ALLE RADICI STORICHE DEL PRESIDENTE
DELLA REPUBBLICA ITALIANA*
Università
di Sassari
SOMMARIO: 1. La componente sacrale del potere regio. – 2. Il pensiero
rivoluzionario. – 3. La reazione. – 4. Statuto albertino e albori repubblicani. – Abstract.
La figura del Presidente della Repubblica prende forma in Italia
a seguito del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, con il quale il Paese
scelse la forma repubblicana. Sino a quel momento, a capo dello Stato vi era un
monarca, la cui successione era regolata dall’antica legge dei Franchi
Sali[1],
vale a dire dalla legge di famiglia dei Savoia che, dopo avere attinto la
dignità regale con l’acquisizione del regno di Sardegna, era stata
quella che aveva fatto propria la causa dell’unità politica della
Penisola. I suoi poteri erano stati, un secolo prima, fissati dal cosiddetto
Statuto Albertino. Era, questa, una carta octroyée,
cioè concessa nel 1848 dal re Carlo Alberto di Savoia-Carignano[2],
e compilata sul modello della costituzione orleanista del 1830, ma più
intimamente influenzata da quella belga del 1831.
Alla successione temporale, tuttavia, non ne corrisponde sic et simpliciter una genetica. Basta,
infatti, una riflessione un poco più approfondita per saggiare le profonde
differenze che corrono fra le due figure, (quella del monarca e quella del
presidente della repubblica) e intuire come l’una nasca da un pensiero
politico i cui fondamenti sono profondamente diversi da quelli che sostenevano
l’altra. Non a caso, in Assemblea Costituente (1946-48), vi fu chi voleva
sopprimere, per il Presidente della Repubblica, la denominazione di Capo dello
Stato, come non corrispondente alla natura democratica dello Stato italiano, di
cui doveva essere considerato organo supremo il Parlamento.
Una notevole componente
dell'istituto della sovranità, quale era stata delineata dal mondo
medievale e moderno, era infatti costituita dall’elemento religioso, che
fu una delle ragioni principali del comune e incontrastato riconoscimento della
potenza deposta nelle mani dei principi, potenza che si estrinsecava
nell'istituto della pienezza dei poteri[3].
La maiestas del sovrano era collegata
infatti alle formalità dell’incoronazione, nel corso di una
cerimonia religiosa, di cui può essere considerata esempio quella
prevista per l’Imperatore del Sacro Romano Impero. Questa era posta in
essere in Cattedrale, dopo che l’eletto – che aveva giurato le
Capitolazioni elettorali - si era impegnato ad essere lo scudo della Chiesa, il garante della giustizia,
il difensore delle vedove e degli orfani e il sostegno del Papa, e dopo che
egli era stato unto con l’olio santo[4].
Che il potere supremo avesse una connotazione sacrale era peraltro concezione
presente anche nel mondo romano – ove l’imperatore
pagano era anche pontifex maximus –
e in quello bizantino ove, almeno dal
V secolo, veniva incoronato dal Patriarca[5].
Il modello di
regalità medievale viene però, come è noto, dedotto
piuttosto dalla regalità sacrale altotestamentaria. In Occidente, il
rito della consacrazione regale (rimasto ancor oggi in uso in Inghilterra) si
affaccia già nell’ultimo quarto del VII secolo con l’unzione
di Wamba, re cattolico dei Visigoti di Spagna[6].
Nel quadro che ce ne fornisce il Liber de historia Galliae di san Giuliano, affiorano già
i due elementi sostanziali del rito d’incoronazione: la
consacrazione del sovrano e il suo giuramento, che si farà via via
più complesso e comprenderà prima l’impegno a mantenersi
fedele ai comandamenti cristiani, quindi anche quello di conservare le leggi
del popolo.
Anche i sovrani legittimi di Francia, per quasi mille anni e sino
alle soglie dell’età contemporanea, furono unti re con il crisma
di un’ampolla conservata a Reims, a cui un’antichissima tradizione,
rimasta indiscussa sino all’Illuminismo, assegnava una provenienza
celeste[7].
Ancora
nel ‘700, questa tradizione conservava agli occhi dei contemporanei di
Voltaire tutto il suo significato. La religio monarchica era fondata
sulla stretta alleanza tra il trono e l’altare e sull’idea che ogni
autorità non potesse che derivare da Dio, secondo il noto aforisma
paolino omnis potestas a Deo. Nello Statuto albertino tale principio si
traduceva nella formula «Carlo Alberto, per la grazia di Dio re di
Sardegna etc.». Tale formula era destinata però a trasformarsi
già nel 1861, su proposta di Cavour, in:
«…per provvidenza divina, per voto della nazione re
d’Italia», ove il secondo fondamento – cioè la
legittimazione popolare – apparentemente rafforzava, in realtà
negava il primo[8].
Le radici di questa trasformazione sono molteplici. Il
fondamento sacrale della regalità viene apparentemente rafforzato, in
realtà indebolito dalla Riforma. Da un lato, infatti, questa spinge il
sovrano sulla strada dell’assolutismo teocratico, attraverso lo
svuotamento dei poteri intermedi[9];
dall’altro,
l’esaltazione, che essa fa, della coscienza individuale, sembra
potersi applicare anche alla dottrina dello Stato, ammettendosi la discussione
in teoria di ogni forma di governo e degli stessi confini della obbedienza
civile[10].
In Inghilterra, a dire il vero, la storia costituzionale
attua una transizione graduale e relativamente indolore dall’assetto
medievale a quello moderno; e nei territori del Sacro Romano Impero, pur
raggiungendo la cosiddetta Landeshoheit,
i principi devono tuttavia sottostare, almeno teoricamente,
all’Imperatore e alla sua alta sorveglianza, e sono costretti a cercare
spazi più ampi non già nella funzione legislativa bensì in
quella amministrativa. Ma in Francia e nei Paesi che sono più
influenzati dalla sua cultura, nello Stato che avanza, da Bodin[11]
in poi, pur fra non poche resistenze, viene portata avanti l’idea che il sovrano -
exempt et solu de toutes lois (solutus a legibus) – dovesse avere
toute puissance et autorité de
commander et de faire ce qu’il veut. Sulle tesi groziane che
collegano il patto sociale alla naturale tendenza umana al vivere in
società[12],
prevale la più pessimistica visione di Hobbes che quel patto fa
discendere dall’anarchia violenta degli uomini che siano privi di uno
Stato, e che arriva a sostenere che ante
imperia iusta et iniusta non existere[13].
Questo concetto di sovranità, di assoluto dominio
sui sudditi, verrà fatto proprio dallo Stato in quanto tale, e il primo
ad esserne schiacciato sarà lo stesso re[14].
Infatti, se la piena autorità del monarca in quanto
istituzione, nel primo periodo dell'assolutismo, era giustificata in quanto
egli si dichiarava al servizio della giustizia, ed effettivamente si assumeva
la difesa del debole contro i privilegiati, successivamente, quando da
legislatore si arroga il diritto di modificare le leggi del regno, egli non
appare più come lo scudo della giustizia ed il difensore naturale
dell'oppresso, ma al contrario come il detentore di un potere arbitrario, come
il capo dei privilegiati. La figura del re si allontana dal popolo e diventa il
simbolo di tutti i soprusi dei quali il popolo stesso soffre[15].
Di qui lo sviluppo di una cultura individualistica che porterà dal
giusnaturalismo secentesco alle dichiarazioni rivoluzionarie dei diritti di
fine Settecento.
E qui ha ragione Fioravanti, quando rileva come sia
fondamentale la differenza fra la rivoluzione americana e quella francese. La
prima, infatti, la rivoluzione americana, si muove sul piano della
rivendicazione, anche per i coloni americani, del diritto riconosciuto ai
sudditi inglesi, per i quali la
materia delle libertà – da Coke e Locke in poi – è
sostanzialmente indisponibile da parte del potere politico[16].
Ne viene che essa si svolge tutta su un piano storicistico e garantistico: gli
elementi costitutivi della nuova compagine politica vengono sottoposti ad un
sistema delicato di condizioni e limiti. In tale sistema, la figura del capo
dello Stato diviene l’organo centrale di direzione politica e il titolare
di tutti i cosiddetti implied powers, e la sua figura, la figura cioè
del presidente degli Stati Uniti d’America, si consolida nel tempo come
capo popolare, capo dello Stato, capo dell’esecutivo (l’administration) e capo di
partito[17].
In Francia, invece, se, in una prima fase della
rivoluzione, aveva prevalso tra gli intellettuali l'idea che la monarchia
avesse abbandonato – in tempi più o meno recenti – le regole
che avevano garantito il suo secolare equilibrio, e che bastasse riesumare o
finalmente codificare queste regole per uscire dall'illegalità[18],
è proprio contro di esse che si muovono in un secondo momento le forze
riformatrici, che ora affermano il primato della volontà politica
costituente.
Sostenuta dal pensiero dei philosophes, la Rivoluzione
compie in Francia, per il diritto interno, quel distacco dell’ordinamento
dalle sue radici religiose, che per il diritto internazionale aveva compiuto il
Congresso di pace di Westfalia. Essa vuole consapevolmente rompere la continuità
con il passato, e lo manifesta con la decapitazione di Luigi XVI, un atto di
alto valore simbolico, che doveva sancire, con l’affermazione della piena e
assoluta sovranità del popolo, la decisa laicizzazione e
statualizzazione del potere e del diritto. Questi promanano ora, nei principi
ispiratori e nella loro traduzione legislativa, soltanto dalla volontà
sovrana del popolo, senza più alcun collegamento, nel bene e nel male,
con un corpo sovraordinato di valori. Di
fatto è ammessa una società di individui originaria (popolo o
nazione), cui è affidato il potere costituente: il concetto viene
sviluppato per la prima volta da Sieyès, proprio con l’intento di
opporre al potere del re – fondato sulla tradizione e sul diritto,
l’originario potere politico del popolo, cui vengono trasferiti –
come pouvoir constituent –
contenuti a suo tempo riconosciuti quali attributi di Dio: potestas constituens, norma normans, creatio ex nihilo. Al popolo deve essere riconosciuto il pieno
potere di disporre della configurazione dell’ordinamento
politico-sociale. Non è più un ordinamento divino e naturale a
determinarne la base[19].
I
diritti di tutti esistono ormai solo nel momento e nella misura in cui essi
vengono definiti per legge.
L’idea che il popolo fosse il vero titolare della
sovranità non era del tutto nuova. Nel ricercare il fondamento ultimo
del concetto di sovranità, lo Ullmann – verso la metà del
secolo scorso - rintracciava le fila di due concezioni distinte e in qualche
modo speculari: una riassunta in
una sorta di "iter ascendente"; l'altra in un "iter
discendente" del potere. Secondo la prima concezione, il potere sarebbe
appannaggio del popolo, il quale ne affida l'esercizio a determinati organi per
un determinato tempo, senza perderne la titolarità. In tale ottica,
«...l'autorità governativa e la legge ascendono dalla base in
forma di piramide e qualsiasi potere esista negli organi di governo esso in
ultima analisi è riconducibile al popolo»[20].
La seconda concezione, all'opposto, immagina che l'autorità governativa
e la competenza legislativa discendano da un solo organo supremo. Anche qui
«il potere si configura a forma di piramide ma in maniera tale che
qualsiasi potere si trovi in basso non è potere originario bensì
derivato dall'alto». L'organo supremo deriva poi la sua legittimazione
direttamente da Dio, che si ammette abbia destinato quell'organo, quale Suo
vicario, a reggere il governo delle cose terrene[21].
Secondo lo Ullmann, queste due concezioni si sarebbero
alternate storicamente senza che il
prevalere dell'una cancellasse completamente la presenza dell'altra. La Roma
repubblicana sarebbe stata caratterizzata dalla concezione ascendente: i
magistrati ricevevano il loro potere dalla cittadinanza. Tale concezione
avrebbe ceduto il posto, con il dominato, a quella opposta, discendente,
rafforzata dall'idea – destinata a prevalere durante l’età
di mezzo – che il potere era nelle mani di Dio e si otteneva quindi
"per grazia di Dio"[22].
Per rendersi conto di quanto sia stata profonda la
permanenza della prima concezione, basterà ricordare come i Glossatori
interpretavano la lex regia de imperio con
cui a suo tempo il popolo romano aveva trasferito al princeps ogni potere. La tesi di Piacentino era che il popolo
certe non transtulit sic ut non remaneret
apud eum, sed constituit eum quasi procuratorem ad hoc[23],
e
Azzone soggiunge:
dicitur potestas traslata id est concessa
quod non populus omnino se abicaverit eam[24].
Nei fatti, queste non
erano rimaste concezioni astratte, ma si erano tradotte, dal punto di vista normativo,
nel valore della consuetudine, e dal punto di vista istituzionale nel peso che
in tutta Europa avevano le istituzioni cetuali, che affiancavano il monarca
nell’esercizio della sovranità.
D’altro canto,
sembra persino banale avvertire come sia inutile voler ricercare se nel
medioevo esistesse una sovranità popolare così come noi la
concepiamo, dal momento che durante tutto questo periodo è ancora
sconosciuto il sentimento di nazionalità, e il popolo viene personificato
nelle corporazioni, nei collegi dei meliores
et maiores terrae che si battono per difendere i propri ordinamenti, ed
è a tale scopo che vogliono partecipare alla vita dello Stato[25].
Ma per la Rivoluzione il
popolo non deve tornare al ruolo che era stato sterilizzato dall’ascesa
del potere assoluto del re, bensì diventare la sola sorgente della
giustizia e dell'onore, il punto di riferimento ultimo del potere, la solenne
incarnazione dell'autorità[26].
Ora, nella dottrina dello Stato costituzionale, la titolarità stessa del
potere sovrano fa capo al popolo, il quale possiede in sè stesso la
ragione del potere e la fonte illimitata dei diritti[27].
Tuttavia, la Rivoluzione si dibatte presto fra il rifiuto della dimensione
tradizionale della rappresentanza[28],
e l’impossibilità della democrazia diretta. Così, se la
costituzione del 1793 recitava «la sovranità è l'esercizio
della volontà generale: risiede essenzialmente nel popolo»[29],
dopo le esperienze postrivoluzionarie ed in particolare il "terrore",
il concetto di sovranità viene già espresso in termini diversi e
più restrittivi[30].
La costituzione francese del 1795, all'art. 17, infatti sancisce «la
sovranità risiede essenzialmente nella universalità dei
cittadini»[31]. La
rivoluzione finisce così per dare inizio a un processo di serrata
competizione volta all'attribuzione della sovranità fra il popolo e i
suoi rappresentanti, fra assemblee primarie di base e assemblee legislative
elette.
In questo quadro, la rappresentazione costituzionale del
capo dello Stato viene evidentemente modificata nel profondo. Come suggerisce
Montesquieu, il potere puro, già appartenuto al sovrano, deve essere ora
distinto nei suoi tre aspetti: il legislativo, il giudiziario,
l'amministrativo.
L'istituzione alla quale dalla rivoluzione francese venne
affidato il potere esecutivo, e cioè quel potere che, rispondendo alla
definizione letterale, doveva eseguire (e fare eseguire) le leggi, prende forma
nel primo periodo rivoluzionario, quando ancora viene visto nelle mani del re
quale «chef de l'administration du
royaume» e quindi non più sovrano assoluto bensì primo
tra i funzionari pubblici dello Stato, un funzionario che si serve dei ministri
i quali, come nell'ancien régime,
si configuravano come collaboratori diretti del re stesso e da esso dovevano
essere scelti e revocati[32].
Ma le costituzioni francesi rifiutano sin dall’inizio di impostare la
propria opera come riforma della monarchia in senso costituzionale all'inglese
(King in Parliament). Si spiega
così il rifiuto di attribuire al monarca il diritto di veto rispetto agli
atti dell'Assemblea, a favore di un veto esterno che riduce il re, già
indebolito nella costituzione del ‘91, a un capo del potere esecutivo,
quasi del tutto privo di poteri normativi.
Successivamente, dopo la caduta della monarchia nel 1792,
il potere esecutivo viene delegato ad un Consiglio esecutivo provvisorio
formato dai ministri (che sono scelti dall'Assemblea) e sotto la presidenza di
uno degli stessi. Comincia così a profilarsi la figura del Direttorio,
figura che viene successivamente sancita prima dalla costituzione del 1793 e
poi da quella del 1795.
Quest’ultima costituzione sarà quella
destinata ad avere maggiore influenza sulle vicende costituzionali italiane; e
non solo nell’immediato, vale a dire su quelle che nella storiografia
italiana vengono indicate come “costituzioni giacobine”, ma anche
più recentemente, cioè sui compilatori della Costituzione della
Repubblica italiana[33].
Non a caso – e questo non è se non uno degli aspetti di
quell’influenza, che si estende sino all’oggi – negli anni
successivi alla seconda guerra mondiale, nell’ansia di rinnovamento
politico legata alla fondazione della Repubblica, all’approvazione della
nuova costituzione, e al ripensamento delle strutture dello Stato repubblicano,
la storiografia italiana si è orientata verso una nuova interpretazione
del giacobinismo, contro la precedente storiografia, che vedeva nel triennio
rivoluzionario un momento di arresto fra il secolo delle riforme e il processo
risorgimentale[34].
Certo, si trattava per il
nostro Paese – così a cavallo fra Settecento e Ottocento, come a
metà del Novecento – di un modello marcato a sua volta da notevoli
contraddizioni, perché in qualche caso imposto a un sentimento popolare
che si moveva controcorrente[35].
In conformità della
prassi codificata dai francesi[36],
tutte le costituzioni giacobine italiane a partire dalla prima, quella di
Bologna, approvata il 4 dicembre del 1796, fino all'ultima, la napoletana[37],
si aprono con una "Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo e del
cittadino"[38], che
nella sua stessa formulazione rifiuta la tradizionale concezione del potere. Si
tratta di diritti che non si collocano in una dimensione storico-naturale, in
funzione di garanzia, come nella rivoluzione americana, bensì in una
dimensione statualista e legicentrica, di impronta teorico-filosofica, ove si
presentano come progetto e promessa, per il futuro, di una società
più giusta.
Il potere legislativo, nel
quale Bodin aveva visto il contrassegno della sovranità, resta in primo
piano ma appartiene generalmente a due assemblee, elette con un sistema di
secondo grado[39].
Il potere giudiziario, nel
quale Montesquieu vedeva la maggiore garanzia di indipendenza, è
affidato a giudici elettivi.
Al vertice dello Stato, ma
apparentemente in secondo piano, il potere esecutivo, come in Francia, era
affidato a un organo collegiale. A fondamento di questa scelta, stava
evidentemente l’idea che suddividere il potere tra più persone
fosse il «migliore baluardo contro la tirannia di uno solo»[40].
Variamente denominato (Consolato nella repubblica bolognese, come poi in quella
romana del 1848 [41],
Arcontato nella napoletana, ma per lo più, come in Francia, Direttorio),
il numero dei suoi membri varia fra i tre del piano di costituzione per la
repubblica cispadana del 1797 [42],
i cinque della cisalpina, i nove della repubblica bolognese[43].
Protetti da un’immunità che cedeva solo a una denuncia scritta,
vagliata da entrambe le Camere legislative (dalle quali, attraverso un sistema
relativamente complicato, derivava la loro nomina), i membri del Direttorio
dovevano essere scelti fra chi avesse compiuto almeno i trentacinque anni (40
nella costituzione della cispadana, allora un’età ragguardevole) e
fosse stato membro del Corpo legislativo o ministro[44],
ma dopo almeno un anno
dall’aver cessato tali funzioni[45]
, e non erano rieleggibili alla stessa carica se non dopo che fosse trascorso
un certo numero di anni (nella costituzione ligure, ad esempio, era necessario
che ne trascorressero cinque[46]),
così come solo dopo tre anni dalla sua cessazione in carica era
eleggibile l’ascendente, il discendente, il fratello, lo zio, il cugino o
il congiunto di chi fosse stato direttore. Era anche previsto che i membri del
Direttorio si rinnovassero per un terzo ogni anno[47]
e si alternassero di tre mesi in tre mesi nella carica di presidente (per
l’uso e la custodia del sigillo)[48].
I poteri dei Direttori
erano comunque parecchio circoscritti. Anzitutto, essi duravano in carica un
periodo di tempo limitato, variabile fra i
due anni della napoletana, i tre della cispadana, e i cinque delle altre
Repubbliche (termine temporale, quest’ultimo che viene nuovamente
proposto nella discussione relativa ai lineamenti della Costituzione della
Repubblica italiana)[49].
Essi non hanno più il potere legislativo e il giudiziario, fanno
suggellare e pubblicare le leggi che sono state deliberate dal Corpo
legislativo, ma ogni loro delibera deve essere controfirmata da un ministro;
dispongono della forza armata, ma non la comandano; nominano i ministri, ma nel
numero e con le incombenze determinati dal corpo legislativo.
Com’è noto, a partire da Burke, la critica
alla Rivoluzione si muove contro l’idea che la società possa essere
indirizzata e programmata a partire da alcuni principi astratti.
Al di là della vittoria della coalizione
anti-napoleonica, i principi di diritto pubblico che si affacciano nelle
teoriche di Talleyrand e Metternich e vengono formulati nel preambolo della
costituzione di Luigi XVIII, mostrano la tendenza a rafforzare e rilegittimare
i poteri costituiti di fronte al continuo impulso rivoluzionario[50].
Tale opera di stabilizzazione e consolidamento viene condotta affrontando il
problema in radice, e cioè negando che le istituzioni politiche derivino
la loro autorità e la loro legittimazione, dal potere costituente dei
consociati. Viene così a cadere il diritto di ogni generazione di darsi
una costituzione, proclamato nelle dichiarazioni dei diritti del 1793. Si
riafferma, al contrario, il principio della riserva dinastica alla guida della
vita pubblica: la borghesia si rende conto di non poter prescindere
dall’idea di un potere fondato sulla legittimità e la tradizione
storica da cui soltanto si ritiene ora possano prendere vita istituzioni
stabili[51].
Lo stesso termine di nazione, sin qui equipollente a quello di popolo, acquista
a tal fine un nuovo significato, estraneo al pensiero rivoluzionario[52].
Anzi, questa idea, in polemica con il volontarismo giacobino, e la mutevolezza
di una costituzione-indirizzo, segna tutto l’800 (il pensiero va ad
esempio alla scuola storica di Savigny), nella ripresa del modello storicistico
di una costituzione–garanzia: la libertà viene nuovamente intesa
come sicurezza dei propri beni e della propria persona, e dunque come
limitazione del potere, a fini di garanzia.
La majestas
personalis è accolta come principio efficiente nell’atto
addizionale di Vienna. Ma un ordinamento secolarizzato non poteva più
compiere con successo l’operazione di riportare indietro le lancette
dell’orologio[53].
Non era possibile, ormai, difendere in modo plausibile la posizione del monarca
se non assecondando i concetti giuridici fondamentali sviluppati a partire
dalla sovranità popolare. Così la tendenza a inserire il re in un
regime parlamentare – come in Gran Bretagna – si rende manifesta
già nel 1814, rafforzandosi successivamente, così che presto,
nelle costituzioni ottocentesche, al principio dell’octroi gracieux del sovrano, si sostituisce quello del patto
giurato fra sovrano e popolo.
Il potere del principe è quindi divenuto un potere
normato, che poggia su un accordo–costituzione, del quale ogni contraente
può presentarsi come custode per la parte che concerne i suoi diritti.
Presto il sovrano non è più tale per diritto
proprio: con il movimento liberale degli anni ’30, la monarchia si
trasforma da istituto di diritto divino a monarchia parlamentare, mentre, nella
nuova concezione giuridica dello Stato, sbiadiscono i residui dell’antico
giusnaturalismo. La figura del re si giustifica ora con la necessità che
un organo raffiguri in concreto l’unità dello Stato, ne promuova
l’attività, ne assicuri la continuità. Gli si attribuisce
una sfera d’azione direttiva, una partecipazione costante alle maggiori
manifestazioni dell’attività statuale.
La teoria del potere mediatore del Capo dello Stato si
colloca in questa dimensione. Nella lotta contro la restaurazione monarchica,
che caratterizza il quadro costituzionale del XIX secolo, si manifesta –
con Benjamin Constant[54]
– la dottrina del pouvoir neutre,
intermédiaire e régulateur, dottrina che secondo
Schmitt corrisponde alla visione moderatamente liberale di una monarchia che si
basa sulla divisione dei poteri[55]
e sulla rinata distinzione fra auctoritas
e potestas[56].
La dottrina formula l’idea che il re sia il più alto custode della
costituzione[57] e
rappresenti l’unità e permanenza della compagine statale[58].
A questa visione si richiama il repertorio di prerogative
e poteri del Capo dello Stato tipico di tutte le costituzioni del XIX secolo.
Nello Statuto albertino, dopo l’art. 1, che proclama essere quella
cattolica religione di Stato[59],
gli articoli che vanno dal secondo al decimo riconoscono al re
l’inviolabilità, il potere di redigere e promulgare le leggi, il
comando delle forze armate, la rappresentanza internazionale dello Stato e la
competenza a concludere trattati, il diritto di concedere la grazia e di
commutare le pene, la nomina dei componenti del governo, dei senatori, dei
funzionari dello Stato e dei magistrati, il diritto di sciogliere le camere.
Nell’immediato, la monarchia venne in Italia
immedesimata con la grandezza dei fini raggiunti dal grande e glorioso
Piemonte, così come più tardi la stessa immedesimazione le
addebiterà la catastrofe del 1945.
In effetti, fu proprio lo Statuto (carta flessibile), non
distinguendo fra leggi ordinarie e leggi costituzionali, a rendere possibile la
profonda trasformazione delle istituzioni e, in ultima analisi, il loro sbocco
nella dittatura. Ma soprattutto avvenne che, nel 1943, l’idea che il Capo
dello Stato rappresentasse la continuità e la permanenza dello Stato
unitario convinse il re della necessità di abbandonare Roma, ma di fatto
in tal modo egli fece venir meno proprio la considerazione morale di cui ancora
godeva l’istituzione regia e la fiducia in un suo pouvoir préservateur.
La tragedia attraversata e il peso acquistato dalle
sinistre, spinsero i Costituenti italiani – in un rinnovato giacobinismo
di cui non si vede ancora la fine[60]
– a darsi un Presidente della Repubblica e un Presidente del Consiglio
deboli[61].
Anche la funzione di custode della Costituzione indicata come propria del
Presidente della Repubblica, è stata – in effetti –
sostituita dalle Corti Costituzionali: non a caso si dice piuttosto, oggi, che
egli può esercitare una moral
suasion, vale a dire una azione rilevante più dal punto di vista
politico-sostanziale che non da quello giuridico-formale. E d’altro canto, da quella stessa Costituzione – mai
attuata in tutti i suoi articoli e di cui emergono con sempre maggior forza
diversi aspetti bisognosi di riforma – è scomparso ogni concreto
riferimento a un fondamento etico stabile, in ultima analisi indisponibile, in
cui il diritto abbia il suo fondamento. Ove sussistano condizioni politiche
favorevoli, ogni articolo della Costituzione può essere modificato o
diversamente interpretato. Anche il rimando, sempre più invocato, a
valori fondamentali, non sostituisce la concezione riconosciuta di un ordine
divino del mondo. E se questa ha cessato di essere generale e vincolante ed
è stata sostituita da una molteplicità di concezioni diverse,
nessuna di esse può pretendere di avere un carattere incondizionatamente
cogente. Infatti, il relativismo dei tipi sociali riaffermato da Durkheim,
impedisce di minimizzare le differenze tra le leggi morali storiche, nella
ricerca di un’unica serie di tali valori[62].
Del resto, i “valori” possono definire – in maniera molto
astratta – un consenso presente o postulato, non lo possono tuttavia
fondare a partire da loro stessi[63].
In una tale situazione – si può concordare
con il Böckenförde[64]
– diviene quindi decisiva l’eredità spirituale e culturale
che la nazione porta in sé. Ma questa perde efficacia nel più o meno
rapido modificarsi della composizione sociale dello Stato, ove è
diventato labile anche il limite dell’ordine pubblico.
In tempi di crisi si avverte, quindi, più che mai
la carenza di un potere più forte al vertice delle istituzioni, e
talvolta è stato solo il carisma personale che ha consentito al
Presidente della Repubblica di superare il momento inerziale decisivo
perché il Paese tornasse a sollevarsi (si pensi ad esempio alla
presidenza Pertini). Talvolta, invece, l’impasse politica ha spinto la costituzione vivente a riconoscere al
Presidente un ruolo ben più incisivo di quello attribuitogli da quella
formale (si pensi alle due presidenze Napolitano).
Certo, nessuna legge costituzionale può garantire
che la persona scelta per assolvere questo compito possieda le capacità,
le qualità morali o l’autorevolezza che sarebbero necessari;
né può prevedere fino a che punto, proprio nell’assolverlo,
sia l’interesse dello Stato e non quello personale o di partito a portare
un capo di Stato a piegare, sin quasi a violarle, le norme costituzionali che
disegnano, limitandole, le sue funzioni. Così, mentre la medesima
evoluzione storica ha portato altri Paesi a indirizzarsi verso
l’attribuzione al Presidente della Repubblica di poteri più incisivi,
ovvero questi poteri ha attribuito a un Capo del Governo capace di risolvere
con rapidità ed efficienza i problemi del Paese, nel nostro le
pregiudiziali ideologiche e di partito – gli idola di baconiana memoria – hanno prevalso e continuano a
prevalere sulla individuazione della convenienza personale e collettiva, e
sulle scelte più adatte a conseguirla.
The author assumes that
one of the essential defining elements that still in the modern Era characterised
the figure of the head of the State was its sacred nature, wherein was based
its centrality in the state’s structure. On the contrary, specially in
Italy, the development of the figure of the President of the Republic, with its
weak powers, is a product of the secularization and religious unconcern of
contemporary state and of its legal system that, beginning with the Reform, had
its start with the XVIII century’s thinking, and the particular feature
of the French Revolution.
But just the loss of a
common ethics that is typical of Italian governments of our time, may advice a
more powerful governing body
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
* Il testo qui riportato
è quello della relazione che la prof. Luisa Bussi ha tenuto
all’incontro di studi su “Il Presidente della Repubblica in Italia
ed in Polonia”, svoltosi a Varsavia nei giorni 20 e 21 maggio 2013, sotto
l’alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana Giorgio
Napolitano e della Repubblica Polacca Bronisław Komorowski. Si è potuto realizzare grazie al
supporto dell’Accademia Kozminski ed alla collaborazione
dell’Associazione italo-polacca dei costituzionalisti. Gli atti relativi
sono in corso di pubblicazione a cura di queste istituzioni.
[1] Statuto Albertino, art. 2: «Lo
Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo. Il Trono
è ereditario secondo la legge salica».
[2] Figlio di Carlo Emanuele di Savoia-
Carignano, nonché marito di Maria Teresa d’Asburgo-Lorena, proprio
in grazia alla legge salica succede a Vittorio Emanuele I, nonostante la successione
gli venga contesa dalla figlia maggiore di Vittorio Emanuele I, Maria Beatrice
(1793-1840). Questa aveva sposato il duca di Modena Francesco IV il quale,
figlio dell’arciduca austriaco Ferdinando, era succeduto nel ducato
modenese per via della madre Maria Beatrice, duchessa di Massa, figlia di
Ercole III d’Este.
[4] L’Imperatore veniva accompagnato
presso l’altare ove si trovava il consecrator
e quivi prestava il giuramento che gli veniva letto in lingua latina: «Vis sanctam fidem Catholicam et Apostolicam
tenere et operibus iustis servare? Vis sanctis ecclesiis ecclesiarumque
ministris fidelis esse tutor sc defensor? Vis regnum a Deo tibi concessum secundum
justitiam praedecessorum tuorum regere et efficaciter defendere? Vis jura regni
et Imperii bona eiusdem iniuste dispersa recuperare et confirmare et fideliter
in usus regni et imperii dispensare? Vis pauperum et divitum, viduarum et
orphanorum aequus esse judex et pius defensor? Vis
sanctissimo in Christo patri et domino Romani pontifici et sanctae Romanae
ecclesiae subiectionem debitam et fidem reverenter exhibere?». Ad ogni domanda l’Imperatore
rispondeva volo, quindi aggiungeva la
formula del giuramento: «Omnia
praemissa in quantum divino fultus fuero adiutorio, fideliter adimpleo si me
Deus adiuvet et Sancta dei Evangelia». Seguiva quindi l’unzione
con l’olio benedetto in sette punti: al vertice del capo con un segno di
croce; sul petto; sulla nuca; sulla spalla; sul braccio; sulla giuntura del
braccio; sul palmo della mano. Su ciò E. BUSSI, Il diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, Milano 1970, 136-137.
[5] F. CABROL -
H. LECLERCQ, Dictionnaire
d’Archéologie Chrétienne et Liturgie, voce: Sacre Impérial et Royal,
Paris 1950, t. XV, I, col. 305.
[6] E’ probabile che l’Unzione di
Wamba (672-680) del 672 non fosse la prima, bensì fosse già
frutto di consuetudine. L’esordio potrebbe rimontare a Recaredo
(586-601), cioè al primo
sovrano cattolico dei Visigoti spagnoli. Su ciò vedi M. BLOCH, Les
rois thaumaturges, Paris
1983, 461.
[9] Con la Riforma si afferma l’idea che
la vita sociale vada lasciata al dominio del potere secolare, cui Dio avrebbe
affidato la missione di reprimere i disordini introdotti nel mondo dal peccato.
A questo scopo, la potenza statale deve avere a sua disposizione tutti i mezzi
per fare in questo mondo quanto ritiene meglio per la salute dei sudditi, e
così non solo dare norma al culto esterno, ma anche cambiare
autoritativamente la religione del Paese. Al principe, quindi, verrà
riconosciuto uno ius reformandi,
consistente appunto nel diritto di stabilire la confessione religiosa del
territorio da lui governato, cui si accompagnerà uno ius emigrandi dei sudditi, secondo il principio cuius regio et eius religio. Nei
territori riformati sarà dunque ora il principe a doversi fare carico di
quelle funzioni sin qui espletate dalla Chiesa, come ad esempio
l’istruzione e l’assistenza, e tale necessità lo
sospingerà a circondarsi di uno stuolo di collaboratori di nuova specie,
che solo da lui ricevono le proprie istruzioni, e che nel loro progressivo organizzarsi
getteranno le basi della moderna pubblica amministrazione. Su ciò, E.
BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di
Stato, Milano 2002, 207.
[10] Il carattere decisivo delle grandi lotte
politiche e religiose del XVI secolo è affermato con molta chiarezza da
H.J. BERMAN, Diritto e rivoluzione, II, L’impatto delle riforme protestanti
sulla tradizione giuridica occidentale (ed. italiana a cura di D.
Quaglioni), Bologna 2010, 24-40.
[12] Per
Grozio, l’uomo, a somiglianza di tutto il regno animale, avrebbe una
naturale disposizione a vivere in società. «Questa
sociabilità ... ovvero questa cura di mantenere la società di una
natura conforme ai lumi dell’intelletto umano, è l’origine
del diritto propriamente detto», H. Grozio, Il diritto
della guerra e della pace, (trad. A.
Porpora, Napoli MDCCLXXVII) rist. an. con intr. di F. Russo e premessa di
S. Mastellone, Firenze 2002, Introduzione, VIII.
[13] E. BUSSI, Evoluzione, cit., 214; J. ELLUL, Storia delle istituzioni. L'età moderna e contemporanea dal XVI
al XIX sec., tr. it., vol. III, Milano 1976, 141; A. PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto in Europa, Bologna 2007, 335.
[14] Sul punto vedi D. QUAGLIONI, La sovranità, Roma-Bari 2004,
80-120; G. TARELLO, Storia della cultura
giuridica moderna, I, Assolutismo e
codificazione del diritto, Bologna 1976.
[15] E. BUSSI, Evoluzione, cit., 242. Si tratta di un modo di pensare non lontano
dal sentimento che serpeggia oggi in Italia – e non soltanto - nei
confronti della sua classe politica.
[19] E.W. BÖCKENFÖRDE, Stato costituzione democrazia, Studi di teoria della costituzione e di
diritto costituzionale, a cura di
M. Nicoletti e O. Brino, Milano 2006, 120; M. FIORAVANTI, op. cit., 43.
[24] E. CORTESE, Il problema della sovranità, cit., 102. In modo simile argomenteranno i teorici del
costituzionalismo giacobino, affermando che l’alienazione della
sovranità fatta dal popolo a favore del re era limitata e revocabile, e
poi dichiarandone la illiceità. Su ciò D. CANTIMORI - R. DE
FELICE, Giacobini italiani, Bari 1964, 430.
[28] Il monarca era stato colui grazie al
quale era esistito il regno come sintesi unitaria trascendente le singole
articolazioni territoriali e corporative: questa funzione è ora
dell’assemblea rappresentativa, che cerca in ogni modo di evitare che si formi,
attraverso la figura di un legislatore più o meno democraticamente
eletto, un nuovo sovrano. Su ciò, M. FIORAVANTI, op. cit., 67.
[30] M. DA PASSANO, Il processo di costituzionalizzazione nella repubblica ligure
(1797-1799), in Materiali per una storia della cultura
giuridica, III.1, 1973, 98.
[32] G. SAUTEL, Histoire des institution publiques depuis la
révolution française, Paris 1982, 5a ed., 43 ss.
[33] Come sistema istituzionale in cui un
collegio composto da più persone funge da capo dello Stato e del
governo, si tratta di una forma di governo attualmente adottata soltanto dalla
Svizzera, tanto a livello federale quanto per i singoli Cantoni membri della
Confederazione. Solo a livello cantonale però l’esecutivo è
eletto direttamente dal popolo. Nel passato, tale sistema costituzionale fu
adottato anche in Uruguay (1917 e 1951), e in Jugoslavia (dalla morte del
maresciallo Tito allo scioglimento della federazione). In ambo i casi non
rimase in vigore che per un breve lasso di tempo.
[34] A partire dal Cuoco, che tacciava di
astrattezza il pensiero dei giacobini e la loro azione di governo. V.E.
GIUNTELLA, La rivoluzione francese e
l’impero napoleonico, in Bibliografia
dell’età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, vol.
I, 80.
[35] Il Maturi rilevava come in qualche caso
il sentimento popolare si mosse a difesa della tradizione: il 21 gennaio 1797,
durante il secondo congresso cispadano di Modena, circa 400 uomini scesero a
Modena dal contado e tumultuarono contro l'assemblea che stava elaborando la
costituzione cispadana, chiedendo a gran voce che nel primo articolo della
costituzione la religione della Chiesa Cattolica Apostolica Romana fosse
proclamata quale religione della repubblica. Vedi W. MATURI, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia,
Torino 1962, 611.
[36] Nella stampa italiana dell’epoca si
nota un concreto interesse a conoscere le basi dei progressi della
società francese e del suo diritto. Ad esempio, “L’Italiano imparziale”, un
quotidiano pubblicato a Parigi, veniva diffuso nei territori della penisola
occupati dai Francesi, e introdotto clandestinamente negli altri, con
l’intento dichiarato di far sì «che gli Italiani giudichino
sanamente della sodezza delle basi della costituzione dell’anno III e che
da un racconto fedele di ciò che accade giornalmente in Francia veggano
i progressi dell’ordine che ogni dì vi si stabilisce». Vedi I giornali giacobini italiani, a cura di R. De Felice, Milano 1962,
22-23. Tuttavia, dall'esame delle singole norme e dei vari istituti – ad
esempio quelli della costituzione napoletana il cui progetto fu elaborato da
Mario Pagano – si possono notare «idee e concetti giuridici che
mostrano un certo accostamento ad esigenze giuspubblicistiche di carattere
generale e non del tutto estranee al patrimonio culturale dell'Italia
illuministica e che quindi non si possono fare derivare esclusivamente dalla
imitazione della esperienza d'Oltralpe e dalla aderenza al modello
francese». Così C. GHISALBERTI, Le costituzioni giacobine (1796/1799), Milano 1957, 209.
[37] Il cui progetto non fu mai approvato e
promulgato, in quanto la Repubblica cadde prima di tale approvazione nel giugno
del 1799.
[38] Il modello era la Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino contenuta nella costituzione francese
del 22 agosto 1795. Su ciò A. SAITTA, op. cit., 152 ss.
[39] Solo la costituzione bolognese e la cispadana
si basavano su un sistema elettorale più macchinoso e cioè su un
triplice ordine di comizi (primari, decurionali ed elettorali). Vedi artt.
27-32 della costituzione bolognese e artt. 48-58 della cost. cispadana in A.
ACQUARONE - M. D’ADDIO - G. NEGRI, Le
costituzioni italiane, Milano
1958, 15 e 47.
[41] Art. 33. Si può convenire con
Ghisalberti che il nome di Console era perfettamente coerente con
l’aspirazione degli organi direttivi della repubblica romana del 1798 di
riallacciarsi alla tradizione della repubblica romana classica, mentre a Napoli
ci si volle rifare alla terminologia della polis greca, donde il nome di
Arconti ai Direttori. C. GHISALBERTI, op.
cit., 239.
[42] Vedi l’art. 155 della costituzione
cispadana. Pare che Bonaparte diffidasse di organi collegiali troppo numerosi,
ma si addusse a motivo del numero ridotto la scarsa estensione del territorio
dello Stato. Vedi G. DE VERGOTTINI, La
costituzione della repubblica cispadana, Firenze 1946, 130; C. GHISALBERTI,
op. cit., 238.
[43] Art. 18 della Costituzione di Bologna.
Qui probabilmente il titolo di "Magistrato dei consoli”, e il numero
elevato di membri denunciano il desiderio di riallacciarsi al glorioso
anzianato del comune popolare cioè dell'antica democrazia bolognese. Su
ciò G. DE VERGOTTINI, op. cit.,
70. Ancor più elevato (15 membri) è il numero previsto a Genova
dal progetto originario, mentre secondo la convenzione di Montebello avrebbe
dovuto essere creato un Senato di dodici membri presieduto da un Doge. Nella
stesura definitiva del testo costituzionale ligure, però, a seguito
delle pressioni dirette di Bonaparte, il governo fu ridotto a cinque membri e
denominato Direttorio, benché molti caldeggiassero un collegio
più numeroso, in quanto vi vedevano una utile misura antioligarchica.
Vedi l’art. 144 della costituzione ligure. Cfr. Osservazioni sulla costituzione ligure di A. Ranza, in M. DA
PASSANO, op. cit., 166-167.
[44] Assemblee
della repubblica romana (1798/1799), vol. I, per cura e con introduzione di
V.E. Giuntella, Bologna 1954, 62.
Per l’eleggibilità dei Direttori si richiedeva generalmente
cittadinanza e domicilio nel territorio della repubblica per un periodo minimo
di dieci anni. Nella costituzione bolognese (all'art. 82), si voleva che il
console fosse «capace di ogni uffizio laicale», disposizione che
implicava l’ineleggibilità del clero così alla carica di
console come ai corpi legislativi. Il De Vergottini ritiene che tale norma si
spieghi con le precedenti esperienze politiche dei bolognesi. Il governo
pontificio aveva lasciato pessimo ricordo in tutta la città, sia per le
sue scarse capacità amministrative, sia per i suoi attentati ai
privilegi della città. Perciò tutta la classe dirigente della
repubblica era concorde nel volere l'esclusione del clero dalla nuova vita
costituzionale. Vedi G. DE VERGOTTINI, op.
cit., 71.
[45] Art. 136 costituzione cisalpina del 1797
e art. 139 della costituzione cisalpina del 1798. Inoltre, la costituzione
ligure, all'art. 46, sanciva che i cittadini che «sono stati membri dei
consigli dell'antico governo non possono essere eletti membri del Direttorio
nè del ministero». Questa disposizione, come è stato
notato, si inseriva naturalmente nel quadro di un totale distacco dal
precedente sistema politico e dai suoi rappresentanti. Così M. DA
PASSANO, op. cit., 127.
[47] Benché la cosa avesse suscitato le
critiche di alcuni giacobini italiani ai quali «spiaceva che venisse
stabilita l'esclusione di un membro del Direttorio che avesse ben meritato
dalla nazione soltanto per timore della troppo lunga permanenza nella
carica». S. PIVANO, Albori
costituzionali d’Italia: 1796, Torino 1913, 388 ss. Il Direttore che doveva decadere dalla
carica veniva scelto mediante estrazione a sorte. Vedi ad es. l’art. 137
della costituzione cisalpina del 1797.
[48] Secondo la costituzione cisalpina (art.
137), veniva scelto mediante estrazione a sorte il membro del Direttorio che
doveva decadere dalla carica. Secondo la seconda costituzione cisalpina,
approvata nel 1798 tale estrazione sarebbe dovuta avvenire in seduta pubblica
(art. 140).
[49] Lineamenti
della Costituzione della Rep. Ital., avviamento alla discussione, in La Costituente, 30 nov. 1945.
[51] Nella carta francese del 1814 Luigi XVIII
divide il potere legislativo con le due camere, ma riserva a sé il
potere esecutivo e il controllo della giustizia che emana da lui. Egli è
arbitro della convocazione e della proroga delle camere, per la scelta delle
quali indice le elezioni politiche da svolgersi a suffragio censitario e
ristretto. Con l’esclusiva iniziativa delle leggi, il re era partecipe
del potere esecutivo statale. Il parlamento poteva discutere il testo e
avanzare suppliche.
[54] B. CONSTANT, Réflexions
sur les constitutions et les garanties, in Collection complète des ouvrages de Benjamin Constant, Paris
1818, 14 .
[56] Già ai tempi della Repubblica a
Roma, l’auctoritas si distingue
dalla potestas in quanto a questa
spetterebbe il compito dell’esecuzione, mentre alla prima, ammantata di honestas e di gravitas, quello della
decisione. La distinzione viene riproposta nel primo Medioevo già dal
papa Gelasio I per distinguere il potere spirituale da quello temporale. In
tema vedi, da posizioni diverse, E. CORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico,
Milano 1962, II, 207 ss.; nello stesso senso W. ENNSLIN, Auctoritas und Potestas. Zur
Zweigewaltenlehre des Papstes Gelasius I, in Hist. Jahrbuch, 1955, 665 ss.; con
ottica diversa W. ULLMANN, Medieval
Papalism. The Political
Theories of the Medieval Canonists, London 1949; Idem, The Growth of Papal Government in the Middle Ages, London
1955.
[57] Così nella costituzione brasiliana
del 25 marzo 1824 (art. 98), l’imperatore è indicato come la
chiave di tutta l’organizzazione politica e gli si attribuisce il compito
di vigilare sul mantenimento della indipendenza, dell’equilibrio e
dell’armonia di tutti gli altri poteri politici. La stessa idea
sarà espressa in quella portoghese a proposito del re (art. 71). Vedi K.
SCHMITT, Il custode, cit., 22.
[59] Statuto Albertino, art. 1: «La Religione Cattolica, Apostolica e
Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti
sono tollerati
conformemente alle leggi».
[60] Vedi le considerazioni di S. FOIS, Liberalismo e democrazia: quattro
interrogativi, ora in La crisi della legalità. Raccolta di
scritti, Milano 2010, 645 ss.
[61] In Assemblea Costituente si
manifestò un netto rifiuto di qualunque tipo di repubblica
presidenziale. Vedi L. PALADIN, voce Presidente
della Repubblica, in Enciclopedia del
diritto, XXXV, 1986, 166.