,
sostenuto a più riprese una tesi opposta. In essi si legge che
l’esistenza della legge naturale sarebbe dimostrata proprio dal fatto che
«giudicandosi da solo nessuno si assolve per il male che commette (no one who commits a wicked action is
acquitted in his own judgement). Il giudizio, infatti, che ognuno dà
di se stesso fornisce una testimonianza dell’esistenza della legge
naturale»[34].
Lo stesso concetto viene ripreso e così riformulato più avanti:
Ogni obbligazione
infatti sottomette la coscienza e impone un vincolo alla mente stessa, in
maniera che non è il timore della pena, bensì la consapevolezza
di ciò che è giusto ad obbligarsi, e la coscienza ci fornisce un
giudizio sul comportamento morale, sicché ci giudichiamo noi stessi, a
ragione, degni di pena, nel caso in cui abbiamo commesso un reato. È
vero infatti quel verso del potere, «giudicandosi da solo nessuno si
assolve per il male commesso»: ma sarebbe senza alcun dubbio diverso se
soltanto il timore della pena producesse l’obbligazione[35].
Se,
pertanto, il giudizio, pur in causa
propria, è dato secondo coscienza, esso non dovrebbe mai risolversi
in una violazione della legge naturale. Non si può evitare, allora, di
notare la contraddizione tra le due affermazioni di Locke:
Chi sia stato
così tanto ingiusto da recare offesa al proprio fratello, non
sarà così giusto da condannarsi a causa di ciò / Nessuno,
che ha commesso il male, nel giudicarsi si assolve (Iudex nemo nocens absolvitur).
Forse,
allora, l’«obiezione» che Locke formula ne nasconde
un’altra. Nasconde un’altra esigenza. Cosa può sostenere la
necessità del principio «nessun giudice in causa propria»?
O, più propriamente: quale è la condizione affinché le due
tesi che Locke presenta non entrino in contraddizione tra loro?
L’«inconveniente»
alla dottrina dell’esecuzione individuale della legge naturale non
può venire alla luce se non attraverso la domanda fondamentale che Locke
articola in ordine allo stato di natura. Domanda politica, che riguarda
l’autorità del magistrato, l’istituzione del potere del Giudice (del “comune
appello”).
Occorre,
sul punto, una precisazione: Locke ricorre al termine «magistrato»
sia per riferirsi al «potere legislativo supremo»[36]
sia per indicare il potere di risolvere le controversie tra i privati. Sarebbe,
tuttavia, improprio tentare di definire il magistrato,
in Locke, a partire dalla distinzione tra potere
legislativo e potere giudiziario.
Questa separazione di funzioni o di organi (power)
è secondaria[37],
e resa disponibile da una differenza più profonda, che è quella
cui si riferisce Locke.
Ciò
che è in questione è la legittimazione, il tipo di giustificazione dell’autorità politica in
relazione al concetto di legge elaborato da Locke. La legge comune, l’eternal rule, viene pensata da Locke
attraverso un certo tipo di rapporto con la temporalità: eternal, infatti, indica che la legge
non è più pensata a partire dal passato, dal potere paterno, ma è determinata come eterna (fuori dal tempo: «i
vincoli di questa legge sono eterni e coevi al genere umano, nati con lui e
destinati a finire con lui»[38]).
Questo
spostamento riguarda il potere politico. Locke – soprattutto attraverso
il Primo Trattato sul Governo –
critica ogni legittimazione ad un’autorità politica di tipo paterno come autorità del passato, in cui è il passato che genera l’autorità (rapporto
di causa – effetto)[39].
È questo tipo di autorità che, con Locke, cessa di essere
possibile[40].
Occorrerà «offrire un altro principio al governo, un’altra
origine al potere politico»[41].
Questo
altro principio passa certamente, in Locke, attraverso il contratto sociale, la
rappresentanza, ossia attraverso la
costituzione del potere parlamentare.
Potere che, tuttavia, non coincide con ciò che comunemente
s’intende con potere legislativo. Esso, piuttosto, implica una concezione
dell’autorità che si avvicina maggiormente a quella del giudice (del magistrato).
Se
si segue la distinzione di Kojève, l’autorità del giudice
si fonda sull’opposizione ad ogni «autorità del tempo»
(presente, passato, avvenire). L’autorità del magistrato è
«refrattaria ad ogni temporalizzazione», fuori dal tempo: essa,
infatti, deve esistere da sempre, ed il Giudice ha autorità proprio in
quanto il suo potere è espressione di un’idea di diritto eterna,
ossia la giustizia (o una certa
concezione della giustizia intesa come idea
eterna).
La
«legge comune», la common law,
in Locke, non può essere pensata come autorità del passato
storico, tradizione, se non
attraverso il suo essere eternal, se
non nel suo rimandare ad una «autorità
dell’Eternità». È, del resto, la critica alla trasmissione dell’autorità
da Dio ad Adamo, e da Adamo al Re, che rende possibile il
“magistrato”, in Locke[42].
L’eternal rule separa il potere parlamentare da quello che sarà
soltanto una sua successiva trasformazione storica, ossia la sua
identificazione con un tipo di autorità (quella del legislatore) definita a partire dal primato dell’avvenire. L’autorità del Legislatore è legittima nella
misura in cui crea diritto a partire dal primato dell’avvenire; è
autorità che incarna il domani, ciò che si ha davanti a
sé. Il diritto è sempre, qui, pensato a partire da un progetto,
ossia dalla necessità di superare il diritto che è ora per un
diritto da crearsi, futuro. L’autorità dell’avvenire
«appartiene ai “progetti” che oltrepassano essenzialmente il dato»[43].
Locke
è estraneo a questa concezione, che sarà invece propria del pensiero
politico della Rivoluzione francese[44]. C’è un principio che Locke non mette mai in discussione: the law of nature stands as an eternal rule
to all men. La legittimazione del potere
parlamentare, allora, non si articola attraverso la definizione di un’«autorità
del legislatore» (primato dell’avvenire), bensì attraverso
un concetto di legge fondato sul magistrato
– sia esso “legislatore” o “giudice” – come
interprete di una legge eterna.
«Potere
parlamentare» e «potere legislativo» costituiscono, in Locke,
la risposta a due problemi differenti. Il primo definisce la nuova forma di
legittimazione politica
dell’autorità: contratto e rappresentanza. Il secondo, invece,
costituisce l’articolazione del concetto di legge sul piano delle funzioni che le differenti
autorità esercitano all’interno di un governo (commonwealth).
Ed
è per questa ragione che il «potere di fare le leggi» (power to make law) implica, in
realtà, un riferimento continuo al potere di interpretazione della
legge. La scrittura della legge, per
come pensata da Locke, rinvia sempre ad un gioco di rimandi tra autore (Dio
– autore assente –
Parlamento/Re) e interprete (magistrato – giudice – legislatore)
della legge (così nel linguaggio di Locke: make, enforce, interpret non sempre si possono separare
e definire).
Il concetto
di Dio non ha una funzione teologica, ma filosofica, in Locke. Esso, in altri
termini, serve a dare espressione ad una serie di problemi concreti, di natura
politica[45].
Se Locke insiste nel definire Dio autore
della legge naturale, ciò dev’essere letto a partire dalla
separazione tra creazione ed interpretazione della legge.
Dio ha la «dignità del legislatore
supremo»: promulga la legge, mediante una «dichiarazione di volontà»,
imponendo «ciò che deve o non deve essere fatto»[46]. Cosa significa?
Significa la definizione di un ulteriore aspetto, nella creazione del concetto
di legge: il problema fondamentale, per Locke, non è relativo alla
legittimazione del potere come autore
della legge, bensì come suo interprete.
Il riferimento a Dio come «autore», rende possibile identificare la
questione reale discussa da Locke:
come è stato osservato, infatti, «il potere di Dio, in fondo,
è il potere di chi è in
grado di conoscere Dio»[47].
La
legge di natura, secondo Locke, è ricevuta, e non creata dalla ragione:
«La ragione, più che istituire e prescrivere questa legge di
natura, la ricerca e la ritrova, sancita da un potere superiore, insista
nell’animo nostro, senza esserne
dunque autore, bensì interprete»[48].
La
ragione non dà leggi, ma procede sempre da una verità posta:
«La ragione, infatti, quella potente facoltà di argomentare, non
procede mai, se non dopo aver stabilito e concesso un punto di partenza
[…]. Non getta le fondamenta della conoscenza»[49].
Questa
assenza di fondamento implica la distinzione tra differenti livelli o modi di conoscenza della legge naturale:
iscrizione, tradizione, senso, rivelazione. La legge naturale non è innata, «iscritta nei nostri
cuori». Le leggi di natura non sono infatti connaturali all’anima, non sono «ad essa intime»:
Non vorrei qui essere
frainteso, come se, per il fatto che nego una legge innata, io pensassi che non
esistano leggi se non positive. Vi è una ben grande differenza tra una
legge innata ed una legge di natura; tra qualcosa di impresso originariamente
nelle nostre menti e qualcosa di cui siamo ignoranti, ma che possiamo conoscere
mediante l’uso e la debita applicazione delle nostre facoltà
naturali[50].
La
conclusione conduce ad una nuova separazione tra natura e ragione (che
sembrava invece elusa dal superamento della contrapposizione hobbesiana tra ius e lex). Non tutti gli uomini forniti di ragione, infatti, conoscono
la legge naturale: «la legge naturale risulta conoscibile per mezzo della
ragione; dal che non segue però necessariamente che essa debba essere
nota ad ognuno, chiunque esso sia»[51].
La legge non è iscritta nei nostri cuori, ma nascosta «nella
natura segreta delle cose stesse», come le più ricche vene
d’oro e d’argento sono nascoste nelle viscere della terra[52].
La
legge di natura non è conosciuta, pertanto, «a partire dal
consenso degli uomini», come aveva, invece, affermato il
“saggio” Hooker (per il quale the
general and perpetual voice of men is the sentence of God himself). Il
patto positivo tra gli uomini non prova la legge di natura: nulla di più
falso del «proverbio di cattivo augurio» Vox populi, vox Dei, della scellerata idea di una legge che dipende
dal consenso di una «moltitudine impazzita»[53].
C’è
una tassonomia precisa che è resa possibile dalla ridefinizione del
problema della conoscibilità della legge naturale: uomini buoni e onesti
/ uomini corrotti[54];
laboriosi / pigri; ciechi / illuminati[55],
etc. Opposizioni, queste, che
sottendono lo stretto legame, presente in Locke, tra sapere politico e
«formazione del gentleman»[56].
Occorre
un lungo esercizio, una «attenta meditazione, riflessione ed attenzione
da parte dell’intelletto» per poter apprendere la legge naturale.
Secondo Locke, i più non possono comprendere la legge di natura, la
quale necessita di una dimostrazione
difficile e complicata:
La
maggior parte dell’umanità manca del tempo libero e delle
capacità per una dimostrazione del genere, e si può sperare con
altrettanto fondamento di trasformare in perfetti matematici tutti i lavoratori
a giornata ed i commercianti, insieme a tutti i filatori e a tutte le lattaie,
che rendere tutti costoro perfetti in etica con questo sistema[57].
Il
popolo non è in grado di “scoprire” la legge di natura, in
quanto essa ha bisogno di una dimostrazione.
È
possibile, a questo punto, riarticolare l’“obiezione” e
l’“inconveniente” relativo all’esecuzione individuale
della legge di natura. L’affermazione del principio nessun giudice in causa propria, in Locke, non risponde ad un
problema di coscienza, quanto
piuttosto di conoscenza della legge
naturale.
È
la possibilità di conoscere la legge, di interpretarne i dettami, ad
essere in causa. Ed è questo aspetto che consente la definizione dell’autorità
del magistrato come elemento essenziale del concetto di legge: «il
carattere obbligante e vincolante della norma deriva, sì, formalmente,
dalla legittimità del potere, ma effettivamente
deriva dalla sua conoscibilità»[58].
L’«attenta
meditazione» necessaria per «penetrare nella natura segreta delle
cose stesse»[59]
e scoprire così la legge naturale implica, infatti, un’ulteriore
elaborazione concettuale della separazione tra «ragione naturale» e
«ragione artificiale» introdotta da Coke nella definizione della common law[60].
La common law (l’eternal rule di Locke) viene così definita come
quell’insieme leggi, istituti e consuetudini, derivate da immutabili
principi di ragione, la cui interpretazione è sottratta al potere
del Re. La sola ragione legale, artificiale è summa ratio e
facoltà discorsiva di decifrare il sistema di limiti al potere
definitosi lungo un succedersi di epoche e ad opera di individui «dotti e gravi», secondo le
parole di Coke.
La
distinzione tra ragione naturale e ragione artificiale aveva consentito al
Parlamento di legittimare il diritto di giudicare, quale Alta Corte di
Giustizia, il Re per tradimento della legge comune. Hobbes aveva, da parte sua,
avvertito le implicazioni politiche della separazione posta da Coke,
evidenziando che «il termine ragione
legale non è chiaro»:
[…] secondo me,
l’autore vuol dire che quella summa
ratio, ed il diritto vero e proprio, non altro è che la ragione del
giudice, o di tutti quanti i giudici insieme indipendentemente dal re: la quale
cosa io nego, perché solamente può fare le leggi colui il quale
è fornito di potere legislativo[61].
La riscrittura, da parte di Locke, della
distinzione, è in realtà funzionale ad un’operazione
politica diversa[62].
Non si tratta più di fondare un’opposizione tra Re e Parlamento,
quanto piuttosto di giustificare l’esito della Gloriosa Rivoluzione:
“validare
il titolo” di Guglielmo d’Orange
(to make good the title in the consent of
the people; which being our one of all lawful governments) significa, per
Locke, imporre una continuità tra la fine della rivoluzione e la conservazione delle antiche istituzioni
inglesi:
Questa lentezza e
avversione del popolo ad abbandonare le sue antiche costituzioni ci ha indotto,
nelle molte rivoluzioni che si sono viste in questo regno, in questa età
e nelle precedenti, a conservare il nostro vecchio legislativo costituito dal
re, dalla camera dei Lords e dei Comuni, o comunque, dopo qualche intervallo
dovuto a tentativi infruttuosi, a tornare ad esso[63].
Il
concetto di legge dovrà, allora, essere pensato a partire da questa continuità e dalla tensione che
essa implica: giustificare la guerra civile e la rivoluzione (con una teoria rivoluzionaria che sarà
l’«appello al cielo») e, al contempo, fondare una teoria del
potere, dell’autorità politica definita attraverso la restaurazione compiuta dal nuovo
sovrano. Locke ha bisogno di risolvere la rivoluzione nella restaurazione, ma
anche, reciprocamente, di risolvere la conservazione delle antiche leggi nella
definizione di una nuova forma di legittimità politica.
La
distinzione ragione naturale / ragione artificiale subisce, con Locke, uno
spostamento di senso: essa appare, infatti, funzionale a definire la
continuità tra legge di natura e legge positiva (potere legislativo), in
quanto l’interpretazione della eternal
rule viene sottratta alla volontà o al consenso del popolo (che
fonda, invece, il potere parlamentare, attraverso il contratto sociale).
Autorità del legislatore ed
autorità del magistrato, in
Locke, sono implicate all’interno dello stesso concetto di legge,
giustificate mediante lo stesso meccanismo: quello dell’istituzione e
della legittimazione del «potere comune d’appello».
C’è
un ulteriore passaggio, fondamentale, nella “fabbricazione” del concetto
di legge da parte di Locke. Nei primi quattro capitoli del Secondo Trattato sul Governo, Locke insiste nel pensare la legge
naturale anzitutto come obbligazione:
è a partire dal dovere, da
ciò che la norma prescrive, che è possibile definire il diritto
naturale.
Con
l’introduzione del tema della formazione della proprietà, si
assiste, tuttavia, ad un processo di rovesciamento
del senso del diritto naturale: la legge di natura, alla fine del capitolo V,
non implicherà più alcun obbligo o dovere, ma sarà
soltanto l’espressione di diritti
(property come intera sfera dei
diritti[64]).
Non
è questa la sede per ripercorrere la trattazione del diritto di
proprietà in Locke. Interessa, piuttosto, identificare i diversi passaggi che consentono la ridefinizione
della legge naturale a partire dal diritto, anziché dal dovere. Sono due
i rapporti fondamentali che devono essere, qui, considerati: quello tra
proprietà e valore, e quello
tra proprietà e utilità.
Non
sono, in se stesse, l’occupazione e la recinzione della terra a creare il
diritto di proprietà, quanto piuttosto la produzione di valore. La terra, di per sé,
è senza valore: la natura, nella sua immediatezza, è
materia che «a mala pena giungerebbe a valere qualcosa». È
solo il lavoro che pone «in ogni cosa la differenza di valore» (for
it is labour indeed that puts the difference of value on everything)[65].
I nove decimi dell’utilità della res, scrive Locke, sono
«effetti del lavoro» (effects of labour), e per comprenderlo
basta considerare:
[…] quale differenza
vi sia tra un acro di terra piantato a tabacco o zucchero, seminato a frumento
o orzo, e un acro della stessa terra lasciato in comune senza che nessuno lo
coltivi, e si troverà che le migliorie apportate dal lavoro
costituiscono di gran lunga la parte più grande del valore[66].
La
produzione di valore, tuttavia, viene pensata da Locke, inizialmente, entro la
seconda relazione fondamentale, quella tra appropriazione e deterioramento. La maggior parte delle
cose, scrive Locke, se non vengono consumate immediatamente, «si perdono,
si rovinano da sé» (if they are not consumed by use, will decay
and perish of themselves), in quanto sono di breve durata[67].
Di conseguenza:
[…] tutto
ciò che uno coltivava e mieteva, conservava e usava, prima che si
danneggiasse, gli spettava per particolare diritto; tutto ciò che uno
recingeva e di cui il suo bestiame poteva nutrirsi e farne uso, anche questo
era suo. Ma se l’erba del suo recinto marciva a terra, o i frutti della
sua coltura andavano a male senza essere raccolti e conservati, questa parte
della terra, nonostante la recinzione, doveva continuare ad essere considerata
incolta (this part of the earth, notwithstanding his enclosure, was still to
be looked on as waste) e poteva diventare possesso di chicchessia[68].
L’estensione
della terra non ha alcun valore senza il corrispondente lavoro. L’unico
limite alla proprietà è, dunque, dato dal principio di deterioramento: «recintare un campo, ma lasciarlo incolto, non lo rende proprietà».
Sarebbe, infatti, «cosa
insensata quanto disonesta far provvista di più di quanto non potesse
usare. […] Costituisce
eccesso rispetto ai limiti della proprietà giusta non l’ampiezza
del possesso, ma il deteriorarsi di ciò che rimane inutilizzato al suo
interno»[69].
Il
principio di deterioramento non è soltanto un limite alla
proprietà, ma anche l’espressione dei vincoli e degli obblighi
propri della legge naturale. Sono proprio questi obblighi, tuttavia, che
vengono, per così dire, neutralizzati.
Ed è qui che si definisce una «nuova forma della legge di
natura» che sostituisce l’originaria formulazione[70].
Secondo
Locke, infatti, occorre introdurre una misura
stabile che assicuri la disciplina dell’occupazione delle terre:
«la messa a frutto delle terre e il giusto impiego di esse costituisca la
grande arte del governo (the increase of lands and the right employing of
them is the great art of government)». Questa stabilizzazione
dell’appropriazione non avviene, tuttavia, con l’istituzione dello
Stato, ma ancora in natura e con un altro meccanismo, che è dato
dall’invenzione della moneta:
E così si giunse all’uso della moneta[71],
qualcosa di durevole che gli uomini potevano conservare senza che si deteriorasse e che per mutuo consenso
poteva essere preso in cambio di beni di sussistenza veramente utili ma deteriorabili[72].
La
moneta rovescia non soltanto le «condizioni originarie» economiche,
ma, soprattutto, la definizione della legge naturale. Essa consente di fingere che nulla in natura sia
deteriorabile, facendo venire meno, in tal modo, la relazione tra proprietà
e utilità (right and conveniency went together:
«avendo diritto su tutto ciò su cui poteva impiegare il suo
lavoro, un uomo non era mai tentato di lavorare più di quanto potesse
usare»). Con la moneta, scrive Locke, «è stato escogitato un
modo con cui uno può legittimamente possedere più terra di quella
di cui può usare il prodotto»[73].
Questo
artificio non ha una funzione soltanto economica,
ma anche più propriamente giuridica.
Esso consente lo “scarto” cui si è ripetutamente accennato:
da un concetto di legge di natura definito attraverso l’idea di vincolo e
di obbligo (mediante il richiamo ad Hooker), si passa ad una definizione della
legge naturale come insieme di diritti
(di diritti di proprietà).
È
vero, pertanto, che «ciò che Locke riuscì sorprendentemente
a fare, fu ricondurre il diritto di proprietà al fondamento del diritto
e della legge naturale, e poi rimuovere i limiti della legge di natura dal
diritto di proprietà»[74].
Eppure questa rimozione non ha
soltanto il senso di legittimare una certa dottrina economica
(l’«appropriazione illimitata»), ma anche quello di
permettere a Locke un’inversione concettuale fondamentale.
Con
la fine del capitolo V, la legge di natura viene identificata essenzialmente
come fondamento di diritti, e non come insieme di doveri. Questo
«spostamento d’accento, dai doveri naturali ai diritti
naturali»[75]
è ciò che separa Locke dalla tradizione del giusnaturalismo
“classico”, ossia dalla concezione della legge naturale a partire
dal dovere (officium). Spostamento
che, tuttavia, si realizza soltanto nel corso della scrittura del Secondo Trattato, in modo implicito ed
in continuità con l’idea di una corrispondenza tra legge di Dio,
legge di natura, legge positiva.
L’ultimo
scarto compiuto da Locke nell’elaborazione del concetto di legge avviene
con l’istituzione del potere legislativo. La funzione della legge positiva, anzitutto, cambia: da mezzo per
consentire «a tutti di conoscere anticipatamente il loro dovere e di sapere la pena per una loro
trasgressione»[76],
essa infatti diviene garanzia dei diritti
naturali dei sudditi.
La
necessità di leggi stabilite e fisse (by established standing laws),
promulgate e rese note al popolo (promulgated and known to the people),
deve essere pensata a partire dal senso politico dell’istituzione del
potere legislativo. Il potere di dare le leggi a tutti, il potere di
governare attraverso una «legge comune stabilita» (a common
established law), è reso disponibile soltanto se si individua il great end di quel potere, il suo fine
ultimo. In Locke, in altri termini, non
sono i diritti a dover essere limiti del potere, ma il potere ad essere
costituito per essere garanzia di quei diritti.
Tutto
ciò implica, tuttavia, una ridefinizione del diritto di resistenza,
dell’appello al cielo, per come era stato pensato nel capitolo III del Secondo Trattato:
Anzi, laddove è
possibile un appello alla legge e ai giudici costituiti, ma il rimedio è
negato da un manifesto pervertimento della giustizia e da una sfacciata
distorsione della legge intese a proteggere o incoraggiare la violenza o le
offese di alcuni uomini o partiti, qui è difficile immaginare altra cosa
da uno stato di guerra (there it is hard to imagine any thing but a
state of war). Poiché ogniqualvolta si usi violenza o si arrechi
offesa (for wherever violence is used, and injury done), anche se viene
dalle mani di chi è designato ad amministrare la giustizia (though by
hands appointed to administer justice), è sempre violenza o offesa (it
is still violence and injury), per quanto dissimulata sotto il nome, le
vesti o le forme della legge il cui fine è proteggere e rendere
giustizia all’innocente mediante un’imparziale applicazione a tutti
coloro che a quella legge sono soggetti[77].
Ai «sofferenti», scrive
Locke, rimane sempre l’appello al cielo (appeal to heaven). Dove
non vi sia una comune autorità chiamata a giudicare le controversie,
l’appello al cielo si pone quale l’unico rimedio possibile a fronte
di ogni minima e più piccola divergenza tra gli uomini: evitare questo
stato di guerra, «è
l’unico grande motivo per cui gli uomini si costituiscono in
società e abbandonano lo stato di natura». Il problema,
però, è che anche nello stato civile può ripresentarsi lo
«stato di guerra», in tutti quei casi in cui saranno le stesse
autorità politiche a trasgredire la legge di natura.
In
realtà, si tratta di due situazioni differenti. Con il passaggio dallo
stato di natura allo stato civile, si assiste infatti ad una neutralizzazione
dell’appello al cielo. La «rivoluzione», scrive Locke, non
avverrà, entro lo stato civile, «per ogni minimo errore
nell’amministrazione della cosa pubblica». Non solo: anche «grandi errori da parte dei governanti, molte
leggi sbagliate e inopportune (many
wrong and inconvenient laws) e
tutti i cedimenti dovuti alla debolezza umana saranno sopportati dal popolo
senza sedizioni o lagnanze»[78].
Il popolo è «più disposto a sopportare che a ristabilire il
suo diritto di resistenza»: «tende a non infiammarsi» (are
not apt to stir).
Il
problema della violazione della legge naturale da parte del potere diviene,
ora, un semplice «inconveniente»[79].
È soltanto quando avrà una universale convinzione, «fondata
sull’evidenza manifesta» (if they have a persuasion ground upon
manifest evidence) che il popolo si ribellerà.
C’è
una possibilità fondamentale, da parte del potere politico, di
trasgredire la legge senza rendere tale violazione visibile, senza
mostrare la trama dell’ingiustizia perpetrata. Possibilità che
è consentita dalla ridefinizione della legge di natura da parte di
Locke, dalla separazione tra il lume naturale e la ragione artificiale,
dall’articolazione del problema della conoscenza e
dell’interpretazione della legge di natura. Il popolo non è in
grado di comprendere l’avvenuta violazione della legge di natura sino a
che essa non gli venga resa espressamente nota.
Si
“sposta”, così, il senso dell’appello al cielo: da
giustificazione teorica della guerra civile contro Carlo I, ad inconveniente da
evitare entro il nuovo assetto di potere cristallizzato dalla
“restaurazione” di Guglielmo d’Orange. Questo cambiamento di
prospettiva interno al discorso di Locke è reso possibile proprio da
quella serie di operazioni che Locke ha svolto sul concetto di legge.
Operazioni che, dietro un’apparente continuità e corrispondenza,
consentono a Locke di separare radicalmente la definizione della legge naturale
definita nei capitoli iniziali del Secondo
Trattato, rispetto a quella della legge positiva, della legge comune
stabilita all’interno dello stato politico.
I
differenti “passaggi” qui presentati non chiariscono compiutamente
il pensiero politico di Locke. Non era, tuttavia, direttamente esso ad
interessarci. Diversamente, è il modo di lavorare, la tecnica
particolare di Locke che ci consente di portare alla luce tutta una serie di
operazioni sottese alla definizione del concetto di legge presente
nell’opera del filosofo inglese.
Locke
definisce la legge come se vi fosse un’identità fondamentale tra i
differenti livelli in cui essa si articola nel corso del Secondo Trattato:
legge di Dio / legge di natura / legge definita dal magistrato («potere
comune di appello») / legge dell’assemblea («legge
positiva»). È sempre la stessa legge, summa ratio, legge che è ciò che la ragione scopre,
ripete Locke, una eternal rule.
Al
contempo, tuttavia, nel procedere da un livello all’altro, vengono
effettuate alcune riscritture. Il concetto di legge viene, così,
articolato secondo una serie di stratificazioni, di spostamenti interni:
Eternal rule:
identità tra legge divina – legge naturale – legge positiva.
1. Primo passaggio: da
insieme di obblighi («nessuno
deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o
negli averi») ad espressione di diritti
(property).
2. Secondo passaggio:
esecuzione individuale della legge di
natura (ciascuno conosce ed esegue la
legge) – obiezione ed “inconvenienti” – ragione
“artificiale” e scoperta
della legge naturale.
3. Terzo passaggio: dio autore/legislatore – magistrato interprete (“potere comune
d’appello”).
4. Quarto passaggio:
legge di natura – legge positiva (modifica del senso politico
dell’“appello al cielo” – cfr. §20-§209, 225,
230 del Secondo Trattato).
[5. Quinto passaggio: la
legge borghese][80].
[6. Sesto passaggio:
obbligazione materiale – obbligazione formale][81].
I
passaggi sopra riassunti mostrano quanto la creazione di un concetto, quale
quello di legge, possa costituire un’operazione complessa, articolata. Si
tratta, in Locke, di una scrittura che ha un particolare ritmo – fatto di
vuoti, spaziature, non-detti –, e che si produce nel corso del testo. La definizione della legge è altra
rispetto al suo concetto. Il concetto
è qualcosa che Locke tende a far passare inosservato, ed a nascondere
entro un sistema di definizioni fondato sulla corrispondenza eternal rule – legge comune.
In
un filosofo come Locke, il concetto di legge non ha alcun senso finché
non si ricostruisce la grammatica che consente di passare da un livello all’altro. È soltanto in questi passaggi
che Locke – articolando determinate domande e risposte politiche – sposta i termini, compie scelte, produce
il concetto di cui ha bisogno.
La
legge, per Locke, è un concetto
teorico, legato all’esigenza, nuova, di assicurare una
giustificazione del potere parlamentare (nell’assetto cristallizzatosi
all’esito della Gloriosa Rivoluzione)[82].
Locke deve pensare nuovi problemi (un nuovo tipo di legittimità del
potere, anzitutto), e lo farà ricorrendo ad un linguaggio già lavorato e significato, al linguaggio del suo
tempo (sia esso, di volta in volta, quello “tradizionale” di Hooker
o quello della rivoluzione inglese[83],
quello del Tew Circle e dei latitudinari[84]
o ancora quello dei “classici”[85]).
Ed è a partire da questa necessità – dall’essere
costretto a formulare la propria scoperta,
a pensare i propri problemi, mediante i concetti già esistenti in quel
momento – che si deve seguire la riflessione teorica di Locke sulla
legge.
C’è
dunque un’arte, del tutto particolare, di passare attraverso i concetti,
di modificare il senso dei termini, di spostare i significati, che Locke pone
in essere. Soltanto essa consente a Locke una certa scrittura della legge,
attraverso la quale articolare una problematica politica moderna, esito dei
processi rivoluzionari del XVII secolo inglese.
Questa
scrittura tende a perdersi nel passaggio a quella che è propriamente la filosofia politica di Locke (e con la
relativa definizione del suo lessico: «liberalismo», «giusnaturalismo»,
«tolleranza», etc.). Essa merita, tuttavia, di essere ritrovata
– lungo il suo divenire, il suo «impensato» –. E questo
è un compito che non spetta alla filosofia o scienza politica né,
tantomeno, alla storiografia, bensì alla filosofia del diritto.
L'article est une réflection sur le
signifié du concept de loi dans la philosophie juridique et politique de
John Locke.
Dans la première partie, nous
analysons le problème de l'interprétation et l'application de la
loi naturelle dans l'état de nature, avec une référence
particulière a les questions soulevées par la «strange
doctrine» de l'exécution individuelle de la loi de la nature.
Ensuite est abordé la relaction entre la loi de
nature, identifié comme «summa ratio» et « eternal
rule», et les tâches connexès, selon Locke, au pouvoir
judiciaire. Enfin, le document analyse les transformations internes à la
notion de droit qui ont lieu dans la transition de la loi naturelle à la
«civil law».
[Per la
pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è
applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni
articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].
[1] Cfr. L. Strauss,
What is Political Philosophy,
Glencoe, Free Press, 1959; trad. it. a cura di P.F. Taboni, Che cos’è la filosofia
politica? Scritti su Hobbes e altri
saggi, Urbino, Argalia, 1977, 36;
J. Rawls, Lectures on the History of Political Philosophy, 2007; trad. it. di
V. Ottonelli, Lezioni di storia della
filosofia politica, Milano, Feltrinelli, 2009, 111 ss.
[2] C.H. McIlwain,
Constitutionalism: Ancient and Modern,
New York, Cornell University Press, 1947; trad. it. a cura di N. Matteucci, Costituzionalismo antico e moderno,
Bologna, Il Mulino, 1990, 174.
[3] Cfr. G. Deleuze -
F. Guattari, Qu'est-ce que la
philosophie?, Paris, Les éditions de Minuit, 1991; trad. it. di A.
De Lorenzis, a cura di C. Arcuri, Che
cos’è la filosofia, Torino, Einaudi, 2012, X.
[4] J.P. Sartre,
Questioni di metodo, in Id., Critica della ragione dialettica - I. Teoria degli insiemi pratici,
I, trad. it. di P. Caruso, Milano, Il Saggiatore, 1963, 18.
[5] L. Althusser,
Il materialismo aleatorio (1986), in Id., Sul materialismo aleatorio, trad. it. a cura di V. Morfino e L.
Pinzolo, Milano, Mimesis, 2006, 121.
[6] Cfr. L. Althusser,
Sul giovane Marx (questioni di teoria)
(1960); trad. it. a cura di M. Turchetto, in L.
Althusser, Per Marx, Milano,
Mimesis, 2008, 80. Cfr. anche L.
Althusser, Freud e Lacan
(1974), in Id., Freud e Lacan, trad. it. a cura di C.
Mancina, Roma, Editori Riuniti, 1977, 3-8.
[7] Cfr. L. Strauss,
Persecution and the Art of Writing,
New York, The Free Press, 1952; trad. it. di G. Ferrara e F. Profili, Scrittura e persecuzione, Venezia,
Marsilio, 1990. Su Locke, si veda in particolare M.P. Thompson, Significant Silences in Locke’s Two Treatises of Government:
constitutional History, Contract and Law, in «The Historical
Journal», 31, 2, 1987, 275-294.
[8] M. Blanchot,
Faux pas, Paris, Gallimard, 1943;
trad. it. di E. Klersky Imberciadori, Passi
falsi, Milano, Garzanti, 1976, 88.
[9] G. Deleuze, Sulla filosofia, in Id., Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Macerata, Quodlibet, 2000,
181.
[10] Cfr. M. Heidegger,
Der Satz vom Grund , Pfullingen,
Günther Neske, 1957; trad. it. a cura di G. Volpi, Il principio di ragione, Milano, Adelphi, 1991, 125.
[11] K. Marx, Il Capitale, Libro primo, I, trad. it. a
cura di A. Macchioro e B.Maffi, Torino, Utet, 1974, 125.
[12] Il divenire del concetto
non è la storia del concetto.
I concetti, propriamente parlando, non
hanno storia (R. Koselleck): è la storia, piuttosto, ad essere un concetto. Un concetto non ha una storia, ma inizia, prosegue o
termina una storia. Il concetto ha però un «divenire»: un
concetto si “lancia”, si “getta”, e questo lancio
è una serie di urti, di incontri, di reazioni, di strategie.
[13] L. Strachey,
Queen Victoria (1921); trad. it. di
S. Caramella, La Regina Vittoria,
Milano, Mondadori, 1994, 200.
[14] Così, diffusamente, in J. Locke, Essays on the
Law of Nature (1660-1664); trad. it. a cura di M. Cristiani, Saggi sulla legge naturale, Roma-Bari,
Laterza, 2007, 61-68. Sulla legge divina in Locke, cfr., per
un’introduzione, F. Oakley –
E.W. Urdang, Locke, Natural Law
and God, in «Natural Law Forum», 2, 1966, 92-109; J. Waldron, God, Locke, and Equality. Christian Foundations in Locke’s
Political Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 2002; A.J. Simmons, The Lockean Theory of Rights, Princeton, Princeton University
Press, 1992, 26-36.
[15] J. Locke, An Essay Concerning the True Original, Extent, and End of Civil
Government, trad. it. di A. Gialluca, Il
Secondo Trattato sul Governo, 2a ed., Milano, Rizzoli, 2007, II, 6, 67.
[16] Cfr., ex multis, W. Von Leyden, Hobbes
and Locke, The Politics of Freedom and Obligation, London, Macmillan, 1982;
P. Coby, The Law of Nature in Locke's Second Treatise: Is Locke a Hobbesian?,
in «The Review of Politics», 49, 1, 1987, 3-28; T. Sorell, Hobbes, Locke and the State of Nature, in S. Hutton – P. Schuurman (a cura di), Studies on Locke: sources, contemporaries,
and legacy. In Honour of G.A.J. Rogers, Dordrecht, Springer, 2008, 27-44.
[18] Cfr. L. Strauss, Natural Right and History, Chicago, University of Chicago Press,
1953; trad. it. di N. Perri, Diritto
naturale e storia, Genova, Il melangolo, 1990, 171. Per la lettura di
Hooker da parte di Locke, cfr. G. Bull,
What Did Locke Borrow from Hooker?,
in «Thought», 7, 1932, 122–35; E. de Jonghe, Locke and
Hooker on finding the law, in «Review of metaphysics», 42,
1988, 301-325; A.S. Rosenthal, Crown under law : Richard Hooker, John
Locke, and the ascent of modern constitutionalism, Alexander–Lanham,
Lexington Books, 2008; L.W. Gibbs,
The ‘judicious’ Mr. Hooker
and the ‘devious’ Mr. Locke: John Locke’s use of Richard
Hooker in his Second treatise of government, in J.K. Stafford (a cura di), Lutheran and Anglican: essays in honour of Egil Grislis, Winnipeg,
St. John’s College Press, 2009.
[21] Per un elenco dei “contenuti” della legge
naturale in Locke, cfr. J.W. Yolton,
Locke on the Law of Nature, in
«Philosophycal Review», 67, 1958, 487-488.
[26] Cfr., per una introduzione, W. von Leyden, Locke’s
strange doctrine of punishment, in R.
Brandt (a cura di), John Locke:
Symposium Wolfenbüttel 1979, Berlin - New York, W. de Gruyter, 1981,
113-127. Si veda anche, da ultimo, I.
Belloni, Una dottrina «assai
strana». Locke e la fondazione teologico-deontologica dei diritti,
Torino, Giappichelli, 2011.
[29] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit.,
III, 17, 85. Cfr., sul punto, A.
Tuckness, Retribution and
restitution in Locke’s theory of punishment, in «Journal of
politics», 72, 2010, 720-732; A.
Dilts, To kill a thief: punishment,
proportionality, and criminal subjectivity in Locke’s Second treatise,
in «Political Theory», 40, 2012, 58-83.
[31] Per una critica, differente da quella qui proposta, della
“strana dottrina”, cfr. J.G.
Murphy, A Paradox in Locke’s
Theory of Rights, in «Dialogue», 8, 1969, 256-271.
[34] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 10. La
citazione di Locke è tratta da Giovenale, Satire XIII.2-3.
[36] Cfr., ad esempio, J.
Locke, Saggio sulla tolleranza;
trad. it. in Scritti sulla tolleranza,
a cura di D. Marconi, Torino, Utet, 2005, 89.
[37] Cfr., sul punto, A. Tuckness, Locke and the Legislative Point of View. Toleration, contested
Principles, and the Law, Princeton, Princeton University Press, 2002,
127-136; K. Shimokawa, Locke’s Concept of Justice, in P.R. Anstey (a cura di), The Philosophy of John Locke: New
Perspectives, London, Rouledge, 2003, 61-85; J. Varela Suanzes-Carpegna, Governo e partiti nel pensiero britannico (1690-1832), Milano,
Giuffré, 2007, 1-18.
[39] A. Kojève,
La notion de l’autorité
(1942), Paris, Gallimard, 2004; trad. it. a cura di M. Filoni, La nozione di Autorità, Milano,
Adelphi, 2011, 62-71.
[40] In particolare, la fine di una legittimazione del potere
fondata sull’autorità del
padre implica due “scarti” essenziali: a) la ridefinizione della
legittimazione dell’autorità del Re – e della monarchia
ereditaria – attraverso la teoria del potere esecutivo, soprattutto con
riferimento al concetto di prerogativa
(J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., XII, XIII, XIV); b) il
passaggio dal potere paterno (paternal
power) al potere parentale (parental
power). Passaggio che non si fonda sul riconoscimento della parità
dei genitori nel «governo» dei figli (la soggezione del minore,
infatti, places in the father a temporary
government), ma sull’assenza in
natura di un titolo, clear
appointment, «diritto incontestabile» che sia in grado di
fondare una relazione di obbedienza tra un uomo e l’altro.
[42] A. Kojève,
La nozione di Autorità, cit.,
65: «il Giudice ha vera Autorità solo nella misura in cui si
oppone (all’occorrenza) alle altre tre Autorità. (Se i Padri, Capi
e Signori fossero “giusti” per definizione o per
“essenza”, non vi sarebbe Autorità distinta del Giudice; e se il Giudice non potesse opporre la sua
“giustizia” alla volontà dei Padri, Capi e Signori, non
avrebbe alcuna “autorità”)».
[44] Cfr. J.N. Billaud-Varenne, Le peintre politique, ou tarif des
operations actuelles, 1789, 37: «La première vertu de tout
Législateur est la prévoyance. Il commetra de grand erreurs
s’il part du présent pour juger l’avenir». Cfr. M. Richir, Billaud-Varenne conventionnel législateur: la vertu
égalitaire et l’équilibre symbolique des simulacres, in
«Le Cahier (Collège international de philosophie)», 7, 1989,
93-110; G. Lafrance, La figure du Législateur et
l’idéal politique jacobin, in «Études
françaises», 25, 2-3, 1989, 89-99.
[45] Varrebbe la pena, allora, seguire le ulteriori serie di
“spostamenti” e scarti che Locke sottende nel passaggio dalla
presentazione del rapporto tra legge divina/legge naturale negli scritti a
carattere religioso (come La ragionevolezza del cristianesimo)
alla discussione di quel rapporto negli scritti politici. Cfr., per un’introduzione, P.C. Myers, Locke on reasonable Christianity and reasonable Politics, in D. Kries (a cura di), Piety and Humanity: Essays on Religion and
Early Modern Philosophy, Oxford, Rowman&Littlefield, 1997, 145-180.
[46] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 6.
Cfr. anche p. 5: «Questa legge di natura può dunque essere
descritta come disposizione della volontà divina, conoscibile per mezzo
del lume naturale dell’intelletto, indicante ciò che è
conforme o difforme dalla natura razionale, e per ciò stesso espressa
con la formulazione di un ordine o di un divieto».
[47] G. Zarone, John Locke. Scienza e forma della politica,
Bari, De Donato, 1975, 62. Varrebbe la pena, in questo senso, mostrare come il
concetto di Dio sia funzionale ad un’operazione essenziale: quella di
cancellare la domanda sull’identificazione e la legittimazione del potere
autore della legge. Affermare che Dio
è l’autore della legge, significa per Locke abolire ogni domanda
sull’autorità e la funzione del legislatore.
[50] J. Locke, An Essay concerning Human Undestanding (1690); trad. it. Saggio
sull'intelligenza umana,
a cura di C. Pellizzi, Roma-Bari, Laterza, 1972, 2a ed., I, II, 13. Sulla mente
come “tabula rasa”, cfr., da ultimo, R. Duschinsky, Tabula
rasa and human nature, in «Philosophy», 87, 2012, 509-529.
[56] Cfr., sul punto, F.
Fagiani, Nel crepuscolo della
probabilità. Ragione ed esperienza nella filosofia sociale di John Locke,
Napoli, Bibliopolis, 1983, 29-47.
[57] J. Locke, La ragionevolezza del Cristianesimo
(1695); trad. it. a cura di M. Sina, in J.
Locke, Scritti etico-religiosi,
Torino, Utet, 2000, 414.
[58] G. Zarone, John Locke. Scienza e forma della politica,
cit., 61. Cfr. anche 62: «Un potere che non sia conoscibile non esiste
come potere, perché non è in grado di creare obblighi, ed è la conoscenza che obbliga nella
misura in cui rende effettivo quel potere».
[60] Cfr. E. Coke,
XII Report, citato in traduzione
italiana in N. Matteucci (a cura
di), Antologia dei costituzionalisti
inglesi, Bologna, Il Mulino, 1962, 56: «Allora il Re [Giacomo I Stuart] disse che pensava che la legge fosse fondata sulla ragione, e che anche
lui ed altri possedevano la ragione al pari dei giudici. Al che fu da me
risposto, che era vero che Dio aveva dotato Sua Maestà di preclara
scienza e di grandi doni naturali, ma che Sua Maestà non era erudito
nelle leggi del suo regno; e che le cause riguardanti la vita o il patrimonio o
i beni e le fortune dei suoi sudditi non eran cose da decidersi in base alla
ragione «naturale» ma in base alla ragione
«artificiale» e al giudizio della legge […]. Del che il Re si
sentì gravemente offeso, e disse che allora egli era sottoposto alla
legge, e che era tradimento affermare una tal cosa». Sulla “ragione
artificiale” in Coke, cfr. J.
Beauté, Un grand juriste anglais, Sir Edward Coke (1552-1634):
ses idées politiques et constitutionnelles, Paris, PUF, 1975; A.D. Boyer, Sir Edward Coke and the
Elizabethan Age, Stanford, Stanford University Press, 2003, 83-107.
[61] T. Hobbes, Dialogo fra un filosofo ed uno studioso del
diritto comune d’Inghilterra; trad. it. in Opere politiche di Thomas Hobbes, a cura di N. Bobbio, I, Torino,
Utet, 1959, 2a ed., 397.
[62] Diversa sarà, invece, la storia della recezione
– e delle reinterpretazioni – di Coke e Locke nella cultura degli
Stati Uniti d’America, su cui si veda, in particolare, J. Dunn, The Politics of Locke in England and America in the eighteenth Century,
in J.W. Yolton (a cura di), John Locke: Problems and Perspectives,
Cambridge, Cambridge University Press, 1969, 45-80; G.L. McDowell, The
Language of Law and the Foundations of American Constitutionalism,
Cambridge University Press, 2010, 43-50, 82-168.
[63] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit.,
XIX, 223, 367. Sulla “restaurazione” di Guglielmo
d’Orange ed il pensiero politico di Locke, cfr., in particolare, R. Ashcraft – M.M. Goldsmith, Locke, revolution Principles, and the
Formation of Whig Ideology, in «The Historical Journal», 26,
1983, pp. 773-800; C.D. Tarlton, “The Rulers now on Earth”:
Locke's Two Treatises and the Revolution of 1688, in «The Historical
Journal», XXVIII, 1985, 279-298; L.G.
Schwoerer, Locke, Lockean Ideas,
and the Glorious Revolution, in «Journal of the History of
Ideas», LI, 1990, 531-548; J.G.A.
Pocock, The Significance of 1688:
Some Reflections on Whig History, in R.
Beddard (a cura di), The Revolutions of 1688: the Andrew Browning
Lectures, 1988, Oxford, Clarendon Press, 1991, 271-292.
[64] Cfr., sul punto, K. Olivecrona, Appropriation in the State of Nature. Locke on the Origin of Property,
in «Journal of the History of Ideas», XXXV, 1974, 663-670; J. Tully, A Discourse on Property, John Locke and his Adversaries, Cambridge,
Cambridge University Press, 1980; D.C.
Snyder, Locke on Natural Law and
Property Rights, in «Canadian Journal of Philosophy», 16, 4,
1986, 723-750.
[66] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit.,
V, 40, 115. Cfr., sul punto, C.B.
Machpherson, Locke on Capitalist
Appropriation, in «The Western Political Quarterly», 4, 4,
1951, 550-566; K.I. Vaughn, John Locke and the Labor Theory of Value,
in «Journal of Libertarian Studies», 2, 4, 1978, 311-326; W. Dolfsma, The social Construction of Value: Value Theories and John Locke’s
Framework of Qualities, in «European Journal of the History of
Economic Thought», 4, 1997, 400-416.
[71] Il carattere ideologico
– ossia «onnistorico», privo
di storia –
dell’introduzione della moneta è implicito nell’idea di
Locke secondo cui il lavoro produce valore (value).
La moneta, in altri termini, non
sopraggiunge – come Locke vuole fare intendere – in una
determinata fase dello stato di natura, in quanto la stessa nozione di value (valore di scambio) la presuppone.
Non c’è, propriamente, una «storia naturale della
proprietà», in quanto lo
stato di natura non ha storia, perché l’ideologia non ha storia.
[74] C.B. Macpherson, The Political Theory of
Possessive Individualism: from Hobbes to Locke, London, Duckworth, 1962; trad. it. Libertà
e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria
dell'individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Milano, Isedi, 1973, 231.
[80] Di questo “quinto passaggio”, di questo
ulteriore scarto, non si è in tale sede trattato, in quanto non è
presente nel Secondo Trattato sul Governo,
ma soltanto accennato nel Saggio
sull'intelligenza umana, II, XVIII, 7, cit., 391 ss., ove Locke distingue
tra legge divina (peccati – doveri), legge civile (delitti) e legge dell’opinione pubblica o
reputazione (e, nella prima edizione, legge
filosofica). Su tale distinzione ha insistito soprattutto R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag
zur Pathogenese der bürgerlichen Welt,
Freiburg-München, Karl Alber, 1959; trad. it. Critica illuminista e crisi della
società borghese,
Bologna, Il Mulino, 1972, 70-77.
[81] Anche questo aspetto non è presente nel Secondo Trattato sul Governo, ed esula,
pertanto dalla presente analisi. La distinzione, del resto, attiene –
più che alla definizione del concetto di legge – al rapporto tra
coscienza individuale ed autorità della legge. Cfr., sul punto, S. Goyard Fabre, John Locke et la raison raisonnable, Paris, Vrin, 1986, 66-74; M. Merlo, La legge e la coscienza. Il problema della libertà nella
filosofia politica di John Locke, Milano, Polimetrica, 2006.
[82] È la fine della guerra civile che, in questo senso,
implica la necessità, per Locke, di ricostituire un discorso giuridico
parlamentare, ri-codificando sul
piano della teoria del diritto il contro-discorso
storico di opposizione alla Corona
(ancora presente in Coke). Cfr., sul punto,
M. Foucault, Il faut
défendre la société, Paris, Seuil-Gallimard, 1997; trad.
it. a cura di M. Bertani e A. Fontana, “Bisogna
difendere la società”, Milano, Feltrinelli, 2010, 2a ed.,
78-98.
[83] Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government,
Princeton, Princeton University Press, 1986; H.J.
Berman, Law and Revolution, II:
The Impact of the Protestant Reformations on the Western Legal Tradition,
Harvard University Press, 2006, 2a ed., 231-269.
[84] Cfr., sul punto, H.R. Trevor-Roper, The Great Tew Circle, in Id.,
Catholics, Anglicans and Puritans. Seventeenth
Century Essays, London,
1987, 166-230; J. Marshall, John Locke and Latitudinarianism, in R. Kroll – R. Ashcraft – P.
Zagorin (a cura di), Philosophy,
Science and Religion in England, 1640-1700, Cambridge, Cambridge University
Press, 1992, 253-282; W. Polinska,
John Locke, Christian doctrine and
Latitudinarianism, in «Zeitschrift für neuere
Theologiegeschichte», 6, 1999, 173-194; M.
Micheletti, John Locke, i
platonici di Cambridge e i latitudinari: la critica alla superstizione e al
fanatismo e il problema della tolleranza religiosa, in F. Rossi (a cura di), Cristianesimo, teologia, filosofia. Studi in
onore di Alberto Siclari, Milano, Franco Angeli, 2010, 265-284.