La
prova scientifica nel processo penale *
Università di
Sassari
1. – Il contributo
dell’evoluzione scientifica nel processo penale ha avuto un’intensità via via crescente
negli anni. La ricerca di appigli sicuri che consentano una ricostruzione del
fatto di reato in termini il più possibile certi ha condotto giuristi ed
operatori del settore a cercare negli apporti tecnico-scientifici la soluzione
alle obiettive difficoltà dell’accertamento processuale. Tuttavia,
nell’analizzare gli strumenti per mezzo dei quali la prova scientifica penetra
all’interno del tessuto processuale, pur riconoscendone i meriti e l’indubbia
portata innovatrice, occorre adottare le dovute cautele: vale a dire seguire un
approccio di “critica consapevolezza” nei confronti di qualsiasi mezzo di prova
e, a fortiori, nei confronti di
quegli strumenti che possono creare certezze illusorie in merito
all’accertamento[1].
E’
necessario premettere che fra verità fattuale e verità processuale può esistere
una profonda differenza. Certo i due concetti spesso coincidono bisogna però
ricordare che il sistema delle invalidità processuali impone al giudice di
porre alla base della propria decisione solo quegli elementi che, in un sistema
garantistico, abbiano superato il vaglio normativo e, di contro, ancorché
appaia evidente la portata decisiva di alcuni apporti probatori, che gli stessi
non possano essere utilizzati in presenza di un divieto stabilito dalla legge.
Il
fatto “positivo” non corrisponde necessariamente al fatto “processuale”, da
intendersi come quella ricostruzione empirica che poggia le sue basi anche su
regole di esclusione probatoria, talvolta contrarie ad un logico approccio
euristico.
Occorre
allora rivolgere uno sguardo a quali sono le regole processuali che
disciplinano l’ingresso della prova tecnico-scientifica all’interno del
processo penale e per identificare queste norme è indispensabile prendere le
mosse dalla nozione stessa di prova scientifica, al fine di un corretto
inquadramento normativo.
La
prova in generale - come scrisse
Carnelutti – è «il processo di fissazione del fatto al fine di rimarcare
la sua attinenza al procedimento di ricostruzione del fatto storico»[2].
Il
concetto di prova genericamente inteso, pertanto, può essere così scomposto:
-
ELEMENTO DI PROVA, da intendersi come rappresentazione del dato sensibile oggetto
di prova e dunque suscettibile di essere
utilizzato dal giudice nel suo procedimento logico-argomentativo.
-
FONTE DI PROVA: con tale locuzione ci si riferisce al soggetto o
oggetto da cui può derivare al procedimento un elemento probatorio.
-
MEZZO DI PROVA, quale strumento/attività che consente
l’assunzione-acquisizione del dato probatorio al processo.
-
MEZZO DI RICERCA DELLA PROVA, consistente in tutte le attività
tipiche e atipiche rivolte alla ricerca di elementi attinenti direttamente o
indirettamente all’oggetto della prova in uno specifico procedimento.
-
RISULTATO DI PROVA coincidente con il portato dell’attività
valutativa del giudice all’esito dell’esperimento del mezzo probatorio
Orbene,
se la prova scientifica è definita come l’analisi dei ragionamenti inferenziali
sottesi alla relazione tra il fatto e l’elemento di prova o, per dirla con le
parole del prof. Dominioni, sono
“operazioni probatorie per le quali, nei momenti dell’ammissione,
dell’assunzione e della valutazione, si usano strumenti di conoscenza attinti
alla scienza e alla tecnica, cioè a dire principi e metodologie scientifiche,
tecnologiche e apparati tecnici il cui uso richiede competenze esperte”[3], si
pone il problema di individuare quale sia la componente di prova cui attribuire
la “patente” di scientificità o sulla quale si utilizzano princìpi e
apparecchiature scientifiche.
Due
sono le posizioni dottrinali sul punto:
-
La prima, maggioritaria - che si condivide - riserva la
scientificità al risultato di prova in ragione del primato che le leggi
scientifiche assumono nel giudizio di inferenza probatoria su cui si basa la
valutazione del giudice: sarebbe invero inappropriato parlare di scientificità
con riguardo alle componenti tipiche dei mezzi di prova, posto che le leggi
scientifiche, i metodi tecnologici e le apparecchiature tecniche sono
componenti extragiuridiche della prova che possono incanalarsi, nel rispetto
delle singole disposizioni codicistiche, nella categoria delle prove tipiche,
quali la prova documentale, l’esperimento giudiziale e la perizia: peraltro,
sulla caratteristica di mezzo di prova “neutro” di quest'ultima, espresso anche
dalla Corte di cassazione, si dirà in seguito, bastando per ora ricordare come
la sua neutralità, così come le peculiarità dell’accertamento tecnico, ben si
accordano con la natura di “norme processuali penali in bianco” relativamente
alle specifiche prescrizioni, proprio perché esse sono idonee ad integrarsi con
princìpi scientifici e tecnologici aventi una natura extragiuridica e
suscettibili di evolversi continuamente, sì da risultare difficili da
costringere nelle maglie di una regolamentazione giuridica.
-
La seconda impostazione, per contro, si basa sull’attribuzione
della scientificità al mezzo di prova per il tramite del quale l’elemento probatorio
entra nel processo penale, poiché al suo interno si svolge una procedura
scientifica ai fini della ricostruzione del fatto, che trae pertanto la propria
regolamentazione dal settore scientifico di appartenenza del principio o della
tecnologia applicata: andrebbero quindi distinti i casi in cui il perito si
avvalga della propria scienza privata da quelli in cui utilizza uno specifico
procedimento tecnico.
L'effetto
diretto di una tale ricostruzione consiste nell’inquadramento normativo della
prova scientifica nel novero delle c.d. prove atipiche, disciplinate dall’art.
189 c.p.p., poiché lo statuto epistemologico della conoscenza scientifica, cioè
la regolamentazione delle modalità attraverso le quali si perviene a tale
conoscenza, dovrebbe essere ricavabile dal sistema extralegale di riferimento,
così come l’esperto dovrebbe avere il solo ruolo di conduttore delle operazioni
– seguendo il metodo scientifico adottato – e di controllo della sua
correttezza[4].
La
conseguenza sarebbe il potere dovere del giudice, e prima ancora degli
investigatori, di verificare di volta in volta l’idoneità del singolo mezzo di
prova ad assicurare l’accertamento dei fatti e il non pregiudizio per la
libertà morale della persona, operazione effettuata ex ante dal legislatore per quanto attiene ai mezzi di prova
tipici, per i quali il giudice deve limitarsi in sede di richieste di prova al
rispetto di quanto indicato nell’art. 190 c.p.p.; sussisterebbe però sempre il
rischio strisciante che la clausola di apertura dell’art. 189 c.p.p. venga in
realtà utilizzata per aggirare le regole dello strumento probatorio tipico, con
ingresso nel processo di prove viziate o, comunque, irrituali.
A tal
proposito giova ricordare che il fenomeno dell’atipicità deve essere confinato
a quegli strumenti probatori identificabili nell’area residuale del praeter legem, quindi in ambiti, invero piuttosto rari, nei quali non esiste
ancora una disciplina quali, ad esempio, il pedinamento satellitare per il
quale tuttavia la mancata previsione di una specifica normativa di riferimento
può essere rilevata esclusivamente con riguardo al suo inquadramento fra i
mezzi di ricerca della prova tipici, poiché l’elemento probatorio verrà sempre
acquisito al dibattimento come prova documentale ovvero, qualora questo
necessiti di una valutazione critica, con il mezzo della perizia.
La
critica a questa tesi non deriva esclusivamente dal risultato deteriore cui si
perverrebbe dandovi applicazione. L’interpretazione più corretta può essere
ricavata ponendo in luce come il giudice sia chiamato ed effettuare la medesima
operazione logico-inferenziale (là dove inferenza è il processo con il quale da
una proposizione accolta come vera, si passa ad una seconda proposizione la cui
verità è derivata dal contenuto della prima) in relazione all’esistenza del
nesso causale del reato, in cui la relazione tra condotta ed evento viene
fondata su una legge scientifica di copertura. In particolare, è necessaria
un’operazione di etero-integrazione in cui il rinvio ad una regola tratta dalla
scienza rende imprescindibile il contributo dell’esperto, all’interno della
disciplina di mezzi di prova tipici come la perizia e la consulenza tecnica, i
quali conservano la loro “neutralità epistemologica” pure se offrono al giudice
le conoscenze tecniche necessarie per la ricostruzione del fatto o alla
valutazione di un fatto già acquisito nel processo.
1.1. – Questo l'inquadramento
generale che rende però necessaria una classificazione della prova scientifica
in relazione alla tipologia del nesso logico-inferenziale che lega il fatto
noto al fatto da provare attraverso l’applicazione di una legge scientifica.
Questa operazione ermeneutica risulta fondamentale per comprendere le norme, di
cui all’art. 192 c.p.p., applicabili alla fase valutativa del giudice.
A tal
proposito è stato sostenuto che la prova scientifica coincide completamente con
la struttura logica della prova critica o indizio, per cui, con una tale
classificazione, l’assimilazione della prova a struttura critica alla prova
indiziaria implica sempre l’applicazione del canone di cui all’art. 192, comma
2, c.p.p. (secondo il quale gli indizi possono fondare la decisione solo se
plurimi – come dire che una condanna non può mai fondarsi su un solo indizio –,
gravi, precisi e fra loro concordanti)[5].
In
realtà, è possibile identificare alcune differenze che impediscono
un’assimilazione completa della prova critica alla prova indiziaria, fondate
sulla struttura della sequenza probatoria, cioè sulle operazioni mentali del
giudice, e non sull’oggetto dell’inferenza probatoria:
-
L’impostazione tradizionale seguita in dottrina e giurisprudenza
distingue tra «prove dirette e prove indirette, a seconda che le stesse si
riferiscano, o non si riferiscano, immediatamente al thema probandum principale […]. Sono prove dirette quelle aventi ad
oggetto il fatto da provare – nelle sue diverse articolazioni – mentre sono
prove indirette quelle che non hanno direttamente ad oggetto il fatto da
provare, bensì un altro fatto, dal quale il giudice potrà risalire al primo
solo attraverso una operazione mentale di tipo induttivo, fondata sulle regole
della logica o su massime di esperienza. Sicché da una simile angolazione, esse
si caratterizzano […] quali prove critiche»[6].
-
Inoltre, l'elemento che aggiunge qualcosa alla prova critica
rispetto alla mera circostanza indiziaria risiede nella derivazione della
conclusione inferenziale da una legge logica o scientifica di carattere
generale - non probabilistica – che
conferisce al ragionamento il carattere di scientificità e legittima la
necessità della conclusione. Di contro, laddove l’inferenza poggia le proprie
basi su leggi di matrice probabilistica o anche su massime di esperienza, tale
conclusione appare solo possibile.
Aderendo
a questo orientamento, si deduce che le prove scientifiche – dotate di un grado
di affidabilità molto elevato - possono ricondursi al genus delle prove in senso stretto
(e, all’interno di questa ampia categoria, alle prove critiche); qualora
invece la conclusione probatoria si fondi su leggi probabilistiche o “a bassa
frequenza” si rientra nel novero delle prove indiziarie il che rende
obbligatoria l’applicazione dell’art. 192 comma 2 c.p.p.
Questa
ricostruzione pare avallata da un’interpretazione “estrema” della Corte di
Cassazione secondo cui «gli esiti dell’indagine genetica condotta sul dna,
atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da
rendere infinitesimale la possibilità di errore, presentano natura di prova e
non di elemento indiziario ex art.
192 comma 2 c.p.p.»[7].
Questa
ricostruzione giurisprudenziale poggia su un equivoco di fondo: la prova
genetica, ancorché dotata di un elevato grado di persuasività, è comunque un
indizio, nel senso che è idonea a
provare esclusivamente, per esempio, la presenza di una determinata persona in
un luogo (scena del crimine) da cui si può ricavare, tramite l’inferenza e
l’applicazione di leggi probabilistiche, il fatto da provare (in tal senso non
bisogna dimenticare che può sempre sussistere una massima di esperienza uguale
e contraria: da un lato si può dire che in genere se si trova il dna di un
soggetto a casa della vittima solitamente questi è l’assassino, dall’altro si
può sostenere che è una massima di esperienza che in una casa si trova sempre
il dna del fidanzato della vittima che era solito frequentare
quell’abitazione).
Inoltre,
appare errato ritenere che la valutazione della prova scientifica si arresti al
grado di affidabilità e validità della
legge scientifica di riferimento, difatti il suo valore deve essere tratto da
un più complesso schema valutativo che afferisce non solo alla misura del
convincimento del giudice, ma anche alla idoneità probatoria del mezzo di
prova, alla sua resistenza a ricostruzioni alternative, ai protocolli usati
dall’operatore tecnico-scientifico, nonché ai rischi di errore umano sia nelle
varie fasi della repertazione e conservazione del materiale biologico sia con
riguardo alla fase di tipizzazione.
Peraltro,
ancorché non pienamente condivisibili, le diverse elaborazioni dottrinali e
giurisprudenziali dello schema valutativo della prova scientifica hanno avuto
il pregio di spostare, anche nel nostro ordinamento, la discussione sulla
fallibilità della scienza da verificare nell’ottica del canone valutativo di
cui all’art. 533 c.p.p. in riferimento ad ogni ipotesi ricostruttiva sia essa
avallata da una legge scientifica o probabilistica, a prescindere dal suo
coefficiente di attendibilità. Sotto questo profilo si è assistito negli anni
ad un radicale mutamento con passaggio da una visione arcaica secondo cui la
prova narrativa, prima fra tutte la confessione e poi la testimonianza, hanno
idealmente dominato le ricostruzioni fattuali interne al processo, ad una
evoluzione, in linea con il progresso tecnologico, che ha legittimato spinte
verso la netta predilezione dello strumento tecnico-scientifico-tecnologico, in
particolare per la ricostruzione dei più gravi fatti di sangue.
Tralasciando
il dilagante “brunovespismo”, su cui si fondano deplorevoli ipotesi
ricostruttive mediatiche, non si deve dimenticare come nessuna prova nel nostro
ordinamento debba ergersi a prova (o presunzione) legale, ma la stessa deve
essere, invece ricondotta nei canoni del fondamentale principio del libero
convincimento del giudice, i cui limiti, casomai, possono essere esclusivamente
posti in negativo. A tal proposito, l’orientamento della Corte europea dei
diritti dell’Uomo è nel senso di lasciare aperta la possibilità alla previsione
di presunzioni purché “entro limiti ragionevoli” in quanto confutabili con la
produzione di prove contrarie[8].
Peraltro,
nonostante sia mancata una corrispondente elaborazione giurisprudenziale
interna, la Corte di cassazione ha dimostrato in più occasioni di attribuire
validità scientifica ai criteri dettati in materia di valutazione della prova
scientifica da parte della Suprema corte statunitense.
Due
sono storicamente i leading case
decisi dalla Suprema corte federale su cui si fonda l’elaborazione
giurisprudenziale USA:
- Frye vs United States, 293 F. 1013 (D.C. Cir. 1923).
- Daubert vs Merrel Dow Pharmaceuticals,
Inc, 509 U.S. 579 (1993).
A ciò
si aggiungano le rules 702 e 703
delle Federal rules of evidence del
1975 dedicate alla “testimonianza degli esperti” (testimony by experts).
In
particolare la sentenza Frye aveva indicato quale unico parametro di
valutazione dell’attendibilità della prova scientifica, quello del consenso
della comunità scientifica di riferimento (General
acceptance test), nello specifico caso con riguardo al controverso uso
della macchina della verità. Questa indicazione si espone alla ovvia critica
per cui anche le più disparate pseudo scienze, come la chiromanzia o qualsiasi
altra forma di credenza divinatoria, non classificabili neppure come bad or soft science, potrebbero ricevere
l’approvazione della propria comunità “scientifica” di riferimento. Pertanto,
essa, da sola, non può legittimare l’attitudine di una tecnica di indagine a
dimostrare i fatti oggetto di accertamento.
E’
con la sentenza Daubert che vengono per la prima volta elaborati una serie di
criteri fondamentali per valutare quale scienza - sia essa tradizionale o nuova
– possa essere considerata good or junk
science ed avere ingresso nel
processo come patrimonio conoscitivo del giudice. L’elaborazione ha assunto
un’importanza tale da essere oggi conosciuta come il “daubert-test”. Cinque
sono i suoi punti fondanti:
1. La
falsificabilità (nel senso popperiano del termine di confutabilità e
smentibilità) e la verificabilità della teoria o tecnica posta a fondamento
della prova. La moderna epistemologia sostiene che il metodo privilegiato per
l’accertamento della validità di una legge scientifica, più che attenere
all’esistenza di conferme della validità, consiste nella individuazione degli
elementi che possano smentirla.
2.
Conseguenza diretta della falsificabilità e verificabilità è l’individuazione
del margine di errore conosciuto o conoscibile. In questo senso si potrebbe
dire che esiste una massima di esperienza per cui va dichiarato inattendibile
un esperto che sostenga l’assenza totale del rischio di errore di un
determinato metodo ricostruttivo.
3. La
cosiddetta peer review ovvero la
possibilità che la teoria o la tecnica abbiano formato oggetto di controllo da
parte di altri esperti, anche grazie alla pubblicazione in riviste scientifiche
di settore o con altri mezzi.
4.
L’esistenza e il mantenimento di elevati standards
di verifica e controllo delle operazioni de
quibus, anche in relazione alla continua evoluzione della scienza.
5. The degree to which the theory and technique is generally accepted by a
relevant scientific community. Ovvero l’accettazione e il consenso generale da parte della
comunità scientifica di riferimento.
Naturalmente
il Daubert-test offre dei criteri minimi e non esaustivi per evitare l’ingresso
nel processo penale della cosiddetta scienza spazzatura; a questi
l’elaborazione critica nord americana ha aggiunto elementi quali la
qualificazione scientifica del consulente, il precedente impiego della tecnica
in ambito forense e la sua classificazione come scienza forense, il margine di
soggettività nell’interpretazione dei risultati o l’esistenza di conferme
esterne all’accertamento, che indubbiamente possono essere utilizzati in chiave
valutativa.
2. – Spostiamo ora
l’attenzione su gli strumenti di acquisizione del sapere
scientifico nel processo penale.
Numerosi
sono i canali di ingresso della scienza - rectius
delle scienze - nel processo penale,
senza nessuna pretesa di completezza si possono citare le investigazioni
difensive o le indagini di polizia giudiziaria effettuate con l'ausilio di
soggetti in possesso di specifiche competenze tecniche, disciplinati
rispettivamente dagli artt. 327-bis comma 3 e 384 c.p.p., gli accertamenti
tecnici ripetibili e non ripetibili disposti sia dal pubblico ministero che dal
difensore, ex artt. 359, 360 e 391 decies
c.p.p.; le operazioni effettuate dall'esperto in sede di esperimento giudiziale
(art. 219, comma 1, c.p.p.); i pareri, le relazioni, le memorie, gli esami
dibattimentali dei consulenti tecnici di parte e dei periti; l'assistenza dello
psicologo all'esame testimoniale del minore (art. 498 comma 4 c.p.p.). E' bene
notare sin da ora come il legislatore abbia configurato un reticolo di norme
che, all'interno del più generale "principio dispositivo temperato"
della prova, costituisce un vero e proprio diritto delle parti a difendersi
mediante il contributo tecnico-scientifico degli esperti.
Fra i
vari canali tipici di ingresso della prova nel processo, seguendo il filo logico
della precedente ricostruzione ermeneutica, indubbiamente assume un'importanza
fondamentale la perizia.
Lungi
dal poter effettuare una disamina completa dell'istituto in questa sede,
appaiono tuttavia possibili alcune puntualizzazioni. Si è detto come le norme
che disciplinano la perizia e gli accertamenti tecnici possano essere definite
"norme processuali in bianco" – si pensi alle clausole generali quali
le "specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche" –
adatte ad essere completate dalle norme che regolano il metodo, sia dalle leggi
scientifiche di riferimento suscettibili
di continua evoluzione ma inidonee, per tale ragione, ad essere oggetto di
tipizzazione normativa.
Con
la perizia, scrisse Carnelutti, «il giudice sa ciò che con la chiamata del
perito ha confessato di non sapere»[9] e la
prova mediante esperto si configura come «un antidoto contro l'arroganza
dell'enciclopedismo» del giudice stesso[10], per
tale ragione la perizia deve essere intesa, seguendo l'indicazione di deciso favor del legislatore, come un
potere-dovere per il giudice penale, confermato anche dalla disposizione che
consente la consulenza tecnica fuori dei casi di perizia (art. 233 c.p.p.). Il
parametro delle specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche assolve
alla duplice funzione di delimitare l'oggetto dello strumento peritale e di
ancorare a criteri predeterminati il potere-dovere del giudice di disporre la
perizia pur in assenza di una richiesta di parte. Un potere, quello del
giudice, che può essere pertanto definito di "discrezionalità
vincolata" poiché rivolto ad impedire il ricorso alla scienza privata del
giudice.
Ciò
premesso, la prima problematica attiene ai criteri di selezione degli esperti
poiché la scelta del perito è riservata esclusivamente al giudice senza
l'instaurazione di un previo contraddittorio: non pare dirimente, né
sufficiente, la circostanza per cui il perito deve essere scelto negli appositi
albi di categoria, peraltro ferma restando la possibilità di individuare
soggetti non inseriti negli albi purché altamente qualificati ovvero di
avvalersi di una perizia collegiale, nel caso in cui l'accertamento involga
plurimi settori di competenza, o di ausiliari tecnici per lo svolgimento di
un’attività comunque non valutativa. Escluso il catalogo tassativo delle cause
di ricusazione del perito ricavate dall'art. 36 c.p.p., la mancanza della
possibilità di una verifica ex ante
della competenza dello stesso perito comporta un grave vulnus al diritto di difesa, ancorché la stessa possa partecipare
alla fase della formulazione dei quesiti – fondamentale nella formazione
dell’elemento probatorio, poiché niente condiziona una risposta quanto la
domanda – e, mediante il proprio consulente tecnico, allo svolgimento dei
lavori peritali.
In
secondo luogo, vi è un costante indirizzo giurisprudenziale che esclude la
possibilità di utilizzare la perizia quale prova contraria decisiva, negando di
conseguenza che la sua mancata assunzione possa costituire motivo di ricorso
per cassazione ex art. 606 comma 1 lett. d. c.p.p.
Questa
indubbia limitazione del diritto di difesa sarebbe conseguenza della natura di
mezzo di prova "neutro" della perizia derivante dalla posizione di
terzietà ed equidistanza assunta dall'esperto. Ciononostante, la possibilità
che l'accertamento scientifico, tecnico o tecnologico, sia rivolto alla ricerca
di un elemento fondante la ricostruzione dell'accusa, o idoneo a procurare un
elemento probatorio decisivo nella strategia della difesa, non è contraddetta
dalla natura neutrale intrinseca della perizia.
E'
certamente vero che il difensore potrà optare per una consulenza tecnica di
parte, anche fuori dei casi di perizia, pur con le innegabili complicazioni
derivanti dalla necessità che a volte le indagini vengano delegate a laboratori
tecnici (senza dimenticare che il consulente tecnico, sotto il profilo
giuridico, non può essere autorizzato a delegare le operazioni tecniche ad
ausiliari di sua fiducia). La consulenza tecnica in cui il rischio di un minor
grado di persuasività è comunque presente, ha come sua caratteristica tipica
l’utilizzo del mezzo scientifico per ricercare un determinato risultato
probatorio richiesto dalla parte, ovvero per indebolire l'ipotesi ricostruttiva
effettuata dal perito, con l'indubbio vantaggio di lasciare libero il difensore
di scegliere, in base al risultato ottenuto, se introdurre il risultato
probatorio nel procedimento.
Ancora,
la disposizione di cui all'art. 230 c.p.p. legittima i consulenti a partecipare
alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando
osservazioni e riserve, delle quali dovrebbe essere fatta menzione nella
relazione peritale. Tuttavia la mancanza di un obbligo in capo al perito di
rispondere alle richieste, così come l’assenza di una qualsiasi sanzione
processuale per la mancanza nella relazione di una spiegazione o almeno di una
menzione delle riserve di parte, ha indotto la Suprema corte a sostenere che
l'inosservanza, da parte del perito designato dal giudice, delle osservazioni e
delle richieste del consulente non è censurabile ex art. 606, lett. d, c.p.p., poiché le consulenze non sono
autonomi mezzi di prova ma strumenti che concorrono alla formazione della
perizia.
In
altri termini, manca un contraddittorio preventivo sulla scelta del perito o
sul protocollo scientifico da utilizzare, e il contraddittorio nel corso
dell'esecuzione è espressamente previsto ma sfornito di una sanzione; pertanto,
ancora una volta, il centro fondamentale di formazione della prova deve essere
considerato l'esame incrociato dibattimentale in cui il perito sarà sottoposto
alle domande del pubblico ministero, delle parti private e, in via residuale,
del giudice. Non a caso la Suprema corte americana, trovandosi di fronte ad una
pronuncia in cui era stato negato all'imputato il diritto di confrontarsi con
il tecnico che aveva eseguito le operazioni peritali in quanto avrebbe riferito
esclusivamente su circostanze tecniche obiettive, ha annullato la sentenza per
violazione di un diritto fondamentale della difesa (Melendez-Diaz vs
Massachussets, 129 S Ct 2527, 2009).
Ai
fini di una più efficacie instaurazione del contraddittorio, si potrebbe
inoltre prospettare la conduzione dell'escussione dibattimentale del perito ad
opera dei consulenti di parte. A tal proposito, a parte l'obiezione
difficilmente superabile per cui la legge attribuisce inequivocabilmente tale
ruolo al p.m. e al difensore (art. 498 comma 1 c.p.p.), certamente il
consulente sarebbe maggiormente qualificato a porre le domande di natura
tecnico-scientifica, ma la disposizione è precipuamente rivolta a garantire le
specifiche competenze tecnico-giuridiche dei soggetti che conducono l'esame
incrociato. Peraltro rimane sempre possibile, ed idoneo all’accertamento, il
confronto fra il perito e il consulente tecnico che divergano su alcuni punti
della verifica scientifica.
2.1. – Passando ora ad
alcuni rapidi cenni sugli strumenti scientifici utilizzabili per la
ricostruzione di un fatto reato, si
può osservare come siano sempre più numerosi gli approdi della scienza forense
che possono avere ingresso nel processo penale per il tramite dei mezzi di
prova tipici, si pensi alle tecniche di accertamento quali la spettrografia, la
stilometria, il luminol, lo stub, il test del dna, la boodstain pattern
analysis e la computer forensic. Vediamo brevemente qualche aspetto critico di
alcuni di essi.
- La bloodstain pattern anlysis (BPA)
E'
quel metodo della scienza forense che consiste nell'analisi della morfologia degli
schizzi e delle chiazze e macchie di sangue di una scena del crimine, anche in
relazione al brandeggio dell'arma, al
fine di risalire alle caratteristiche di esecuzione del delitto. Si tratta, in
sostanza, di un processo logico che dall'analisi del fatto noto - le varie
tracce di sangue - permette di risalire, per il tramite di un ragionamento
inferenziale basato sull'applicazione di un mix
di leggi scientifiche (matematica, fisica, biologia e chimica), alle modalità
di svolgimento del delitto.
L'inquadramento
giuridico di questa particolare ed efficace tecnica di accertamento del fatto
richiede una precisa differenziazione fra l'attività svolta dalla polizia
giudiziaria e quella riservata all'esperto. Invero, è necessario subito
precisare che il discrimine fra le due attività deve essere indicato nello
svolgimento di una attività a carattere tecnico-valutativo, precluso alla
polizia giudiziaria.
In
materia di attività ad iniziativa della polizia giudiziaria, pur in presenza di
un contrasto giurisprudenziale, è assolutamente preferibile quella
ricostruzione, comunque maggioritaria presso la Suprema corte, che riserva
l'operatività dell'art. 354, comma 2, c.p.p. alle sole attività materiali
preparatorie all'accertamento tecnico-scientifico. E' appena il caso di
ricordare come l'art. 354 c.p.p., rubricato “accertamenti
urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone”, al comma 2 prescriva un
potere ex abrupto della polizia
giudiziaria di compiere accertamenti e rilievi nell'ambito della sua attività “ad
iniziativa”, per l'eventualità in cui vi sia pericolo che le cose, le tracce e
lo stato dei luoghi si alterino o si disperdano o comunque si modifichino e il
pubblico ministero non possa intervenire o non abbia ancora assunto la
direzione delle indagini. Le divergenze interpretative derivano dall'indistinto
riferimento dell'art. 354 c.p.p. agli accertamenti e rilievi, il quale, ad una
prima lettura, consentirebbe alla polizia giudiziaria di svolgere attività a
carattere valutativo, se non che, considerata la genericità della prescrizione
normativa, si è resa necessaria un'operazione ermeneutica volta a distinguere
la nozione di "rilievo" – da intendersi come una mera operazione
tecnica e preparatoria della consulenza – e di accertamento tecnico – che presuppone
un'attività di analisi e valutazione critica dei dati raccolti – precisando che
l'art. 354 c.p.p. utilizza, secondo questa ricostruzione, la definizione di
accertamento in senso del tutto atecnico.
Premesso
che le operazioni aventi natura discrezionale devono essere precluse alla
polizia giudiziaria e devono essere svolte da un esperto, si può concludere che
l’attività investigativa è riconducibile nell'ambito dell'accertamento tecnico,
generalmente non differibile al dibattimento, la cui acquisizione probatoria
deve avvenire per il tramite di un accertamento tecnico irripetibile ex. art.
360 c.p.p. ovvero di una perizia disposta in incidente probatorio.
Questa
importante metodologia ricostruttiva è stata utilizzata in recenti e
mediaticamente celebri casi quali "Cogne" e “Stasi”. Proprio in
occasione di quest'ultimo i giudici hanno precisato che la BPA, ancorché di
nuova utilizzazione in Italia, è stata da tempo considerata negli ordinamenti
di common law come una good science, data la sua sottoposizione
a numerosi tentativi di falsificazione e verificazione, pur ricordando come
spetti comunque al giudice vagliare l'attendibilità in concreto dei risultati
caso per caso ottenuti con questa tecnica di indagine. Nella circostanza, in
particolare, l'analisi si è incentrata sullo studio delle tracce ematiche
rinvenute - o non rinvenute - sulle scarpe dell'accusato e sulla compatibilità
delle stesse con il calpestio presente sulla scena del crimine, confrontate poi
con l'ipotesi ricostruttiva emergente dall'interrogatorio dell'imputato.
Prescindendo
dalle conclusioni cui sono giunti i giudici, questo è un chiaro esempio di come
l'utilizzo delle leggi scientifiche sia rivolto ad offrire al giudice un
ulteriore elemento, utile ma non determinante, per la propria decisione che,
nel caso di specie, si è fondata sul più completo apporto probatorio emerso
dalla dialettica processuale nel suo complesso.
- L'esame del DNA
L'indagine
genetica costituisce indubbiamente l'apporto scientifico che più di ogni altro
ha modificato le modalità di svolgimento delle indagini e gli esiti dei
processi negli ultimi anni. Per intendere compiutamente l'impatto di questa
scienza ai fini processuali, anche e soprattutto in termini di garanzie
difensive, è sufficiente rivolgere uno sguardo al lavoro svolto
dall'associazione americana Innocentproject.org
(ed anche dall'associazione italiana vittime errori giudiziari,
www.art643.org) che si è occupata dei processi di revisione per i condannati
nel "braccio della morte", spesso accusati in base a prove
dichiarative e confessioni più o meno legittime e poi prosciolti in seguito
alle nuove frontiere investigative offerte proprio dal test del DNA.
Tralasciando
in questa sede, per esigenze di tempo, le problematiche relative alla
potenziale frizione dell'indagine biometrica con principi di rilevanza
costituzionale, come il diritto di difesa, specificato nel privilegio contro
l'autoincriminazione, che consiste nel rifiuto dell'indagato-imputato di
partecipare, anche se indirettamente, alla ricostruzione del fatto di reato, è
opportuno soffermarsi sulle norme processual-penalistiche che regolano la
disciplina nel nostro ordinamento.
L'accertamento
può essere scomposto in due specifiche fasi. La prima, avente natura
descrittiva, concerne la raccolta del materiale biologico da persone o da
tracce, mentre la seconda, a carattere critico-valutativo attiene alla vera e
propria analisi del DNA.
L'attività
di reperimento e conservazione del materiale biologico rinvenuto sulla scena
del crimine - prelevato dal corpo del soggetto sottoposto ad indagine o ancora
da terze persone -, riveste comunque un'importanza fondamentale ai fini della
genuinità della prova e deve essere opportunamente verbalizzata, anche dando
conto delle tecniche di conservazione impiegate per evitare rischi di
deterioramento del campione. Sotto il profilo normativo, questa attività di
raccolta nel corso del sopralluogo sulla scena del crimine rientra nelle
attività urgenti della polizia giudiziaria, previste dall'art. 354 c.p.p.
Inoltre,
qualora serva acquisire il DNA dall'accusato o da terze persone non indagate
occorre fare un'importante distinzione a seconda del fine cui tale esame è
preordinato. Vediamoli brevemente. L'art. 349, comma 2-bis, c.p.p. prevede la possibilità di raccolta del materiale
biologico da parte della polizia giudiziaria, di propria iniziativa, ai soli
fini identificativi e previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta
oppure resa oralmente e confermata per iscritto.
Di
contro, nell'ipotesi di prelievo a fini investigativi, il legislatore ha
preferito approntare un sistema maggiormente garantito prevedendo un intervento
dell'organo di garanzia giurisdizionale. In particolare, salvo che il soggetto
scelga spontaneamente di collaborare con la polizia giudiziaria, in fase di
indagini preliminari e in caso di incidente probatorio, ai sensi dell'art. 359-bis c.p.p., il potere di iniziativa
spetta al pubblico ministero con autorizzazione del giudice delle indagini
preliminari, ad eccezione delle ipotesi di convalida successiva nelle
situazioni di urgenza, nella fase dibattimentale ai fini dell'esecuzione della
perizia e quando si procede per un delitto non colposo per il quale è prevista
la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a 3 anni, l'autorizzazione
dovrà ovviamente essere richiesta al giudice dibattimentale.
Già
si è chiarito quale sia l'operazione inferenziale necessaria e come spesso
questa conduca alla prova di un fatto collaterale al fatto di reato vero e
proprio, occorre ora segnalare come l'indagine genetica costituisca un caso
speciale in cui l'incidente probatorio ai sensi dell'art. 392 comma 2 c.p.p., è
svincolato dai presupposti di ammissibilità propri dell'istituto. Mentre la
classificazione dell'accertamento come ripetibile o irripetibile dipende
evidentemente dal quantitativo di materiale biologico a disposizione e dal
metodo di analisi utilizzato.
- La computer forensic
Quest'espressione
si riferisce alla disciplina che si occupa dell'applicazione dei metodi e degli
strumenti della tecnologia informatica ai fini della ricostruzione di un fatto
di reato.
Come
si può facilmente immaginare l'importanza e le possibilità offerte
dall'evoluzione della tecnica informatica costituiscono ad oggi un apporto
fondamentale per il processo penale.
Peraltro,
anche in questo settore bisogna superare la tentazione di identificare il mezzo
probatorio come atipico, in quanto il suo ingresso nel processo avviene
comunque, in genere, attraverso canali tipizzati dal legislatore. All'interno dell’ampia
categoria della prova informatica si possono identificare due sottocategoria
molto diverse fra loro:
I. La
c.d. computer generated evidence, la
quale come si può evincere già dalla traduzione letterale, è costituita da
quegli strumenti che consentono di effettuare la rappresentazione virtuale
delle modalità di svolgimento di un fatto.
Quest'attività
può essere di supporto ad altri mezzi di prova, come nel caso di una animazione
grafica utile in funzione dimostrativa della relazione peritale, ma la si può
anche utilizzare per rappresentare l'evento a scopo dimostrativo delle reali
circostanze di svolgimento del fatto (c.d. ricostruzione), nonché per simulare
una ipotesi ricostruttiva dello stesso, alternativa alle circostanze che - secondo l’ipotesi accusatoria prevista
nell’imputazione – si ritiene si siano realizzate (la c.d. simulazione,
utilizzata nel processo per la morte di Ayrton Senna nei confronti della
squadra automobilistica Williams, in cui, richiamando implicitamente i princìpi
del Daubert-test, la Corte d'appello di Bologna ha ritenuto la prova non
ammissibile per il carattere sperimentale del metodo e per la mancanza di
protocolli d'uso che consentissero di testarne l'affidabilità). In caso di
"ricostruzione" e "simulazione" si rientra all'interno della disciplina
dell'esperimento giudiziale ex art.
216 c.p.p. in quanto si tratta di modalità tecnico-scientifiche particolari di
svolgimento delle operazioni e che sono ovviamente da eseguirsi per il tramite
di un perito informatico designato dal giudice.
II.
Le c.d. computer derived evidence,
ossia l'ipotesi in cui l'elemento probatorio sia comunque contenuto in un
supporto digitale. In dottrina si è ripetutamente sottolineata la differenza
con la prova c.d. fisica, stante la sua immaterialità e la naturale facilità
nella sua alterazione. Come tale essa, in genere, entrerà nel processo penale
con la forma della prova documentale, e il suo trattamento ai fini
investigativi sarà affidato ad esperti nell'ambito di un accertamento tecnico o
di una perizia.
Pure
con riguardo all'acquisizione del dato informatico, è opportuno precisare che i
limiti all'operato della p.g. ex art. 354 c.p.p. concernono la sola attività di
conservazione e quella rivolta ad impedirne l'alterazione, anche tramite immediata
duplicazione, pur considerando come ogni operazione di duplicazione e di
trattamento comporti un rischio intrinseco di alterazione del dato, che fa
propendere per l'utilizzo dell'accertamento tecnico non ripetibile tutte le
volte in cui l'indagine non possa svolgersi sul dato conforme duplicato.
3. – Numerose sono le
problematiche emergenti in relazione alla prova scientifica che qui, per
esigenze di tempo, non è possibile trattare (si pensi, ad esempio, al concetto
di prova nuova o sopravvenuta in materia di revisione, derivante dal
superamento ed evoluzione della scienza utilizzata all’epoca del procedimento
che ha portato ad una sentenza irrevocabile); in conclusione, mi siano permesse
solo alcune ultime considerazioni:
Circoscrivere
l’apporto scientifico all’interno del processo penale per evitare di alimentare
false credenze in termini di certezza assoluta, non corrisponde alla volontà di
sminuire l’apporto tecnico scientifico di ausilio alla decisione del giudice.
Anzi, assai più grave è l’utilizzo del legittimo principio del judex peritus peritorum – che si
legittima unicamente nell’ottica del rispetto del principio del libero
convincimento del giudice – al fine di consentirgli il ricorso alla propria
scienza privata, e ciò sia per l'oggettiva impossibilità di conoscere l’intero
scibile umano, sia in quanto attinente al suo foro interno e, pertanto, a
differenza dell’apporto degli esperti, non suscettibile di controllo e verifica
esterna.
Nondimeno
e sebbene sia indubitabile che le prove scientifiche costituiscono preziosi
strumenti di ricostruzione del fatto e offrono elevate garanzie di
attendibilità, non va tuttavia dimenticato che proprio a causa della loro
assorbente forza probatoria, possono rivelarsi insidiose in quanto lasciano
esigui spazi di difesa là dove, in realtà, certezza non v’è.
Scrisse
Ludwig Wittgenstein che al di là di ogni ragionevole dubbio deve significare che la vanga del
dubbio, che deve sempre armare il giudice, ha incontrato lo strato duro della
roccia, rappresentato dalle prove, e si è piegata, risultando implausibile ogni
spiegazione diversa della colpevolezza[11]. E’
vero che la clausola ha in sé una contraddizione in termini, in quanto ritenere
provato un fatto in presenza di un dubbio che appaia ragionevole risulta
illogico; tuttavia il beyond a resonable
doubt deve costituire un canone interpretativo secondo cui la colpevolezza
deve sempre essere suffragata da un solido e coerente quadro probatorio e, al
contempo, l’onesto riconoscimento della fallibilità degli accertamenti non deve
impedire la condanna[12].
Occorre
allora sempre ricordare che il cruciale passaggio dalla prova al fatto da
provare deve avvenire mantenendo sempre aperto il confronto dialettico fra le
parti, così da evitare automatismi probatori seppur in presenza di leggi
scientifiche o di dati all’apparenza inoppugnabili: vale a dire che «la
scienza, almeno nel processo, va sempre filtrata attraverso la retorica, nel
senso nobile di arte argomentativa»[13].
* Testo della relazione
presentata nel IV Seminario di Polizia Giudiziaria “La Polizia Giudiziaria
tra Tradizione e Innovazione - Scienze e tecniche di Indagine” (La Maddalena, 16 giugno 2013).
[1] Si
pensi che nel rapporto informativo del 2009 - curato dal Comitee on identifying the Needs of Forensic
Science Community e dal National
Research Council avviato su mandato del Congresso degli Stati Uniti - in
cui si è verificata l’attendibilità delle scienze forensi tradizionali
nell’individuazione di cose e persone, è emerso che nelle forensic science prese in considerazione - tranne l’analisi del DNA – ciò che spesso è
assente è proprio il carattere di scientificità poiché i risultati sono
affidati per lo più al giudizio soggettivo del tecnico.
[3] O. Dominioni, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o
controversi e di elevata specializzazione, Milano, 2005, 12.
[5] P. Tonini, La prova scientifica: considerazioni introduttive, in Dir. pen. proc., 2006, n. 6, 8; M.
Nobili, sub art. 192 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale,
M. Chiavario (coord. da), vol.
II, Torino, 1990, 414.
[6] V. Grevi, Prove, (agg. da G. Illuminati),
in Compendio di procedura penale, G. Conso, V. Grevi e M. Bargis (coord. da), 311.
[10] E. Amodio, Perizia artistica ed indagini demoscopiche nell’accertamento
dell’osceno cinematografico, in Riv.
dir. proc., 1974, 669.
[11] L. Wittgenstein, Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune, Torino,
1999, 73.
[12] Cfr. P. Ferrua, Epistemologia scientifica ed
epistemologia giudiziaria: differenze analogie e interrelazioni, in La prova
scientifica nel processo penale, L. De
Cataldo Neuburger (a cura di), Padova, 2007, 16.