Il premio di maggioranza alla prova
dell’uguaglianza del voto
Università di Sassari
SOMMARIO: 1. Premessa.
– 2. L’uguale valore dei voti. –
3. Il sistema elettorale della Camera e del Senato. –
4. Il sistema elettorale regionale. – 5. Il sistema elettorale comunale e provinciale.
Qui
di seguito sviluppo l’idea che l’uguaglianza regola la manifestazione del voto
e l’esito della votazione, il diritto al voto e all’elezione. Non riguarda
invece la rappresentatività dell’elezione. Questa è un fondamento del governo
rappresentativo, ma non è tutto. Il governo deve essere democratico, oltre che
rappresentativo; e la democrazia è molto esigente nei confronti dell’elezione:
pretende l’uguaglianza degli elettori, intesa nel senso che il voto da essi
espresso deve avere lo stesso peso, cosicché ciascun cittadino nella scelta dei
governanti conti quanto l’altro, senza alcuna discriminazione. Il governo
democratico-rappresentativo richiede allora la rappresentatività degli eletti e
l’uguale valore dei voti. E’ un’interpretazione del diritto costituzionale, la
quale ha molto a che vedere con la democrazia. Tuttavia non tratto della teoria
democratica. Questa dottrina politica sta sullo sfondo del discorso. La evoco
preliminarmente e conclusivamente per indicare il punto di connessione tra essa
e il diritto positivo come io lo intendo, quindi per mostrare la portata e non
il fondamento della ricostruzione. Insomma, qui espongo un’interpretazione del
diritto costituzionale e non una teoria della democrazia.
Il
sistema elettorale, dunque, deve superare due test di legittimità: la rappresentatività
dell’elezione e l’uguaglianza del voto. Qui mi occupo principalmente di
quest’ultimo tema, perché considerato sotto il profilo che qui suggerisco è
inesplorato e promettente.
Lo
studio dell’uguaglianza del sistema elettorale presuppone l’accettazione
dell’interpretazione secondo cui l’uguaglianza incide non solo sulla modalità
di espressione del voto da parte dell’elettore, ma anche sulla regola che
determina i seggi corrispondenti ai voti dati, quindi stabilisce l’elezione del
candidato. Perciò, prima, argomento questa interpretazione e, poi, discuto
della legittimità dei sistemi elettorali utilizzati in Italia.
L’art.
48 della Cost. prevede che il voto è uguale, oltre che libero, personale e segreto.
La libertà, personalità e segretezza si riferiscono chiaramente alla
manifestazione del voto. Sembrerebbe, dunque, che l’uguaglianza attenga
solamente alla manifestazione del voto e che non si estenda al voto
manifestato, cioè al risultato elettorale. A sostegno di questa
interpretazione, specie nella giurisprudenza costituzionale, si adduce
l’argomento che la Costituzione non dispone circa il sistema elettorale, la cui
disciplina quindi sarebbe lasciata al legislatore ordinario[1]. A essa si oppone la
tesi, peraltro argomentata in riferimento anche ad altre norme costituzionali
espresse e implicite, secondo cui il voto deve essere uguale anche riguardo
agli esiti e perciò non sarebbero consentiti sistemi elettorali maggioritari[2].
Nessuna di queste due letture contrapposte convince: confondono i diversi piani
dell’uguaglianza del voto e della rappresentatività dell’elezione, arrivando a
conclusioni sbagliate.
Chi
sostiene che la regola dell’art. 48 riguardi solamente la manifestazione del
voto riduce il significato dell’uguaglianza al divieto del voto plurimo o
multiplo. Il voto plurimo è stato ideato e praticato principalmente per
mitigare gli effetti del suffragio universale: votano tutti, ma alcuni, per la
loro ricchezza, cultura, o posizione sociale, hanno un voto in più o 3 se lo
stesso elettore possiede tutti e tre i requisiti. Il voto multiplo ha effetti
simili, ma diverse motivazioni: un esempio, invero l’unico che conosca, è la c.d.
‘franchigia elettorale’, abolita in Inghilterra nel 1948: i professori
universitari e coloro che lavoravano in un luogo diverso da quello di residenza
votavano due volte, nel collegio universitario o in quello di lavoro e nel
collegio di residenza.
In
definitiva, l’uguaglianza del voto significherebbe che ogni elettore dispone
dello stesso numero di voti, semplificando diciamo che ogni elettore ha diritto
a un voto. Non c’è dubbio che questa
regola presuppone l’uguaglianza degli elettori, cosicché nessuno di essi, per
nessuna ragione, può pretendere di contare di più nell’elezione, quindi di
avere il diritto a esprimere più di un voto. Ma ciò implica che la scelta
dell’uno sia uguale a quella dell’altro, che valga quanto quella dell’altro:
cioè uno. Sostenere il contrario e cioè che l’uguaglianza si applica alla
manifestazione del voto e non anche al voto espresso è contradditorio: la
previsione che alcuni elettori speciali possono esprimere più voti (due o tre)
non è diversa da quella secondo cui il loro voto vale di più (conta non uno, ma
due o tre), anzi il risultato è identico; e se è vietata l’una lo è anche
l’altra. In effetti, poiché gli elettori sono uguali, il loro voto è uguale,
nel senso che ogni elettore ha diritto a esprimere un voto e il voto da lui
espresso vale uno. I voti si contano e non si pesano, cioè sono equivalenti.
Equivalente è dunque l’espressione che qualifica in modo preciso e pregnante il
voto conforme alla regola dell’uguaglianza. I voti hanno lo stesso valore, sia
in entrata, come manifestazione, che in uscita, come risultato[3].
Del
resto, i candidati sono uguali come gli elettori. Perciò l’elezione deve essere
fondata sul maggior numero di voti ottenuti dal candidato[4]. La regola del voto
uguale si applica tanto agli elettori, cosicché ciascuno di essi ha diritto a
esprimere un solo voto, quanto ai candidati, cosicché il voto espresso a favore
dell’uno è uguale a quello manifestato a favore dell’altro candidato. I voti
assegnati ai diversi candidati hanno insomma lo stesso valore: come ciascun
elettore ha diritto a esprimere un (solo) voto, così il voto dato a un
candidato vale (uno), quanto quello dato a un altro candidato. Ne consegue che
i candidati possono essere discriminati soltanto in ragione dei voti ottenuti
da ciascuno. L’uguaglianza del voto
implica perciò che l’elezione sia giustificata dal numero maggiore dei voti
ottenuti: se i voti sono equivalenti, l’averne ottenuto di più è l’unica
giustificazione dell’elezione. Basta un solo voto in più affinché un candidato
sia preferito a un altro. Ma se il voto in più manca, cioè se la scelta di un
candidato non dipende dalla maggiore quantità di preferenze espresse a suo
favore, allora l’elezione è arbitraria: è fondata non sui voti dati e
attribuiti, ma su altro.
Peraltro
dall’uguaglianza del voto così intesa non deriva alcun particolare sistema
elettorale. Da essa si può ricavare soltanto la regola che è eletto il
candidato che ha ottenuto più voti. Il sistema elettorale, maggioritario o
proporzionale che sia, è legittimo se determina l’elezione di chi ha avuto più
voti, dando lo stesso valore al voto ottenuto da ogni candidato.
Pertanto,
facendo qualche esempio, rispetta questa regola il sistema elettorale inglese
secondo cui nel collegio è eletto il candidato più votato. E’ vero, la formula
elettorale inglese rende possibile che siano attribuiti più seggi allo
schieramento politico che abbia ottenuto meno voti. Ma ragionando
dell’appartenenza politica dei candidati, il discorso si sposta su un altro
piano, sulla rappresentanza politica. Da questo differente punto di vista,
effettivamente può capitare che, non essendoci proporzione tra i voti ottenuti
e quelli attribuiti a un raggruppamento, i voti dati al gruppo maggioritario
abbiano un maggior valore. Ma, se consideriamo l’elezione dei candidati, i voti
sono perfettamente equivalenti e il sistema determina l’elezione del candidato
più votato; e questo è il fatto rilevante sotto il profilo dell’uguaglianza del
voto, giacché si vota il candidato e non il partito politico cui egli
appartiene o dice di appartenere; inoltre l’eletto, non essendo vincolato ad
alcun mandato, non è tenuto a mantenere l’appartenenza posseduta o dichiarata
prima dell’elezione. Sicchè, sotto
questo profilo, non è neppure possibile stabilire quale relazione vi sia tra il
voto espresso a favore del candidato e il risultato politico dell’elezione,
dato che sono grandezze non omogenee; bisogna collocare politicamente il
candidato, per stabilire quale sia il rapporto tra il voto dato a questo e i
seggi assegnati al (o a quello che si ritiene sia il) suo partito; e questa
collocazione partitica è giuridicamente arbitraria, dato che nessuna regola
impone al candidato un’appartenenza partitica e soprattutto all’eletto di
restarle fedele.
E’
pressoché uguale il discorso se il sistema prevede l’elezione della lista di
candidati più votata, che è utilizzato, ad esempio negli USA per l’elezione
degli elettori presidenziali. Anche in questo caso può capitare che la
maggioranza presidenziale non corrisponda alla maggioranza dei voti ‘popolari’.
E’ il risultato possibile, ma non necessario, dell’elezione di secondo grado.
Tuttavia, la regola dell’equivalenza del voto non è violata in nessuna delle
due votazioni nelle quali si articola l’elezione del Presidente. Questa norma è
violata invece dal sistema proporzionale, apparentemente simile, utilizzato in
Italia per l’elezione dei parlamentari. Infatti, qui si vota una lista di
candidati e vengono eletti non tutti, ma soltanto alcuni in base all’ordine di
iscrizione dei candidati nella lista. Ma di ciò dirò ampiamente in seguito.
L’uguaglianza
del voto implica dunque non una formula elettorale proporzionale, ma l’elezione
del candidato più votato.
Il
sistema elettorale va valutato anche da un altro punto di vista, quello della
rappresentatività dell’eletto. Da questa prospettiva, viene in questione non il
diritto al voto e all’elezione, ma il principio istituzionale che fonda il
governo rappresentativo, la rappresentanza politica dei governanti. Il discorso
in proposito è più fluido di quello sull’uguaglianza del voto, poiché nessuna
disposizione costituzionale prevede la rappresentatività e non possediamo alcun
parametro preciso e condiviso che la misuri. Soltanto l’art. 15 dello Statuto
sardo prescrive che le modalità di elezione del Consiglio regionale, del
Presidente della Regione e dei componenti della Giunta regionale siano
stabilite dalla legge statutaria, sulla base dei princìpi di rappresentatività
e di stabilità. Comunque dal sistema costituzionale si ricava agevolmente che
l’elezione serve alla designazione di organi rappresentativi e la sproporzione
tra i voti dati (tra la manifestazione del voto) e i seggi attribuiti (l’esito
del voto) potrebbe pregiudicare la rappresentazione politica. Sicché,
l’elezione non raggiungerebbe il suo scopo. Ma, sotto il profilo
rappresentativo, uno scostamento tra i voti dati e i seggi assegnati è
inevitabile e comunque accettabile, giacché gli eletti, proprio perché
rappresentanti politici, rappresentano tutti e non solo coloro che li hanno
eletti. Allora è una questione di misura: la sproporzione non deve essere tale
da pregiudicare la rappresentanza politica degli eletti[5]. Siccome la formula
proporzionale, in quanto tale, rende minimo lo scostamento, allora essa è da
preferire ad altre non proporzionali e tra quelle proporzionali, va preferita
la più proporzionale. Le formule maggioritarie sono legittime se la
sproporzione che esse implicano consente comunque l’elezione di organi
rappresentativi politicamente. Vanno perciò considerate eccezionali e, in
quanto eccezionali, richiedono una giustificazione[6].
In
conclusione, il sistema elettorale è valido se supera il test di uguaglianza e
quello di rappresentatività.
Qui
però non discuto del confine tra il poco e il troppo sproporzionato. Ne ho
parlato solamente per evidenziare che la discussione in proposito non tocca
l’uguaglianza del voto. Qui, una volta stabilito che il voto deve essere
uguale, nel senso che i voti espressi devono avere lo stesso valore, applico il
test di uguaglianza ai sistemi elettorali proporzionali con premio di
maggioranza utilizzati in Italia nelle elezioni parlamentari, regionali e
locali.
Il
collegio è la struttura del corpo elettorale nella quale si delibera l’elezione
ed è composto dagli elettori che concorrono alla stessa elezione. La volontà
del collegio è imputata al corpo elettorale, però è espressa dagli elettori del
collegio. Può essere che il collegio riunisca l’intero corpo elettorale, che
quindi sia unico, oppure una sua parte, che quindi ci siano più collegi. Quando
il corpo elettorale è strutturato in diversi collegi, nei quali si eleggono i
candidati ai seggi che sono attribuiti a ciascun collegio, il voto è uguale se
in tutti i collegi si applica il medesimo sistema elettorale: è evidente,
infatti, che utilizzando diverse formule elettorali, cioè differenti regole per
stabilire quanti voti servono per essere eletti, i voti sono calcolati in modo
diverso nei vari collegi e in conseguenza il voto del corpo elettorale è
disuguale. E’ uguale, invece, se
l’elettore (come avviene, ad esempio, nei c.d. sistemi misti) esprime non un
voto (che è calcolato diversamente nei vari collegi) ma due voti, il primo nel
collegio con un sistema (proporzionale)
e il secondo nel collegio con un altro
sistema (maggioritario), cosicché ciascun voto ha il medesimo valore, il voto
di tutti gli elettori è calcolato nello stesso modo.
Per
comprendere l’operatività di questo test di uguaglianza a livello del corpo
elettorale è utile l’esempio del sistema francese previsto dalla legge 519 del
1959 (loi scèlèrate) e applicato alle
elezioni del 1951 e del 1956: era previsto l’apparentamento e il premio di
maggioranza, fatta eccezione per i collegi dell’area parigina a maggioranza
comunista ai quali si applicava la formula proporzionale, senza
l’apparentamento e il premio di maggioranza. Il diverso valore dei voti è
evidente.
Le
leggi elettorali della Camera e del Senato italiani discriminano i voti in un
modo analogo. Infatti, per quanto riguarda la prima, nella circoscrizione
estero i seggi (12) sono attribuiti in modo proporzionale, in quella della
Valle d’Aosta (1) col sistema maggioritario plurality
e nelle restanti (617) col sistema del quoziente e l’eventuale premio
maggioranza.
Per
quanto concerne il Senato, nella maggior parte delle circoscrizioni regionali
l’elezione è stabilita col sistema proporzionale e il premio di maggioranza; in
Molise non è previsto il premio di maggioranza; in Valle d’Aosta si utilizza il
sistema maggioritario plurality; in
Trentino Alto-Adige sei seggi sono attribuiti in collegi uninominali a chi
ottiene più voti e gli altri spettanti alla regione ai gruppi di candidati non
eletti nel collegio col metodo proporzionale; nella circoscrizione estero col
sistema proporzionale e il voto di preferenza.
I
deputati sono eletti nelle diverse circoscrizioni nelle quali hanno presentato
la candidatura, ma la ripartizione dei seggi tra le liste avviene a livello
nazionale; e ciò determina varie operazioni arbitrarie, che provocano
discriminazioni non fondate sui voti ottenuti dai candidati nel collegio.
Innanzitutto
si determina la cifra elettorale nazionale, sommando i voti conseguiti nelle
circoscrizioni dalle liste col medesimo contrassegno. La cifra elettorale
nazionale è la somma non dei voti conseguiti da una lista di candidati, ma da
diverse liste di candidati. E’ vero che si sommano i voti ottenuti nelle
circoscrizioni da liste aventi il medesimo contrassegno. Ma si eleggono persone
e non contrassegni, i quali servono soltanto a identificare simbolicamente le
liste concorrenti. In realtà si sommano i voti di liste diverse ed espressi con
diverse deliberazioni dagli elettori dei molti collegi. In altri termini, la
cifra elettorale nazionale è il risultato non di una deliberazione di un
collegio di elettori, ma di una proiezione matematica, la quale ci dice che
cosa sarebbe accaduto con ogni probabilità se in un collegio nazionale si fosse
votato un listone contenente tutti i candidati circoscrizionali accomunati dal
medesimo contrassegno (la cui democraticità peraltro sarebbe difficile da
argomentare). Non discuto la precisione del calcolo proiettivo e quindi
l’esattezza della rappresentazione politica che esso offre del voto espresso
dagli elettori dei diversi collegi. Dico soltanto che questa cifra elettorale
non è l’esito della deliberazione del corpo elettorale.
Dopo
aver stabilito la cifra elettorale nazionale, si determina la cifra elettorale
nazionale di ciascuna coalizione di liste collegate; e così si compie un’altra
operazione arbitraria. Il collegamento o l’apparentamento non consente di
sommare i voti ottenuti da ciascuna lista: le liste sono diverse. Sono
collegate, è vero, ma il collegamento non può essere utilizzato per sommare
voti di diverse liste come se fossero voti dati a un’unica lista. Può servire
per altri fini, forse per il superamento di una soglia di sbarramento, che non
incide sul calcolo dei voti.
A
questo punto si stabilisce quale lista o quali liste collegate abbiano ottenuto
più voti e si suddividono i seggi fra le liste o le colazioni col metodo del
quoziente, dopodiché i seggi sono attribuiti nelle circoscrizioni, con un
calcolo assai complicato. Semplificando, si stabilisce il quoziente elettorale
nazionale dividendo la somma delle cifre elettorali nazionali delle liste o
delle coalizioni che hanno superato i vari sbarramenti per i seggi da
assegnare. Sulla base del quoziente si calcolano gli indici circoscrizionali
per la proclamazione degli eletti. Non è detto che in questo modo la somma dei
seggi assegnati nelle circoscrizioni corrisponda a quella risultante dalla
precedente attribuzione dei seggi fatta a livello nazionale considerando le
cifre elettorali nazionali delle liste col medesimo contrassegno. Perciò è
prevista la verifica della corrispondenza dei due risultati[7] e se è negativa si
pareggiano le deficienze di eletti in una circoscrizione con le eccedenze di
un’altra. Il che dimostra che la ripartizione nazionale dei seggi sulla base
della somma dei voti ottenuti dalle liste col medesimo contrassegno, cioè di
una proiezione matematica del voto circoscrizionale, oltre a essere arbitraria,
può essere anche sbagliata. Ciononostante è utilizzata come punto di
riferimento per correggere, cioè stabilire l’elezione nella circoscrizione, e
per decidere il ricorso al premio di maggioranza, quindi per determinare chi è
eletto.
Se
alla lista o alla coalizione che ha conseguito il maggior numero dei voti sono
attribuiti meno di 340 seggi, allora ai seggi già assegnati ne vengono aggiunti
altri fino ad arrivare a 340. Questa operazione è arbitraria in sé, oltre che
per le ragioni che ho illustrato precedentemente; è ciò è rivelato dalla
condizione dell’assegnazione di ulteriori seggi, cioè il non aver raggiunto col
sistema proporzionale la maggioranza dei seggi auspicata, dal fatto che sia
indeterminato il numero dei seggi ulteriori e che questi si aggiungano a quelli
già attribuiti. In questo modo, i voti della lista premiata sono calcolati
diversamente (valgono non 1, ma 1 più X) da quelli conseguiti dalle altre liste
candidati. Un eletto di queste corrisponde a x voti, un eletto di quella a x-n
voti. “N” è la variabile dipendente dai seggi ulteriori, cosicché più ne
vengono assegnati meno voti occorrono per essere eletti. Insomma, qualora la
lista più votata non raggiunga il numero di seggi prestabilito, la formula per
calcolare i seggi da attribuire a essa cambia ed è diverso da quello impiegato
per le altre liste. Se il premio di maggioranza si attribuisse nel collegio, si
applicherebbero diversi sistemi elettorali nel medesimo collegio, provocando le
stesse discriminazioni arbitrarie tra i voti e i candidati che avvengono quando
si adoperano diversi sistemi elettorali in più collegi del corpo elettorale.
Se
viene assegnato il premio di maggioranza, nelle circoscrizioni sono utilizzati
diversi quozienti, il quoziente elettorale nazionale o il quoziente elettorale
nazionale di maggioranza, per attribuire i seggi alle liste o alle coalizioni
premiate, e il quoziente elettorale
nazionale di minoranza, per l’elezione dei candidati delle liste o delle
coalizioni minoritarie. Sicché può capitare che siano eletti col premio candidati
della lista che nella circoscrizione ha ottenuto meno voti. Può darsi che ciò
sia statisticamente improbabile, non lo so e, ovviamente, è inutile
saperlo. Ciò che conta è che le regole
del sistema determinano arbitrariamente l’elezione, quindi calcolano in modo
ineguale i voti espressi dagli elettori.
Infine,
quasi a coronamento della sequenza di discriminazioni non fondate sul voto,
nella circoscrizione è proclamato eletto il candidato della lista che viene
prima nell’elenco non quello più votato. Quindi l’elezione è determinata non
dal fatto di aver ricevuto più voti dagli elettori, ma dalla posizione
assegnata al candidato dai presentatori della lista.
Il
sistema elettorale del Senato riproduce a livello regionale grosso modo gli
stessi vizi di quello dei deputati e non vale la pena qui di esaminarlo
analiticamente.
L’art.
122 della Costituzione dispone che il sistema elettorale della regione sia
stabilito con legge regionale nel rispetto dei principi previsti dalla legge
statale. Qui interessa principalmente testare il premio di maggioranza, quindi
considero non il sistema previsto da ciascuna regione, ma quello disciplinato
dalla legge 108 del 1968, che si applica transitoriamente alle regioni
ordinarie, in virtù della legge costituzionale n. 1 del 1999, e speciali, in
virtù della legge costituzionale n. 2 del 2001.
Il
corpo elettorale regionale è ripartito in più collegi aventi circoscrizione
provinciale e in un collegio regionale. Le liste provinciali sono collegate con
quella regionale, a capo della quale è posto il candidato alla presidenza della
Regione. Nelle circoscrizioni provinciali i seggi spettanti alla circoscrizione
sono attribuiti col sistema del quoziente. I seggi del collegio regionale sono
assegnati alla lista più votata. Alle liste provinciali collegate con questa
sono attribuiti almeno il 55% dei seggi consiliari. Viene ‘premiata’ non la
lista che consegue più voti, ma la lista provinciale collegata con quella
regionale che ha ottenuto più consensi. Tralascio, per non ripetermi, le
osservazioni riguardo al collegamento, e mi limito a notare che stavolta ciò
che fa scattare il premio è non la somma dei voti delle liste dei diversi
collegi, ma i voti ottenuti dalla lista del collegio regionale: il fatto che
questa lista abbia ottenuto più voti accresce i seggi non della stessa lista,
ma di un’altra lista. In più, i seggi della lista regionale diminuiscono in
ragione dell’incremento dei voti
conseguiti dalle liste provinciali con essa collegate. Se le liste provinciali
eleggono il 50% o più dei consiglieri, allora sono eletti i candidati della
lista regionale collegata sino ad arrivare al 10% dei seggi consiliari. Se invece conseguono meno seggi del 50%,
allora sono eletti tutti i candidati della lista regionale. Se questa ha
ottenuto il 40% o meno dei voti del collegio regionale, gli eletti delle liste
provinciali arrivano sino al 55% e al 60% se ne ha conseguito di più.
Insomma
il premio viene dato perché la lista regionale ha ottenuto più voti, ma vengono
incrementati i seggi delle liste provinciali collegate a discapito della lista
regionale. Il sistema poi è tale per cui all’aumento dei voti non corrisponde
un incremento dei seggi[8]:
all’incremento dei voti della lista regionale corrisponde un aumento dei seggi
delle liste provinciali, mentre alla crescita dei voti della lista provinciale
corrisponde una riduzione dei seggi della lista regionale. In conseguenza,
alcuni candidati della lista regionale non sono eletti, nonostante la lista
abbia ottenuto il maggior numero dei voti, mentre sono eletti alcuni candidati
della lista provinciale collegata i cui voti non bastano per giustificare la
loro elezione.
Inoltre
il voto è disgiunto. E’ vero che il voto espresso a favore della lista
provinciale si intende dato anche alla lista regionale collegata, ma l’elettore
può esprimere due voti diversi, quindi non è detto che il secondo sia a favore
della lista regionale collegata con quella provinciale che ha votato.
Ciononostante la lista provinciale si avvantaggia dei voti conseguiti da quella
regionale e grazie a questi voti sono eletti dei candidati che nella loro
circoscrizione non hanno conseguito i consensi necessari per l’elezione.
Infine,
la lista regionale (il c.d. listino) è bloccata, quindi l’elezione è in ordine
di presentazione e non per i voti ottenuti dal candidato.
Il
sistema elettorale dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti e
delle province è diverso da quello dei comuni con una popolazione inferiore ai 15.000. Peraltro ci sono varie differenze tra il
sistema elettorale provinciale e comunale, in particolare nelle elezioni
provinciali non è consentito il voto disgiunto, che tuttavia rilevano poco ai
fini del mio discorso.
La
formula con cui sono attribuiti i seggi nei comuni grandi in fondo è molto
simile a quella utilizzata nelle regioni. La principale differenza consiste nel
fatto che il collegamento è tra il candidato a sindaco e le liste di candidati
al consiglio, mentre alla regione è tra le liste provinciali e quella regionale
a capo della quale sta il candidato alla presidenza. Pure qui il fatto
politicamente importante è il collegamento con questo candidato. Ma le regole
che disciplinano l’elezione dei consiglieri regionali sono diverse e funzionano
nel modo particolare che ho descritto in precedenza, sebbene le differenze si
apprezzino poco dal punto di vista della competizione politico-elettorale.
Alle
liste collegate col candidato a sindaco, se questo è eletto, al primo o al
secondo turno – poco incide sull’attribuzione dei seggi -, è assegnato il 60%
dei seggi consiliari, semprechè non li abbiano già conseguiti (con i voti) e
che nessuna altra lista abbia raggiunto più del 50% dei voti validi.
Il
premio di maggioranza scatta, quindi, non per i voti in più dati alla lista, ma
per il successo del candidato a sindaco. A parte il fatto che nei comuni il
voto è disgiunto e che comunque la preferenza accordata al candidato a sindaco
o a presidente della provincia non si trasmette alle liste collegate, il
sindaco e il consigliere comunale sono cariche diverse, le elezioni quindi sono
differenti, nonostante il corpo elettorale coincida, e i voti non possono
essere confusi. Tutto ciò rende evidente che l’eventuale elezione dei
consiglieri in più è determinata non dal maggior numero di voti da essi
ottenuti. Più precisamente, la loro elezione è dovuta a un calcolo dei propri
voti fatto con un criterio diverso da quello utilizzato per stabilire
l’elezione dei candidati delle altre liste. Perciò è arbitraria.
Il
sistema elettorale dei comuni piccoli non contempla il premio di maggioranza.
Infatti, la lista dei candidati al consiglio è collegata al candidato a
sindaco; i voti dati a questo sono attribuiti a quella. E’ eletto sindaco il
candidato più votato e alla lista collegata, cioè a quella che ha conseguito il
maggior numero di preferenze, sono attribuiti due terzi dei seggi assegnati al
consiglio. In questo caso è il maggior numero di voti ottenuti dalla lista che
giustifica l’elezione. L’unico problema è che i seggi rimanenti sono attribuiti
alle altre liste col differente sistema proporzionale di Hondt; e ciò, fra l’altro, è in palese contraddizione con la
disposizione per la quale «l'elezione dei consiglieri comunali si effettua con
sistema maggioritario» (art. 71, comma 1, dpr. 267/2000). Se si seguisse
coerentemente questa regola, i seggi rimanenti andrebbero assegnati alla
seconda lista più votata.
Il
sistema elettorale delle province abbina al premio di maggioranza la
ripartizione del corpo elettorale in collegi. Ma è sensibilmente diverso da
quello utilizzato per l’elezione dei deputati e dei senatori. Infatti, la
presentazione delle candidature per i singoli collegi è fatta per gruppi
contraddistinti da un unico contrassegno. In altri termini, la stessa lista di
candidati è presentata in più collegi, indicando però il collegio per il quale
viene presentato ciascun candidato. I seggi sono ripartiti proporzionalmente,
attribuendo eventualmente il premio di maggioranza, tra i gruppi di candidati.
Quindi non nel collegio. Qui sono calcolati i voti di preferenza conseguiti da
ciascun candidato del gruppo e viene eletto chi nel collegio ottiene la
percentuale più alta di voti, come avveniva per l’elezione dei senatori prima
della riforma del 1993. Sicchè, la candidatura nel collegio serve a stabilire a
chi sono assegnati i seggi attribuiti al gruppo o alla lista di candidati.
Questo
sistema risale al 1951, quindi preesiste alla previsione del premio di
maggioranza. Tuttavia, evidenzia che il premio di maggioranza richiede per la
ripartizione dei seggi l’organizzazione del corpo elettorale in un unico
collegio. Infatti, il suo scopo è quello di assicurare la maggioranza (o
comunque un numero di seggi maggiore di quelli spettanti secondo la formula
elettorale) alla lista che abbia ottenuto più voti ma non i seggi prestabiliti;
e per raggiungerlo bisogna considerare la complessiva composizione dell’organo
e non l’elezione nei diversi collegi, la cui somma potrebbe dare esiti
imprevedibili. E’ un inconveniente che il sistema elettorale del senato non risolve, perché la
Costituzione impone l’elezione su base regionale. Quello della camera neppure,
perché ricorre all’artifizio illegittimo che ho descritto sopra.
Il
collegio elettorale unico forse non consentirebbe un’elezione rappresentativa.
Ma la questione fondamentale che ora voglio sollevare è se esso consenta
l’elezione democratica. Il problema si pone perché il collegio sarebbe così
ampio da non consentire la conoscenza dei candidati e quindi la scelta effettiva
degli elettori; e ciò presuppone una concezione secondo cui la democrazia
richiede che il potere sia esercitato concretamente dal popolo, in modo
consapevole e meditato. Ma questo è un discorso lungo e impegnativo che devo
rimandare a una prossima occasione.
[1]
Cfr. soprattutto le sentenze della Corte costituzionale: 43/1961; 429/1995;
15/2008, e in dottrina M. Luciani,
Il voto e la democrazia, Roma, 1991,
35 ss.
[2]
Cfr. C. Lavagna, Il sistema elettorale nella Costituzione
italiana, in Riv. trim. dir. pubbl.,
1952, 849 ss. e spec. 869 ss.
[3]
La distinzione tra i voti in entrata e in uscita è di M. Luciani, Il voto e la democrazia, cit., 36, che la formula così: «Il
principio di eguaglianza del voto…richiede che ciascun voto abbia pari peso nel
momento in cui si determinano gli imputs elettorali,
non invece nel momento in cui se ne producono gli outputs».
[4]
G.U. Rescigno, Democrazia e principio maggioritario, in Quaderni
cost., 1994, 199, trattando dell’elezione di organi monocratici, collega l’uguaglianza
del voto col principio che è eletto chi ha la maggioranza dei voti. Infatti
scrive: «Ma, in ogni caso, giunti alla stretta finale decide la maggioranza dei
voti (se i voti sono eguali, come abbiamo deciso di presupporre sempre) e non
si vede come potrebbe essere altrimenti».
E a
195, discutendo dell’applicazione del principio di maggioranza al caso in cui
un collegio debba eleggere più persone e possa quindi dividere il suo voto tra
due o più candidati per ciascun posto da ricoprire, osserva che in questo caso
il principio di maggioranza «vuol dire, in linea di massima, che viene eletto
non chi ottiene la metà + 1 dei voti, ma chi ottiene più voti, qualunque sia il
loro numero assoluto. Viene eletto cioè anche chi ha ottenuto una minoranza di
voti entro il collegio elettorale, purché si tratti della minoranza più alta
rispetto ai voti attribuiti agli altri candidati».
Peraltro
il suo discorso si svolge sul piano della rappresentatività e democraticità dei
sistemi elettorali e non tocca quello del diritto al voto e all’elezione.
[5]
La Corte costituzionale nelle sentenze 5/2008 e 13/2012, giudicando
dell’ammissibilità del referendum abrogativo della legge elettorale 270/2005,
ha segnalato «al Parlamento l'esigenza di considerare con attenzione gli
aspetti problematici di una legislazione che non subordina l'attribuzione del
premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di
seggi».
[6]
G.U. Rescigno, Democrazia e principio maggioritario, cit., 221, afferma che «i sistemi
elettorali maggioritari diminuiscono il tasso di democrazia anche ledono
gravemente il principio “un uomo un voto”. E’ vero che in entrata (nel momento
della votazione e del conteggio dei voti) la regola non viene toccata. Però in
uscita, nel momento in cui il voto si trasforma in seggi, nei sistemi
maggioritari il voto non è più eguale». Tra questi sistemi egli colloca quello
inglese. Per lui essi hanno l’effetto di eliminare o perlomeno diminuire la
rappresentatività, «giacché non riflette correttamente le articolazioni del
corpo elettorale, e al contrario le deforma gravemente, avvantaggiando alcuni,
penalizzando altri» (222). Tuttavia ammette scostamenti dal criterio
proporzionale, nonostante il principio di rappresentatività sia soddisfatto
soltanto da questo criterio, perché va considerato anche il principio di
governabilità. «Se è così, ci troviamo di nuovo di fronte ad un caso di
bilanciamento tra principi costituzionali non sempre compatibili, ed anzi
spesso confliggenti» (ibidem). E
allora occorre bilanciare. Ma «poiché si dice di voler rimanere in democrazia,
e democrazia dovrebbe voler dire non governo quale che sia, ma governo della
maggioranza degli elettori, non si può ammettere qualsiasi sistema maggioritario,
ma solo quei sistemi maggioritari che favoriscono o garantiscono il
raggiungimento della maggioranza assoluta in seggi e non oltre, e non sono ammissibili quei sistemi che permettono
premi di maggioranza superiori (ad es. un sistema che attribuisce il 60% dei
seggi a partiti che raggiungono percentuali di voto molto inferiori). Meglio:
sono più democratici quei sistemi politici che, per garantire la governabilità,
infliggono al criterio proporzionale ferite minori di altri» (223. Il corsivo è
testuale).
[7]
Art. 83, n. 9: «l’Ufficio accerta se il numero dei seggi assegnati in tutte le
circoscrizioni a ciascuna lista
corrisponda al numero dei seggi ad essa attribuito ai sensi del numero 7)»,
ossia al numero dei seggi attribuiti sulla base della cifra elettorale delle
liste col medesimo contrassegno o coalizioni di liste.
[8]
Cfr. F. Musella, Il premio di maggioranza nelle regioni
italiane, in Il premio di maggioranza, a
cura di A. Chiarante e G. Tarli Barbieri, Roma, 2011, 168, il quale nota che
«le diverse modalità di applicazione del premio di maggioranza sono alla base
di un difetto di “monotonicità” che fa in modo che si contraddica una delle
regole più semplici degli impianti elettorali: quella che fa corrispondere ad
un aumento dei voti un incremento nella conquista di seggi. Ciò è dovuto al
meccanismo secondo il quale il premio di maggioranza si dimezza nel caso in cui
la coalizione vincente ottenga una percentuale superiore alla metà dei
consensi».