LA RESPONSABILITÀ DA FATTO
ILLECITO NEL DIRITTO MUSULMANO: IL DANNO PATRIMONIALE
Università di Sassari
SOMMARIO: 1. Il fatto illecito come fonte delle obbligazioni. – 2. Gli elementi costitutivi del fatto illecito:
l'ingiustizia del danno. – 3. Continua. Il nesso causale.
– 4. Continua. L'elemento psicologico dell'illecito.
– 5. I criteri classificatori del danno.
– 6. Il danno patrimoniale. Il furto (sariqah). – 7. Continua. La rapina (gasb
o ghasb).
– 8.
Continua. Il danneggiamento (Ta'addī). – Abstract.
1. – Il fatto illecito come fonte delle obbligazioni
Agli occhi degli occidentali, ed
in particolare degli europei continentali, la trattatistica di diritto
musulmano si presenta estremamente disorganica, essendo spesso esposta in forma
casistica, nonché caratterizzata dalla commistione tra diritto e
religione. Per questa ragione è arduo, se non impossibile, individuare
nella giurisprudenza coranica (fiqh) dei principi generali di carattere prettamente giuridico[1]. Lo
studio del diritto musulmano da parte degli occidentali è
inevitabilmente viziato dal tentativo di trovare un sistema giuridico simile a
quello del diritto romano, con le sue categorie, i suoi concetti ed i suoi
istituti. Al riguardo, parte della dottrina ha avvertito che bisogna sforzarsi
di ragionare come i dottori musulmani, cercando di liberarsi dai
condizionamenti romanistici[2]. Solo
così facendo si riuscirà a ricostruire le teorie contenute nel fiqh
che pure oscillano tra il campo culturale-religioso e quello giuridico-morale.
E proprio il carattere ibrido del fiqh rischia di porre l'interprete
occidentale di fronte a dei concetti il cui principale profilo di
problematicità risiede nell'essere estremamente ampi[3].
Ai fini dell'analisi di un
argomento prettamente tecnico-giuridico e circostanziato come la
responsabilità da fatto illecito, è parso opportuno avvalersi di
un parallelismo tra il sistema culturale e giuridico dell’Europa
continentale, e quello islamico. Tale impostazione viene unanimemente
utilizzata nella letteratura occidentale, o comunque espressa in una delle
lingue europee[4].
Sulla scorta di simili premesse,
non può stupire che il concetto di patrimonio (māl) nel diritto islamico sia
diversa da quella generalmente recepita in Europa. Esso, infatti, si presenta
come una unità composta di una serie di diritti patrimoniali (huqūq māliyyah)
priva di distinzione tra diritti reali ed obbligazioni[5].
Anzi, secondo la migliore dottrina, nel diritto musulmano non esisterebbe una
teoria generale delle obbligazioni, né un concetto ampio di obbligazione
così come inteso in senso romanistico[6].
Cionondimeno, non è sconosciuto ai giuristi musulmani la
diversità tra il rapporto che l'uomo ha con la cosa (haqq muta'alliq
bi 'l-'ayn) ed il rapporto che intercorre tra due persone (haqq
muta'alliq bi 'd-dimmah). All'interno di quest'ultimo si distingue
l'obbligazione, o meglio il vincolo obbligatorio (dayn), dal suo oggetto
(ayn)[7].
Le
obbligazioni possono sorgere da dichiarazione di volontà (tasarruf
qawlī) o da fatto illecito (tasarruf fi'lī)[8].
L'atto lecito può consistere tanto in una dichiarazione unilaterale (wa'd)
quanto in un contratto ('aqd)[9]. Le
obbligazioni da fatto illecito, invece, sono quelle dove taluno cagiona
intenzionalmente ad altri un danno (darar) ingiusto, obbligandolo al
risarcimento (gurum)[10].
2. –
Gli elementi
costitutivi del fatto illecito. L'ingiustizia del danno
Il
termine “responsabilità” non trova un equivalente nella
dottrina musulmana, così come manca l'elaborazione di una teoria
generale unitaria[11].
Tuttavia, il fatto illecito musulmano presenta, prima facie, delle
analogie strutturali con il nostro illecito aquiliano. Esso, infatti, si
compone di elementi oggettivi ed elementi soggettivi: tra i primi si annoverano
il danno, il nesso causale tra comportamento (o omissione) e fatto dannoso,
nonché l’ingiustizia del danno (zulm). Tra i secondi,
invece, rientra la volontà di compiere l'azione dannosa, che a sua volta
può consistere sia nel dolo che nella colpa.
Il
danno è ingiusto o illegittimo (zulm) quando lede la sfera
giuridica altrui senza una legittima ragione giustificatrice. Si individuano
tre possibili scriminanti: la più rilevante consiste nell'aver compiuto
il fatto nell'esercizio del proprio diritto, conformemente al principio romano
secondo il quale damnum non facit, nisi qui facit quod ius non habet facere.
Nel particolare caso dell'abuso del diritto, è stato osservato che un
diritto può essere esercitato con un'azione, un'omissione o
l'attivazione processuale del titolare del diritto verso un'altra persona.
Sotto
la vigenza del diritto musulmano, analogamente a quanto accade nella tradizione
occidentale[12],
i tre comportamenti appena indicati possono far sorgere una
responsabilità e giustificare la condanna alla riparazione del danno
causato, ancorché dette attività appaiano come l'esercizio di un
diritto, ed in sé considerate non abbiano niente di illecito[13].
Tuttavia,
giova ricordare che il diritto musulmano non è strutturato in modo sistematico,
e pertanto non conosce l'elaborazione di principi generali. Anche in questo
frangente, è stato messo in rilievo che i dottori musulmani non si sono
preoccupati di costruire una teoria generale dell'abuso del diritto, quanto
piuttosto di decidere una molteplicità di casi, ciascuno dei quali sulla
base di quanto pareva più equo stabilire nel caso concreto[14].
Così,
tra i comportamenti commissivi si annoverano ambiti applicativi tra di loro
anche molto diversi. In ambito matrimoniale, il padre ha il potere di scegliere
il marito della figlia impubere, ma sussiste abuso qualora il genitore non
tenga in debita considerazione le obiezioni della figlia, o qualora derivino
alla nubenda effetti negativi o svantaggi[15].
Allo stesso modo, per il ripudio della moglie, che pure è una
prerogativa del marito, è necessario che sussistano gravi e giustificati
motivi[16]. La
casistica numericamente più rilevante concerne comunque l'abuso del
diritto di proprietà[17]. In
proposito, il caso più emblematico riguarda la responsabilità del
proprietario di un fondo che abbia scavato una fossa sul suo terreno, senza
averlo poi coperto. La dottrina musulmana tradizionale ritiene che il
proprietario sia responsabile per i danni derivanti dalla buca non coperta,
mentre l'art. 91 del codice civile ottomano prevede che egli non sia
responsabile per la morte dell'animale altrui che sia caduto nella fossa[18].
Precedentemente,
si è anticipato che anche l'astenersi dal fare qualcosa può
configurare l'abuso del diritto. Così, il genitore dell'impubere ha la
libertà di maritare la figlia o meno, e di scegliere il marito che
più gli aggrada. Tuttavia, egli sarà responsabile se rifiuta
senza un motivo valido o ragione plausibile un matrimonio che sarebbe
conveniente per la figlia, ad esempio perché la dote proposta dal marito
è molto elevata[19].
Riguardo
il diritto di proprietà, il proprietario è libero di usare o non
usare la cosa di sua proprietà, sino all'estremo di distruggerla o
lasciare che perisca tranne che dal ciò derivi danno a terzi. Quindi, il
proprietario di un muro può lasciarlo cadere in rovina solo se da
ciò non derivi pregiudizio per il vicino o per i passanti[20].
L’abuso
del diritto può manifestarsi anche attraverso l'esercizio ingiustificato
e pretestuoso di azioni giudiziali. Così, in ambito matrimoniale, il
marito acquista la potestà maritale[21]
sulla donna e di conseguenza può ingiungere alla moglie di recarsi
presso il suo domicilio[22], o
seguirlo presso altro domicilio che lui abbia scelto. La donna può
opporsi all'ingiunzione e rifiutare la pretesa di andare presso il domicilio
del marito qualora questi non sia in grado di assicurarle condizioni dignitose
e di sicurezza[23].
Il marito può anche vietare alla moglie di uscire senza il suo permesso
esplicito, e stabilire quali persone possa frequentare e ricevere. Tuttavia, la
moglie può legittimamente opporsi al marito che le proibisca di vedere i
figli nati da precedente relazione, i genitori ed i parenti. Il marito
può tutt’al più esigere che le visite non siano troppo
frequenti, e che le visite ai figli avvengano alla presenza di una persona di
sua fiducia qualora ricorrano motivi plausibili[24].
Anche
il proprietario ha dei limiti all'esercizio delle azioni a difesa della
proprietà. Quando egli abbia dato il proprio assenso al vicino per appoggiare
delle travi al suo muro, limitando volontariamente il godimento esclusivo della
sua cosa, egli non può poi agire contro quest'ultimo[25].
Dall'analisi delle singole
decisioni, emerge comunque che i dottori musulmani non permettono che qualcuno
possa impunemente danneggiare gli altri, anche se il danno è originato
dall'esercizio di un diritto da parte del suo titolare. In concreto si vieta
che l'esercizio del diritto sia contrario alla sua destinazione, e si sanziona
l’intenzione di nuocere, l'assenza di un interesse concreto da parte del
suo titolare, l'inesistenza di un motivo serio e valido come scusante per la
causazione del danno.
Per
questo, la dottrina più recente ha inteso fornire un quadro d'insieme
che, tenendo conto dei singoli casi, trae delle regole generali, prima tra
tutte quella per cui l'esercizio del diritto è subordinato
all'utilità che il titolare può trarre dal suo normale esercizio,
essendone vietato l'esercizio abusivo o malizioso[26].
L'abuso di diritto si fonda principalmente sul principio per il quale nessuno
può godere del suo diritto con la finalità di arrecare danno ad
altri, essendo patologico l'esercizio del diritto che arreca nessun o minimo
vantaggio al titolare mentre determina grave ed effettivo pregiudizio agli
altri[27].
L'esercizio
del diritto che risulti dannoso o configuri una molestia grave e permanente (darar)
per i terzi deve essere represso anche se è fatto senza il dolo
specifico di nuocere[28]. Con
la sua condotta, infatti, il danneggiante invade comunque la sfera giuridica
altrui (ta'addī) e l'ordinamento musulmano reprime simili
comportamenti[29].
Un’altra
scriminante che rende non ingiusto il danno consiste nell'eseguire gli ordini
legalmente impartiti dall'autorità costituita. Il criterio che determina
la legittimità o meno dell'ordine è grandemente influenzato dalla
religione, in quanto è precluso all'autorità di emanare ordini
che siano contrari alla legge divina in materia religiosa, o ai principi
etico-religiosi da essa forniti per i comportamenti umani. Per l'effetto,
l'ordine ingiusto (zulm) deve essere disatteso e l'eventuale obbedienza
costituisce partecipazione colpevole al fatto illecito poiché
“l'autorità del giudice non basta a rendere lecito (halāl)
quello che in sé è peccato (harām)”[30].
Infine,
il danneggiante è esonerato dalla responsabilità qualora abbia
agito per legittima difesa. La legge consente al soggetto, la cui
incolumità personale o i cui beni siano aggrediti, di farsi giustizia da
sé nel caso in cui il ricorso alle ordinarie azioni di tutela risulti
impossibile[31].
Si considera aggredito chi sorprende la moglie in flagranza di adulterio ed
uccide il complice; la donna che uccide colui il quale tenta di farle violenza;
chi uccide il ladro sorpreso nella propria casa, se quello tenta di far uso
delle armi[32].
Nella
difesa della propria persona o dei propri beni, l'aggredito deve comunque
cercare di non eccedere, evitando di causare all'aggressore danni inutili o
sproporzionati rispetto alla minaccia. Più specificamente, egli deve
cercare di far desistere l'aggressore con condotte che possibilmente
scongiurino l'evento, come intimare all'aggressore di desistere o dandosi alla
fuga[33].
3. – Continua. Il nesso causale
Il
danno è riconducibile al danneggiante quando è conseguenza
immediata e diretta della sua azione[34]. A contrario, egli non
sarà responsabile del danno quando siano intervenute delle cause esterne
(al-itlaf mubasharatun) che da sole siano state idonee a cagionare il
danno[35].
Più complicata è la soluzione nel caso in cui l'evento sia stato
determinato da una due o più cause (al-itlaf tasabbuban).
Quando
i comportamenti dannosi sono posti in essere da due soggetti diversi ed
indipendenti l'uno dall'altro, vi sarà un concorso di
responsabilità. Se invece uno di essi agisce in buona fede, ignorando
cioè la dannosità del suo comportamento, sussisterà
responsabilità esclusiva dell'altro soggetto. Ad esempio, Tizio ingaggia
Caio per macellare una bestia e quest'ultimo la uccide sull'erroneo presupposto
che essa sia di proprietà di Tizio. In tal caso, Tizio sarà
responsabile in prima istanza dell'uccisione della bestia, ma potrà
rivalersi nei confronti di Tizio[36].
È
anche configurabile il concorso colposo del danneggiato nella causazione del
danno. Le conseguenze sono ancora più drastiche che nel nostro
ordinamento, poiché il danneggiante è integralmente esonerato
dalla responsabilità se il danneggiato ha colposamente contribuito al
proprio danno. Si prenda ad esempio un negoziante che getta acqua nella
porzione di strada pubblica antistante il suo negozio. Un passante, che volendo
potrebbe passare altrove, decide comunque di camminare nella strada bagnata e
cade riportando delle lesioni. Quest'ultimo, avendo colposamente contribuito a
determinare l'evento dannoso non potrà validamente invocare la
responsabilità del negoziante[37].
In
casi particolari, come nel caso della rapina (ghasb), si verifica
un'interruzione del nesso causale sicché l'autore dell'illecito è
chiamato a rispondere dei danni occorsi al bene usurpato anche se essi non sono
conseguenza diretta del suo comportamento, bensì di quello del legittimo
proprietario, i cui effetti si manifestano quando il bene è nella
disponibilità del rapinatore[38].
4. – Continua. L'elemento psicologico
dell'illecito
Si
è detto in precedenza che per la configurazione dell'illecito è
necessario che oltre agli elementi oggettivi ricorra anche l'elemento
psicologico. L'illecito può essere cagionato con dolo o colpa, e mentre
la differenza tra questi ultimi è rilevante ai fini penalistici, specie
in tema di delitti di sangue, in sede civile l'uno equivale l'altro, tanto che
la dottrina parla di spontaneità del comportamento umano come sinonimo
di volontarietà o intenzionalità[39].
Il
dolo (ta'ammud) consiste in una intenzione maliziosa, talvolta frutto di
premeditazione ('amd ta'ammud), che induce il soggetto ad agire con la
finalità di arrecare nocumento[40].
La
colpa (hata' o khata), invece, consiste nell'assenza di
volontà o consapevolezza nella causazione del danno, ed è
determinata dalla mancata osservanza di quelle cautele che ogni uomo di media
avvedutezza adotta nella pratica degli affari quotidiani[41]. Un
ulteriore parametro attraverso il quale stabilire la sussistenza di colpa
è la prevedibilità del danno: se secondo l'uomo di media
avvedutezza è prevedibile che dalla propria azione possa derivare un
danno, ma si agisce egualmente, allora si è responsabili per i danni
arrecati, altrimenti si è esonerati[42]. Ad
esempio, è colposo il comportamento di chi appicca il fuoco in un campo
in un giorno ventoso se poi l'incendio divampa nei dintorni, o chi slega lo
schiavo dai vincoli e lo lascia scappare senza aver prima verificato le ragioni
per le quali era stato legato.
Particolarmente
interessanti sono poi le disposizioni circa l'imputabilità, in
particolare del minore e del demente[43].
Più specificamente, la condizione del minore si divide in tre ulteriori
stadi[44], il
primo dei quali è l'età pre-discernimento che va dalla nascita ai
sette anni. Durante tale periodo, affinché gli altri non vengano
danneggiati da qualunque atto posto in essere dall'infante, quest’ultimo
risponde personalmente con il proprio patrimonio dei danni da lui prodotti[45].
Durante
il secondo stadio, detto anche età del discernimento, compreso tra
l’età di sette anni e la pubertà, il minore è tenuto
al risarcimento solo per i danni cagionati con premeditazione perché
questa dimostra la capacità di ragionare e capire, condizione mentale
che richiede che il bambino venga disciplinato e limitato nella libertà
di agire[46].
Questa
stessa disciplina viene applicata anche al malato mentale, che risponde
pienamente degli atti compiuti negli intervalli di lucidità, e risponde
secondo il regime indicato per quelli compiuti in stato di confusione mentale.
Quando una persona non sia affetta da patologia mentale totale ma compia
semplicemente degli atti che sono contrari al senso comune (deficiente), essa
è pienamente responsabile per le sue azioni perché non le difetta
la capacità di comprendere il senso delle sue azioni[47].
Il
terzo ed ultimo stadio corrisponde alla pubertà e all'età adulta,
dove il soggetto è ormai adulto e le sue facoltà mentali sono
pienamente sviluppate, sicché egli è pienamente responsabile di
tutti gli illeciti che dovesse compiere.
5. – I criteri classificatori del danno
Generalmente
la dottrina distingue gli illeciti a seconda che riguardino i delitti di sangue
(dimā'), i quali comportano per il colpevole l'applicazione di una
sanzione dai connotati prevalentemente penalistici (diya o in alternativa
il prezzo del sangue), oppure i delitti civili che offendono i beni altrui (gināyah)
cui la legge attribuisce conseguenze prevalentemente patrimoniali[48].
Tale distinzione non può essere, tuttavia, considerata netta ed
incontrovertibile per le ragioni che seguono.
Il
diritto musulmano, come accennato inizialmente, è un diritto religioso.
Questo significa che in esso vi è una commistione di precetti religiosi,
etici e morali con le norme di diritto in senso tecnico. La difficoltà
di separare diritto e religione rende lapalissiana la difficoltà, se non
l'impossibilità, di distinguere con nitidezza l'ambito penale dal
civile. Più specificamente, la responsabilità da fatto illecito
presenta dei peculiari problemi di inquadramento dogmatico e sistematico legati
alla naturale vicinanza, e spesso coincidenza, dell'illecito civile con
l'illecito penale. Anche nel nostro ordinamento, infatti, lo stesso fatto
può integrare entrambe le forme di illecito e dunque dar luogo a
responsabilità sia penale che civile a prescindere dal bene giuridico
leso[49].
Per
questi motivi, non pare potersi sostenere che l'elemento dirimente la
distinzione tra i vari tipi di illecito e di responsabilità possa essere
il bene giuridico leso oppure la natura della sanzione[50]. La
modernizzazione del diritto musulmano e la vicinanza sempre maggiore con le
codificazioni occidentali induce ad riflettere circa la validità di tale
netta distinzione, e a considerare assimilabili le varie fattispecie dannose
del diritto musulmano con le più moderne categorie del nostro
ordinamento (danno patrimoniale e danno biologico), pur consci della
impossibilità tecnico-giuridica che essa possa avere una perfetta
corrispondenza e coincidenza nel mondo islamico[51]. Ad
ogni modo, in questa sede ci si limiterà a trattare dei danni
patrimoniali.
6. – Il danno patrimoniale. Il furto (sariqah)
Commette
furto chiunque rimuove un valore patrimoniale (māl) altrui avente
un valore minimo determinato (nisâb)[52] dal
luogo in cui era custodito con l'animo di appropriarsene, ovvero chi sottrae un
bambino dalla custodia (hirz) di coloro che su di esso hanno
potestà legale[53].
Vi
sono anche degli altri elementi costitutivi della fattispecie oltre quelli
desumibili dalla definizione di cui sopra. In particolare, l'oggetto sottratto
deve essere di proprietà di un'altra persona o quanto meno essere sotto
il suo possesso o custodia (hirz)[54].
Inoltre,
l'agente deve essere imputabile, cioè deve essere pubere e mentalmente
sano e quindi tenuto ad osservare la legge (mukallaf)[55]. La
necessità che il soggetto sia imputabile, e che soddisfi i requisiti di
pubertà e sanità mentale, parrebbe essere in contrasto con il
principio generale secondo il quale la responsabilità civile sorge per
il solo fatto che sussista il danno. Nel caso in cui quest'ultimo sia causato
dal minore di età o dall'infermo mentale, si è già notato
in precedenza che essi non vengono esonerati da responsabilità
poiché sono considerati causa efficiente del danno. Per questa ragione
si esclude che la responsabilità per gli illeciti da loro compiuti
ricada sui genitori o sul tutore[56].
Tuttavia tale contrasto si
dimostra solo apparente se si considera attentamente la natura dell'illecito.
Mentre il diritto civile, anche musulmano, conosce ed applica la
responsabilità oggettiva, per l'attribuzione della responsabilità
penale è richiesto un maggior rigore per l'imputabilità del reo.
La maggior cautela che circonda l'indagine dell'accertamento della
responsabilità penale è giustificata dalla maggior gravità
della sanzione, l'applicazione della quale richiede effettiva e concreta
comprensione delle proprie azioni. Riguardo il caso di specie, pare appena il
caso di ricordare che la sariqa è uno dei sette reati per i quali
il Corano prevede espressamente la pena hadd, che non è condonabile
da parte dell'offeso[57].
Processualmente,
i legittimati attivi sono il proprietario del bene sottratto, il titolare di un
diritto reale sulla cosa ed il responsabile del bene nei confronti del
proprietario in qualità di locatario o mandatario. Tuttavia, i genitori
o altro ascendente del derubato non hanno legittimazione perché essi
sono considerati quasi domini[58].
I
legittimati passivi, invece, sono l'autore del furto ed i suoi eredi senza
eccezione alcuna. In caso di concorso nel furto, tutti gli autori ed i relativi
eredi sono solidalmente responsabili[59].
La
sanzione penale comminata al ladro si basa sul taglione ed è molto
severa: al primo furto gli viene mozzata la mano destra; al secondo la mano
sinistra ed al terzo il piede destro. Se egli perpetra ancora altri furti
è condannato ad una pena discrezionale o all'ergastolo[60].
Dal
punto di vista civilistico, la regola generale prescrive che il bene (māl)
sottratto debba essere restituito se al colpevole non viene applicata la pena
della mutilazione. La restituzione deve essere effettuata in forma specifica
oppure, quando ciò non sia possibile, dovrà essere corrisposto il
suo equivalente. Se invece si tratta di beni di genere, egli dovrà
restituire la stessa quantità e qualità dei beni sottratti[61].
Particolarmente
meritevole di attenzione pare essere la figura dell'abuso di fiducia (hiyānah)
che esclude gli effetti penali quando l'illecito sia commesso da un soggetto
che abbia una speciale relazione fiduciaria con la vittima. Ad esempio, essa
sussiste quando a commettere il furto siano il coniuge; l'operaio, il domestico
o lo schiavo che rubano in casa del datore di lavoro o del padrone; l'ospite
che sottrae beni nella casa dove è ospitato[62]. In
tal caso, le uniche conseguenze per il ladro saranno di carattere civilistico
secondo le indicazioni appena fornite.
Anche
nel caso in cui la cosa rubata non sia tutelata dall'ordinamento (gayr
ma'sūm) perché impura o illecita, come nel caso del vino o dei
suini, la pena per il furto non si applica. Tuttavia, sul piano civile è
necessario distinguere il caso in cui il bene non protetto dalla legge
appartenesse ad un musulmano o meno. Nel primo caso questi non può
chiedere la restituzione del bene o del suo corrispettivo perché ne
sarà disposta la distruzione. Qualora il bene appartenga ad un non
musulmano (dimmī),
invece, il ladro sarà gravato dall'obbligazione restitutoria[63].
La
disciplina del caso fortuito prevede una posizione aggravata del ladro: egli
sarà assoggettato alla obbligazione restitutoria, o al pagamento del
valore del bene, anche nel caso in cui sopraggiunga una causa di forza maggiore
che rende impossibile la restituzione[64].
7. – Continua. La rapina (gasb o ghasb)
Il ghasb
(rapina) può definirsi come l'annullamento violento[65] del
legittimo possesso su un bene mobile[66]
altrui, avente valore commerciale[67], ad
opera dell'usurpatore il quale acquista il possesso illegittimo e palese del
bene[68].
Per
meglio comprendere le peculiarità dell'istituto, è interessante
notare le differenze ed il rapporto della rapina con il furto. In primo luogo,
il ghasb avviene alla luce del sole mentre il furto è un atto
clandestino[69].
Inoltre,
parte della dottrina considera la rapina come una forma aggravata del furto
perché essa ne contiene gli stessi elementi costitutivi con l'ulteriore
elemento aggravante dell'uso della violenza, dovendosi però escludere
l'uso delle armi che altrimenti configura un diverso reato, il brigantaggio (hirābah)[70]. Non
compie, invece, fatto illecito chi prende con violenza una cosa che gli
appartiene o cui ha diritto.
Tale
ricostruzione è però criticata sulla base di rilievi che paiono
convincenti. In primo luogo è vero che tra furto e rapina può
ravvisarsi identità di azione esecutiva, ma ciò non significa che
le due fattispecie siano identiche; perché si abbia rapina deve comunque
ricorrere l'ulteriore elemento dell'esercizio della violenza[71]. Se
poi si considerano tutti gli elementi caratteristici dei due reati, ivi comprese
le pene conseguenti, emerge che il ghasb viene punito con il ta'dīb[72], che
è una pena applicabile discrezionalmente ad arbitrium iudicis.
Ciò lo differenzia nettamente dal sariqa che, come visto in
precedenza, fa parte dei reati tassativamente indicati nel Corano come punibili
con pena fissa (hadd). Dalla diversa natura della pena si desume anche
la diversa natura del reato, con il risultato che la rapina deve essere
considerata un autonomo titolo di reato e non una mera forma aggravata del
furto[73].
Per
quanto concerne i rimedi esperibili in caso di ghasb, un orientamento
dottrinale minoritario, oltre alla tutela giudiziale, individua due ulteriori
strumenti rimediali: l'autotutela (taqas) e compensazione del credito,
nonché la tutela amministrativa[74].
In
via di principio è concesso ampio spazio alla possibilità di
agire in via di autotutela (taqas) per la protezione dei propri
interessi, sicché il ricorso alla fase esecutiva richiede l'intervento
del giudice solo quando vi siano in gioco interessi che riguardano l'intera
collettività. Ad esempio, il diritto di un soggetto di punire il
colpevole di calunnia o diffamazione non può essere esercitato senza il
permesso del giudice musulmano perché questo caso attiene all'area del
diritto penale che protegge l'onore di ciascuno, e pertanto esige il controllo
dell'autorità. Al contrario, l'autotutela può essere eseguita
quando è coinvolto un diritto strettamente individuale quale quello di
proprietà. Pertanto, nel caso in cui il soggetto abbia subito la rapina
di un bene materiale, egli sarà legittimato a reimpossessarsi del bene
senza la necessità di instaurare un giudizio, e quindi senza che la sua
attività sia sottoposta al controllo del giudice[75]. La
base legale di tale regola deriva direttamente dalle parole del Profeta secondo
il quale “la gente ha il dominio sulle sue proprietà”[76].
Se
invece il diritto vantato dal soggetto è un’obbligazione
contrattuale o pecuniaria, ed il debitore riconosce il debito ed è
disposto all'esecuzione o al pagamento, allora il creditore deve
obbligatoriamente esigere l'adempimento in via diretta della prestazione o il
pagamento. Egli non è, invece, autorizzato a soddisfare la propria
pretesa creditoria sui beni del debitore. La ratio giustificatrice di
questa disposizione è che il diritto di credito è generico, e
pertanto spetta al debitore scegliere e prendere un determinato oggetto per il
pagamento del proprio debito. Al contrario, se il debitore nega l'esistenza del
credito, il creditore è costretto ad intraprendere una iniziativa
giudiziale[77].
Passando
ad analizzare la seconda forma di tutela, si può notare che nel mondo
islamico contemporaneo la tutela amministrativa ha luogo nei Tribunali
Amministrativi, che sono generalmente istituiti dai Governi al precipuo scopo
di vagliare le istanze contro l'agire amministrativo, come ad esempio nel caso
di espropriazioni e nazionalizzazioni[78]. Lo
sviluppo e la moltiplicazione di simili processi nei tempi moderni ha
comportato l'estensione dell'autorità degli Stati e la conseguente
crescita e varietà della natura delle dispute sorte tra Stati e soggetti
portatori di interessi non governativi. Tale espansione prospetta una serie di
profili problematici che possono essere meglio compresi se paragonati alla
tutela giudiziale. Rispetto a quest'ultima, ad esempio, la tutela
amministrativa non garantisce alcuna salvaguardia procedurale, ed inoltre le
sue decisioni sono fortemente connotate dalla discrezionalità, con
conseguente influenza politica e amministrativa sulle decisioni[79].
Tale
impostazione dottrinale dei rimedi, approntati sulla base di una nozione
allargata di ghasb, è tuttavia isolata in dottrina. La
possibilità di esperire le tutele di cui sopra, infatti, presuppone la
lesione di numerosi diritti ed interessi estremamente eterogenei nella loro
natura ed identità, che esulano dal concetto tradizionale di ghasb.
Essi, infatti, spaziano dalla sottrazione violenta di beni mobili altrui
all'espropriazione o nazionalizzazione di beni immobili, dall'impugnazione
degli atti amministrativi illegittimi fino alle questioni contrattuali od
obbligazionarie. Pertanto, pare condivisibile l'orientamento maggioritario che
vede nella tutela giudiziale l'unico strumento a disposizione del danneggiato
per reagire al ghasb.
Sul
piano del diritto civile, quest'ultimo è un peccato (ithm) che
obbliga all'immediata restituzione (radd) nei confronti del proprietario
(taslîm ilà 'l mâlik), da effettuarsi nell'identico
luogo ove avvenne l'usurpazione o, se il reo ha trasportato la cosa altrove, da
riportarsi nel luogo in cui era stata presa. Se si tratta di beni di genere,
invece, il rapinatore sarà tenuto a restituire beni nella stessa
quantità e qualità.
Se
il bene usurpato è una cosa determinata ('ayn) ed il bene
è stato consumato (ta'yīb), distrutto (halāk) o
disperso in conseguenza dell'aggressione, l'usurpatore deve restituire un bene
dalle caratteristiche simili (ii'tai mislihi) o corrispondere
l'equivalente secondo il valore che il bene aveva al momento
dell'appropriazione[80].
Sul
punto, la scuola Malikita compie una ulteriore distinzione rispetto alle altre
Scuole, differenziando l'ipotesi di deterioramento (ta'yīb) dal
quella di perimento (halāk): nel primo caso lo spogliato ha la
facoltà di lasciare la cosa all'usurpatore o riprenderla nello stato in
cui si trova, fatto salvo un risarcimento (arš) per il minor
valore. Nel caso di perimento, invece, il danneggiato è risarcito per il
valore che il bene aveva il giorno in cui è stato usurpato[81].
La
restituzione della cosa include anche gli accessori, pertinenze e frutti.
Quanto ai frutti, è ormai pacificamente accettato da tutte le scuole che
l'usurpatore debba corrispondere solo quelli effettivamente percepiti, e non
anche quelli dei quali avrebbe potuto godere[82].
Se
durante il possesso illecito l'usurpatore ha sostenuto delle spese per la
conservazione delle cose o la percezione dei frutti stessi, egli le può
detrarre da quanto deve corrispondere al legittimo proprietario. Tuttavia, se
le spese sono superiori ai frutti, egli non può agire contro lo spogliato
per ottenere la differenza[83].
Per
quanto concerne il rapporto di causalità, è previsto che
l'usurpatore (ghasib) assuma su di sé ogni responsabilità,
interrompendo con il proprio comportamento ogni relazione che il danno abbia
con le azioni compiute dal proprietario. Da ciò consegue che
l'usurpatore risponde per la perdita (halâk) della cosa usurpata (maghsûb)
persino nel caso in cui il perimetro sia la conseguenza di un precedente atto
del proprietario, del fatto del terzo o determinato da forza maggiore[84]. Pertanto,
il ghasb rende l'usurpatore responsabile anche quando l'evento dannoso
si sarebbe verificato nel caso in cui il bene fosse rimasto nella
disponibilità del legittimo proprietario. Ad esempio, l'usurpatore (ghasib)
risponde della morte del bambino se questi sia morto a causa di un fulmine o
del morso di serpente, perché egli attraverso il ghasb lo ha
esposto a tali pericoli.
Il
legittimato attivo processuale è la vittima della rapina ed i suoi
eredi. Quello passivo è l'autore della rapina o, se i colpevoli sono
più d'uno, tutti gli autori solidalmente. L'azione compete anche contro
gli eredi del rapinatore in quanto abbiano profittato della rapina[85].
8. –
Continua.
Il danneggiamento (Ta'addī)
Fornire
una traduzione del termine ta'addī è particolarmente arduo
perché esso corrisponde ad uno dei concetti più generali ed ampi
che si conoscano nel diritto musulmano. Letteralmente esso può essere
tradotto con “trasgressione” o “prevaricazione”[86],
mentre in ambito giuridico si contraddistingue per l'ampia serie di
significati, anche molto diversi tra di loro, che ingloba in sé. In
dottrina il termine ta'addī viene fatto corrispondere a numerose
fattispecie, tra le quali si segnalano: a) danneggiamento, ovvero l'arrecare
danno alla cosa altrui senza l'animo di appropriarsene né di usurparne
l'uso, ma con il solo intento di nuocere e per solo impulso di
malvagità; b) abuso del diritto; c) ritardo senza giusta
causa nell'adempimento dell'obbligazione; d) appropriazione indebita, con o
senza violenza, dell'uso o godimento del bene (manfa'a), e non della
sostanza della cosa (raqabah).
Con
riguardo a quest'ultimo elemento, esso è riscontrabile presso la scuola
Malikita e nel fiqh fatimida[87]
quale portato della diversa classificazione del ghasb rispetto alle
altre scuole[88].
Tale diversa impostazione induce a ritenere che al ghasb corrisponda
solo l'appropriazione violenta della cosa altrui, mentre l'usurpazione, con o
senza violenza, dell'uso o del godimento della cosa configuri ta'addī.
In tal caso l'usurpatore agisce contro la volontà del proprietario per
adoperare la cosa a proprio vantaggio, senza l'intenzione di appropriarsene (raqabah)[89]. I
rimedi esperibili nei due casi sono molto simili, ad eccezione di quanto
disposto in materia di frutti, poiché di essi sono dovuti sia quelli
percepiti che quelli che si sarebbero potuti ottenere. Ad esempio l'usurpatore
che si impossessi di un campo e non lo colti, deve corrispondere sia i frutti
che abbia effettivamente raccolto, sia quelli che avrebbe potuto raccogliere se
avesse coltivato il campo[90]. Ad
ogni modo è dovuta la corresponsione dell'equivalente per il godimento
del bene. Ad esempio, se si è occupata una casa, deve corrispondersi il
prezzo della locazione per un'abitazione simile[91].
Per
quanto concerne l'abuso del diritto[92], in
questa sede si richiama quanto illustrato in precedenza[93]. La
figura del ta'addī inteso come danneggiamento merita, invece, un
ulteriore approfondimento. Si è anticipato in precedenza che esso si configura
quando il danneggiante deteriora il bene altrui senza diritto e senza lo scopo
di trarne vantaggio. La figura può essere assimilata al nostro
danneggiamento, o al latino damnum iniuria datum[94].
Perché
si possa parlare di ta'addī è anzitutto necessario che
sussista un danno, cioè una diminuzione patrimoniale causata dal
deterioramento o dalla distruzione[95] di
un bene avente valore commerciale (māl)[96],
ovvero dal fatto che il bene divenga inservibile per l'uso cui è
destinato[97].
Mentre
la distruzione dei beni comporta il risarcimento pecuniario del danno per
equivalente o, se si tratta di beni di genere, la loro reintegrazione in
quantità e qualità uguali a quelli distrutti, le conseguenze che
derivano dal danneggiamento sono più articolate e connesse alla
gravità dello stesso. Infatti, se la cosa diviene inservibile per l'uso
cui è destinata, la quantificazione del danno per equivalente è
rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Il danneggiato, tuttavia, ha la
facoltà di scegliere se ottenere la restituzione del bene nello stato in
cui si trova, ed il risarcimento (arš) per la differenza di valore
del bene, oppure lasciare il bene al danneggiante e chiedere il pagamento
dell'intero valore. Se la cosa non è diventata inabile all'uso cui era
destinata, ma ha comunque subito una diminuzione di valore, il danneggiato
può chiedere la differenza di valore (quanti minoris). Infine, se
il danno è lieve e facilmente riparabile, il danneggiante deve operare
la riduzione in pristino, stante l'assoggettabilità all'actio quanti
minoris ove ne ricorrano i presupposti[98].
I
legittimati attivi a proporre l'azione risarcitoria sono il proprietario della
cosa ed i suoi eredi, il possessore, anche di mala fede, e chi vanta sulla cosa
un diritto di godimento (haqq al-manfa'ah)[99]. Il
principio generale valido in materia di legittimazione passiva prevede che la
responsabilità ricada sul danneggiante o, in caso di usurpazione del
bene, su colui il quale ha la disponibilità del bene nel momento in cui
questo è stato danneggiato o distrutto[100].
È
di grande interesse, poi, la correlazione del ta'addī con due
ipotesi di responsabilità contrattuale, la prima delle quali concerne la
disciplina per il ritardo senza giusta causa nell'adempimento delle
obbligazioni. Nel mondo musulmano la disciplina tradizionale della mora (matl)
determina degli effetti molto diversi da quelli che l'istituto assume nella
tradizione romanistica, essendo proibito chiedere al debitore moroso la
corresponsione di interessi di qualsiasi genere. L'inadempimento, infatti,
è un grave peccato che rende il debitore colpevole davanti a Dio ed alla
sua coscienza piuttosto che verso il creditore[101].
Tuttavia,
recentemente si riscontrano delle dottrine che configurano il ritardo
nell'adempimento come un danneggiamento (ta'addī) al patrimonio del
creditore, obbligando l'autore al risarcimento del danno. Quest'ultimo mira a
compensare il danno sofferto dal creditore per la mancata disponibilità
di denaro per il periodo del ritardo, generando una obbligazione risarcitoria
che si somma alla restituzione del capitale oggetto dell'obbligazione[102].
L'altra
ipotesi di ta'addī derivante da fonte contrattuale consiste
nell'usurpazione del godimento della cosa altrui della quale si dispone in
ragione del contratto, senza però l'animus di appropriarsi della
cosa. La fattispecie è simile a quella precedentemente illustrata, con
l'ulteriore elemento del vincolo contrattuale, come per esempio nel caso del
depositario che utilizza la cosa depositata, oppure del comodatario che usa la
cosa comodata per un uso più oneroso di quello pattuito[103].
The essay proposes the analysis of the tort liability in Islamic law.
For the Italian scholars this topic is made difficult by structural and
conceptual diversity of Western and Islamic legal systems. Therefore, it is
studied the case of non-contractual damages in accordance with the basic
elements of Italian law (tort as source of obligation; injustice of the damage;
causation; psychological element). Finally, the analysis focuses on economic harm (theft, robbery, damage).
[Per la pubblicazione degli
articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in
maniera rigorosa, il procedimento di peer
review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
[1] G.H.
BOUSQUET, Précis de Droit Musulman – Principale ment
mâlékite et algérien, précis élémentaire, Alger,
1950, 243 insegna che nei libri di fiqh il materiale concernente
contratti ed obbligazioni è disciplinato dettagliatamente secondo il
metodo degli Autori musulmani. Tale metodo diverge nettamente da quello
utilizzato nei codici europei soprattutto perché in diritto musulmano
non c'è uno spirito strettamente giuridico-legale. Nell'affermare
perentoriamente che “Les principles généraux manquent”,
l'Autore mette in luce è l'elenco dei casi di specie e le la loro
soluzione a determinare la regola da applicare. Per quanto interessa in questa
sede, si rileva la mancanza di una teoria generale delle obbligazioni. I
giurisperiti non hanno mai pensato di formulare principi generali in materia di
rischio, giusta causa, responsabilità. In questo senso, l'approccio
metodologico attraverso la casistica pare essere più vicino alla
tradizione di common law rispetto a quella di civil law.
[2] E. BUSSI, Recensione ad A. GNECCO,
Aspetti di diritto agrario libico,
in Archivio Giuridico, Modena, 1941, vol. CCXXV, 1941, 123.
[3] E. BUSSI, Principi di diritto
musulmano, Bari, 2004, 64-65.
[4] Lo stesso E. BUSSI, Principi di diritto
musulmano, Bari, 2004, 64 invita a «sforzarci di ragionare secondo il
modo dei dottori musulmani», pur adottando nella sua opera il criterio
espositivo basato sulla stretta comparazione con il diritto romano. Tra gli
altri autori che adottano lo stesso criterio si vedano, tra gli altri: F.
CASTRO, Il modello islamico, a cura di G.M. Piccinelli, Torino, 2007; D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. I e II, Roma, 1925; J. EL-HAKIM, Le dommage
de source délictuelle en droit musulman, in Université
Saint-J. – Beyrouth,
Annales de la Faculté de Droit et des Sciences Economiques,
Paris, 1964; S.H. AMIN, Wrongful appropriation in Islamic law, Glasgow,
1983. Per una esposizione della
materia secondo la manualistica dei Torts anglosassoni, cfr. L.A.K. NIAZI, Islamic
law of tort, Lahore, 1988.
[5] D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. I, Roma,
1925, VIII, individua nel diritto musulmano un diverso criterio ordinatore
all'interno dei diritti patrimoniali, trovandolo nella distinzione tra sostanza
della cosa (dāt,
raqabah) e godimento delle utilità (huqūq al-manāfi')
che la cosa stessa è in grado di fornire. Pertanto, dall'integrazione
dei sistemi classificatori romanistici e musulmani emerge che il diritto
musulmano distingue i diritti reali in sostanza della cosa (dāt, raqabah), coincidente con il
corpus rei, e diritti di godimento delle utilità (huqūq
al-manāfi') che si possono trarre dalla cosa, corrispondenti
agli jura in re aliena. Simmetricamente, anche nel diritto
obbligazionario sussistono rapporti che investono la cosa (dāt, raqabah) e che si
sostanziano nel trasferimento del diritto di proprietà o del possesso, oppure
il godimento temporaneo delle utilità o vantaggi che la cosa può
offrire.
[6] J. EL-HAKIM, Le dommage de source
délictuelle en droit musulman, cit., 13, si esprime nel senso che
nella tradizione musulmana manca una teoria generale del diritto delle obbligazioni.
Semmai, si ricorre all'approfondimento del caso di specie per poi arrivare ad
elaborare delle regole di carattere generale. Nello stesso senso si esprime F.
CASTRO, Il modello islamicocit., 68, secondo il quale “manca in
diritto musulmano un concetto e un termine generali che esprimano
l'obbligazione in senso tecnico”, anche se poi da contezza del fatto che
Ch. Chehata per la scuola hanafita e Santillana per la scuola malichita
“hanno tratto dalla casistica delle fonti il materiale per una esposizione
di una teoria generale delle obbligazioni che però non presenta nessuna
caratteristica peculiare, né per fonti, né per materia di
adempimento, né circa le cause di estinzione”.
[7] D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano
malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol I, cit., 2,
specifica che ayn è l'oggetto specificamente individuato,
ciò in cui consiste la prestazione dovuta dal debitore, mentre dayn
è il diritto patrimoniale (debito o credito) che riguarda la persona.
[8] A parte qualche piccola differenza non
significativa, la dottrina è sostanzialmente concorde circa l'esistenza
di due fonti delle obbligazioni (sabab): il contratto ed il fatto
illecito.
Vi è chi
compie una netta distinzione preliminare tra obbligazioni derivanti da
atto lecito (iltizām) rispetto a quelle derivanti da fatto illecito
(dhimma). V. F. CASTRO, Voce Diritto Musulmano, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., vol. VI, Torino,
1990, 307.
D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol I, cit.,
13, opera una distinzione sulla base delle indicazioni fornite dalla scuola
Hanafita, seguita anche dai Malichiti. Essa sancisce che la dichiarazione di
volontà è letteralmente “atto (o fatto) verbale” (tasarruf
qawlī), mentre il fatto illecito coincide con “l'atto (o fatto)
concreto o effettivo” (tasarruf fi'lī).
Analogamente si esprime per la scuola Sciita S.H. AMIN, Wrongful
appropriation in Islamic law, cit., 1, che molto incisivamente scrive che
le basi della responsabilità di una persona per l'usurpazione dei beni
altrui può essere sia contrattuale che delittuale. La differenza tra le
due fonti consiste nella natura consensualistica del contratto, mentre quella
delittuale fa sorgere automaticamente la responsabilità. Sul tema, si
veda esaustivamente anche l'opera di H. AL-KHATIB, Responsabilité
délictuelle and contractuelle, Basrah, Iraq, 1968.
[9] L.A.K.
NIAZI, Islamic law of contract, Lahore, 1990, 9 ss.
[10] S.H. AMIN, Wrongful appropriation in
Islamic law, cit., 8; D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano
malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. II, Roma, 1925, 70.
[11] Secondo l'opinione di J. EL-HAKIM, Le
dommage de source délictuelle en droit musulman, cit., 13, il diritto
musulmano è stato influenzato in questo settore dal diritto romano nel
suo primo stadio di evoluzione. Infatti, la distinzione tra delitti civili e
delitti penali è il frutto di tale contaminazione, sebbene
successivamente il diritto romano abbia ulteriormente raffinato la sua teoria
dell'illecito con la creazione della figura del quasi-delitto.
Il fatto che il diritto musulmano non abbia compiuto ulteriori
elaborazioni in merito alla distinzione tra delitti e quasi delitti sulla scia
romanistica non comporta tuttavia risultati applicativi pratici
significativamente diversi. G.H. BOUSQUET, Précis de Droit Musulman –
Principale ment mâlékite et algérien, précis élémentaire,
cit., 245, premette che «Les délits et
quasi-délits sont source d'obligation», ma la distinzione tra
le due categorie non è così rilevante perché in entrambi i
casi sorge l'obbligo di compensare il danno causato. Il fiqh non
determina conseguenze applicative differenti a seconda che l'illecito sia
compiuto dolosamente e colposamente, così che la distinzione tra delitto
e quasi-delitto perde d'interesse pratico.
[12] Non pare questa la sede più
appropriata per riferire del dibattito che ha appassionato la dottrina nel tentativo
di individuare quali fossero gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto.
Pare sufficiente ricordare che alcuni ritengono la nozione dell'abuso del
diritto fondata su elementi oggettivi, e cioè il mancato esercizio del
diritto conformemente alla sua destinazione economica e sociale. Altri, invece,
si basano sull'elemento soggettivo dell'intenzione di nuocere. Per altri ancora
l'abuso consiste nel pregiudizio causato ad altri senza un interesse serio e
legittimo del titolare del diritto.
[13] La tripartizione, alla quale fa seguito
una dettagliata analisi della casistica per ciascuna delle tre categorie,
è operata da M. MORAND, Études de droit musulman
Algérien, Alger, 1910, 301 ss.
[14] M. MORAND, Études de droit
musulman Algérien, cit., 310, sottolinea che l'equità
è un principio che domina il diritto musulmano, direttamente influenzato
dagli insegnamenti religiosi. Sotto questo profilo si configura una equivalenza
tra la prescrizione per ogni musulmano di operare il bene verso gli altri
musulmani, ed evitare di porre in essere dei comportamenti privi di giovamento
per chi li compie, ma dannosi per chi li subisce.
[15] L'insegnamento è di Khalil, che
equipara gli schiavi di ambo i sessi alla figlia impubere, cfr. M. MORAND, Études
de droit musulman Algérien, cit., 302. In questo caso l'esercizio
del diritto è patologico perché non è conforme alla sua
destinazione sociale, che è quella di contrarre matrimonio
nell'interesse della figlia o dello schiavo.
[16] M. D'OHSSON, Tableau
général de L'Empire ottoman, 197; M. MORAND, Études
de droit musulman Algérien,
cit., 302, riportano l'insegnamento di Ibrahim Halebi secondo il
quale il ripudio è un atto riservato al volere del marito. La
libertà del marito è tuttavia limitata dalla legge Divina che
richiede la sussistenza di gravi motivi per lo scioglimento del vincolo
matrimoniale: “Che Dio maledica chiunque ripudia la sua donna per il solo
motivo del piacere!”. Nella giurisprudenza algerina, v. Cour d'Alger, 24
octobre 1879, in Bul. Jud. Alg., 1880, 287; Juge de paix de Cherchell,
1er décembre 1903, in J. des trib. Alg., 17 febbraio, 1904, che conformemente hanno sentenziato
che devono ricorrere seri e degni motivi per ripudiare la moglie.
[17] Per un'ampia panoramica casistica, cfr.
M. MORAND, Études de droit musulman Algérien, cit.,
303-306.
[18] C.
EL-CHÂRÂNI, Balance de la loi musulmane, trad. N. Perron, in Revue africaine, 1870, 468; M.
MORAND, Études de droit musulman Algérien, cit., 300 ss., i quali
criticano severamente la determinazione di cui all'art. 91 del codice civile
ottomano. L'Autore, infatti, osserva che esso è un codice Hanafita che
è stato promulgato in tempi relativamente recenti. I principi contenuti
nel suo art. 91 sono contrari alle determinazioni stabilite dalle Scuole ortodosse
e dai Malikiti. Per di più, lo stesso Abu Hanifa, fondatore della scuola
Hanafita, insegna che chi scava una fossa deve sorvegliarla, e se non la copre
è responsabile degli incidenti che può provocare. Queste ragioni
inducono a ritenere che il dettato dell'art. 91 del codice ottomano non possa
essere considerato come l'espressione della dottrina musulmana tradizionale, ma
piuttosto dell'opinione personale dei redattori del testo legislativo.
[19] La statuizione si rinviene all'art. 41,
n. 3 del previgente codice dello stato delle persone egiziano.
[20] Alcuni giuristi sono dell'avviso che
quando un muro sia crollato per mancata manutenzione, il proprietario del muro
può essere obbligato a ripararlo, se tale mancanza nuoce al vicino, v.
M. MORAND, Études de droit musulman Algérien, cit., 307.
[21] Cfr. il previgente codice dello stato
delle persone egiziano, art. 17, n. 2.
[22] C. EL-CHÂRÂNI, Balance de
la loi musulmane, cit., 229.
[23] In questo senso si esprime il previgente codice
dello stato delle persone egiziano, art. 207, secondo comma.
[24] V. l'art. 215 del previgente codice dello
stato delle persone egiziano. Conformemente si esprimono anche i giurisperiti
Khalil e Ibrahim Halebi, in M. MORAND, Études de droit musulman Algérien, cit., 308.
[25] La posizione è di Malek che
applica così l'insegnamento del Profeta in base al quale non bisogna
arrecare alcun danno agli altri, sia che da ciò se ne riceva un
vantaggio sia che non se ne riceva. Secondo la scuola Malikita, l'intenzione di
danneggiare gli altri annulla il diritto del suo titolare, v. M. MORAND, Études
de droit musulman Algérien,
cit., 308.
[26] A. RAHIM, The
principles of muhammadan jurisprudence according to the Hanafi, Maliki, Shafi'i and Hanbali
Schools, Lahore, 1911, 278, al
proposito ricorda che nell'esercizio fisiologico ed ordinario del suo diritto,
il titolare non è responsabile dei danni causati all'altra persona o ai
suoi beni in quanto non può essere tenuto a limitare l'esercizio del
proprio diritto per tenere indenne l'altro. Ad esempio, un Musulmano sospende
un candeliere nella moschea del luogo in cui vive come regalo pio e
quest'ultimo cade ed uccide un passante. In tale caso egli non sarà
responsabile perché come abitante ha il diritto di decorare la moschea,
e l'esercizio del suo diritto non può essere al contempo la causa del
fatto illecito.
[27] M. MORAND, Études
de droit musulman Algérien, cit., 304; D. SANTILLANA, Istituzioni
di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol.
I, cit., 380-381, il quale porta alcuni esempi di abuso del diritto, come il
caso del proprietario che abusa
del proprio diritto erigendo un muro con l'unico intento di privare il vicino
del sole; è anche censurabile il comportamento di colui che, dopo
aver subito un danno, compie la stessa azione ai danni del suo danneggiante per
mera ritorsione o, ancora, chi “per odio o per nuocere” revoca al
vicino la facoltà precedentemente concessa di appoggiare una trave al
proprio muro.
[28] D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. I, cit.,
72-73, riporta un hadīt del Profeta, che è regola di procedura islamica,
secondo la quale “Lā darara wa lā dirāra”,
ovvero “E' ufficio del giudice far cessare ogni danno ingiusto”.
[29] Pertanto, il giudice deve condannare il
proprietario di un edificio che eccede il suo diritto arrecando danno (mudārr)
ad altri nella sopraelevazione della sua costruzione in modo tale da togliere
al vicino la luce o la corrente d'aria. D. SANTILLANA, Istituzioni di
diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol.
I, cit., 381-382, porta anche il caso di chi possiede una pianta sul fondo
altrui e passa continuamente sul fondo ove il vicino abita con la famiglia con
il pretesto di curare la pianta. Ebbene, questi sarà considerato
danneggiante (mudārr) nel senso tecnico che in latino corrisponde
al brocardo qui jure suo abutitur. Lo stesso principio si applica anche
in caso di molestia del possesso. In questi termini, la fattispecie non pare
impropriamente accostabile ai limiti posti al diritto di proprietà in
Italia dalla Costituzione (art. 42) e dal codice civile (art. 844).
[30] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. I, cit., 73. Tale statuizione è conforme
all'hadīt che recita “lā tā'ah li-mahlūq
fī ma'siyat al-hāliq” ovvero “nessuna obbedienza
(è dovuta) alla creatura (all'uomo) nel disobbedire al Creatore”.
[31] A. RAHIM, The principles of muhammadan
jurisprudence according to the Hanafi,
Maliki, Shafi'i and Hanbali Schools, Lahore, 1911, 276
riferendosi ai principi sanciti dalla “Muhammadan Law”
stabilisce che il diritto di agire per legittima difesa spetta non solo in caso
di aggressione alla propria incolumità personale o dei propri beni, ma
anche a quelli dei passanti. La ratio giustificatrice è da
rinvenirsi nella perdita di protezione in danno di chi agisca armato contro un
altro.
[32] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. I, cit., 73. Secondo il giureconsulto Halīl
“si può respingere colla forza l'aggressore... ed è lecito
ucciderlo, qualora la difesa non sia possibile in altro modo”. La
legittimità dell'uccisione dell'aggressore si ha non solo quando si
debba difendere la propria vita o la propria incolumità personale, ma
anche quando si difendano i propri beni. Così, ad esempio, agisce
legittimamente chi insegua ed uccida il ladro che di notte tenti di scappare
con il bottino se non era possibile attendere i soccorsi. In questo senso cfr. A. RAHIM, The principles of
muhammadan jurisprudence according to the Hanafi, Maliki, Shafi'i and Hanbali Schools, cit., 276.
[33] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. I, cit., 73.
[34] G.H. BOUSQUET, Précis de Droit Musulman
– principale ment mâlékite et algérien, précis élémentaire,
cit., 245, al riguardo scrive testualmente che “Un principe
important est que le dommage doit avoir été causé de la
façon la plus directe”. Nello stesso senso, v. L.A.K. NIAZI, Islamic
law of tort, cit., 237, secondo il quale la responsabilità non si
estende mai agli incidenti che sono collegati all'attività del danneggiante
solo in modo remoto.
[35] G.H.
BOUSQUET, Précis de Droit Musulman – principale ment
mâlékite et algérien, précis élémentaire, cit,
245 nota che nella maggior parte dei casi il danneggiante è esente da
responsabilità in caso di forza maggiore o caso fortuito.
[36] A. RAHIM, The principles of muhammadan
jurisprudence according to the Hanafi,
Maliki, Shafi'i and Hanbali Schools, cit., 277-278.
[37] In tal senso, v. A. RAHIM, The principles of muhammadan jurisprudence
according to the Hanafi, Maliki,
Shafi'i and Hanbali Schools, cit., 279.
[38] Per un'analisi più approfondita
dell'interruzione del nesso di causa nella ghasb, v. infra
paragrafo n. 7.
[39] S.H. AMIN, Wrongful
appropriation in Islamic Law, cit., 10, precisa che l'espressione
“intenzionalmente” è usata dai giuristi per indicare anche i
casi di colpa, negligenza e mancanza di attenzione. D. SANTILLANA, Istituzioni
di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita,
vol. I, cit., 71, approfondisce il pensiero delle Scuole Malichita e Sciafiita,
secondo le quali quando si tratta di beni altrui la colpa (hata')
è equiparata al dolo ('amd). Da ciò consegue che
«è volontario ogni fatto dovuto all'azione spontanea dell'uomo;
volontarietà è, in questa materia, sinonimo di
spontaneità».
[40] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol I, cit., 70.
[41] Un
orientamento dottrinale sostiene che il concetto di colpa sia sconosciuto al
diritto musulmano, v. J. SCHACHT, An introduction to Islamic Law,
Oxford, 1964, 182. Tale posizione è tuttavia rimasta isolata. In senso
dichiaratamente contrario, infatti, si esprime L.A.K. NIAZI, Islamic law of
tort, cit., 234 che spiega che da quando Dio ha dato all'uomo la
capacità di pensare e capire, questo è responsabile per le sue
azioni. Ciò implica che su ciascuno grava l'obbligo di agire, o
astenersi dal farlo, sulla base delle circostanze esistenti, con la conseguenza
che il mancato esercizio delle attenzioni e cure proprie dell'uomo medio
determina l'insorgere della colpa. Conformemente, v. D. SANTILLANA, Istituzioni
di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita,
cit., 70-71, secondo il quale “la colpa, dicono le fonti, è
ciò che viene fatto senza intenzione”. L'esempio di Abū
Yūsuf chiarisce che “è colpa il fatto di colui che prende di
mira una certa cosa e ne colpisce un'altra”; analogamente al-Mugīrah
dice che “è colpa colpire un oggetto, quando si aveva l'intenzione
di colpirne un altro”. Riguardo al criterio da adottare nel valutare la
colpa, Al-Burzulī dice che “è colpa quando non si fa
ciò che fanno ordinariamente gli uomini”.
[42] L.A.K. NIAZI, Islamic law of tort, cit.,
235-237.
[43] G.H.
BOUSQUET, Précis de Droit Musulman – principale ment
mâlékite et algérien, précis élémentaire, cit.,
245, secondo il quale l'incapace può essere considerato responsabile per
i danni cagionati.
[44] Tradizionalmente, il campo in cui si
sviluppano maggiormente le tematiche relative all'imputabilità è
quello penalistico. Difatti, un contributo rilevante sul punto, anche in chiave
civilistica, deriva da A.F. BAHNASSI, Criminal Reponsability in Islamic Law,
articolo citato in M.C. BASSIOUNI, The Islamic Criminal Justice System,
Oceana Publications, New York, 1982, 192-193; conformemente, v. L.A.K. NIAZI, Islamic
law of tort, cit., 328 ss.
[45] L.A.K. NIAZI,
Islamic law of tort, cit., 328; D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, cit., 78-79, accomuna
la posizione dell'infante, dell'impubere e della donna maritata. Il padre ed il
tutore non sono mai chiamati a rispondere delle azioni di questi perché
la responsabilità del minorenne ha per fondamento non
l'imputabilità, ma il danno arrecato ai beni altrui (cfr. Lib. V, §
21). Il marito non risponde mai dei danni e dei fatti delittuosi della moglie
in virtù della indipendenza economica dei coniugi che rende la donna
personalmente responsabile sui propri beni, tanto civilmente quanto penalmente
(cfr. Lib. V, § 16). Conformemente, v. F. CASTRO, Voce Diritto musulmano, cit., 306, che in
chiave evolutiva sottolinea che in taluni ordinamenti contemporanei la
responsabilità del genitore e del marito è stata introdotto nei
codici civili, segno della recezione del modello romanistico.
[46] Nell'età del discernimento, il
bambino potrebbe essere sottoposto a tutela (Qisās) ma in realtà egli è lasciato in libertà
perché è dubbio che tale sanzione gli si attagli in modo
appropriato in considerazione della sua non completa maturità. Si crea
così un sistema binario dove il bambino risponde civilmente dei danni
che cagiona, ma non ne risponde penalmente, in virtù di maggiori cautele
che circondano la responsabilità penale rispetto a quella civile.
Pertanto, egli è responsabile per il furto delle cose che abbia rubato
perché tale responsabilità è di carattere patrimoniale,
mentre in caso di omicidio la sanzione consiste nella sua diseredazione.
[47] A. RAHIM, Muhammadan Juriprudence,
All Pakistan Legal Decisions, Lahore, 1977, 244-245, afferma che i
soggetti affetti da disordine mentale sono responsabili per gli illeciti civili
da loro commessi perché la malattia mentale non è una scusante.
La scuola Malikita, invece, ritiene che l'infermità mentale sia una
causa di sospensione dell'esecuzione della condanna emesse a carico del
demente, che può convertire la pena con il pagamento di una
indennità o, secondo un'altra opinione, può soddisfare l'altrui
pretesa con il pagamento del diya (prezzo del sangue). Comunque, essi
rispondono dei danni che cagionano perché il loro comportamento ne
è origine o causa efficiente, non già in quanto causa volontaria
del danno, v. L.A.K. NIAZI, Islamic law of tort, cit., 336; D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. I, cit., 72. Secondo la scuola Hanafita, invece, nel caso di sanzione
retributiva, è preferibile che essa sia sostituita con una
indennità, nonostante l'analogia (Qiyās) richieda una sanzione retributiva, v. A.F. BAHNASSI, Criminal
Reponsability in Islamic Law, cit., 187.
[48] F. CASTRO, Il
modello islamico, cit., 73; D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. II, cit.,
452 ss.
[49] Si pensi, ad esempio, alle lesioni
personali che sono sanzionabili ai sensi degli artt. 582, 590 c.p. con pena
detentiva, ed allo stesso tempo risarcibili monetariamente in sede civile a
titolo di danno biologico ex art. 2043 c.c. Allo stesso modo, in caso di
danneggiamento, il danneggiante sarà penalmente responsabile ai sensi
dell'art. 635 c.p., ma anche condannabile civilmente al pagamento della somma
di denaro necessaria per riparare il danno. Come si può notare, dunque,
lo stesso fatto lesivo della salute o del patrimonio altrui determina
l'insorgere di entrambi i tipi di responsabilità.
[50] La stessa dottrina che esclude i delitti
di sangue dall'ambito dell'illecito civile ammette tuttavia che “essi
hanno bensì conseguenze patrimoniali per il loro autore, ma queste si
confondono colla sanzione penale sotto forma di composizione o prezzo del
sangue (diya)”, D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano
malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. II, cit., 452. Siffatto inquadramento non pare tenere in
debita considerazione il fatto che anche negli illeciti qualificati come
“delitti civili” vi è commistione tra conseguenze
civilistiche e penalistiche. Inoltre, la quadripartizione operata da Santillana
circa i delitti civili evidenzia una singolare vicinanza di essi con altrettante
ipotesi di reato nel nostro ordinamento: furto (sariqah), rapina (ghasb),
furto d'uso (ta'addī) e danneggiamento o danno fatto con lo scopo di nuocere (ta'addī).
Ad essi si aggiunge il ritardo nell'adempimento delle obbligazioni che pare
essere l'unico illecito di carattere esclusivamente civilistico. Per queste ragioni non pare potersi
accogliere l'obiezione che la natura della responsabilità deriva dal
tipo di sanzione, perché anche nel caso di lesione di beni patrimoniali
il diritto musulmano tradizionale commina sanzioni di natura penalistica, come
ad esempio accade nel furto (sariqah) con il taglione (qisâs
o qawad).
[51] A. RAHIM, The principles of Muhammadan
Jurisprudence according to the Hanafi,
Maliki, Shafi'i, and Hanbali Schools, cit., 282-283,
mette in luce che nel diritto musulmano l'applicazione letterale e concreta del
diya è stato scoraggiato in ogni modo e non ha quasi mai avuto
applicazione concreta, tantomeno in tempi più moderni nei quali si
è fatto ricorso quasi automatico alla compensazione del “prezzo
del sangue”. In tale senso, il diya potrebbe essere visto come una
forma di risarcimento per equivalente, sostanzialmente assimilabile ad una
sanzione civile, cioè pagamento di una somma di denaro al posto di
punizioni corporali. La predeterminazione dell'ammontare della compensazione ad
opera della legge rende tale strumento certo ed affidabile, evitando
così che sorgano questioni in ordine al quantum debeatur.
[52] Per la lunga
serie di beni il furto dei quali non genera l'amputazione, e per le relative
motivazioni v. T.P. HUHES, Voce Sariqah, in A Dictionary of Islam,
Lahore, 1885, 284-285. L'Autore sottolinea anche che sulla quantificazione del valore minimo che
da luogo a responsabilità si riscontrano diverse opinioni. Secondo la
scuola di Abū Hanīfah, il valore minimo è di dieci dirhams;
secondo Ash-Shāfi't un quarto di dinār o dodici dirhams; infine,
Mālik stabilisce il valore di tre dirhams. Quest'ultimo dato trova
riscontro anche in D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano
malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. II, cit., 453.
[53] T.P. HUHES,
Voce Sariqah, cit., 284-285; E. BUSSI, Principi di diritto musulmano,
cit., 188 fornisce la definizione di sariqah nella parte dedicata al
diritto penale; F. CASTRO, Il modello islamico, cit., 73; D. SANTILLANA,
Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema
sciafiita, vol. II, cit., 452-453 dopo aver sancito che i delitti di sangue
non sono compresi nella categoria del fatto illecito, utilizza
significativamente il termine “reato” per riferirsi alla sariqah.
Ed in effetti la nozione di sariqa è sovrapponibile al nostro
furto di cui all'art. 624 c.p. ai sensi del quale “Chiunque si impossessa
della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne
profitto per sé o per altri è punito con la reclusione fino a tre
anni e con la multa da lire sessantamila a un milione”.
[54] T.P. HUHES,
Voce Sariqah, cit., 284-285, analizza il concetto di custodia che
può avere un duplice significato. In primo luogo esso si può
riferire al luogo in cui si trova il bene, come ad esempio una casa o un
negozio. Secondariamente, si può riferire alla sorveglianza personale
che viene esercitata sul bene. Quindi, è ritenuto sotto custodia il bene
che si trova in un luogo riservato e sicuro, oppure il bene che è
oggetto di speciale vigilanza da parte del custode.
[55] T.P. HUHES,
Voce Sariqah, cit., 284; D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. II, cit.,
453.
Nel caso di specie, dalla sariqah derivano rilevanti
conseguenze penalistiche quali ad esempio il taglione (qisâs o qawad), e proprio queste gravi conseguenze sono
logicamente coerenti con la necessità che il danneggiante/reo sia
imputabile. In senso contrario, cfr. F. CASTRO, Su gasb e ta'addī
nel fiqh fatimida, in Annali della Facoltà di lingue e
letterature straniere di Cà Foscari, XIV.3, 1974, 96, secondo il
quale la pena applicabile per il furto, del tipo haqq Allāh,
presenta sia finalità sanzionatoria che educativa e correttiva, e
pertanto deve essere comminata anche al minore.
[56] V. infra,
pr. 4.
[57] F. CASTRO, Su
gasb e ta'addī nel fiqh fatimida, cit., 96; E.
BUSSI, Principi di diritto musulmano, cit., 185 ss. Il Corano indica
tassativamente i delitti che vengono puniti con pena fissa (hadd) e sono
la ribellione (bagy), l'apostasia (ridda), la fornicazione (zinā'),
l'ingiuria o la calunnia (qadf), il furto (sariqa), il
brigantaggio (hirāba) ed il bere vino (širb). Al loro
interno questi reati si distinguono in base alla “condizione di
procedibilità” che può essere hadd ādamī o
haqq Allāh, a seconda che l'iniziativa giudiziaria sia privata o
pubblica. Sono punibili ad iniziativa di parte quei reati il cui bene giuridico
leso è un “diritto umano”, strettamente legato alla sfera
individuale della persona, come ad esempio nel caso della calunnia dove il bene
tutelato è l'onore della persona. I reati perseguibili su iniziativa
pubblica, invece, sono quelli che offendono Dio e che sono lesivi dell'ordine
pubblico come sentimento religioso, come ad esempio l'ubriachezza. La ratio
della legittimazione attiva pubblica per la repressione di taluni delitti
risiede nel potere-dovere (hisbah) che spetta ad ogni buon musulmano
perché sia osservata la legge divina, praticato il bene e vietato il
male.
Un'ulteriore differenza è
riscontrabile nella modalità di estinzione del reato. Nei reati di puro
“diritto umano” la vittima può rimettere la pena, mentre nei
reati che violano la legge divina non vi è alcuna possibilità di
graziare il reo. Il sariqa ha carattere ibrido perché l'esercizio
della rivendica è hadd ādamī mentre la punizione del
colpevole segue le regole dell'haqq Allāh.
[58] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. II, cit., 453, sottolinea come la condizione di
musulmano, quella di tributario protetto (dimmī) o di vivente in
territorio musulmano sotto la fede di una promessa di sicurezza, anche se non
tributario (musta'min), è indifferente ai fini della
legittimazione attiva.
Il titolare di un diritto reale su cosa
altrui viene equiparato al creditore pignoratizio (murtahin).
[59] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. II, cit., 454.
[60] A determinare l'entità della
sanzione è direttamente il Corano nella Sūrah v. 42 che recita:
“Se un uomo o una donna rubano, gli siano tagliate le loro mani”.
In dottrina v. T.P. HUHES, A Dictionary of Islam, cit.; ID., Voce Sariqah,
in The Oxford Dictionary of Islam, Oxford University Press, New York,
2003, 279, nota che le ordinanze penali islamiche tradizionali (hudud)
si distinguono in due tipi: “Al-Sariqah Al-Sughra” (furto
semplice), che implica l'amputazione della mano destra, e “Al-Sariqah
Al-Kubra”, il significato del quale è contestato ma che
richiede l'amputazione della mano destra e del piede sinistro. Ogni
amputazione, comunque, è messa in esecuzione solo se gli stringenti
requisiti probatori sono soddisfatti. Nella pratica, tuttavia, le ordinanze hudud
hanno carattere sostanzialmente deterrente, e anche quando si raggiunge la
prova necessaria per l'amputazione essa è raramente invocata.
E. BUSSI, Principi
di diritto musulmano, cit., 188, ironicamente osserva che le ipotesi
più aggravate di recidiva ed il carcere a vita siano una ipotesi di
scuola “perché non si riesce a comprendere come un disgraziato
conciato in tal modo possa ancora rubare”.
[61] F. CASTRO, Il
modello islamico, cit., 74; ID., Su gasb e ta'addī
nel fiqh fatimida, cit., 96-97.
[62] Compiute le doverose distinzioni, tale
istituto sembra evocare la causa di non punibilità di cui all'art. 649
c.p. Italiano che recita: “Non è punibile chi ha commesso alcuno
dei fatti preveduti dallo stesso titolo in danno: 1) del coniuge non legalmente
separato; 2) di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta,
ovvero dell'adottante, o dell'adottato; 3) di un fratello o di una sorella che
con lui convivano. I fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela
della persona offesa, se commessi a danno del coniuge legalmente separato,
ovvero del fratello o della sorella che non convivano coll'autore del fatto,
ovvero dello zio o del nipote o dell'affine in secondo grado con lui conviventi.
Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai delitti preveduti dagli
articoli 628, 629 e 630 e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia
commesso con violenza alle persone”.
In questo caso, il
reato è perfettamente integrato nei suoi elementi costitutivi ma la
punibilità del reo è esclusa in virtù del rapporto di
parentela che intercorre con la vittima. Le relazioni familiari sono
caratterizzate dalla naturale vicinanza, anche affettiva, tra i soggetti
coinvolti. In taluni casi, come quello del fratello o della sorella, la
convivenza assume importanza decisiva ai fini della non punibilità del
reo.
Analogamente, nel
diritto musulmano i soggetti indicati hanno un particolare rapporto di
vicinanza con la vittima, e spesso sono persone che hanno libero accesso
all'abitazione del derubato sulla base di un rapporto personale di fiducia o
comunque hanno un rapporto più stretto di quello di estraneità
che generalmente connota le relazioni tra ladro e derubato.
[63] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, cit., 455. Per un'analisi storica dello status dei non
musulmani in terra islamica, cfr. L.A.K. NIAZI, Islamic Law of Tort,
cit., 298.
[64] F. CASTRO, Il
modello islamico, cit., 74; D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, cit., 455.
Tale statuizione pare
evocare un parallelismo con il principio latino secondo il quale fur semper
moram facere videtur. Chi si macchia di un reato, contrariamente a quanto
può fare normalmente l'obbligato, non può invocare le cause di
forza maggiore per esonerarsi dall'adempimento dell'obbligazione che sorge da
fatto illecito. L'unica ipotesi nella quale il ladro è esonerato dalla
prestazione restitutoria o risarcitoria per equivalente è quando egli
sia a sua volta vittima del furto della cosa, e non abbia la capacità
economica per corrispondere la somma dovuta.
[65] E. BUSSI, Principi di diritto
musulmano, cit., 144 ss., compie un'analisi semantica ed etimologica della
parola ghasb (da ghasaba) dove “è un po' implicita
l'idea della violenza, almeno come iniuria, perché significa
prendere ingiustamente, senza diritto”. Tuttavia, è possibile che
nell'epoca preislamica la parola avesse un contenuto un po' differente e che
“essa indicasse generalmente uno stato di limitato rispetto al diritto di
proprietà, fonte di frequenti invasioni altrui”. Una conferma di
tale origine sembra potersi ricavare dalle similitudini che il ghasb
presenta con il gzêlâ (rapina) del diritto ebraico.
[66] S.H. AMIN, Wrongful appropriation in
Islamic Law, cit., 2, precisa che per la scuola Hanafita, contrariamente a
quanto insegnato dalla scuola Sciita e da alcuni giuristi della scuola Sunnita,
la rapina riguarda solo i beni mobili; pertanto è esclusa la
configurabilità del ghasb di beni immobili. Nello stesso senso,
v. L.A.K. NIAZI, Islamic law of tort, cit., 44.
[67] Non è pacifico che la cosa debba
avere valore commerciale perché si configuri il ghasb. In senso
contrario si esprime autorevolmente l'Ayatollah Khomeini nel parere noto come
“Tov zih al-Masael”, in
ordine al quale stabilisce che una persona che si appropria di una cosa (cheese)
deve restituirla o pagare i danni. Il termine “cosa” (cheese)
ha un significato molto più ampio del termine “bene” (māl) in quanto comprende anche quelle cose che non hanno valore
commerciale. Tradizionalmente, lo scopo del diritto civile musulmano, come di
tutti gli altri sistemi legali, è quello di dirimere dispute
“serie” dove sono coinvolti “interessi patrimoniali” (māl). Da ciò consegue che, tecnicamente, una persona non
può agire nei confronti di un'altra la quale abbia preso o causato la
perdita di una cosa che non ha valore commerciale. Tuttavia, l'Ayatollah insiste
nel sostenere che se le persone possiedono determinate cose, ancorché
prive di valore commerciale e pertanto non qualificabili come beni (māl), esse devono comunque essere protette dall'ordinamento. In tal
senso cfr. S.H. AMIN, Wrongful appropriation in Islamic Law, cit., 17.
[68] La nozione, basata sugli insegnamenti di
Hanafi, è tratta da S.H. AMIN, Wrongful appropriation in Islamic Law,
cit., 2. Una nozione sostanzialmente analoga è espressa anche in E.
BUSSI, Principi di diritto musulmano, cit., 144; F. CASTRO, Su gasb
e ta'addī nel fiqh fatimida, cit., 96. Per la Scuola malikita, cfr. D. SANTILLANA,
Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema
sciafiita, vol. II, cit., 455, che riporta la definizione di gasb
proposta dal giureconsulto Halīl, secondo il quale “La rapina (gasb)
è il fatto di chi si impossessa della cosa altrui con violenza e senza
diritto, con l'animo di farla sua, senza però far uso delle armi”.
È interessante
notare che i principi della scuola Hanafita sono incorporati dalla maggior
parte, se non dalla totalità, dei codici civili dei vari Stati Islamici.
Ad esempio, la Majellah (il vecchio Codice Civile ottomano) definisce la
rapina secondo i dettami della scuola di Hanafi. Tra gli altri codici che seguono
tale impostazione si annoverano quello egiziano, siriano, libanese ed iracheno.
Gli stessi principi, con piccole modifiche, possono rinvenirsi nel primo volume
del Codice Civile iraniano promulgato il 9 maggio 1927 e negli altri volumi
promulgati il 6 novembre 1935. Le disposizioni concernenti l'argomento ad
oggetto sono gli articoli 315-320.
Anche nel Corano si
rinvengono riferimenti alla ghasb: “Iddio dice: Non consumate
fra voi le vostre ricchezze invano (II, 188) e Non oltrepassate i
limiti, che Dio non ama i
trasgressori (II, 190 e/o V. 87)”. Per un'approfondita
elencazione dei riferimenti al ghasb nella Legge Sacra, v. anche http://www.al-islam.org/laws/ghasb.html.
[69] S.H.
AMIN, Wrongful appropriation in Islamic Law, cit., 2.
[70] F. CASTRO, Il
modello islamico, cit., 74 secondo il quale, testualmente, “La
rapina, ghasb, è una forma aggravata di furto”; nello stesso senso
cfr. D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo
anche al sistema sciafiita, vol. II, cit., 455; E. BUSSI, Principi di diritto musulmano,
cit., 144.
[71] F. CASTRO, Su gasb e ta'addī nel fiqh
fatimida, cit., 96, utilizza la diversa graduazione della violenza come
uno dei parametri discriminatori tra le varie figure di reato. Infatti,
rispetto al furto la rapina contiene in più l'elemento della violenza,
ed il brigantaggio ha in più l'elemento dell'uso delle armi. Secondo
tale ricostruzione, dunque, la violenza e l'uso delle armi non sarebbero
aggravanti, bensì elementi costitutivi della fattispecie tipica.
[72] E. BUSSI, Principi di diritto
musulmano, cit., 144, per indicare la pena discrezionale utilizza il
termine ta'zîr invece che ta'dīb. La
differenza lessicale, tuttavia, non incide sulla natura e sugli effetti della
pena per cui essi possono essere intesi come sinonimi.
[73] F. CASTRO, Su gasb e ta'addī nel fiqh
fatimida, cit., 96-97, basandosi sulla natura della pena e sugli
elementi costitutivi della fattispecie tipica distingue nettamente la sariqa
dal ghasb. Singolarmente,
la sottile e convincente argomentazione avviene per mano dello stesso Autore
che in altra sede ha sostenuto la tesi contraria, come riportato nella nota n.
71.
[74] Per questa originale e moderna
distinzione v. S.H. AMIN, Wrongful appropriation in Islamic Law, cit.,
11. Nonostante l'autore traduca il termine ghasb con “wronguful
appropriation”, quest'ultimo pare avere una nozione molto più
ampia e non esattamente coincidente rispetto a quella tradizionalmente
accettata per il termine ghasb. Tale ricostruzione ha tuttavia il pregio
di far comprendere con chiarezza il quadro sistematico all'interno del quale si
deve muove il giurista iraniano in caso di “wrongful appropriation”.
[75] Tale distinzione non appare condivisibile
perché nei fatti fa dipendere il criterio discriminatorio per agire in
autotutela piuttosto che attraverso i canali giudiziali dal tipo di interesse
coinvolto. Ma è proprio la distinzione tra le varie nature degli
interessi a non essere chiara ed univoca, ingenerando così confusione e
contraddizione. Nel particolare campo ad oggetto, come già evidenziato
in precedenza, molto spesso la condotta illecita viola sia beni di natura
strettamente personale che beni di interesse collettivo. Ad esempio, l'onore
può essere considerato sia un bene strettamente personale che
collettivo, a seconda che si sostenga che esso è intimamente ed
esclusivamente connesso alla persona ed al suo personale interesse a non essere
diffamato, oppure che si consideri l'interesse della società che i suoi
soggetti non vengano lesi nella loro onorabilità, come è stato
sostenuto in questo caso. Allo stesso modo, prendere la proprietà come
esempio di bene strettamente personale, e quindi tutelabile in via di autotutela,
non convince appieno perché sembra trascurare gli evidenti risvolti di
ordine pubblico che conseguirebbero da spoliazioni a catena.
[76] In questi termini si esprime l'autorevole
giurista AYATOLLAH SAYED MOHAMMAD VAHIDI, Vagezee nafeah, Qum, 1360/1981, 121-124 nella sua opera
dedicata allo studio del diritto processuale civile e della prova processuale
nella traduzione proposta in S.H. AMIN, Wrongful appropriation in Islamic
Law, cit., 13-14. Il punto, tuttavia, non è pacifico. È
sostenuta, infatti, l'impossibilità di procedere autonomamente al
trattenimento di beni altrui, anche quando questi siano obbligati nei loro
confronti, v. Ga'far b. Muh
che dice: “Restituite quel che vi è stato affidato anche se fosse
dell'uccisore”, in Da'ā'im al-islām, ed. Fyzee, Cairo,
1965, II, 484-488 secondo la traduzione proposta da F. CASTRO, Su gasb e ta'addī nel fiqh
fatimida, cit., 98. Si rinviene anche una posizione mediana che
autorizza la vittima a farsi giustizia da sé solo quando questo non
richieda l'uso della violenza, cfr. Kitāb al-iqtisūr, ed.
Mohammad Wahīd Mirzā, Damasco, 1957, 152-153, tradotto da F. CASTRO, Su
gasb e ta'addī nel fiqh fatimida, cit., 97, per
il quale “Se uno tradisce un uomo o ne usurpa [i beni], quest'ultimo se
ha possibilità dirette sui beni dell'usurpatore se ne può
appropriare, ma non gli è lecito, a risarcimento dei suoi beni, tradire
o usurpare [beni del mugtasib]”.
[77] AYATOLLAH SAYED MOHAMMAD VAHIDI, Vagezee
nafeah, cit.,
121-124. E' interessante notare che il codice civile iraniano emanato negli
anni '80, similmente al nostro ordinamento, riconosce la compensazione quale
modo di estinzione dell'obbligazione. L'art. 295 del suddetto codice statuisce
che quando due persone sono reciprocamente obbligate, il rispettivo
indebitamento viene automaticamente compensato qualora sussistano determinate
condizioni. La ratio della disposizione risiede nell'evitare il
susseguirsi di pagamenti incrociati, cosa che sarebbe un'inutile perdita di
tempo per le parti, nonché contraria al principio dell'economia dei
mezzi giuridici. In tal modo i rapporti tra le parti sono facilitati e le
transazioni commerciali procedono più speditamente. Per un'ampia
disamina delle disposizioni del codice civile iraniano sulla compensazione ed i
suoi presupposti, cfr. S.H. AMIN, Wrongful appropriation in Islamic Law,
cit., 11 ss.
[78] Il Consiglio Rivoluzionario Iraniano ha
promulgato il Single Article Act 1980, in virtù del quale
è disposta la competenza del Tribunale Amministrativo presso il
Ministero del Petrolio per dirimere i molti contenziosi sorti tra l'Iran e le
compagnie petrolifere straniere. Sul punto, cfr. S.H. AMIN, Wrongful
appropriation in Islamic Law, cit., 14.
[79] La regolazione delle attività
economiche per mano degli Stati e l'instaurazione di Tribunali Amministrativi
che giudicano le perdite patrimoniali dei privati per fatto dello Stato, o la
legittimità dei provvedimenti amministrativi, è stata criticata
su più fronti, specie nell'esperienza iraniana. In primo luogo, manca
l'indicazione di standards procedurali attraverso i quali instaurare e
regolamentare il giudizio. A questa informalità del giudizio si somma il
fatto che il diritto amministrativo iraniano non attribuisce alcuna valenza
alle prove orali, e non ammette il controesame del testimone. Da ciò
consegue che l'esito del processo dipende spesso dalla personalità e
dagli orientamenti del presidente e dei membri del Tribunale, che motivano
politicamente le loro posizioni.
A loro volta, poi, il
presidente ed i membri del collegio giudicante non sono sottoposti ad alcun
controllo circa la loro competenza e qualifica. Oltre alla mancanza delle
garanzie procedurali sopra indicate, i Tribunali Amministrativi non hanno
l'obbligo di motivazione delle loro decisioni. Per un più approfondito
esame, v. S.H. AMIN, Wrongful appropriation in Islamic Law, cit., 14 ss.
[80] A. RAHIM, The
principles of Muhammadan Jurisprudence according to the Hanafi, Maliki, Shafi'i and Hanbali
Schools, Lahore, 1911, 283; E. BUSSI, Principi di diritto musulmano, cit., 144; D. SANTILLANA,
Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema
sciafiita, vol. II, cit., 456; F. CASTRO, Il modello islamico, cit.,
74; ID., Su gasb e ta'addī nel fiqh fatimida,
cit., 98, che traduce gli insegnamenti di Ga'far b. Muh secondo il quale
“Per quanto riguarda i beni della gente, non sono d'accordo sulle
minacce. Ritengo, però, che queste ricchezze se sono ancora in possesso
dell'usurpatore (gāsib) – che è tenuto alla
restituzione – vadano restituite. Se l'usurpatore le ha dissipate, ne restituisca
il valore equivalente. Se dei beni appropriati non conosce il proprietario, ne
dia per suo conto in elemosina ai poveri e ai mendicanti, volgendosi poi
pentito a Dio per quel che ha commesso”. Per l'orientamento della scuola
Sciafiita, v. S.H. AMIN, Wrongful appropriation in Islamic Law, cit.,
16; D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo
anche al sistema sciafiita, vol. II, cit., 458, secondo la quale il
risarcimento per equivalente viene calcolato sulla base del maggior valore del
bene nel periodo compreso tra la sottrazione e la distruzione del bene.
[81] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. II, cit., 457 ss., sul punto pare contraddire le
regole generali. Egli, infatti, scrive che “Se la deteriorazione è
avvenuta per causa non imputabile all'usurpatore, lo spogliato può, a
sua scelta, ripetere il valore della cosa o riprenderla qual'è,
senz’altro indennizzo”. Da ciò si evince che il valore che
il ghasīb deve corrispondere è valutato al momento della
restituzione. Questo è in contrasto con quanto pacificamente sancito,
anche da Santillana, dal combinato disposto delle regole sul ghasb e
causalità, in ordine alle quali il quantum debeatur è calcolato
sul valore che la cosa aveva al momento della sottrazione, e l'aver posto in
essere la rapina pone a carico dell'autore dell'illecito anche le cause a lui
non imputabili come la forza maggiore, il caso fortuito od il fatto del terzo.
V. infra, in particolare la nota 69.
Secondo l'impostazione originaria della
scuola Malikita che distingue la rapina (ghasb) dall'usurpazione di
godimento o furto d'uso (ta'addī), è previsto che in
quest'ultimo caso l'usurpatore (ghāsib) corrisponda non solo i
frutti percetti, ma anche quelli che avrebbe potuto ricavare dalla cosa.
[82] S.H. AMIN,
Wrongful appropriation in Islamic Law, cit., 16, che fornisce una ulteriore
specificazione in virtù dell'art. 320 del codice civile iraniano secondo
cui, in caso di usurpazione del bene già usurpato, il primo usurpatore
deve corrispondere non solo i frutti direttamente e personalmente percepiti, ma
anche quelli che ha percepito il secondo usurpatore. Una volta ristorato il
legittimo proprietario, il primo rapinatore può rivalersi sul secondo.
La ratio tradizionale della
disciplina è illustrata in modo molto incisivo per mezzo delle parole di
Al-Qalšānī in D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano
malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. II, cit., 456-457, secondo
il quale “La dottrina è che i frutti sono dovuti senza
distinzione... e questa è la verità, secondo i Dottori della
nostra scuola (Malichita), poiché, dicono essi, il possesso della cosa
ha per scopo le utilità che se ne ritraggono e, qualora l'usurpatore (gāsib)
non fosse tenuto a restituire i frutti, la sentenza contro di lui pronunciata
si ridurrebbe a concedergli il diritto di godere delle cose usurpate”. In
tal senso si esprime anche F. CASTRO, Su gasb e ta'addī
nel fiqh fatimida, cit., 99 che riporta tre esempi particolarmente
significativi forniti dalla scuola Ismailita. Secondo il primo “Se uno
s'appropria [con violenza] una schiava e la fa procreare, la restituisca al suo
padrone, cui spetta come schiavo anche il figlio. Se uno acquista una schiava
usurpata e la fa procreare, la restituisca al suo padrone, con il prezzo del
figlio, qualora non sappia che essa era usurpata”, mentre per il secondo
“Se uno s'appropria di bestiame che si riproduce e si moltiplica durante
il possesso, [è tenuto] a restituire al derubato quanto si è
riprodotto. Tutto ciò anche nel caso si tratti di una schiava usurpata e
che abbia voluto un figlio”. Il terzo, infine, chiarisce che “se un
uomo s'appropria di un servo, lo cede in locazione, o si è ceduto in
locazione lo schiavo stesso; ritornato dal suo padrone, questo lo riprende e
gli spetta anche il salario in possesso di colui nelle cui mani si
trovava”. Sul superamento da parte della scuola Hanafita
dell'insegnamento di Abu Hanafi stesso, che operava varie distinzioni sulla
corresponsione dei frutti, cfr. A. RAHIM, The principles of Muhammadan
Jurisprudence according to the Hanafi,
Maliki, Shafi'i and Hanbali Schools, cit., 283.
[83]
Sull'argomento è significativa la posizione di Ga'far b. Muh che,
interrogato sul gāsib che fa incrementare quanto usurpato, osserva
che “ciò che è aggiunto è suo e ciò che
è aggiunto non per sua opera appartiene al proprietario del bene, ogni
perdita è a carico del gāsib”, in F. CASTRO, Su gasb
e ta'addī nel fiqh fatimida, cit., 99. Cfr. anche D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. II, cit., 457.
[84] E. BUSSI, Principi di diritto
musulmano, cit., 144; D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano
malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. II, cit., 457. Cfr.
anche la dottrina di Ga'far b. Muh nella traduzione effettuata in F. CASTRO, Su
gasb e ta'addī nel fiqh fatimida, cit., 99 per il
quale “Se un uomo si appropria di una schiava e questa muore in suo
possesso, egli è garante del suo valore; se ha avuto rapporti ed essa
è rimasta incinta e rivendicandola il padrone la riprende incinta ed
ella muore di parto, responsabile del valore è colui che l'aveva presa
[al suo padrone]”.
Per l'ordinamento iraniano, v. S.H. AMIN,
Wrongful appropriation in Islamic Law, cit., 16, il quale analizza l'art.
315 del codice civile che statuisce la responsabilità del rapinatore per
qualsiasi danno possa derivare alla cosa durante il periodo di detenzione della
cosa, indipendentemente dal fatto che il danno sia il risultato della sua
azione.
[85] In questo
senso si esprimo concordemente A. RAHIM, The principles of Muhammadan
Jurisprudence according to the Hanafi,
Maliki, Shafi'i and Hanbali Schools, cit., 283; F. CASTRO, Su
gasb e ta'addī nel fiqh fatimida, cit., 98; D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. II, cit., 455 e 458, il quale trattando dei
soggetti che succedono al rapinatore in caso di deterioramento del bene,
differenzia il regime applicabile al successore a titolo particolare da quello
applicabile all’erede. Il primo è responsabile solo se era a
conoscenza della provenienza illecita del bene, e per il valore che questo
aveva il giorno in cui lui ne era entrato in possesso. L'erede, invece,
è sempre responsabile per il valore della cosa calcolato al giorno
dell'usurpazione.
In tempi recenti, la posizione del
legittimato passivo è stata ribadita anche dall'art. 317 del codice
civile iraniano, in base al quale il proprietario spogliato del bene può
chiederne la restituzione o il pagamento del valore equivalente al soggetto
inizialmente colpevole dell'appropriazione o a chiunque altro si sia
impossessato successivamente del bene. Sul punto, v. S.H. AMIN, Wrongful
appropriation in Islamic Law, cit., 16.
[86] F. CASTRO, Su
gasb e ta'addī nel fiqh fatimida, cit., 96,
traduce letteralmente ta'addī come “trasgressione”,
“prevaricazione”.
[87] Più precisamente, la distinzione
trova riscontro nelle opere del qādī an-Nu'mān,
v. F. CASTRO, Su gasb e ta'addī nel fiqh fatimida,
cit., 97.
[88] Osservazioni analoghe si riscontrano
anche presso quella parte della dottrina che non adotta la sistematica proposta
dai Malikiti, cfr. E. BUSSI, Principi di diritto musulmano, cit., 143.
[89] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, cit., 459. Sulla base di questa nozione di ta'addī,
si può operare un parallelismo tra questo ed il furtum usus dei
Romani, cfr. Digest. 47.2.I § 3; 40.54 §I; Inst. IV.I
§ 6.
[90] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, cit., 459-460; F. CASTRO, Su gasb e ta'addī
nel fiqh fatimida, cit., 97.
[91] Tale distinzione tra ghasb e ta'addī induce una ulteriore
considerazione logico-sistematica. Si è detto in precedenza che la
dottrina unanime ritiene che il ghasb possa avere ad oggetto solo beni
mobili. Sulla base di tale presupposto, si nota una falla nella sistematica di
coloro i quali non distinguono tra ghasb di raqaba e ghasb
di al-manfa'a, che corrisponde al ta'addī, perché
l'usurpazione dell'uso o del godimento di beni immobili rimane esclusa dalle
tutele esperibili per ghasb. Al contrario, se si configura l'usurpazione
dell'uso o del godimento della cosa come ta'addī e non come ghasb,
le tutele esperibili dal danneggiato saranno quelle proprie del ta'addī,
che non hanno ad oggetto i soli beni mobili, e dunque coprono anche l'ipotesi
ad oggetto.
[92] Per l'inserimento dell'abuso del diritto
tra le ipotesi di ta'addī, v. F. CASTRO, Su gasb e ta'addī
nel fiqh fatimida, cit., 96.
[93] Cfr. infra, pr. 2.
[94] La somiglianza
è evidente leggendo la definizione di danneggiamento di cui all'art. 635
c.p., che prevede l’ipotesi di danneggiamento quando “Chiunque distrugge, disperde, deteriora o
rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili
altrui...”. Sulla corrispondente figura latina, per tutti v. F.M. DE
ROBERTIS, Damnum iniuria datum. La responsabilità extra-contrattuale
nel diritto romano, con
particolare riguardo alla lex Aquilia de damno, Vol. 2, Roma-Bari,
2002, 13 ss.
[95] S.H. AMIN,
Wrongful appropriation in Islamic Law, cit., 10, distingue le ipotesi di
distruzione compiuta deliberatamente (itlāf) o indirettamente (tasbeeb),
anche se gli effetti che conseguono alle due fattispecie sono identici. D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. II, cit., 463, equipara alla distruzione totale del
bene il fatto di chi maliziosamente trattiene presso di sé un titolo di
credito altrui, mettendo quest'ultimo nella impossibilità concreta di
far valere il suo diritto in tempo utile. In tal caso, il detentore illegittimo
è tenuto a rispondere del credito, come se avesse distrutto il
documento.
[96] D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al
sistema sciafiita, vol. II, cit., 461, riporta un episodio paradigmatico occorso a
Maometto stesso nel corso della sua vita. L'hadīt racconta che
il Profeta si trovava alla Mecca, e mentre girava per la Ka'bah ruppe con il
suo bastone trecentosessanta statuette raffiguranti degli idoli (nusub).
Ragionando a contrario, i giuristi musulmani sono pervenuti alla
conclusione che giuridicamente non commette danneggiamento chi rompe, anche con
premeditazione, beni privi di valore commerciale. Tra questi si annoverano gli
strumenti musicali, la croce, l’otre o l'anfora contenenti liquori
proibiti, oltre all'ipotesi di uccisione di un maiale.
Anche F. CASTRO, Su gasb e ta'addī
nel fiqh fatimida, cit., 99-100, riporta tre esempi significativi.
Nel primo racconta di un uomo che ruppe uno strumento musicale, nello specifico
una lira, senza che da ciò derivi alcuna responsabilità,
poiché egli ha commesso un ta'addī di una cosa il cui godimento
è illecito. Analogamente, egli riporta che “Bene ha fatto,
né deve farne ammenda, colui che ha rotto una lira, un arnese da gioco,
o ha squarciato un otre di vino o di bevanda inebriante”. Infine,
l'Autore mette in luce che Ga'far b. Muh proibì il gioco d'azzardo,
ossia la nuhba e il nitār, ritenendo questi ultimi alla
stregua di un'appropriazione indebita e quindi pari alla nuhba”.
Al contrario, “chi invita gente e distribuisce cibo o profumo, li rende
leciti: ciascuno prende ciò che gli è dato in mano e questo
diventa suo, senza costrizione e indebita appropriazione, quindi questo
è lecito ed è uguale al cibo al quale viene invitata la gente, e
che viene offerto ed è lecito mangiarne. Non vi è itlāf
fra la Gente al riguardo: ciascuno ne può mangiare. È odioso che
se lo portino via l'un l'altro o che uno non invitato ne mangi: il nitār
è in questa semplificazione”.
[97] A. RAHIM, The
principles of muhammadan jurisprudence according to the Hanafi, Maliki, Shafi'i and Hanbali
Schools, cit., 277; D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. II, cit.,
461, riporta che anche la lesione inferta ad una persona è considerata
come danno; Sul tema vedi anche E. BUSSI, Principi di diritto musulmano,
cit., 143; F. CASTRO, Su gasb e ta'addī nel fiqh fatimida,
cit., 96; ID., Il modello islamico, cit., 74. S.H. AMIN, Wrongful
appropriation in Islamic Law, cit., 10-11, evidenzia che la stessa
struttura caratterizza l'art. 328 del codice civile iraniano, per il quale
è indifferente che il fatto sia commesso intenzionalmente o meno, e che
il soggetto abbia ricavato profitto o no.
[98] L.A.K. NIAZI,
Islamic law of tort, cit., 58-59; D. SANTILLANA, Istituzioni di
diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol.
II, cit., 463; E. BUSSI, Principi
di diritto musulmano, cit., 144; F. CASTRO, Il modello islamico,
cit., 74; S.H. AMIN, Wrongful appropriation in Islamic Law, cit., 11,
che riporta il dettato dell'art. 331 del codice civile iraniano in virtù
del quale chiunque distrugga i beni di proprietà altrui deve restituire
una cosa simile o il suo valore per equivalente. Se ha danneggiato la cosa,
egli è responsabile per il deprezzamento del valore.
[99] F. CASTRO, Il
modello islamico, cit., 74; D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, cit., 462
annovera tra i titolari di haqq al-manfa'ah l'usufruttuario, il
creditore pignoratizio, il locatore ed il comodatario.
[100] S.H. AMIN,
Wrongful appropriation in Islamic Law, cit., 17, riporta l'art. 318 del
codice civile iraniano che sul punto è piuttosto articolato e chiarisce
quale sia il soggetto responsabile in caso di spoliazioni a catena. Ad esempio,
si ipotizzi che chi abbia usurpato il bene dal proprietario sia stato a sua
volta vittima di usurpazione, e che il bene sia stato danneggiato o distrutto
mentre si trovava nella disponibilità del secondo usurpatore. In questo
caso, il proprietario può agire nei confronti del primo usurpatore che
dovrà risarcirlo. Quest'ultimo può, a sua volta, agire nei
confronti del secondo usurpatore che aveva la disponibilità del bene al
momento della distruzione. Se il bene è stato oggetto di ulteriori
successive usurpazioni, il primo usurpatore potrà rivalersi nei
confronti di chiunque altro si sia successivamente appropriato indebitamente
del bene, fino a che non giunga a colui il quale aveva il bene al momento del
perimento. Tale sistema pare garantire il legittimo proprietario titolare di un’azione
diretta nei confronti del suo usurpatore. Per poter agire in regresso e
recuperare per la cifra corrisposta al proprietario per il danneggiamento a lui
non imputabile, quest'ultimo si trova nella onerosa condizione di dover
individuare il successivo usurpatore presso il quale il bene sia stato
danneggiato o distrutto. Tale maggior rigore si giustifica con la
necessità di evitare che ricada sul legittimo proprietario il rischio di
non riuscire ad individuare l'usurpatore presso il quale il bene sia perito, con
conseguente mancato risarcimento al proprietario. Considerata la
illiceità del comportamento del primo usurpatore, si ritiene più
equo far ricadere su di lui il rischio di non riuscire ad individuare il
soggetto nelle mani del quale è perito il bene, con la conseguenza che
egli non potrà agire in regresso, ma sarà comunque tenuto alla
corresponsione del risarcimento del danno.
[101] L'indulgenza verso i debitori è
prevista dal Corano stesso che predica la rimessione del debito: “Se il
vostro debitore si trova in difficoltà, gli sia accordata una dilazione
fino a che una facilità gli si presenti; ma se rimetterete il debito,
sarà meglio per voi, se sapeste” (Corano, II, 280).
[102] Il riferimento è ai giurisperiti
Al-Tasùlì e al-Suyùtì, così come riportato
da F.
CASTRO, Il modello islamico, cit., 69. In questo caso, gli effetti del
ritardo nell'adempimento dell'obbligazione vengono slegati dal contratto dal
quale derivano, per essere ricondotti alla responsabilità
extracontrattuale. A ben ragionare, nel nostro ordinamento la funzione degli
interessi moratori ha lo scopo di aggiornare il valore del denaro al passare
del tempo, calcolato sulla base dell’inflazione, oltre all'intento
risarcitorio per compensare la mancata disponibilità del denaro e delle
utilità che da esso sarebbero potute derivare al creditore (potenziali
investimenti, maggior solidità patrimoniale utile per ottenere prestiti
di denaro etc.). Se nella nostra tradizione la mora ha certamente natura
contrattuale, nel diritto musulmano la stessa impostazione determinerebbe la
mancanza di tutela sostanziale, con palese danno a carico dei creditori, specie
in un'epoca in cui il bene principale attorno al quale ruota il sistema
produttivo è proprio il denaro. Ragioni di giustizia sostanziale hanno
certamente spinto la dottrina più moderna ad una diversa configurazione
della fattispecie che si caratterizza per il fatto di generare una
responsabilità extracontrattuale da un inadempimento contrattuale.
[103] E. BUSSI, Principi di diritto
musulmano, cit., 143. In questo caso pare riscontrarsi un parallelismo tra
la figura de qua e la nostra detenzione, cioè la
disponibilità della cosa derivante da un titolo legittimo.