LA CITTÀ DEI
DIRITTI: UTOPIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA
Presidente emerito della
Corte Costituzionale
Possiamo intendere per
Città dei diritti la città della civiltà europea, dato che
nessun’altra esperienza di organizzazione della vita umana in altre aree
del pianeta utilizza il primato del diritto. Proviamo a dare significati a
questa formula di una utopia. La Città può essere la nostra o
un’altra, reale o ideale. E’ comunque un luogo, che se
si dà il nome dei diritti, offre una condizione di vita comune ordinata
appunto dai diritti dei suoi abitanti e cittadini.
Ebbene, questa utopia non
sarebbe così attiva nel costringerci a modellare la ben diversa
realtà di disordini e conflitti in cui si svolge la storia delle
comunità umane, se non avessimo alle nostre spalle una esperienza
concreta di una società e di uno Stato, quale fu quella del popolo
romano. Non del popolo d'Israele, non dei popoli greci, da cui pure la nostra
civiltà dipende. Israele ebbe il culto della Legge di Mosè, dieci
precetti dettati da Dio, di cui otto di divieto. I Greci ebbero Legislatori
illuminati, come Solone, e si fecero l’idea del nomos come il comando di un re, nomos
panton basileus. A Roma, nei millequattrocento anni che vanno da Romolo a
Giustiniano, ci attende però tutt’altro che un paesaggio uniforme
di norme, di parole, di concetti. Proviamo a scandire. Se vi riusciremo
correttamente, allora avremo di quella civiltà l’immagine
esemplare di una Città dei diritti, quale il mondo umano non
sperimenterà mai più.
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I Romani
dell’età arcaica usavano la parola ius, retaggio di un suono che nella primordiale lingua comune ai
popoli indo-europei indicava una zuppa di diversi vegetali, fondamento della
loro dieta. Una simile miscela di ingredienti eterogenei doveva tanto colpire
la immaginazione di quei primitivi, che dalla cosa quel suono passò a
significare una idea, quella di una molteplicità che si unifica: ossia,
la coesione di una società umana, tratta dagli individui in solitudine,
dai gruppi in conflitto nella lotta per la sopravvivenza. Ecco perché
quel termine non ebbe da subito contenuti determinati, se non quello del suo
risultato finale, l’ordine, la pace sociale. Quando nel V secolo a.C. si
composero le XII Tavole, ogni precetto si concludeva con la clausola ita ius esto, “e questo sia ius”, cioè
l’ordinata vita della nostra città. Ius dunque non un a priori, un comando come per i Greci, un divieto
come per gli Ebrei, ma qualcosa che andasse cercato, scoperto nella sua
idoneità a conservare l’eguaglianza di vita tra i cittadini.
Di qui la necessità
che il ius andasse detto volta a
volta da chi aveva il supremo potere politico nella comunità. Ci si
stupisce che la posizione costituzionale dei maggiori magistrati repubblicani,
eredi del re arcaico, si esprimesse nell’endiadi imperium iurisdictio. Quale offesa alla nostra moderna ideologia
dello Stato di diritto a poteri indipendenti, il governo da una parte, la
giurisdizione dall’altra! Eppure solo consoli e pretori potevano sedare e
ordinare le liti tra i cittadini, che abbandonate all’autodifesa privata
avrebbero fatto deflagrare in guerre civili da faide e vendette la
comunità. E la iuris dictio
non fu neanche nella Repubblica quello che era stata nel regno. Il re, un
delegato dei capi delle famiglie, dirimeva i conflitti. I magistrati
repubblicani li traducevano in una loro rappresentazione scenica e rituale,
l’actio, la stessa parola per
la recitazione teatrale e per quella giudiziaria. In una fase indipendente un
giudice scelto dalle parti decideva nel merito. Ma intanto la iurisdictio aveva evitato
l’attentato alla pace sociale.
Ma non bastò. I
cittadini volevano vivere aequato iure,
non con un ius detto volta per volta
da chi aveva l’imperium. E per
questo fine ulteriore di una conoscenza
preventiva del ius occorreva una
legge. Di tutte le etimologie di quest'altro breve suono, lex, quella più accreditata, tramandataci da S. Agostino,
è quia a legendo. La legge
è quel che si legge. Finalmente il ius
è tratto dal suo segreto, detto caso per caso dall’autorità
del potere, conservato in formulari sacerdotali, è ora conosciuto
perché scritto nelle tavole esposte al popolo, o nella parete imbiancata
del tribunale del pretori, che continuiamo a chiamare senza più capirne
il perché album. Ma se il ius si fa notizia pubblica nella lex e nell’edictum, ne derivano davvero diritti certi dei cittadini? Qui la
sovrapposizione del moderno sapere europeo sulle vicende
dell’antichità ci ha condotto ad un equivoco. Abbiamo immaginato
che il diritto in Roma abbia generato al plurale iura, i diritti soggettivi, come nel mondo giuridico europeo. Ma iura sono poteri privati protetti da actiones, azioni giudiziarie tipizzate,
non diritti soggettivi. Il ius, come
ancora una volta fraintendiamo noi moderni, non è il diritto oggettivo,
l’ordinamento in sé compiuto. Il ius era una creazione quotidiana della interpretazione dei
giureconsulti. Una ars, nel senso
propizio di quest’altro breve soffio, libera attività
intellettuale di nobili, e poi di equestri, dunque di classe dirigente, che
traducono le memorie della comunità in riflessione razionale e morale. E
nel II secolo d.C. si dà la più alta definizione del ius, ars
boni et aequi. Il diritto dunque, non comando, non atto di autorità,
ma scienza di ciò che è bene e insieme giusto. Potere e scienza
mirano adesso insieme a fare del diritto una scienza della giustizia.
Quando i moderni
comparatisti riconoscono alle famiglie di civil Law e common Law concezioni del
diritto che conducono a realizzare giustizia, essi con varia consapevolezza
ricapitolano la vicenda romana. Che tuttavia va indagata ancora nella sua
ulteriore evoluzione. Quando i giuristi romani, coltivatori di quella scienza
della giustizia, si estinsero, il diritto fu lasciato nelle mani del potere
imperiale, cioè dello Stato. Prima di allora se ne poteva parlare come
di una creazione della società, i giuristi, pur classe dirigente e solo
tardi burocratica, restando espressione della società. Prova ne è
ch’essi marginalmente si occuparono di diritto pubblico, tramandando
l’idea che il ius dei Romani
sia stato essenzialmente se non del tutto diritto privato. Dopo i giuristi,
l’unico legislatore e interprete è l’imperatore, anche a
costo di fare uscire dalla sua bocca le frasi delle opere a lui lasciate e da
lui raccolte dagli antichi giureconsulti.
Ma a questo punto esce di scena
anche quel soffio monosillabico, ius.
Le lingue romanze eredi del latino introducono diritto, derecho, drept, droit, wrigt, Recht. Che cosa è accaduto? Nel
VI secolo d.C., che è il secolo di Giustiniano, senza la cui
compilazione forse non avremmo notizia alcuna, se non archeologica, del diritto
romano, Gregorio di Tours usa per la prima volta directum in luogo di ius.
Questa nuova e fortunata parola è una traduzione o una rivoluzione? Directum
ha parentele con una metafora adoperata da Giustiniano, della via aperta e
illuminata in cui egli ambì di disporre tutto il patrimonio dei mille e
quattrocento anni dell’esperienza giuridica dei Romani, da Romolo a lui,
traendolo dalla incertezza e contraddizione dei sentieri oscuri e contorti, il trames confusus delle dispute dei giuristi. Nel mondo cristiano la
concezione della giustizia come virtù personale dovette favorevolmente
accogliere la mutazione del diritto in una notizia certa, di guida dei
comportamenti individuali nella previsione del lecito e dell’illecito,
del giusto e dell’ingiusto. Non c'è continuità tra il ius dei Romani e il diritto degli
Europei. Di mezzo c’è la interiorizzazione cristiana della
giustizia e la certezza delle regole poste dallo Stato.
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In piena età moderna,
Kant immaginando, nella “Pace perpetua”, un diritto cosmopolitico, in questo, a differenza dei diritti dei
singoli Stati, riconosce l’avvento del diritto come potere supremo.
Ma come accade alle utopie
dei filosofi, proprio da allora, alla fine del XVIII secolo, gli Stati europei
cominciarono a darsi codificazioni di diritti nazionali, per superare le
criticità cui era giunto il diritto romano comune europeo, soprattutto
per la massa non più dominabile delle opere dei giuristi e la incertezza
delle opiniones doctorum. I codici,
figli del razionalismo illuministico, conservarono logica e istituti della
tradizione romanistica, cui la scienza giuridica tedesca aveva intanto
applicato la duplice attenzione della Scuola storica e della Pandettistica, prima
di piegarsi anch’essa alla codificazione civile dell’Impero di
Germania entrata in vigore il 1° gennaio del 1900, salutata dalla Juristen Zeitung con il trinomio
“un popolo, uno Stato, un diritto”, che è una sorta di addio
al diritto cosmopolitico di Kant. Dal codice di Federico di Prussia del 1750, e
più incisivamente dal codice Napoleone del 1804, ogni Stato europeo si
è dato un diritto legiferato nazionale, diversificandosi con le proprie
peculiarità l’uno rispetto all’altro, tanto che la metafora
della Città dei diritti diventa impropria se non la si intenda nella
versione plurale delle tante città quanti sono gli Stati. Terra di molti
Stati dicevano i Greci della propria regione geografica e culturale, vivendo
nel modello politico della polis,
città-Stato. Con qualche analogia, l’Europa può dirsi il
continente di molti Stati, e in età moderna dei molti diritti.
Tuttavia, se i
comparatisti unificano nella famiglia di civil Law i diritti dei paesi
continentali, distinguendoli dalla famiglia anglo-americana di common Law, la
giustificazione sta nella comune discendenza genetica del civil Law dal diritto
romano. Ma quale diritto romano? Quello giustinianeo, quello della tradizione
romanistica, quello dei dottori del diritto comune europeo, quello della scienza
pandettistica. Quale che sia, è in quell’anelito al recupero
– oltre gli Stati – dell’antica unità del ius,
che va identificata oggi l’utopia della Città dei diritti, che
è sempre più città europea.
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Ma nella utopia della
Città europea dei diritti porremo l’ars boni et aequi dei sapienti o la legge dei potenti? Forse
né l’una né l’altra. La Città dei diritti ha
come suo residuo significato l’uguaglianza dei cittadini. Questa è
la frontiera su cui l’utopia può ancora avere un suo attivo compito
storico. Lo scenario attuale è quello della disuguaglianza nella
società, in quella affluente come in quella emergente. Disuguaglianza
nella ricchezza e nella povertà, nella salute e nella malattia, nella
istruzione e nell’analfabetismo, nel lavoro e nella
disoccupazione, nel potere e nella sudditanza, nel sesso e nelle religioni,
nelle formazioni sociali, nelle generazioni, nelle appartenenze etniche e
culturali. Insomma siamo al punto, anche rispetto ad una storia non- remota,
come quella delle nazioni europee di due secoli fa, che non si può
più riconoscere una Città dei diritti in una città di
diseguali. Ecco perché il termine diritto evoca il suo contrario, il
conflitto. Ecco perché la politica, chiamata da sempre a guidare le
comunità, annaspa miserevolmente, nel tentativo di nascondere i
conflitti, anziché di dirimerli. Non è senza profondo significato
che gli ultimi grandi partiti politici sono stati quelli guidati da ideologie
nate nell’età del conflitto sociale. La polverizzazione di quel
conflitto nel disordine degli interessi particolari ha disorientato la politica
dal suo fine, l’eguaglianza nelle condizioni di vita dei cittadini,
perché a ciascuno di essi corrispondano i
rimedi dei diritti, non gli strumenti criminali della corruzione e della
violenza.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].