A proposito di elezione del Presidente della Repubblica Italiana*
Professore
emerito nell’Università di Cagliari
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Introduzione.
– 3.
Il Parlamento in seduta comune. – 4. La
sede vacante. – 5. Il Presidente della Camera dei
deputati. – 6. I delegati regionali e la verifica dei
poteri. – 7. L’elettorato passivo. – 8. Le candidature. – 9. Le votazioni.
– 10. Le maggioranze necessarie. – 11. Il giuramento. – 12. Osservazioni
finali.
Quando
si concordarono gli argomenti nei quali si sarebbe dovuto strutturare il
presente simposio, si cercò di far sì che ciascun relatore scegliesse quello
che più si attagliava ai suoi interessi di ricerca. Personalmente non feci
nessuna scelta: così, alla fine, ci si trovò con un argomento ed un relatore
che non si scelsero, ma si trovarono accoppiati. In effetti, l’argomento
sembrava essere, apparentemente, di carattere meramente espositivo; tuttavia, a
ben guardare, le implicazioni problematiche che ne derivano sono numerose,
rilevanti per la stessa struttura costituzionale dello Stato e di notevole
importanza così da rendere difficile una loro trattazione, se non esauriente
quanto meno soddisfacente, in una relazione che deve, peraltro giustamente,
essere temporalmente molto limitata.
Bisogna premettere che in uno Stato il quale pone a suo
fondamento il riconoscimento che «la sovranità appartiene al popolo» e sceglie
la forma di governo parlamentare come strumento basilare per la gestione della
cosa pubblica, nel rispetto del principio della divisione dei poteri, non è
cosa facile trovare, nel rispetto dell’applicazione della regola del check and balance, il giusto equilibrio tra i diversi organi e le varie funzioni.
Uno degli elementi che costituiscono la struttura portante
dell’ordinamento costituzionale di ogni Paese è dato dalla figura del Capo dello
Stato. E’ logico quindi che, nel passaggio dalla monarchia alla repubblica, in
sede di Assemblea costituente, un’attenzione particolare sia stata riservata a
questa istituzione.
Questa fondamentalmente era la problematica davanti alla
quale si trovò l’Assemblea costituente italiana quando, nell’ormai lontano
1946, iniziò i suoi lavori.
Fino a quel momento, il capo dello Stato (monarca o
Presidente della Repubblica) era visto come il più alto organo dello Stato.
All’inizio degli anni ’30, con una formula sintetica ma efficace, lo si
definiva come il «gardien de la
constitution», cioè come il
garante supremo (superior non
recognoscens) del patto costituzionale (Gordon, La responsabilité du Chef de l’Etat dans la pratique constitutionnelle
recente, Paris, 1931).
C’è da chiedersi se ancora oggi – dopo l’evoluzione che la
società ha avuto e le esperienze politiche, storiche e giuridiche che si sono
sin qui fatte – una tale definizione sia ancora valida. La risposta pare debba
essere negativa. Basti pensare alla nascita delle giurisdizioni costituzionali
(variamente chiamate: Corte suprema, corte costituzionale, tribunale
costituzionale, consiglio costituzionale e con maggiori o minori competenze
nonché con diverse procedure per adirvi) divenute giuridicamente e
politicamente non soltanto le vere guardiane, ma addirittura le interpreti
della Costituzione, Corti che si pongono persino al di sopra degli stessi
Parlamenti (è ipotizzabile addirittura la possibile incostituzionalità delle
leggi costituzionali, non fosse altro – ma non solo – che per gli aspetti
procedurali) al disopra dello stesso popolo sovrano (basti pensare al giudizio
di ammissibilità che spetta alla Corte Costituzionale italiana sulla richiesta
di referendum).
Specificamente per quanto riguarda il sistema di elezione
del Presidente della Repubblica, in sede di Assemblea costituente furono
prospettate due soluzioni che sostenevano l’una la sua elezione diretta a
suffragio universale, l’altra la sua elezione da parte delle due Camere
riunite. Diversi furono gli argomenti a favore e contro le due tesi.
In particolare, da parte dei sostenitori della prima
soluzione si osservava come fosse necessario che il Presidente, per le
particolari funzioni a lui attribuite (tra esse specialmente lo scioglimento di
una o di entrambe le Camere), dovesse avere una base elettorale sua propria
che, provenendo direttamente dal corpo elettorale, gli conferisse una
legittimazione tale da dargli la forza di contrapporsi agli altri organi
costituzionali che pure derivavano il loro potere dal titolare primo della
sovranità, cioè dal popolo. Un’investitura derivata, invece, avrebbe
indebolito, forse anche limitato se non addirittura condizionato il Presidente
nell’esercizio delle sue alte e delicate funzioni, ponendolo in una posizione
quasi di dipendenza, non tanto giuridica, quanto e soprattutto politica e
morale, rispetto al Parlamento che lui avrebbe anche potuto sciogliere.
Dall’altra parte si sosteneva che «i rappresentanti del
popolo hanno maggiore possibilità di scegliere elementi adatti all’alta
funzione» e si considerava inoltre che comunque, in definitiva, sia in
Parlamento sia nei confronti del corpo elettorale, l’influenza dei partiti
politici era egualmente forte. Era quest’ultima osservazione in particolare una
presa d’atto del ruolo che ai partiti politici era riconosciuto anche nella
stessa Carta costituzionale (art. 49 Cost.) e che però doveva portare, nel
corso del tempo, alla degenerazione da sistema dei partiti in partitocrazia.
Alla fine fu esclusa l’adozione di un sistema di elezione
diretta da parte popolare, anche perché fu ritenuto pericoloso il fornire
un’investitura popolare tanto forte da essere suscettibile di minare in qualche
modo la primauté parlamentare, dando
nel contempo eccessivo peso al Presidente.
In effetti, la maggiore preoccupazione che avevano i
costituenti era quella di introdurre nella Carta tutte le garanzie possibili al
fine di diminuire il rischio del ritorno di un regime antidemocratico, ed in
particolare evitare possibili derive dittatoriali. E’ in questo contesto che si
debbono inquadrare le norme relative alla salvaguardia degli equilibri tra i
diversi organi dello Stato, norme che tendono a non dare, nell’ambito del
sistema nel suo complesso, un peso eccessivo ad un organo rispetto ad un altro.
Siffatta attenzione ha riguardato specialmente gli organi monocratici e,
segnatamente, il Presidente della Repubblica ed il Presidente del Consiglio dei
ministri. Non pare si possa negare però che i limiti posti esplicitamente hanno
finito per incidere sulla stessa funzionalità di detti organi. La figura ed il
ruolo di «supremo equilibratore» riconosciuto al Capo dello Stato, quindi,
nasce non tanto dalla lettera della Costituzione, quanto piuttosto dalle prassi
che sono andate instaurandosi ed evolvendosi grazie proprio al voluto silenzio
della Carta in merito. E’ nell’ambito di un siffatto quadro che si sviluppò la
discussione sulla rieleggibilità del Presidente, discussione che si concluse
con la decisione salomonica di non stabilire niente in merito e di lasciare che
fosse la prassi a dare soluzione al problema. Così è avvenuto che, dal 1948 al
2013, non ci sono state rielezioni. Però la situazione particolare verificatasi
negli ultimi anni ha fatto sì che la lunga prassi sia stata interrotta e, per
la prima volta nella storia della Repubblica, sia stato rinnovato il mandato
presidenziale per un secondo settennato.
Non si può non ricordare che in sede di Assemblea
costituente ci fu chi (Tosato, Ass.cost., Resoconti, 338-339, ed ivi anche Ruini)
affermò che un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo «non
si limiterà ad essere un organo che tuteli l’ordinamento e il corretto
funzionamento degli organi costituzionali secondo la Costituzione, ma vorrà
intervenire effettivamente e decisamente – la natura stessa delle cose lo porta
– nella vita dello Stato, far sentire la sua voce, far valere e imporre la sua
volontà». Questo, tuttavia, si è puntualmente verificato, nonostante il diverso
metodo elettorale scelto. E’ inoltre da ricordare quanto fu approvato nella II
sottocommissione dei 75 (Res. seduta del 4 novembre 1946, 102 ss.): «Udita la
relazione degli on.li Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo
presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle
condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema
parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei
a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le
degenerazioni del parlamentarismo». La realtà sembra però abbia tradito gli
auspici.
Ciò
detto si può passare ora ad esaminare in modo sistematico quanto l’ordinamento
costituzionale italiano prevede in ordine al procedimento elettorale per la
scelta del Presidente della Repubblica ed alle problematiche relative.
Per quanto riguarda l’elettorato attivo, esso è costituito
da un collegio elettorale composto da tutti i deputati ed i senatori in carica
alla data di inizio delle votazioni oltreché dai 58 delegati eletti dai
Consigli regionali (tre per ogni Regione ed uno per la Valle d’Aosta) (art. 83,
I e II comma Cost.).
Dal momento in cui nella Costituzione non fu accolta la
proposta di dare al Paese un’Assemblea nazionale monocamerale, vista dai più
come pericolosa perché sprovvista di contrappesi validi e non si ebbe,
peraltro, il coraggio di creare un bicameralismo imperfetto che, fin
dall’inizio, desse spazio e voce alle forze economiche e sociali ed alle
comunità locali, preoccupati che ciò potesse attentare alla stessa unità
nazionale o, addirittura alla tenuta democratica del sistema istituzionale, si
optò per un bicameralismo paritario e, temendo l’ombra della Camera dei fasci e
delle corporazioni, ma volendo al contempo dare un contentino ai sindacati dei
lavoratori e dei datori di lavoro, si arrivò alla concezione abortiva del
C.N.E.L. che da sempre ha mostrato di essere un organismo inutile ma costoso,
in genere vero e proprio cimitero degli elefanti per personaggi politicamente decotti
o, come usa dire oggi, da rottamare.
Ci si rese però conto della necessità funzionale e della
opportunità politica che, almeno in particolari ipotesi, i due rami del
Parlamento si riunissero congiuntamente in unica assemblea presieduta dal
Presidente della Camera dei deputati (art. 63 cpv. Cost.). I casi di riunione
in unica assemblea possono essere raggruppati in tre categorie. La prima di
carattere, se non di natura, giudiziaria per mettere in stato d’accusa il Capo
dello Stato (originariamente anche il Presidente del Consiglio dei ministri ed
i ministri, norma eliminata dalla l.c. 16 gennaio 1989, n.1) ed eleggere i
delegati parlamentari a sostenere l’accusa davanti alla Corte costituzionale
(art. 90 Cost. ed artt. 12 l.c. 11 marzo 1953, n. 1, e 17 l. 25 gennaio 1962,
n. 20); la seconda, di carattere dichiarativo o notarile, per ricevere il
giuramento del Presidente della Repubblica (art. 91 Cost.) e la terza, di
carattere elettorale, per determinare l’elenco di cittadini dai quali estrarre
i sedici giudici aggregati per integrare la Corte costituzionale nei giudizi
d’accusa contro il Capo dello Stato (art. 135 Cost.); per eleggere un terzo dei
componenti il Consiglio superiore della magistratura (art. 104 comma IV Cost.);
per eleggere un terzo dei giudici della Corte costituzionale (art. 135 comma I
Cost.) ed, infine per l’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83
Cost.). In questo ultimo caso l’Assemblea ha ancora più marcate le
caratteristiche di vero e proprio corpo distinto dalle altre ipotesi, non fosse
altro che per la partecipazione ad esso dei delegati regionali che ne
modificano la stessa essenza, tra l’altro, perché, mentre ogni parlamentare
rappresenta la Nazione (art. 67 Cost.) ciascuno dei delegati regionali, in
quanto delegato da una determinata Regione, non può rappresentare che questa.
Tale elemento sembra essere più che sufficiente per poter affermare che si
tratta quindi di un corpo elettorale ad
hoc, assolutamente distinto da quello costituito dai soli componenti delle
due Camere.
Mentre per la prima categoria appare evidente che si
tratta di un collegio perfetto, perché lo stesso oggetto rende implicita la
necessità di una discussione prima della decisione, per quanto attiene alla
seconda ed alla terza categoria sembra che la natura giuridica del collegio sia
imperfetta in quanto si tratta di veri e propri corpi elettorali che si
riuniscono esclusivamente per esprimere il loro voto. E’ quindi
conseguentemente da ritenere che nel corso della seduta elettorale sia esclusa
ogni discussione o presa qualsivoglia altra deliberazione. Resta la possibilità
che vengano sollevate eccezioni o denunciate irregolarità da parte di uno o più
componenti il corpo elettorale, ma ciò non comporta discussione, in quanto è da
ritenere che le rimostranze siano rivolte al presidente del seggio elettorale
(Mazziotti, Parlamento (funzioni), in
Enc. dir., vol. XXXI, 813) che può o
meno rispondere essendo il dominus ex
lege della situazione. Ciò venne
affermato, e da nessuno smentito, già nel 1948 (intervento Dossetti in Atti
Camera, I legislatura, I seduta, 10) e successivamente confermato con analoghe
dichiarazioni fatte e conseguenti comportamenti tenuti sino ad oggi (si possono
ricordare le sedute del 29 luglio 1954 – Atti parl., seduta comune, I leg., I
seduta, 15 – e del 28 aprile 1955 e del 2 maggio 1962 –. Resoconti parl. di
tali sedute rispettivamente alle pagg. 10 e 28).
In generale, si deve dire che, per quanto riguarda le
riunioni del Parlamento in seduta comune, questo potrebbe anche darsi proprie
norme regolamentari ma altrettanto non sembra possa dirsi quando il collegio
agisce con funzioni elettorali e, in particolare, in forma integrata. D’altro
canto anche la prassi instauratasi ha dimostrato ampiamente la non necessità di
una tale normativa.
Da
parte di qualche autore si è mostrata la preoccupazione che il Presidente della
Repubblica possa venire «facilmente a trovarsi legato al collegio elettorale
così da divenirne prigioniero» (Marchi, Il
Capo dello Stato, in Comm. Calamadrei
e Levi, vol. II, 10). Si può dire che l’esperienza maturata durante gli
oltre sessant’anni di vita repubblicana non ha confermato questa
preoccupazione.
Con l’espressione “sede vacante” si vuole indicare la situazione
giuridica che si verifica quando, in modo permanente ed irreversibile, venga a
scoprirsi il posto di Presidente della Repubblica e, per la continuità
dell’organo, le funzioni vengano quindi, senza soluzioni di continuità,
esercitate in via suppletiva dal Presidente del Senato (art. 86, I comma
Cost.). Il termine del settennato comporta che il Presidente della Camera,
trenta giorni prima della sua scadenza, convochi il corpo elettorale ad hoc
(art. 85 cpv. Cost.). E’ data una sola eccezione, prevista per evitare che si
verifichino ingorghi costituzionali (art. 85 u.c., Cost.) eccezione che mostra
la preoccupazione del costituente di ridurre al minimo la durata dell’eventuale
supplenza da parte del Presidente del Senato. Ma la vacanza al vertice della
Repubblica può essere determinata da altre cause che il costituente ha così
elencato all’art. 86 cpv. Cost.: impedimento permanente, morte, dimissioni.
Nel caso di impedimento permanente è la persona fisica del
Presidente ad essere impossibilitata o comunque incapace di esprimere la
propria volontà pertanto ci deve essere un intervento esterno ad essa (o
addirittura contro di essa) che però ad essa si sostituisca.
Con l’espressione «impedimento permanente» si è inteso far
riferimento ad una serie di ipotesi che vanno dall’incapacità fisica e psichica
a quella giuridica. I problemi che qui si pongono non sono pochi né di scarso
rilievo e riguardano essenzialmente due elementi: quale sia l’organo competente
ad effettuare un tale accertamento, e quale debba essere la procedura da
seguire. Non si può infatti pensare che una decisione così importante e
delicata possa essere lasciata al Presidente della Camera dei deputati o,
comunque, ad un solo organo e per di più monocratico. Per converso non si può
nemmeno pensare che vengano coinvolti in questa procedura troppi organi il che,
tra l’altro, potrebbe rendere la stessa pericolosamente farraginosa allungando
i tempi di una decisione che deve invece essere presa in tempi brevissimi. Al
Presidente della Camera, se mai, incombe il dovere di adeguarsi a quanto potrà
essere deciso da parte di chi abbia competenza in merito. Nel silenzio della
Carta, si deve pensare che solo una convenzione costituzionale, che coinvolga i
Presidenti delle due Camere ed il Governo (rectius:
il Presidente del Consiglio), potrebbe dare soluzione al problema e che
consista nel prendere una decisione da comunicare al Parlamento ed al Paese,
formalizzata con la pubblicazione sulla G.U. Da quel momento si entrerebbe in
regime di sede vacante.
La morte del Presidente dovrebbe essere dichiarata dal
Governo in quanto massimo organo esecutivo responsabile davanti al Parlamento
(Rescigno, op. cit., 100) e da quello
comunicata immediatamente ai Presidenti dei due rami del Parlamento per quanto
di loro competenza ed al resto del Paese mediante la pubblicazione sulla G.U.
Un caso a sé si potrebbe avere nell’ipotesi della sparizione del corpo (p.es.
caduta in mare di un aereo) quando si dovrebbe ricorrere all’istituto della
morte presunta che, per i motivi sopra accennati, non potrebbe seguire la
normale procedura.
Per quanto infine riguarda le dimissioni, queste
dovrebbero essere inviate ai Presidenti dei due rami del Parlamento in quanto
si attivano da quel momento, in capo a ciascuno di essi, precisi doveri.
Infatti vi è un ovvio automatismo, tra il momento nel quale hanno efficacia le
dimissioni e quello dell’attivazione della supplenza, non dovendosi verificare
vacanza nella vita degli organi costituzionali (le roi est mort, vive le roi).
Per l’atto delle dimissioni, c’è da chiedersi se sia da
applicare ad esso il disposto dell’art. 89, I comma, relativo alla controfirma.
Parrebbe essere questo un atto assolutamente personale che in quanto tale deve
essere escluso dalla controfirma. Si tratta in effetti di un atto uguale e
contrario a quello dell’accettazione dell’elezione che avviene con la
prestazione del giuramento e sul quale non è apposta nessuna controfirma.
Proprio dall’atto del giuramento sembra logico far discendere, se mai, che le
dimissioni debbano essere presentate almeno ai Presidenti delle Camere e senza
nessun intervento necessario del Governo.
Si deve rilevare l’anomalia che si verificò allorché, nel
caso del Presidente Segni, le sue dimissioni vennero ricevute (così fu
dichiarato), in modo assolutamente irrituale, dal Segretario generale della
Presidenza della Repubblica che addirittura ne diede certificazione e
comunicazione ai Presidenti delle Camere e del Consiglio dei ministri pur non
avendo nessuna veste né politica né tanto meno giuridica per far ciò (Rescigno,
op.cit., 107).
A margine, si può notare che, con il succedersi delle
presidenze, è andato, di fatto, sempre più crescendo il ruolo attribuito a
detto funzionario che si è inserito nel sistema in modo tale da assurgere ad un
ruolo addirittura di rilevanza costituzionale confermandosi ancora una volta la
deriva verso il presidenzialismo della quale già si è fatto cenno e che trova
anche riscontro nel pletorico apparato di supporto del Segretariato che non
trova riscontro nel precedente monarchico del ministero della real casa e
nemmeno in altri apparati equivalenti di altri ordinamenti.
Infine,
è d’uopo prendere in considerazione un’altra ipotesi di possibile impedimento:
quella relativa alla situazione conseguente all’eventuale messa in stato
d’accusa del Presidente della Repubblica (art. 90 Cost.). Evidentemente, anche
al Presidente della Repubblica si deve applicare il principio costituzionale in
base al quale nessun imputato «può essere considerato colpevole sino alla condanna
definitiva» (art. 27, II c.): egli pertanto non potrà essere dichiarato
decaduto sino a quel momento. Potrà (dovrà) invece essere sospeso
dall’esercizio delle sue funzioni contestualmente all’approvazione dell’accusa
da parte del Parlamento. Iniziato il procedimento davanti alla Corte, questa
potrà disporre che nel corso del giudizio, e sino alla conclusione dello
stesso, il Presidente sia sospeso dalla carica (art. 45 cpv. l. 11 marzo 1953,
n. 87), provvedimento, questo, che decadrà in caso di sentenza di assoluzione
ovvero diventerà decadenza nel caso di sentenza di condanna che per legge non è
soggetta ad impugnazione (art. 137 u.c.).
Per quanto riguarda il Presidente della Camera, nella sua veste
di presidente del seggio elettorale è opportuno fare ancora qualche riflessione
specifica.
Secondo quanto disposto dall’art. 85, I e II comma Cost.,
è competenza esclusiva del Presidente della Camera dei deputati convocare «in
seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per eleggere il nuovo
Presidente della Repubblica». Ciò significa che, in mancanza di altre norme
specifiche, questo è un diritto-dovere del Presidente della Camera che si
concretizza non soltanto nell’emanare l’atto di convocazione ma anche nel porre
in essere tutti gli atti preliminari del procedimento che sono di mera
calendarizzazione nel caso della scadenza naturale del settennato per cui (art.
85, II) trenta giorni prima della scadenza di tale periodo e, al fine di evitare
il crearsi di delicati e pericolosi ingorghi costituzionali (art. 85, u.c.
Cost.) «Se le Camere sono sciolte» (pare che più correttamente debba intendersi
anche se una sola delle due Camere è sciolta) o manchino «meno di tre mesi alla
loro cessazione» la riunione deve avvenire entro quindici giorni dalla riunione
delle (o della) nuove Camere: «Nel frattempo sono prorogati i poteri del
Presidente in carica». Una norma analoga non esiste per quanto riguarda la
situazione dei Consigli regionali per cui le designazioni da parte loro
potrebbero anche non avvenire senza che ciò incida, ai fini della
determinazione del quorum per la elezione del Presidente della Repubblica. Una
mancata designazione, o non partecipazione, quindi sarebbero giuridicamente
irrilevanti ma potrebbero avere un significato politico preciso. Questo fatto
potrebbe essere visto come un elemento aggiuntivo per definire tale
partecipazione meramente simbolica e quindi non indispensabile.
Spetta comunque al Presidente della Camera (o ad uno dei vice-presidenti,
secondo quanto previsto dal regolamento dell’Assemblea) presiedere le sedute
del Parlamento in seduta comune, affiancato, per quanto possibile, dall’Ufficio
di presidenza della stessa Camera, assumere tutte le decisioni necessarie per
assicurare l’ottimale svolgimento dei lavori sia durante le votazioni che
durante lo scrutinio.
E’ opportuno però notare che molte di tali decisioni,
nella sostanza, sono generalmente concordate, o comunque in qualche modo
condivise, con i rappresentanti delle forze politiche rappresentate in
Parlamento.
Rientra
tra i compiti attribuiti al Presidente dell’assemblea elettorale la verifica
dei poteri dei partecipanti verifica che, se non pone problemi per quanto
riguarda i parlamentari in quanto il loro status
risulta per tabulas, altrettanto non
può dirsi per i delegati delle Regioni. Il loro diritto deve quindi essere
convalidato dallo stesso Presidente sulla base della legittimità degli atti
regionali di accredito nonché nel rispetto della rappresentanza delle minoranze
(art. 83 cpv. Cost.). Il riferimento è agli atti dei Consigli regionali
relativi alla elezione dei delegati, ed all’eventuale carteggio relativo in
particolare, per quanto riguarda gli eventuali delegati non appartenenti alle
assemblee regionali il che rientra nella personale responsabilità del
Presidente della Camera dei deputati non potendo in questo caso avvalersi della
Giunta per le elezioni della stessa Camera.
Il regionalismo è una peculiarietà del sistema italiano ed
è rilevante anche sulla normativa riguardante l’elezione del Presidente della
Repubblica.
I costituenti non si posero direttamente e concretamente
il problema di una partecipazione organica dei rappresentanti del territorio
(enti regione, amministrazioni comunali e provinciali) ma si limitarono a
prevedere una semplice partecipazione simbolica di rappresentanti regionali che
venne allargata fino a tre elementi per ciascuna di esse (alla Valle d’Aosta ne
venne attribuito soltanto uno date le sue dimensioni territoriali e per
l‘esiguo numero degli abitanti). Si può ricordare che originariamente si
propose un solo rappresentante, portato successivamente a due. Si arrivò infine
unanimemente a stabilire che i delegati dovessero essere tre al fine di
permettere al Consiglio regionale di eleggere sia rappresentanti della
maggioranza che dell’opposizione, principio garantista che venne
costituzionalizzato (art. 83 cpv. Cost.). E’ peraltro prassi (alla quale solo
raramente non ci si è attenuti) che vengano eletti i Presidenti della Regione e
del Consiglio regionale ed un consigliere di norma appartenente alla minoranza
consiliare. Va notato che non essendo stato posto nessun divieto, teoricamente,
potrebbe da un Consiglio regionale essere votata anche una persona che
possedendo le qualità di elettore tale non lo è di quel Consiglio.
E’ opportuno precisare che la partecipazione dei delegati
regionali deve avvenire a spese del delegante in quanto tale e cioè del
Consiglio regionale e non del Parlamento.
E’ da ritenere inoltre che, per evidenti motivi
funzionali, ai delegati debbono essere estese, per lo stretto periodo durante
il quale si svolgono le operazioni elettorali, le guarentigie di cui fruiscono
gli altri elettori ai sensi dell’art. 68 Cost.
Il rafforzarsi del sistema delle autonomie ha posto, ed
ancor più è da ritenere porrà in futuro (specialmente se l’attuale trend dovesse continuare), il problema
della loro partecipazione alla vita della Repubblica. Si deve ricordare infatti
la modifica all’art. 114 Cost., introdotta dalla l.c. 18.10.2001, n. 3, secondo
la quale la Repubblica non si “riparte” bensì è “costituita” dai «Comuni dalle
Province, dalle città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Ciò comporta
che la stessa espressione «eletto a base regionale» (art. 57, I comma Cost.)
che la Carta usa per il Senato, sia passibile di una nuova lettura.
Sembra che le modifiche apportate alla Costituzione
formale ed ancor più quelle, soprattutto di carattere integrativo, introdotte
nel sistema da quella materiale o vivente, siano state tali da imporre ormai
anche un ripensamento del sistema di elezione del Presidente della Repubblica,
ed in particolare della composizione del corpo elettorale competente ad
eleggerlo. Sembra infatti riduttivo che esso sia limitato ai soli parlamentari,
con l’aggiunta “simbolica” dei 58 rappresentanti regionali, anche se, in casi
estremi, questi potrebbero essere determinanti per l’elezione del Presidente.
E’ evidente però che, qualunque sia la base elettorale del Presidente, questa
dovrà essere determinata in armonia con le modifiche che dovranno essere
apportate alle altre parti della Costituzione, ed in particolare al modo di
essere del bicameralismo e conseguentemente alle competenze da attribuire all’
Assemblea che potrebbe sostituire l’attuale Senato.
C’è da notare ancora che i delegati regionali sono stati
sempre sin qui esclusi dall’assemblea unitaria delle due Camere davanti alla
quale il Presidente della Repubblica eletto giura fedeltà alla Costituzione. Il
che sembra abbastanza indicativo in relazione al valore giuridico ed al
significato politico della loro partecipazione. E’ vero peraltro che la
Costituzione (art. 90 Cost.) recita che «Il Presidente della Repubblica presta
giuramento ... dinanzi al Parlamento in seduta comune» senza prevedere, in
questo caso, la partecipazione dei delegati regionali. Si deve però rilevare
che nel testo non si fa nemmeno menzione del discorso, cosiddetto di
insediamento, che il Presidente tiene davanti alla stessa Assemblea. Ancora una
volta si deve notare che ciò sembrerebbe confermare il valore più che altro
simbolico che da parte del costituente si è, almeno originariamente, voluto
dare alla partecipazione all’elezione dei delegati regionali il che si accorderebbe
con il tentativo non dichiarato di stemperare in qualche modo il carattere
regionalistico dell’ordinamento costituzionale italiano. In altre parole si è
verificata una situazione strana e contraddittoria: mentre si innovava così
profondamente la struttura dello Stato si era quasi timorosi degli sviluppi che
siffatta innovazione avrebbe potuto portare. Questo è stato, d’altro canto,
l’atteggiamento di gran parte delle forze politiche (e della stessa Corte
costituzionale), anche nei successivi primi decenni. Infatti, non solo gli enti
regionali non saranno costituiti – e nemmeno nella loro compiutezza – prima
degli anni settanta, ma la vera inversione di tendenza, in senso
regionalistico, si avrà gradualmente e toccherà il punto più alto con le
modifiche al titolo V della parte II della Costituzione di cui alla l.c. n. 3
del 2001. Tali modifiche hanno inciso in modo notevole – anche se indiretto –
sulla stessa forma dello Stato. Ne sono derivate infatti conseguenze più o meno
dirette, immediate e significative sull’apparato della Repubblica nel suo
complesso e quindi sulla stessa figura del Presidente della Repubblica perché è
evidente che ne discende di necessità un ripensamento della stessa base
elettorale presidenziale. Se poi, da una forma di bicameralismo perfetto o
paritario si dovesse passare ad un qualsivoglia altro sistema per esempio dando
rilevanza diversa, rispetto alla prassi, a quanto letteralmente stabilito
dall’art. 57, I comma, Cost. sul Senato a base regionale, è evidente che si
dovrebbe ripensare lo stesso sistema elettorale presidenziale, perché
varierebbero le stesse competenze dei diversi organi e, conseguentemente, anche
la composizione non soltanto di uno bensì di entrambi i rami del Parlamento.
Ma
vi è di più. Oggi, la stessa forma di governo parlamentare ha subito notevoli
modifiche: nei fatti si è verificata una certa deriva in senso
presidenzialista, risultato del concorrere di diversi elementi tra i quali, non
ultime, le debolezze quando non le successive crisi delle forze politiche,
tradizionalmente organizzate in partiti. Legate a vecchie logiche frutto di più
o meno rigide impostazioni ideologiche, anche esse ormai superate (quanto meno
rispetto al dogmatismo di un tempo) e di contrapposizioni personalistiche, tali
crisi hanno portato a interventi “sostitutivi” posti in essere in parte dalla
magistratura ed in parte dallo stesso Capo dello Stato. Laddove ciò non è stato
possibile, come nel caso delle leggi elettorali, il corpo elettorale non è
stato messo in condizioni di esprimere chiaramente e compiutamente la propria
volontà; ciò ha quanto meno concorso a creare nelle due Camere una grave e
complessa condizione di ingovernabilità, cui ha in parte supplito il Capo dello
Stato con un interventismo che è arrivato sino a spostare il punto d’equilibrio
del sistema dal Parlamento verso il Presidente, condizionando in modo
considerevole persino la composizione ed il modus
operandi del Governo. Cosi si è arrivati addirittura a parlare di “governo
del Presidente”, cosa inammissibile in un sistema parlamentare capace di
funzionare come tale. Affiora anche in questa situazione l’instaurarsi, di
fatto, di una forma strisciante di governo semi-presidenziale che, se può
trovare una spiegazione nell’eccezionalità del momento, pare porsi ai limiti
della stessa legittimità costituzionale. In altre parole la nuova situazione ha
portato ad una sostanziale rottura della Carta costituzionale anche per quanto
riguarda la stessa attività legislativa, la quale si è svolta quasi
esclusivamente, da parte del Governo, con un uso quanto meno anomalo e
improprio sia della decretazione d’urgenza (ciò contro il dettato preciso e di
garanzia dell’art. 77 cpv. Cost., ma con l’assenso del Presidente della
Repubblica), sia dello strumento della fiducia (55 voti di fiducia in poco più
di un anno), peraltro con l’approvazione da parte di una tanto numerosa quanto
pericolosamente eterogenea maggioranza. Ciò è stato possibile realizzare grazie
ad una vera e propria convenzione costituzionale contra costitutionem posta in essere dal Presidente della
Repubblica e dal Governo con l’assenso del Parlamento.
Per quanto attiene la determinazione dell’elettorato
passivo la Costituzione, al I comma dell’art. 84, ha stabilito che siano
eleggibili tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto i 50 anni di età ed
abbiano il godimento dei diritti civili e politici (si deve intendere entro il
giorno in cui cominciano le votazioni). Si può, per quanto riguarda l’età, dire
che essa fu così determinata in base ad una specie di graduatoria che l’ha
collegata ai 40 anni previsti per l’elettorato passivo dei senatori (art. 58
cpv. Cost.) ed ai 25 per i deputati (art. 56, III comma Cost.). Per completare
il quadro, si può ricordare che l’elettorato attivo per i due rami del
Parlamento è fissato ai 18 anni (originariamente era ai 21) (art. 48, I comma
Cost.) per la Camera ed ai 25 anni per il Senato (art. 58, I comma Cost.).
Siffatte differenze di età sembrano oggi necessitare di una revisione completa
e ciò anche alla luce delle modifiche che potrà subire il bicameralismo. Ciò
però fa conseguentemente dubitare anche dell’opportunità di mantenere la soglia
dei 50 anni per il Presidente della Repubblica (la proposta del 2005 parlava di
40 anni).
Si può ancora aggiungere che non è prevista nessuna
esclusione per chi sia in possesso di una doppia cittadinanza, abbia la
cittadinanza italiana ma non sia nato sul territorio della Repubblica o non sia
di nazionalità italiana, ed ancora, per chi abbia subito condanne penali non
passate in giudicato e, tanto meno, per chi abbia procedimenti penali in corso
e ciò in base a quanto stabilito sulla presunzione di innocenza dal I comma
dell’art. 27 Cost. Queste situazioni soggettive potranno se mai costituire
elementi di valutazione politica ma non formare oggetto di discriminazione
giuridica.
L’ampiezza
dell’elettorato passivo potrebbe portare ad una notevole dispersione di voti,
ma questo, in pratica, non si è verificato grazie a regole convenzionali, nate
sul campo, in Assemblea, in forza delle quali «se il voto corrisponde in modo
non equivoco ad un membro del Parlamento, si intende votato costui; se c’è
omonimia non risolvibile sulla base della scheda votata, il voto è nullo; se il
voto riguarda una personalità conosciuta che non siede in Parlamento, il voto è
valido e viene attribuito a questa personalità; se invece c’è incertezza (p.
es. nel caso di omonimia) o il votato è un quisque
de populo (o il voto ha chiaramente carattere derisorio), il voto è nullo»
(Rescigno, op.cit., 16). Resta comunque confermato che, anche per quanto
riguarda lo spoglio e quindi la validità delle schede e la loro attribuzione
agli eleggibili il giudice unico ed ultimo è sempre il Presidente della Camera
in quanto Presidente del seggio elettorale.
C’è da tenere presente un altro problema, quello delle
candidature. Fino ad oggi infatti, essendo il collegio elettorale abbastanza
ristretto (1004 i titolari dell’elettorato attivo) non si è posto tale problema.
In teoria, sono potenzialmente eleggibili e candidabili tutti i cittadini
italiani che abbiano compiuto i 50 anni di età e che godono dei diritti civili
e politici. Si tratta cioè di decine e decine di milioni di persone. In
pratica, però, la rosa dei papabili è stata da sempre molto ristretta e decisa
sostanzialmente dalle forze politiche parlamentari che sono le vere attrici
anche di questa parte del procedimento elettorale. Pertanto esistono
candidature, di fatto concordate in modo non sempre trasparente, più o meno
garantite dai partiti. Ciò può far correre il rischio che il candidato possa
avere una qualche tendenza di parte troppo marcata se non addirittura di
appartenenza organica ad uno schieramento politico. In effetti, in generale,
può dirsi che questo rischio è però stemperato dal fatto che, essendo
prestabilite delle maggioranze qualificate, le candidature sono, in effetti, il
frutto di trattative e compromessi tra le più diverse forze politiche. In
conclusione si tratta di «designazioni politiche implicanti necessariamente una
tendenza ed un programma» (Rescigno, op.cit.,
17) anche se ciò non viene esplicitato.
Allargando
però la base elettorale attiva, diventa indispensabile che sia previsto, in
termini formali, un sistema di presentazione delle candidature che non potrà
essere ristretto all’ambito parlamentare, o comunque istituzionale, ma essere
aperto a tutto il corpo elettorale, cioè a tutti coloro che sono elettori della
Camera dei deputati.
Per quanto riguarda la fase
organizzativa dello svolgimento delle votazioni, si deve ricordare che, aperta
la seduta, comincia la prima chiamata degli aventi diritto al voto secondo
l’ordine alfabetico e per categoria. Al termine si effettua una seconda
chiamata per chi non avesse risposto alla prima. Per garantire la segretezza
del voto, ad ogni elettore viene consegnata, all’ingresso nella cabina, una
scheda che dopo il voto viene imbucata nell’apposita urna. Coloro i quali, pur
non avendo risposto a nessuna delle due chiamate, intendessero votare possono
farlo sino al momento in cui il Presidente dichiari chiusa la votazione. Lo
spoglio delle schede comincia immediatamente dopo, venendo fatto a voce alta
personalmente dal Presidente che, al termine, proclama i risultati e pone in
votazione il verbale della seduta che provvede senza indugio a notificare
all’eletto.
E’
ancora opportuno notare che, dal punto di vista politico, è ben diverso votare
scheda bianca, dichiarare di astenersi dall’esprimere il proprio voto o uscire
dall’aula al momento della chiama o semplicemente non rispondere ad essa e
risultare pertanto assente. Dal punto di vista giuridico, però, tutti e tre
questi atteggiamenti sono invece uguali in quanto comunque non incidono in
nessun modo sul risultato finale del voto in quanto il quorum è calcolato sempre sul numero degli aventi diritto al
voto che si modificherebbe soltanto se qualcuno degli elettori morisse nel
corso delle votazioni.
L’ultimo
comma dell’art. 84 Cost. dispone che per essere eletti alla Presidenza della
Repubblica occorre raggiungere in prima battuta la maggioranza dei due terzi
dei voti degli elettori che costituiscono il corpo elettorale e, qualora
nessuno consegua tale risultato, sia sufficiente raggiungere, a partire dal
quarto scrutinio, la maggioranza assoluta. Ciò fu stabilito perché l’Assemblea
costituente ritenne che solo ottenendo un così ampio suffragio (i due terzi) il
Presidente della Repubblica potesse essere «l’esponente di una larghissima base
parlamentare, soltanto in questo caso, possa avere quella autorità morale e
politica, derivante appunto dal diffuso consenso che lo sorregge, tale da
consentirgli di poter effettivamente esercitare quei poteri che gli sono
assicurati dalla Costituzione» (Carullo, La
Costituzione della Repubblica italiana, Bologna, 1950, 269). Proprio sulla
base di queste considerazioni Tosato propose il voto popolare diretto
suggerendo che l’elezione avvenisse mediante ballottaggio tra due candidati,
uno di maggioranza ed uno di opposizione, designati dal Parlamento (Ass. cost.,
Resoconti, 339). Questa proposta non
venne approvata anche perché si ritenne che una siffatta apellatio ad populum avrebbe potuto minare il sistema parlamentare,
offrendo al Presidente eletto col suffragio popolare diretto una troppo forte
legittimazione e, quindi, una potenziale contrapposizione al Parlamento. La
proposta Tosato poteva essere fuori misura in quel momento, ma sembra poter
quanto meno formare oggetto di riflessione oggi. Si è anche osservato (Marchi,
ivi) che, specialmente nel caso di elezione a maggioranza assoluta, cioè dopo
il terzo scrutinio, «la vittoria è troppo sudata, in verità, per il prestigio
dell’eletto, il quale può, d’altra parte, finire per trovarsi troppo legato ad un
partito di maggioranza; il che può spesso mettere in pericolo la sua
imparzialità». Anche in questo caso si può dire che l’esperienza e la prassi
fin qui maturate hanno dimostrato che queste preoccupazioni erano eccessive. Si
può ricordare che ci sono stati candidati eletti dopo il terzo scrutinio che
hanno ottenuto maggioranze superiori non soltanto a quella richiesta ma
addirittura superiori ai tre quarti. Comunque, con qualunque maggioranza siano
stati eletti, i tredici Presidenti hanno mostrato, in linea di massima, di
mantenere un atteggiamento super partes[1].
Dal momento della notifica dell’avvenuta elezione, fatta personalmente
al Presidente della Camera, sorge nell’eletto un jus ad officium, condizionato dal compimento del settennato da
parte del predecessore il quale cesserà dalla carica nel momento in cui o
rinunci all’elezione o presti, davanti alle Camere riunite, sulla Costituzione,
il giuramento di fedeltà ad essa; contemporaneamente assumerà la pienezza dei
poteri presidenziali. Il giuramento deve essere incondizionato. Esso è atto
essenziale per l’assunzione dell’officium
e l’eventuale rifiuto di prestarlo vale quale rinuncia ad esso. In quello
stesso momento, senza bisogno di porre in essere atti formali di sorta, in base
alla regola che King never dies, il
predecessore cessa dalle funzioni presidenziali. Il giuramento quindi non è un
atto di carattere meramente formale ma ha invece e soprattutto un preciso
valore giuridico (Ferrari, Problemi nuovi
del nuovo Parlamento bicamerale, in Ann.
dir. comp., XXV, 1950, fasc. II e III, 225; Marchi, Commentario cit., II, 112; Pergolesi, Dir. cost., VII ed., Bologna, 1949, 148).
In sede di Assemblea costituente, nonostante la presenza
molto attiva dei rappresentanti i partiti laici ed in particolare il p.c.i., il
p.s.i., il p.l.i. ed il p.r.i. ed anche dello stesso partito cattolico, la
d.c., che mostrò particolare sensibilità per i temi delle garanzie e delle
libertà civili e politiche, nessuno propose che, quanto meno in alternativa al
giuramento tradizionalmente inteso, cioè con le connotazioni marcatamente
religiose, venisse proposta una forma laica di impegno quale ad es. la promessa
solenne. D’altro canto si convenne, di fatto, che non si giurasse su testi
sacri di nessuna religione ma invece sul testo della Carta del 1948. È pur vero
che nessun caso Rotschild si è verificato durante tutta la vita repubblicana
nonostante la, quanto meno areligiosità, di qualche Presidente che ha
ugualmente prestato giuramento in tal modo laicizzando questo atto. Ciò
peraltro sembrerebbe in linea anche con la giurisprudenza della Corte
costituzionale (sent. 8 ottobre 1996, n.334, sull’art. 238 c.p.c.).
Così fu approvato il testo dell’art. 91 Cost. in forza del
quale con la prestazione del giuramento il Presidente della Repubblica assume
le sue funzioni ed è da questo stesso momento che quindi decorre il settennato.
In base a quanto fin qui osservato, può essere opportuno,
se non trarre delle vere e proprie conclusioni, almeno fare qualche
considerazione sia di carattere generale sia di carattere specifico.
Anzitutto si deve notare che è stato un errore non
apportare tempestivamente alla Costituzione formale quelle modifiche che, col
passare degli anni, erano non soltanto opportune ma necessarie in quanto
imposte dalla Costituzione vivente che, talvolta prepotentemente, si è andata
facendo strada. In effetti la Carta del 1948 per troppo tempo è stata vista, da
quasi tutte le forze politiche e dagli stessi organi istituzionali come un tabù
intoccabile (un Presidente della Repubblica arrivò addirittura ad affermare la
sua non modificabilità). Questo, almeno da un punto di vista formale, la ha,
nei fatti, pericolosamente imbalsamata. Non si può però dimenticare che,
sebbene in oltre mezzo secolo siano state create ben tre commissioni
bicamerali, il legislatore è stato incapace di portare a compimento un qualunque
lavoro di revisione. Né sorte migliore, in definitiva, ha avuto il solo testo
organico approvato dai due rami del Parlamento a maggioranza assoluta nel
novembre 2005 (In G.U. 18 novembre 2005, n. 269) che fu bocciato col
referendum. L’unica modifica, peraltro frettolosa e pasticciata, è stata quella
complessiva del tit. V (l.c. 18 ottobre 2003).
Ci si è scioccamente crogiolati nel falso mito della
«costituzione più bella del mondo» senza tener presente che la società non può
essere ingabbiata in una carta costituzionale che, di regola, rappresenta i
bisogni e le aspirazioni di una comunità statuale in un determinato contesto
storico. Per cui, al contrario, essa deve essere anche, e soprattutto in una
prospettiva futura, il portato delle aspettative e delle speranze oltreché
delle esigenze della società. E’ pur vero che, grazie alla lungimiranza e alla
genialità dei costituenti, l’elasticità con cui è formulata buona parte delle
norme contenute nella ormai vecchia Costituzione repubblicana del 1948, ha permesso,
entro certi limiti, di adattarla al modificarsi delle realtà negli ultimi
sessantacinque anni. Anni che sono stati ricchi, quanto non mai, di
modificazioni sia sullo scenario interno sia su quello internazionale, tanto
dal un punto di vista ideologico quanto da quello economico, sociale e, non
ultimo, tecnologico. Ma anche l’elasticità ha un limite e pare che questo sia
stato raggiunto: superarlo potrebbe essere pericoloso.
La particolare situazione costituzionale nella quale ci si
trova oggi impone una seria e completa opera di revisione che non può non
comprendere anche la figura del Presidente della Repubblica sia per quanto
riguarda le competenze a lui attribuite e, quindi, il ruolo che deve avere
nell’ambito del sistema costituzionale, sia per lo stesso sistema elettorale
che deve portare alla sua individuazione e che gli deve dare piena e completa
legittimazione. In tal modo, in definitiva, potrebbe anche essere rafforzato il
suo ruolo di rappresentante dell’unità nazionale (art. 87, I comma Cost.) cosa
questa di non secondaria importanza specialmente in momenti di crisi.
A seconda delle scelte che verranno fatte sul
bicameralismo e sul regionalismo, non soltanto si potrà ma piuttosto si dovrà
stabilire un diverso sistema per l’elezione del Presidente della Repubblica che
potrà essere più o meno forte, come legittimazione e come funzioni (e quindi
come poteri effettivamente attribuitigli) a seconda che nasca da una elezione
popolare diretta o mediante una elezione popolare indiretta che comprenda la partecipazione,
oltreché del Parlamento, anche di rappresentanti degli enti regione e delle
autonomie locali (in particolare dei comuni) ovvero, in senso ampio, delle
realtà comunitarie territoriali. E’ ovvio sottolineare che il sistema che verrà
adottato dovrà armonizzarsi con il superamento del bicameralismo perfetto.
Si impone cioè un ripensamento dello stesso ruolo che il
Presidente della Repubblica deve avere nell’ambito del sistema costituzionale
oltreché la determinazione del limite dei suoi poteri e delle garanzie che gli
debbono essere riconosciute ed assicurate non tanto per quanto riguarda la sua
persona fisica quanto per quanto attiene lo stesso esercizio delle sue
funzioni. Tali funzioni, infatti, oggi non sempre vengono chiaramente definite
dalla Carta, tanto che già diverse volte è stato necessario ricorrere alla
Corte costituzionale sollevando conflitto d’attribuzione ai sensi dell’art. 134
Cost. (Presidente della Repubblica contro ministro della giustizia e Presidente
della Repubblica contro Procura della Repubblica di Palermo). In effetti i
poteri del Presidente si estendono a fisarmonica ma il mantice comunque ha una
estensione limitata. L’elasticità dello stesso sistema può superare il carico
di rottura e rompersi. Di qua la generale clausola di salvaguardia prevista
dall’art. 138 Cost. dove si prevede che alla Carta non soltanto possano
apportarsi modifiche, ma addirittura che essa possa formare oggetto di
revisione. In effetti è avvenuto che con il passare del tempo e con carenze e
distorsioni dovute sovente ad un uso quanto meno non corretto del loro potere,
si sono verificati una serie di interventi sostitutivi tra organi, anche
costituzionali, dello Stato; e questo ha finito per incidere sulla stessa forma
di governo parlamentare che ha virato, specialmente da ultimo, come si ha avuto
di rilevare nel testo, verso una forma semi presidenzialista con profonde
modificazioni, in particolare, dei rapporti tra Presidente della Repubblica,
Governo e Parlamento. Tutto ciò finisce inevitabilmente per incidere sullo
stesso modo di eleggere il Capo dello Stato che, per il nuovo ruolo che va
assumendo, ha sempre più bisogno di una maggiore legittimazione costituzionale
e di un più forte raccordo con la sovranità popolare e con le stesse comunità
ed istituzioni territoriali, non già di essere espressione della sola volontà
delle forze politiche rappresentate in Parlamento e nei Consigli regionali. Si
potrebbe così, ampliando il corpo elettorale, coinvolgere nella scelta i
milioni di cittadini che sostanzialmente non hanno, per motivi diversi,
rappresentanza parlamentare nel contempo diminuendo la prepotente arroganza
della partitocrazia. Si pensi non soltanto ai milioni di astenuti ma, in
particolare, ai milioni di cittadini privi di rappresentanza perché hanno
votato liste che non hanno raggiunto i quorum-ghigliottina fissati dalle leggi
elettorali normalmente fatte a favore e nell’interesse di determinati partiti e
sulla legittimità costituzionale delle quali pare ci sia quanto meno da
dubitare
È da sottolineare che, con l’ultima elezione del
Presidente della Repubblica avvenuta nell’aprile scorso, si sono verificate due
novità significative tra loro collegate. Una riguarda il ruolo attivo, la
partecipazione sostanziale dei delegati regionali alla designazione del
candidato il che è avvenuto quando una loro numerosa delegazione si è recata al
Quirinale per chiedere al Presidente in scadenza di ricandidarsi. L’altra è che
con l’accordo di tutte le forze politiche (pare potersi dire dell’intero corpo
elettorale presidenziale) si è interrotta la prassi che, nel silenzio voluto
del costituente, aveva stabilito la non rieleggibilità del Capo dello Stato per
un altro settennato.
Sulla
base di quanto sin qui osservato sembra quindi si possa affermare che l’attuale
sistema previsto per l’elezione del Presidente della Repubblica sia da ritenere
superato e che per il futuro ci sia da auspicare, comunque, almeno un
allargamento della base del suo elettorato attivo. Ciò si potrà realizzare sia
mantenendo una forma di elezione di secondo grado, sia introducendo un’elezione
popolare diretta (a turno unico o a doppio turno in una qualunque delle
variabili possibili). Tale soluzione comunque dovrà essere in armonia con
l’auspicato nuovo assetto che dovrà essere dato allo Stato repubblicano cosa
che potrà essere realizzata soltanto mediante una revisione globale della p. II
della Costituzione.
[1] Di seguito si riporta una tabella riassuntiva relativa
alla elezione dei Presidenti della Repubblica italiana.
Presidente |
partito |
scrutini |
durata del mandato |
voti |
votanti |
% |
Enrico De Nicola |
--- |
1 |
6/46-12/47 |
405 |
556 |
72,9 |
Luigi Einaudi |
p.l.i. |
4 |
5/48-5/55 |
518 |
872 |
59,4 |
Giovanni Gronchi |
d.c. |
4 |
5/55-5/62 |
658 |
833 |
78,9 |
Antonio Segni |
d.c. |
9 |
5/62-12/64 |
443 |
842 |
52,6 |
Giuseppe Saragat |
p.s.d.i. |
21 |
12/64-12/71 |
646 |
937 |
68,9 |
Giovanni Leone |
d.c. |
23 |
12/71-6/78 |
518 |
996 |
52,0 |
Sandro Pertini |
p.s.i. |
16 |
7/78-6/85 |
832 |
995 |
83,6 |
Francesco Cossiga |
d.c. |
1 |
6/85-4/92 |
752 |
977 |
76,6 |
Oscar Luigi Scalfaro |
d.c. |
16 |
5/92-5/99 |
672 |
1014 |
66,3 |
Carlo Azeglio Ciampi |
--- |
1 |
5/99-5/06 |
707 |
990 |
71,0 |
Giorgio Napolitano |
d.s. |
4 |
5/06-4/13 |
543 |
1009 |
53,81 |
Giorgio Napolitano |
p.d. |
4 |
4/13- |
738 |
1004 |
73,50 |