Cap. II della monografia: Fabio basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle
società multiculturali, [Università degli Studi di Milano. Facoltà di
Giurisprudenza. Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze Giuridiche
Ecclesiasticistiche, Filosofico-Sociologiche e Penalistiche “Cesare Beccaria”. Sezione di
Scienze Penalistiche, 45] Milano,
Giuffré Editore, 2010, pp. XVI-496. ISBN
88-243-1992-0
Università di Milano
Localismo e non-neutralità
culturale del diritto penale “sotto tensione” per effetto dell’immigrazione
SOMMARIO: Considerazioni introduttive – 1. IL ‘LOCALISMO’ DEL DIRITTO PENALE. – 1.1. Vérité au deçà des Pyrénées, erreur au-delà. – 1.2. Origine e sviluppo storico del
‘localismo’ del diritto penale. – 1.3 La recente tendenza, a livello europeo, ad uno
stemperamento dell’originario ‘localismo’ del diritto penale. – 1.4. Riepilogo
sul ‘localismo’ del diritto penale: Paese che vai, reato che trovi. – 2. LA ‘NON-NEUTRALITÀ
CULTURALE’ DEL DIRITTO PENALE. – 2.1. Precisazioni
preliminari. L’omogeneità culturale italiana secondo Alfredo Rocco. – 2.2. Recht
ist Kulturerscheinung.
Primi rilievi sui nessi tra cultura e diritto, e in particolare tra cultura e
diritto penale. –
2.3. Le tre teorie formulate per illustrare i nessi tra cultura e diritto
penale. – 2.3.1. La teoria
della coincidenza, o dei cerchi concentrici. Esposizione e
critica. – 2.3.1.1. Una
variante della teoria della coincidenza: la teoria del minimo etico.
Esposizione e critica.
– 2.3.2. La teoria della separazione, o dei cerchi distinti.
Esposizione e critica.
– 2.3.3. La teoria del rapporto di implicazione, o dei cerchi
intersecantisi. Esposizione e dimostrazione del suo fondamento. – 2.4. I “punti di vista” dai quali emerge
che le intersecazioni tra norme penali e norme culturali contribuiscono ad un
maggior ‘successo’ del diritto penale. – 2.4.1. La prevenzione generale c.d. positiva. – 2.4.2. La
prevenzione speciale intesa come rieducazione. – 2.4.3. La possibilità di conoscere la norma
penale violata. –
2.4.4. Cenni su alcune esperienze di ‘insuccesso’ di codici penali
che non presentavano alcuna significativa intersecazione con le norme culturali
dei soggetti cui erano destinati. – 2.5. I “settori” all’interno dei quali le norme penali si
intersecano con le norme culturali. –
2.5.1. Le norme penali all’interno delle quali compaiono elementi normativi c.d.
culturali. – 2.5.2. Altre
norme penali ‘impregnate’ di cultura. – 2.6. Riepilogo sulla ‘non-neutralità
culturale’ del diritto penale: il diritto penale è fortemente impregnato di
cultura. – 3. Conclusioni:
le implicazioni di ‘localismo’ e ‘non-neutralità culturale’ del diritto penale
in ordine al fenomeno dei reati culturalmente motivati commessi dagli immigrati.
La presenza di immigrati all’interno del territorio italiano e degli altri Stati europei pone una serie di ‘sfide’ anche al diritto penale. Coerentemente alla delimitazione del campo d’indagine tracciata nel capitolo precedente, ci soffermeremo in particolare su una di queste ‘sfide’: come deve reagire il diritto penale ai reati culturalmente motivati commessi dagli immigrati? [1]
Per trovare adeguata risposta a tale quesito conviene soffermarsi preliminarmente su due tradizionali tratti caratteristici del diritto penale, e cioè:
- sul suo ‘localismo’: con tale espressione intendiamo fare riferimento al fatto che il diritto penale – quello italiano, quello degli altri Stati europei, e presumibilmente quello di tanti altri Stati al mondo – presenta, più di altri settori dell’ordinamento giuridico, la caratteristica di essere una sorta di ‘prodotto tipico locale’, destinato, peraltro, ad una consumazione solo in loco;
- sulla sua ‘non-neutralità culturale’: con tale espressione intendiamo, invece, fare riferimento al fatto che il diritto penale – ancora una volta: quello italiano, quello degli altri Stati europei, e presumibilmente quello di tanti altri Stati al mondo – presenta, più di altri settori dell’ordinamento giuridico, la caratteristica di essere un diritto ‘impregnato’ di cultura, un diritto, cioè, che risente particolarmente della cultura dello Stato, del popolo, degli uomini che tale diritto hanno elaborato.
Come può fin d’ora agevolmente intuirsi, questi due tratti caratteristici del diritto penale hanno, in effetti, importanti implicazioni rispetto al fenomeno dei reati commessi per motivi culturali dagli immigrati: reati, cioè, commessi da persone che si spostano da uno Stato all’altro e che di conseguenza trovano, nel luogo d’arrivo, un diritto penale in varia misura diverso da quello vigente nel luogo d’origine, laddove tale diversità delle norme penali è almeno in parte dovuta alla diversità di culture.
In particolare, nel presente capitolo si cercherà di mettere in luce come ‘localismo’ e ‘non-neutralità culturale’ del diritto penale vivano oggi, nelle società multiculturali di tipo polietnico[2], una stagione di forti tensioni.
Segnaliamo, peraltro, che qui di seguito i profili del ‘localismo’ e della ‘non-neutralità culturale’ del diritto penale verranno trattati, per comodità espositiva, separatamente, pur nella chiara consapevolezza delle loro reciproche, costanti interrelazioni. A ben guardare, infatti, l’uno è, ad un tempo, causa ed effetto dell’altra: il diritto penale è un prodotto ‘locale’, proprio perché, tra gli altri motivi, risente della cultura diffusa nel luogo (lo Stato) in cui esso viene elaborato; d’altra parte, il diritto penale è un diritto ‘non culturalmente neutro’, proprio perché, tra gli altri motivi, essendo elaborato e destinato ad un determinato luogo (uno Stato), risente inevitabilmente della cultura diffusa tra le persone presenti in quel luogo[3].
Il diritto penale, più di altri settori dell’ordinamento giuridico, presenta la caratteristica di essere un diritto locale, creato all’interno di uno Stato e per tale Stato, sicché ad ogni singolo Stato corrisponde un determinato ordinamento giuridico penale[4]. Come ha di recente rilevato Otfried Höffe, nelle pagine iniziali di quella che costituisce una delle più stimolanti riflessioni sul diritto penale nelle moderne società multiculturali e globalizzate, “il diritto penale rientra fino ad oggi quasi esclusivamente nell’ambito di competenza dei singoli Stati” [5].
In ogni Stato, infatti, ritroviamo un determinato catalogo di reati, sanzionati con determinate pene e assoggettati a determinate regole di parte generale, che possono sì somigliare in misura più o meno ampia, ma quasi mai coincidere con quanto previsto in altri Stati, con la conseguenza che “ciò che è reato qui, potrebbe non esserlo in un altro luogo, o viceversa” [6].
Tale caratteristica del diritto penale è stata di recente efficacemente descritta da Fletcher, il quale ha constatato che, oggigiorno, “ogni Paese va per proprio conto” per quanto riguarda il diritto penale[7], sicché è possibile registrare un’“accentuata provincializzazione del diritto penale” [8]:
“il diritto penale è da tempo divenuto, quale diritto nazionale codificato, un diritto locale. La grande unità nel diritto che via via prese il posto del diritto romano si è dispersa. Se mai ci fu, al tempo del diritto comune, un univoco vocabolario e un insieme di principi condivisi da tutti gli europei, oggi quella omogeneità di riferimenti si è in gran parte smarrita. È assai difficile trovare ordinamenti penali, anche limitrofi, che abbiano lo stesso sistema di reati contro la vita o contro il patrimonio. E lo stesso succede d’altronde negli Stati Uniti dove, pur in presenza di un Model penal code, modello da ciascuno adattato alle esigenze locali, è assai arduo trovare due Stati che abbiano la «stessa legge», anche solo a proposito di un reato basilare quale l’omicidio. Ancora: le repubbliche dell’ex Unione Sovietica hanno avuto per decenni codici penali che, essendo espressioni di un’unica, centralizzata ispirazione politico-criminale, erano sostanzialmente omogenei; oggi che ogni singolo Stato elabora il proprio codice in condizioni di reale autonomia, la frammentazione e la disarmonia complessiva appaiono eclatanti. Insomma, il diritto penale moltiplica la propria disomogeneità man mano che proliferano le bandiere di nuovi Stati sovrani”[9].
Ma la frammentarietà geografica del diritto penale era già stata nettamente individuata, fin dai primi decenni del secolo scorso, dalla allora nascente scienza criminologica la quale – nel tentare di giungere ad una precisazione dell’oggetto delle proprie ricerche che prescindesse dalle transeunti caratteristiche di un singolo ordinamento positivo – veniva a scontrarsi con la grande varietà del catalogo dei reati, mutevole da Stato a Stato, da luogo a luogo. Almeno a partire da Sutherland, pertanto, la “relatività del reato (the relativity of crime)” [10] è divenuta un topos della moderna criminologia:
“il contenuto del diritto penale” – scriveva Sutherland – è sempre “in costante cambiamento” dal punto di vista storico e, cosa che più ci interessa in questa sede, dal punto di vista geografico: ed infatti “ciò che segue è stato in tempi diversi ed in luoghi diversi considerato un reato: stampare un libro, professare la dottrina medica della circolazione del sangue, guidare con le redini, vendere monete agli stranieri, tenere oro in casa, comprare beni sulla strada che va al mercato o al mercato con il proposito di rivenderli ad un prezzo più alto, emettere un assegno per meno di un dollaro”[11].
Del resto, anche alla stessa dottrina penalistica è particolarmente cara una notoria massima di Blaise Pascal che, in modo tanto efficace quanto sintetico, ben rende l’idea della frammentazione localistica del diritto penale:
“Plaisante justice qu’une rivière
borne. Vérité au deçà des Pyrénées, erreur au delà”[12].
Il pensé pascaliano è stato, infatti, riproposto anche dalla dottrina penalistica contemporanea per descrivere la perdurante frammentazione localistica del diritto penale[13]:
- così Schultz, in un contributo del 1973 intitolato proprio “Vérité au deçà des Pyrénées, erreur au delà?”, ha di nuovo evocato la “forza divisoria (trennende Kraft) degli ordinamenti e dei sistemi giuridici, posseduta dalle montagne e dai fiumi che segnano i confini dei Paesi”, per mettere in luce le differenze, anche significative, esistenti tra i sistemi positivi di diritto penale di due Paesi limitrofi e per giunta appartenenti – almeno in parte – alla stessa area linguistica (la Germania e la Svizzera), anche in relazione a delitti di frequentissima verificazione, come il furto e l’omicidio doloso[14];
- più di recente, anche Marinucci, nella relazione di sintesi del convegno “La giustizia penale italiana nella prospettiva internazionale” tenutosi nel 1999, ha sottolineato il “pascaliano localismo statuale (vérité au deçà des Pyrénées, erreur au delà, con quel che segue e precede)” del diritto penale, individuando in esso un grave ostacolo al processo di armonizzazione dei sistemi penali dei Paesi europei[15].
D’altro canto, già in un precedente convegno su analogo argomento (“Prospettive per un diritto penale europeo”) tenutosi nel 1967, anche Bettiol, pur senza ricorrere alla massima pascaliana, aveva ben fotografato la frammentazione localistica del diritto penale, parlando di un “mosaico penalistico europeo che non rivela alcun disegno unitario ma costituisce solo una serie autonoma di pietruzze colorate”[16].
Quando Pascal scriveva (1670), il processo di frammentazione localistica del diritto rispetto all’unità in precedenza assicurata dallo ius commune medievale di origine romanistica, era, in realtà, solo ai suoi inizi, ma era destinato ad avanzare sempre più nei decenni successivi quale conseguenza del sorgere degli Stati, assoluti prima e nazionali poi. Ognuno di tali Stati, infatti, aspirava a darsi – prima attraverso i grandi Tribunali nazionali, poi attraverso gli organi legislativi nazionali – un proprio sistema di norme, con conseguente abbandono dello ius commune[17].
Se, quindi, Pascal aveva osservato con perplessità e diffidenza tale incipiente frammentazione localistica, circa un secolo dopo essa veniva, invece, approvata e caldeggiata da Montesquieu nelle pagine introduttive del suo De l’esprit des lois (1748)[18]:
“le leggi politiche e civili di ogni nazione (…) devono essere talmente adatte al popolo per il quale sono state istituite, che è incertissimo se quelle di una nazione possano convenire a un’altra. È necessario che siano relative alla natura e al principio del governo stabilito o che si vuole stabilire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche, sia che lo conservino, come fanno le leggi civili. Devono essere corrispondenti alle caratteristiche fisiche del paese; al clima freddo, ardente o temperato; alle qualità del suolo, alla sua situazione, alla sua ampiezza; al genere di vita dei popoli, agricoltori, cacciatori o pastori; devono rifarsi al grado di libertà che la costituzione può permettere, alla religione degli abitanti, alla loro indole, alla loro ricchezza, al loro numero, al loro commercio, ai loro usi, ai loro costumi”[19].
Secondo la concezione di Montesquieu, quindi, il genius loci avrebbe dovuto plasmare le leggi di ogni nazione, affinché le stesse potessero ‘aderire’ il più possibile alla specifica situazione locale[20].
All’epoca dei Lumi, tuttavia, vi era anche un’ulteriore ragione che spingeva verso la frammentazione localistica del diritto: in quell’epoca, localizzazione del diritto significava, principalmente, statualizzazione del diritto, e statualizzazione del diritto significava, per Montesquieu e compagni, legalizzazione del diritto, cioè sua identificazione con la sola legge[21]. La legge e, in particolare, i codici, nella concezione degli Illuministi costituivano infatti lo strumento privilegiato per conferire certezza e determinatezza alle norme giuridiche, consentendo il superamento del vituperato arbitrio dei tribunali e della perniciosa imprecisione delle consuetudini.
Qui si coglie allora il decisivo contributo – per quanto, forse, ‘preterintenzionale’ – degli Illuministi alla frammentazione localistica del diritto: se il diritto è solo quello contenuto nella legge, e se la legge promana necessariamente dallo Stato[22], è giocoforza che alla pluralità di Stati venga a corrispondere una pluralità di diritti locali[23].
Il processo di statualizzazione, e conseguente frammentazione localistica del diritto, qui per sommi capi ripercorso, pur avendo interessato tutti i settori dell’ordinamento giuridico, risulta particolarmente accentuato proprio in ambito penale, e ciò per le due seguenti ragioni:
1) perché le esigenze di certezza e determinatezza delle norme giuridiche cui si è fatto sopra cenno, che secondo gli Illuministi avrebbero potuto essere soddisfatte solo attraverso la legalizzazione statuale del diritto, erano (e sono!) particolarmente avvertite proprio in ambito penale, come ci ricorda la ‘immortale’ lezione di Cesare Beccaria[24];
2) perché il diritto penale – il diritto di punire, infliggendo sofferenze ai consociati – rappresenta indubbiamente la principale espressione di quella “violenza fisica legittima”, il cui monopolio, secondo la celebre definizione di Max Weber, costituisce il tratto essenziale di ogni Stato[25]; ed ecco allora che nel processo di nascita ed affermazione di uno Stato, questo reclama per sé il monopolio del diritto penale quale espressione di sovranità. Del resto, anche di recente si è sottolineato che “il diritto di punire, monopolio dello Stato, è senza dubbio il segno più eclatante della sovranità nazionale”[26]. Rispetto al diritto penale trova, quindi, piena ed assoluta conferma quanto rilevato, in prospettiva storica, da Bobbio: il processo di graduale “monopolizzazione del potere coercitivo da parte dello Stato”, avviatosi all’epoca dell’Assolutismo e teorizzato da Hobbes, comportò una “corrispondente monopolizzazione del potere normativo”, completatasi con l’Illuminismo e con le grandi codificazioni ottocentesche[27].
Vero è che alcune delle codificazioni penali ottocentesche furono capaci di superare in qualche modo i confini nazionali: si pensi, soprattutto, alla grande influenza esercitata, su molte codificazioni ottocentesche, dal Codice penale napoleonico del 1810. Ma tale sconfinamento non significò – se non in quei casi in cui l’espansione giuridica fu conseguenza dell’occupazione militare e del dominio politico[28] – pedissequa recezione, da parte di uno Stato, di una codificazione ‘straniera’, quanto, piuttosto, rielaborazione di un modello, previo suo adeguamento alle peculiarità e alle esigenze interne[29].
Vero anche, d’altra parte, che soprattutto a partire dalla fine del Diciottesimo secolo in Europa si formò una cultura giuridica comune[30]. Ma tale comunanza non portò certo all’adozione di codici penali unitari, con soluzioni coincidenti in tutti i Paesi, quanto, piuttosto – per usare le parole di un attento studioso della storia del diritto penale – ad “un’intensissima circolazione di idee e tecniche” [31], le quali vennero variamente rielaborate e recepite a livello locale.
Pertanto, all’alba del Ventesimo secolo praticamente ogni Stato europeo si era dotato di un proprio diritto penale, concepito come un ‘prodotto tipico locale’, e destinato ad essere applicato pressoché esclusivamente all’interno dei propri confini.
Solo a partire dal Secondo Dopoguerra, in Europa l’originario, accentuato ‘localismo’ del diritto penale si è andato in parte stemperando sotto l’impulso del processo di riavvicinamento degli ordinamenti giuridici penali promosso dal Consiglio d’Europa[32] e, su un’area geografica più ristretta, dall’Unione europea[33]. Si tratta, tuttavia, di un processo non solo assai lento e graduale, ma soprattutto assolutamente settoriale, che coinvolge solo limitate materie.
Anzi, per quanto riguarda in particolare l’Unione europea, proprio l’assenza di competenza diretta delle Istituzioni comunitarie in materia penale[34], nonché il particolare ritardo nel cammino di riavvicinamento delle legislazioni nazionali in ambito penale rispetto ad altri settori del diritto (si pensi, ad esempio, al diritto doganale o a quello societario)[35], costituiscono una chiara conferma dell’accentuata frammentazione localistica che caratterizza ancor oggi i sistemi penali degli Stati membri, e delle difficoltà e resistenze che il superamento di tale frammentazione implica.
Così, mentre nell’Unione europea si è riusciti a creare un’unione doganale, un’unione monetaria, una politica agraria comune etc., e si è riusciti ad armonizzare, se non addirittura ad unificare, il complesso di norme che regolava, nei singoli Stati, tali materie, ancora lontano è l’obiettivo di una armonizzazione-unificazione di ampi settori del diritto penale degli Stati membri[36].
Una conferma indiretta delle difficoltà che incontra l’armonizzazione/unificazione, a livello di Unione europea, di ampi settori del diritto penale sostanziale può essere rinvenuta anche nella vicenda del mandato d’arresto europeo, attraverso il quale l’Unione europea ha sì impresso una forte accelerazione alla cooperazione giudiziaria tra Stati membri, ma ha al contempo di fatto decretato una sorta di marginalizzazione dell’obiettivo del riavvicinamento delle legislazioni penali sostanziali degli Stati membri[37].
Nonostante i progressi compiuti negli ultimi decenni, specie a livello europeo, il diritto penale continua, dunque, ad essere un prodotto statuale, locale, contrassegnato dal marchio di produzione del Paese d’origine: un diritto che riporta stampigliato sopra “prodotto in Italia”, o “made in UK”, o “fabriqué en France” etc., a seconda del Paese dove tale diritto è stato emanato e dove è destinato ad essere applicato.
Con ciò, si badi bene, non si intende affatto dire che tra i sistemi penali dei vari Stati non possano esistere significativi punti di connessione, comuni ascendenze e comuni linee evolutive[38]. Né si vuole negare che l’aspirazione – particolarmente sentita a livello europeo, ed in crescita anche a livello globale – ad uniformare i diritti penali intorno al ‘nucleo forte’ di alcuni valori ampiamente condivisi, potrebbe portare, nei prossimi decenni, ad una rapida sprovincializzazione del diritto penale[39]. Si vuole, invece, sottolineare il fatto che, a tutt’oggi, tra uno Stato e l’altro cambia il catalogo dei reati, cambia la fisionomia dei singoli reati, cambia la pena comminata, cambiano le regole di parte generale applicabili.
Basti pensare, quali esempi della perdurante frammentazione localistica del diritto penale, a fatti come l’eutanasia e l’aiuto al suicidio, la procreazione assistita, l’aborto, il controllo delle nascite e la sterilizzazione volontaria, i rapporti omosessuali tra adulti consenzienti, l’adulterio, l’incesto, la pornografia, la prostituzione, l’intangibilità sessuale dei fanciulli (in particolare, in relazione alla soglia d’età sotto la quale essi sono considerati tali), il consumo e la vendita di sostanze stupefacenti, il catalogo dei mezzi di educazione legittimi (comprensivi, o meno, del ricorso alla violenza fisica), la bestemmia e i vilipendi alla religione, il maltrattamento di animali: fatti la cui disciplina penale cambia, anche significativamente, da Stato a Stato[40].
Passando agli istituti di parte generale, si pensi alle significative divergenze che si possono riscontrare tra Stato e Stato per quanto riguarda, ad esempio, l’individuazione della soglia di età per la sussistenza della capacità di intendere e di volere; il trattamento dell’errore di diritto, del tentativo inidoneo, della desistenza volontaria, nonché dei fatti illeciti commessi in stato di ubriachezza; i limiti di rilevanza, scriminante o scusante, dello stato di necessità e dell’adempimento degli ordini dei superiori; la varia e mutevole considerazione – come dolo, come colpa (grave) o, anche, come responsabilità per versari in re illicita – di ciò che da noi in Italia ricade sotto la definizione di dolo eventuale[41].
Persino in settori dove potrebbe presumersi l’esistenza di una non-problematica unitarietà di soluzioni normative, si scoprono insospettate differenze. Si pensi, ad es., al delitto di furto, previsto sì pressoché in tutti gli ordinamenti penali, ma sottoposto ad una regolamentazione assai differenziata a livello locale, sia per quanto attiene alla pena comminata, sia per quanto riguarda la fisionomia stessa della condotta punibile: anche nelle legislazioni di due Paesi, Italia e Germania, assai vicini per geografia e per tradizione giuridica, il furto non solo viene assoggettato ad una pena sensibilmente diversa (reclusione da un mese a cinque anni o solo pena pecuniaria in Germania; reclusione da sei mesi a tre anni congiunta con la pena pecuniaria in Italia), ma la sua stessa configurazione legislativa cambia (l’impossessamento per l’art. 624 c.p. è elemento del fatto tipico; per il § 242 StGB è, invece, punto di riferimento dell’Absicht – dolo specifico), con la conseguenza, di non poca rilevanza pratica, che il c.d. furto d’uso non è reato al di là delle Alpi, mentre lo è al di qua[42].
E se tali differenze sono riscontrabili a livello europeo (sia pur con le correzioni in corso, di cui si è detto supra, 1.3), esse lo sono ancor più a livello globale[43]. Insomma, ogni Stato ha un suo diritto penale, solo in minima parte coordinato con quello di altri Stati, sicché, parafrasando un adagio popolare, si può senz’altro dire: Paese che vai, reato che trovi.
Il secondo aspetto del diritto penale sul quale occorre preliminarmente soffermarci per affrontare adeguatamente la tematica dei reati culturalmente motivati, può essere indicato con la formula ‘non-neutralità culturale’. Con tale formula intendiamo fare riferimento alla caratteristica del diritto penale di risultare, più di altri settori dell’ordinamento giuridico, un diritto ‘impregnato’ di cultura, un diritto, cioè, che risente particolarmente della cultura diffusa all’interno dello Stato che tale diritto ha elaborato.
Nel Capitolo I abbiamo già avuto modo di soffermarci sul concetto di “cultura diffusa all’interno di un singolo, determinato Stato”, sottolineando la centralità del ruolo dello Stato nella diffusione e nel mantenimento di una determinata cultura[44]. Non vanno, peraltro, nemmeno trascurate le difficoltà che tale concetto solleva, sicché, nel momento stesso in cui lo usiamo, siamo consapevoli di ricorrere ad una semplificazione, e ciò almeno per due motivi:
1) in primo luogo, perché all’interno di uno Stato ben possono esservi più culture, di cui è solo quella egemone che riesce ad imporre le sue regole e a farle accettare come “diritto” vigente[45]. Come, infatti, scriveva limpidamente Thorsten Sellin negli anni ’30 del secolo scorso, “il carattere di queste regole [scil.: le leggi penali], la forma o il tipo di condotta che esse proibiscono, la natura della sanzione comminata per la loro violazione, etc., dipendono dal carattere e dagli interessi di quei gruppi della popolazione che influenzano la legislazione. In alcuni Stati questi gruppi possono comprendere la maggioranza, in altri una minoranza, ma i valori sociali che ricevono protezione attraverso la legge penale sono, in definitiva, quelli propri dei gruppi di interesse dominanti”[46];
2) in secondo luogo, ci troviamo di fronte ad una semplificazione perché, in realtà, una cultura “non è qualcosa di monolitico – qualcosa che può funzionare come una variabile semplice in una spiegazione –, bensì un’entità complessa, ricca di significati variamente e profondamente interrelati, che perde ogni ricchezza e il valore dei suoi contenuti ogni volta che è discussa in termini generici”[47].
Pur consapevoli delle difficoltà connesse al concetto di “cultura di uno Stato”, nelle pagine seguenti continueremo ad usare tale locuzione anche perché, almeno con riferimento alla situazione italiana, non sembra che tali difficoltà siano tali da inficiare la logica del discorso nel suo complesso: in effetti, quando la principale legge penale italiana, cioè il codice Rocco, venne elaborata, la cultura diffusa all’interno dello Stato italiano era decisamente più omogenea di quanto lo sia oggigiorno[48], o per lo meno tale la riteneva il legislatore dell’epoca, peccando indubbiamente di una certa approssimazione ‘per eccesso’.
Assai istruttiva, a tal proposito, può risultare la lettura di alcune pagine della Relazione del Guardasigilli Alfredo Rocco sul codice penale. Nelle prime pagine di tale Relazione, il Guardasigilli illustra, infatti, la concezione di Stato che aveva ispirato i compilatori del codice e, dopo aver parlato dello Stato quale organismo economicosociale, e quale organismo politico e giuridico, passa a considerare lo Stato quale organismo etico-religioso. Se riguardato in tale sua qualità, scrive Rocco, “lo Stato ci appare come la Nazione medesima, in esso organizzata, cioè come un’unità non solo sociale, ma altresì etnica, legata da vincoli di razza, di lingua, di costume, di tradizioni storiche, di moralità, di religione, e vivente, quindi, non di puri bisogni materiali o economici, ma anche, e sovratutto, di bisogni psicologici o spirituali, siano essi intellettuali o morali o religiosi”[49].
Questa visione dell’“unità culturale” dell’Italia riaffiora, in modo particolarmente evidente, là dove la Relazione illustra alcuni reati particolarmente sensibili a valori culturali:
- così, a proposito dei delitti in tema di religione (artt. 402-406 c.p.), il Guardasigilli afferma che la “Religione Cattolica Apostolica Romana” sarebbe “propria della quasi totalità della popolazione italiana”, sì da giustificare “una preminenza sugli altri culti” anche in sede di disciplina penale[50];
- ed a proposito “dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe” (artt. 545-555 c.p.), il Guardasigilli osserva che “la principale ragion d’essere” di tali incriminazioni “trovasi nella offesa all’interesse che la nazione, come unità etnica, ha di difendere la continuità e la integrità della stirpe”[51].
La società italiana presa in considerazione dal legislatore del codice Rocco era, quindi, una società caratterizzata, dal punto di vista culturale, da una matrice ampiamente omogenea; e sostanzialmente tale è rimasta anche nei decenni successivi[52]. A lungo, nel nostro Paese le uniche minoranze ‘visibili’ sono state costituite dagli ebrei e dagli appartenenti a qualche altra confessione religiosa, pur sempre cristiana, nonché dalle minoranze linguistiche, dislocate soprattutto nelle zone di confine: ‘poca cosa’ (ci si passi l’espressione) rispetto alla situazione dirompente che si è, invece, creata negli ultimi decenni per effetto dei flussi migratori, che hanno portato all’interno dei nostri confini soggetti appartenenti anche a culture significativamente distanti dalla nostra (si pensi, soprattutto, alla nuova immigrazione, africana ed asiatica, maggioritariamente islamica)[53].
a) Cultura e diritto.
Dell’esistenza di un forte, intenso legame tra cultura e diritto, la dottrina europea è pienamente consapevole – dopo le prime intuizioni formulate a tal proposito da Montesquieu[54] – quanto meno a partire dai primi decenni dell’Ottocento, allorché “con la nascita del romanticismo, la Scuola storica (con partenza da Savigny) insegna a ricollegare il diritto alla specifica cultura dei singoli popoli” [55]. Fu Savigny, infatti, a sottolineare la naturale dipendenza del diritto dai costumi e dallo spirito di ciascun popolo[56].
L’opera di disvelamento del legame tra cultura e diritto, proseguita per tutto l’Ottocento, si è poi completata e perfezionata nei primi decenni del Novecento[57], anche grazie ai contributi della filosofia della cultura, e ha trovato icastica e definitiva espressione nella formula divulgata da Radbruch, secondo cui “Recht ist Kulturerscheinung”[58]: il diritto è una manifestazione, un fenomeno della cultura[59].
b) Cultura e diritto penale.
Anche con specifico riguardo al diritto penale, la dottrina ha sottolineato l’esistenza di un forte legame tra cultura e diritto e, in particolare, la capacità della prima di plasmare, di influenzare il secondo[60].
Così, tra gli storici del diritto, Ugo Spirito scrive che il codice penale “è un po’ il codice morale di una nazione e vale a caratterizzare la fisionomia spirituale di essa”[61], mentre tra i filosofi Höffe osserva che “il diritto penale è legato, fin nei suoi dettagli (in den Feinheiten), in modo particolarmente stretto alla tradizione e ai valori vissuti consapevolmente in una determinata società (‘Wertbewusstsein’ einer Gesellschaft)”[62].
In termini ancora più stringenti si esprimono i criminologi: in Italia, Gian Luigi Ponti afferma che “la norma penale è (…) una delle espressioni più esplicite dei valori prevalenti in una certa area culturale”[63] e, oltre Oceano, David Garland afferma che la “penalità” potrebbe essere definita “come un «prodotto» culturale che incarna ed esprime le forme culturali della società”[64].
Tali opinioni sono, infine, ampiamente condivise dalla dottrina penalistica, italiana ed europea, che così si esprime:
- “il diritto penale è caratteristica espressione della «fisionomia» di una società in un determinato momento della sua evoluzione storica e culturale”, e, quindi, riprendendo il ‘motto’ di Radbruch, si può affermare che “il diritto penale è cultura”: ed invero “poche discipline giuridiche sono, come il diritto penale, permeate del contenuto proprio alle concezioni dominanti, di quel complesso cioè di elementi che determinano l’«atmosfera culturale» del momento storico nel quale la norma viene alla luce”[65];
- il diritto penale è “il ramo del diritto (…) nel quale si esprimono le fondamentali scelte di valore costituenti il nocciolo duro dell’identità nazionale”[66];
- il diritto penale costituisce “lo specchio in negativo dei valori e dei principi di una data società” [67];
- similmente, con specifico riferimento al catalogo dei reati, si è rilevato che “la parte speciale di un codice penale rappresenta – sia pur con qualche margine di approssimazione – uno «specchio» dei costumi e delle norme di cultura di un popolo in un dato momento storico”[68].
A questo punto il nostro obiettivo consiste, pertanto, nel verificare l’effettiva esistenza e portata del legame tra cultura e diritto penale, chiedendoci se esistano, ed eventualmente quali siano i nessi tra cultura e diritto penale, e in quali settori e sotto quali punti di vista essi emergano.
Per raggiungere tale obiettivo, pare opportuno prendere le mosse dalle principali teorie che sono state formulate per descrivere, sotto il profilo contenutistico, i rapporti tra diritto penale e cultura, o, per lo meno, tra diritto penale e un determinato settore della cultura: la morale[69], [70].
Tali teorie sono sostanzialmente tre[71]:
1) una prima teoria che afferma la piena ed assoluta coincidenza delle norme del diritto penale con le Kulturnormen (v. infra, 2.3.1, anche per la definizione del concetto di Kulturnormen).
Tale teoria potrebbe essere raffigurata graficamente con l’immagine di due cerchi concentrici, il primo, più ampio, rappresentante le Kulturnormen, ed il secondo, più piccolo e pertanto interamente ricompreso nel primo, rappresentante le norme penali:
Una variante di tale teoria, ad essa sostanzialmente riconducibile, è la teoria del c.d. minimo etico (v. infra, 2.3.1.1), la quale afferma la piena ed assoluta coincidenza delle norme del diritto penale con un sottogruppo delle Kulturnormen: le norme morali.
Anche per tale teoria, assurta a grande notorietà in Italia grazie a Manzini, la rappresentazione grafica è quella di due cerchi concentrici, ove il cerchio delle norme penali è più piccolo ed interamente ricompreso nel cerchio delle norme morali;
2) una seconda teoria che, collocandosi in posizione diametralmente opposta alla precedente, sostiene la piena ed assoluta separazione tra le norme del diritto penale e le Kulturnormen, negando, quindi, la possibilità che le seconde possano in qualche modo contribuire a delineare il contenuto e la fisionomia delle prime (v. infra, 2.3.2).
Tale teoria potrebbe essere rappresentata graficamente con l’immagine di due cerchi autonomi e distinti, le cui circonferenze solo in alcuni punti, e solo casualmente, potrebbero avvicinarsi fino a toccarsi:
3) una terza teoria, infine, intermedia tra le due precedenti, che afferma l’esistenza di un rapporto di reciproca implicazione tra le norme penali e le Kulturnormen (v. infra, 2.3.3).
Questa terza teoria potrebbe essere rappresentata graficamente con l’immagine di due cerchi, il ‘cerchio’ delle norme penali ed il ‘cerchio’ delle Kulturnormen, le cui circonferenze si intersecano:
a) Esposizione della teoria.
Il principale sostenitore della teoria della coincidenza delle norme penali con le Kulturnormen è Max Ernst Mayer, autore, nel 1903, di una monografia suggestivamente intitolata Rechtsnormen und Kulturnormen, nella quale, fin dalle prime pagine, viene enunciata la tesi fondamentale di tutto il libro, più volte ribadita nelle pagine successive:
“le norme giuridiche coincidono con norme di civiltà (die Rechtsnormen übereinstimmen mit Kulturnormen)” [72], [73].
L’opera di Mayer riveste un’importanza fondamentale ai fini della nostra indagine sulla ‘non neutralità culturale’ del diritto penale, almeno per due motivi:
- perché essa ha stimolato un ampio e fecondo dibattito, rivolto ad approfondire e chiarire i rapporti tra diritto penale e Kulturnormen;
- perché Mayer sceglie consapevolmente di allargare il campo di indagine, estendendo la sua analisi al complesso di tutte le Kulturnormen[74], mentre – sia prima che dopo di lui – il dibattito dottrinale si è in prevalenza incentrato su una sola categoria di Kulturnormen, le norme morali che, pur costituendone una componente essenziale, certo non esauriscono il complesso delle Kulturnormen[75].
Con l’espressione Kulturnormen, Mayer intende indicare “l’insieme di quei comandi e divieti, che si rivolgono all’individuo in quanto comandi e divieti religiosi, morali, convenzionali, in quanto esigenze imposte dai rapporti sociali e dalla vita professionale” [76]. La Kulturnorm è, infatti, “la forma in cui la cultura, o la società quale creatrice della cultura, impone le sue pretese all’interno della comunità”[77].
Le suddette Kulturnormen, secondo Mayer, possono raggiungere l’individuo attraverso i canali più vari: “la tradizione culturale che in ogni popolo viene trasmessa di generazione in generazione, segue mille vie. Se ci limitiamo a richiamare l’educazione a scuola o in famiglia, la partecipazione alla vita religiosa e pubblica, la disciplina ricevuta durante il periodo del servizio militare o durante la formazione professionale, possiamo solo fare uno schizzo grossolano di un processo infinitamente più sottile (fein). Non è possibile controllare la tradizione culturale nei suoi dettagli: come l’aria essa penetra dappertutto”[78].
Per una migliore comprensione del concetto mayeriano di Kulturnormen possiamo, peraltro, giovarci anche della definizione di Kultur fornita dallo stesso Mayer in alcuni lavori successivi: “cultura significa cura (Pflege), educazione (Ausbildung). L’oggetto della cura è costituito – nel senso consueto, ampio della parola – da tutto l’insieme dell’attività umana (das gesamte Gebiet menschlicher Tätigkeit) (…); la cultura è opera dell’uomo (Menschenwerk) e si contrappone alla natura (steht im Gegensatz zur Natur)”[79], con l’ulteriore, preziosa precisazione che “sono soprattutto le Nazioni a formare ambiti culturali (Kulturkreise). Inseparabilmente connessa con l’essenza stessa della Nazione vi è, infatti, la capacità di creare una cultura strutturata (ausgeprägte Kultur), in quanto i destini della storia, che portano avanti la Nazione, sviluppano anche la sua cultura”[80].
Mayer ritiene di poter dimostrare l’asserita coincidenza delle norme giuridiche con le Kulturnormen partendo da una ricostruzione in chiave storica dei rapporti tra diritto e cultura, giacché, a suo avviso, “religione, morale e diritto nell’età primordiale dei popoli (Kindheitsalter der Völker) non si differenziano, ma si trovano, indivise, nello spirito dell’epoca (in dem Geist der Zeit), al pari di come esse anche oggi costituiscono un tutt’uno nell’animo di un bambino o degli ingenui. Originariamente Kulturnormen e norme giuridiche non solo coincidono, originariamente sono identiche. Gradualmente, tuttavia, il popolo o la tribù cessa di costituire l’unica unità sociale, la società si frantuma in più società, sorgono sempre più nuovi interessi e comunità di interessi (…) e così da un unico ordinamento si separano nuovi ordinamenti. In questo processo di separazione le norme giuridiche si staccano da quelle regole di comportamento che rientrano nell’ordinamento religioso, in quello morale e in quello convenzionale. Ma un ordinamento non si distingue dagli altri per un particolare contenuto: come si potrebbe immaginare che una qualsiasi epoca istituisca un ordinamento giuridico che non corrisponde alla sua cultura!”[81]. Senonché, prosegue Mayer, “in questo processo di separazione il diritto non ha acquisito nuovi contenuti, bensì una propria forma e una propria garanzia”, impostegli dal fatto che il “simbolo” dell’ordinamento giuridico è la “spada”, ed il suo “nome” è “obbligo esterno”[82].
Per esemplificare tale evoluzione e i suoi effetti sulla situazione degli ordinamenti giuridici contemporanei, Mayer ritiene di poter richiamare il decalogo di Mosè: “ogni tedesco conosce i dieci comandamenti. Nondimeno il numero delle leggi, che sono vincolanti per colui che conosce il decalogo, è praticamente incalcolabile”, giacché il contenuto dei dieci comandamenti si sarebbe via via trasfuso in una pluralità di norme giuridiche[83].
Ed ecco la conclusione cui Mayer giunge: anche in epoca moderna “non vi è nessuna condotta che lo Stato vieta, senza che prima di lui non l’abbia già vietata la cultura”[84], giacché “la Kulturnorm costituisce il materiale, con il quale il legislatore costruisce (macht) la norma giuridica”[85].
In Italia, una convinta adesione alla teoria di Mayer è stata espressa da Bettiol, secondo il quale “il diritto penale è tutto nelle norme di civiltà (per usare l’espressione di M.E. Mayer), attraverso le quali gli arriva l’ossigeno vitale” [86]. In tempi più recenti, aderisce esplicitamente a tale teoria anche Cadoppi, ad avviso del quale “se una norma penale punisce un comportamento che non è ritenuto «criminoso» dalle Kulturnormen, allora una tale norma penale è inaccettabile, e va espunta dal sistema dei delitti e delle pene”[87].
b) Critica della teoria.
La teoria della piena ed assoluta coincidenza delle norme giuridiche con le Kulturnormen non può essere accolta.
Trattasi di una teoria “arbitraria”[88], che ha attirato su di sé fondate critiche[89], anche da parte di attenta dottrina italiana[90].
Peraltro, gli argomenti più decisivi per confutare la teoria della “coincidenza” ci vengono offerti, a ben vedere, dallo stesso Mayer. Basta, infatti, proseguire la lettura della sua monografia dopo le prime pagine (cosa che forse solo pochi dei suoi molti critici hanno fatto), per accorgersi che la costruzione della “coincidenza” è in realtà destinata a sgretolarsi e a cadere in pezzi, sicché di tale costruzione, che all’inizio si presentava solida e monolitica, a fine lettura non rimane che la sola facciata o poco più:
1) un primo colpo viene inferto da Mayer alla propria costruzione laddove egli rileva che lo Stato, oltre a recepire la cultura, ha anche “il compito di favorire lo sviluppo della cultura (Kulturentwicklung) attraverso il suo ordinamento giuridico; il diritto deve atteggiarsi, nei confronti della cultura, non solo in termini recettivi, ma anche produttivi. Accade, pertanto, inevitabilmente che vengano emanate leggi che impongono all’individuo nuovi obblighi, dai quali sorgono pretese che possono essere conosciute solo sulla base della legge”[91]; e se si tratta di “buone” leggi, prosegue Mayer, questi nuovi obblighi verranno presto recepiti dalla cultura, entrando nel tessuto vivo di essa, così contribuendo al suo sviluppo[92]. È, pertanto, presumibile, conclude Mayer, che “l’ordinamento giuridico contenga pretese, che la cultura non conosce (die Rechtsordnung enthält Forderungen, die die Kultur nicht kennt)”[93].
È agevole constatare che con queste affermazioni Mayer finisce per ammettere esplicitamente che vi possano essere norme giuridiche che, almeno al momento della loro emanazione, non rispecchiano il contenuto di alcuna preesistente Kulturnorm.
2) Il secondo colpo inferto da Mayer alla propria costruzione consiste nel riconoscimento che vi possono essere leggi – e si tratta in questo caso di “cattive” leggi – che non solo non coincidono con norme di cultura al momento della loro emanazione, ma che nemmeno in un momento successivo riescono ad inserirsi nel tessuto vivo della cultura, in quanto fin dall’origine sono da essa troppo distanti[94]; nonché altre leggi – anch’esse “cattive” – che pur coincidendo, al momento della loro emanazione, con altrettante norme di cultura, vengono superate dal successivo sviluppo della cultura, sicché “ormai diritto e cultura si contraddicono (Recht und Kultur widersprechen sich)”[95].
Anche con queste affermazioni Mayer riconosce l’esistenza di ulteriori norme giuridiche le quali – per un vizio d’origine o per un difetto sopravvenuto – non coincidono con le Kulturnormen. Anzi, in proposito Mayer è assolutamente esplicito: “abbiamo constatato che vi sono norme giuridiche, il cui contenuto non coincide con la cultura (deren Inhalt nicht mit der Kultur übereinstimmt)”[96].
3) Infine, il terzo colpo sotto il quale si frantuma irreparabilmente la costruzione della “coincidenza delle norme giuridiche con norme di civiltà”, Mayer lo infligge laddove riconosce l’esistenza di un terzo gruppo di norme giuridiche che “non coincidono con le Kulturnormen. Si tratta di norme giuridiche, la cui materia non è affatto toccata dalla cultura (…); esse non sono in contrasto, ma nemmeno coincidono con norme culturali”, perché “il loro contenuto è culturalmente indifferente (kulturell indifferent)”[97]. Sono le norme del “diritto penale di polizia (Polizeistrafrecht)” o, come Mayer preferisce definirlo, del “diritto penale amministrativo (Verwaltungsstrafrecht)”[98], alla cui individuazione ed illustrazione egli dedica il penultimo capitolo della sua monografia, intitolato Justiz- und Verwaltungs-Strafrecht[99]. Accanto, quindi, ad uno Justizstrafrecht, composto dalle norme giuridico-penali che coincidono con le norme culturali, Mayer riconosce la presenza di un Verwaltungsstrafrecht, composto da un cospicuo[100] gruppo di norme giuridico-penali che impongono ai cittadini obblighi “culturalmente indifferenti”: infatti, scrive Mayer, “chi rispetta scrupolosamente tutti gli obblighi impostigli dalla tradizione culturale, non ha ancora adempiuto tutti gli obblighi che egli ha nei confronti dello Stato. Questi obblighi (…) non risultano né dalla morale o dall’etica, né dai comandamenti derivanti da altre componenti della cultura: essi sono culturalmente indifferenti. Le norme giuridiche che fanno sorgere tali obblighi, non contrastano né coincidono con Kulturnormen, perché la cultura non tocca assolutamente la loro materia” [101], [102].
Ebbene: quantunque Mayer formuli l’auspicio che le norme del diritto penale di giustizia e le norme del diritto penale amministrativo siano sottoposte, de iure condendo, a regole di parte generale differenti (in particolare per quanto attiene alla colpevolezza e alla disciplina dell’ignoranza del divieto)[103], tale auspicio certo non basta per nascondere un’evidenza che, de iure condito, è ormai sotto gli occhi del lettore: l’inesorabile sgretolamento della costruzione della “coincidenza” delle norme giuridiche con le Kulturnormen, che non può in nessun modo essere sostenuta[104] – nemmeno da chi l’ha tanto enfaticamente enunciata – in relazione a tutte le norme dell’ordinamento giuridico penale, bensì, tutt’al più, solo in relazione ad una parte di esse[105].
Del resto è probabile – e se ne ha conferma in successivi lavori di Mayer – che la formula della “coincidenza delle norme giuridiche con le Kulturnormen” sia stata utilizzata dal nostro Autore più per lanciare un seducente ed efficace slogan di politica criminale, valido de iure condendo, che per fotografare un determinato ordinamento giuridico vigente. Mayer, dottore in filosofia e in diritto, quando afferma la “coincidenza” fa, quindi, parlare il filosofo che c’è in lui, ma poi nel ricostruire ed analizzare l’ordinamento giuridico-penale vigente deve inevitabilmente ridare la parola al giurista, che non può non constatare che solo una parte delle norme giuridico-penali può coincidere con le Kulturnormen[106].
La teoria della “coincidenza” non può, quindi, essere sostenuta. Chi pretendesse di affermare tale coincidenza come piena ed assoluta, finirebbe, infatti, per scontrarsi inevitabilmente – almeno nelle società occidentali contemporanee – con la realtà degli ordinamenti giuridici vigenti[107], i quali presentano, come fin da subito aveva limpidamente rilevato Beling a critica della teoria di Mayer, il seguente tratto caratteristico:
se si guarda al diritto vigente “non vi è dubbio che né il reato coincide con il fatto contrario alla cultura (mit der kulturwidrigen Tat), né il non-reato coincide con il fatto non contrario alla cultura (mit der nicht kulturwidrigen Tat)”; e chi sostiene la tesi opposta cade in un “quid pro quo: confonde l’ideale legislativo (gesetzgeberisches Ideal) con la realtà del prodotto legislativo (gesetzgeberisches Produkt)”[108]. Pertanto – aggiunge ancora Beling – chi pretende che il reato incarni “una lesione del costume, della morale, della religione, della cultura”, finisce per “ricacciare indietro in modo pauroso un progresso di secoli, che ha felicemente portato ad una differenziazione delle diverse forze della vita (…). Certo, è bello quando il diritto si mette in armonia con gli altri Regulatoren della vita. Ma se non lo fa, da un lato alla forza giuridica delle sue proposizioni non viene tolta nemmeno una virgola, dall’altro le proposizioni del costume etc. che vanno al di là di quanto previsto dal diritto sono, per l’appunto, proposizioni extragiuridiche (…). Il diritto, in ogni caso, è forte abbastanza per poter fare a meno di deboli prestiti (schwächliche Anleihen) da parte della morale e simili”[109].
a) Esposizione della teoria.
Come anticipato, alla teoria della “coincidenza” à la Mayer può essere sostanzialmente ricondotta, quale sua variante, anche la teoria c.d. del minimo etico, la quale a sua volta sostiene la coincidenza delle norme del diritto penale con un sottogruppo di Kulturnormen: le norme morali.
Secondo tale teoria, formulata originariamente in Germania da Jellinek[110] “i comandi ed i divieti posti dal diritto penale sono derivati direttamente dall’etica e considerati solo un settore dell’ampio complesso di norme in cui essa si articola”, sicché “il diritto – e soprattutto il diritto penale – serve a garantire un «minimo etico». Il presupposto è, insomma, che il diritto penale reprime comportamenti contrari alla morale, anche se solo quando essi superano un certo grado di riprovevolezza etica”[111].
In Italia, tale teoria è stata autorevolmente accolta da Manzini, il quale, seguendo le orme di Jellinek, ritiene che “il diritto in genere, considerato in relazione alla morale, si presenta come il minimo etico necessario e sufficiente per la sicura e ordinata convivenza sociale, in un determinato momento storico, e presso un dato popolo o gruppo di popoli”[112]. In particolare, Manzini, nel declinare la teoria del minimo etico con specifico riferimento al diritto penale, rileva che “il diritto penale, considerato nella sua essenza caratteristica, è il complesso di quelle norme etico-giuridiche, che sono ritenute, in un determinato momento storico e presso un dato popolo, come assolutamente indispensabili al mantenimento dell’ordine politicosociale, e che perciò vengono imposte dalla Stato mediante la sanzione più grave (pena)”[113]: ecco, allora, che “il diritto penale, di fronte agli altri ordinamenti giuridici e sotto l’aspetto morale, si presenta come il minimo della quantità etica ritenuta indispensabile e sufficiente per mantenere le condizioni necessarie ad una determinata organizzazione politico-sociale (minimo del minimo)”[114].
Posizioni ancor più spinte di quella del “minimo etico” (per la loro radicalità criticate dallo stesso Manzini[115]), sono state poi sostenute dalla dottrina c.d. unificatrice, secondo la quale il diritto penale non sarebbe altro, secondo la formula coniata da Maggiore, che la morale stessa “cristallizzata in un suo momento” [116].
b) Critica della teoria.
Da quanto sopra esposto, risulta chiaro che anche per i sostenitori della teoria del minimo etico, al pari di quanto affermato da Mayer, il contenuto delle norme penali non è autonomo ed originario, bensì deriva da un altro corpo di norme, e segnatamente da quelle particolari norme di cultura che vengono indicate con il termine di norme morali. Le critiche rivolte alla teoria di Mayer possono, pertanto, essere estese anche alla teoria del minimo etico (v. supra, 2.3.1, lett. b).
In particolare, in replica a quanti pretendano di identificare il diritto penale con la morale o con una sua parte, stabilendo un rapporto di derivazione necessaria del primo dalla seconda, vale la pena ricordare quanto affermava Binding oltre cent’anni fa: “poiché sono diversi i presupposti dei due sistemi [diritto e morale], devono esserci azioni conformi al diritto che possono essere gravemente immorali, e azioni contrarie al diritto che possono essere morali”[117].
L’autonomia del diritto penale dalla morale è oggi sostenuta dalla dottrina assolutamente maggioritaria, come risulta dalle conclusioni ampiamente coincidenti cui giungono, pur percorrendo itinerari differenti, due tra i massimi esponenti della scienza penalistica contemporanea, rispettivamente, italiana e tedesca:
- “è oggi generalmente riconosciuto che nello Stato secolarizzato, proteso a obiettivi terrestri, l’immoralità del comportamento non è ragione sufficiente di una reazione punitiva”[118];
- “il richiamo a presupposti etici non è un argomento di per sé sufficiente per l’intervento del diritto penale”[119].
In Italia, tra i molti che hanno recepito la lezione di Binding, si può ancora ricordare la chiara posizione di Marinucci e Dolcini, secondo i quali “esistono comportamenti penalmente irrilevanti che nondimeno sono considerati dalla stragrande maggioranza dei consociati gravemente immorali, e, per converso, comportamenti penalmente rilevanti a dispetto della loro minima o inesistente risonanza etico-sociale, o, addirittura, incriminazioni che contrastano con i più elementari principi etici di una determinata società”[120].
Tali affermazioni trovano puntuale conferma in una pluralità di esempi, tratti dalla realtà dei vari ordinamenti giuridici:
- per il primo gruppo di fatti – quello costituito dai “comportamenti penalmente irrilevanti che nondimeno sono considerati dalla stragrande maggioranza dei consociati gravemente immorali” – si pensi, ad esempio, all’adulterio, allo scambio di partners tra coniugi, al sesso di gruppo[121];
- per il secondo gruppo di fatti – quello dei “comportamenti penalmente rilevanti a dispetto della loro minima o inesistente risonanza etico-sociale” – vari esempi ci potrebbero essere forniti, oltre che dalle scivolose figure dei reati dei colletti bianchi[122], dalle norme che incriminano il gioco d’azzardo o talune violazioni al codice della strada[123], nonché, almeno secondo una certa opinione, dai reati punibili a titolo di colpa[124], soprattutto allorché si tratti di colpa incosciente[125];
- infine, per il terzo gruppo di fatti – quello costituito da “incriminazioni che contrastano con i più elementari principi etici di una determinata società” – si pensi alla legge nazista che puniva, anche con la pena di morte, chiunque avesse espresso sentimenti antinazisti[126], alla legge fascista che autorizzava i giudici ad infliggere sanzioni “collettive” alle popolazioni ritenute solidalmente responsabili di fatti individuali[127], nonché alle varie leggi razziali e sull’apartheid[128], [129].
Su posizioni diametralmente opposte rispetto alla teoria della “coincidenza” (e del “minimo etico”), andrebbe a collocarsi chi intendesse sostenere una piena ed assoluta separazione tra il diritto penale e la cultura, tale per cui le Kulturnormen in nessun caso sarebbero in grado di fornire il ‘materiale’, con il quale il legislatore potrebbe poi costruire le norme penali, sicché anche in quei casi in cui uno stesso comportamento fosse riprovato tanto dalle norme culturali quanto dalle norme penali si tratterebbe di un’episodica e casuale coincidenza, e non già dell’esito di uno scambio, meglio, di un travaso di contenuti dalle norme culturali alle norme penali.
In realtà, tuttavia, una separazione, piena ed assoluta, tra Kulturnormen e norme penali, non ci risulta sia mai stata sostenuta.
Non pare, infatti, che possa essere considerata tale la posizione di Levi: vero è che il chiaro Autore, nel citato scritto del 1928, nel criticare radicalmente la teoria di Mayer della “coincidenza”, si spinge ad affermare che il rapporto tra “coscienza popolare” (concetto qui usato da Levi come sinonimo di Kulturnormen) e “diritto penale” in epoca moderna “si fa sempre più indiretto e meno rigoroso fino a giungere ad un netto distacco”[130]. Tuttavia, in quello stesso scritto Levi non solo ritiene che non si possa negare l’esistenza di un “rapporto tra diritto penale e correnti culturali”[131], ma sottolinea altresì che “la moralità media del popolo ha la sua importanza”, quantunque “solo come limite all’attività legislativa”, sicché “non si debbono imporre norme, che troppo si discostino dalla moralità media di coloro che sono chiamati ad osservarle, sia perché esse sarebbero troppo facilmente violate, sia perché ciò può determinare delle reazioni che, come ben dice Massari, «pongono in pericolo l’esistenza dell’aggregato politico»”[132].
La teoria di una separazione piena ed assoluta è stata, invece, talora prospettata con riferimento al più ristretto ambito dei rapporti tra le norme penali e lo specifico sottogruppo delle Kulturnormen costituito dalle norme morali. Ma anche limitandoci al solo campo dei rapporti tra norme penali e norme morali, almeno all’interno della dottrina italiana per trovare qualche sostenitore di una netta separazione tra questi due ordinamenti normativi bisogna risalire a Carmignani e alla sua opera “Teoria delle leggi della sicurezza sociale”, in cui, peraltro, l’illustre criminalista ottocentesco proclamò la separazione tra diritto penale e morale principalmente per reagire ad una certa dottrina a lui coeva che ancora concepiva il diritto penale come una supina ripetizione di precetti morali[133].
Secondo Carmignani, nell’alternativa tra principio morale, che si appella alla coscienza, e principio politico, che, da Macchiavelli in poi, si appella alla scienza politica, “deesi nel principio politico rivendicare alle scienze criminali il loro vero criterio”[134]. Sarebbe, pertanto, “un errore il confondere la morale, e la giustizia tra loro”[135]; ed infatti “che far potrebbe coll’ajuto de’ principj della sola morale lo spirito umano in legislazione? La nozione del delitto qual è necessaria per stabilire la legittimità del rigore, col quale conviene reprimerlo, non può uscire dalle scuole della morale. La nozione delle pene, e delle esecuzioni di giustizia molto meno può uscire da quelle scuole. Il metodo giudiziario per ben conoscere un delinquente, che ha violata la morale colla propria condotta, e più la viola negando audacemente il delitto, che egli ha commesso forse meditando di darsi a nuovi disordini, e per determinare il grado di rigore, col quale debb’essere proceduto contro di lui, non può desumersi dai principj della morale. Molto meno da questi principj può desumersi la cognizione de’ mezzi, co’ quali senza rigori possono essere prevenuti i delitti”[136].
Breve: secondo Carmignani, diritto penale e morale sarebbero “tra loro due cose essenzialmente diverse”, a tal punto che non sarebbe nemmeno necessario “segnare” e “circoscrivere” “i lor rispettivi confini”[137].
Se, tuttavia, si va a vedere l’altra opera fondamentale di Carmignani, gli “Elementi di diritto criminale”, le affermazioni relative alla separazione ed eterogeneità tra diritto penale e morale compaiono notevolmente stemperate, giacché ivi si riconosce che le leggi “precettive dell’autorità umana” – pur essendo leggi “politiche, perché destinate a governar la moltitudine” – comunque “non perdono il loro carattere di morali in quanto sono dirette a dar norma alle sole libere azioni degli uomini”[138], sicché le leggi “che guidano il cittadino (…) sono morali e politiche nel tempo stesso”[139].
Per altro verso, anche il più illustre tra gli allievi di Carmignani, nonché massimo penalista dell’Ottocento – Francesco Carrara – prese le distanze dalla teoria del suo Maestro della “separazione” tra diritto penale e morale, riconoscendo che, “sebbene la legge criminale non debba essere nei suoi precetti una ripetizione della legge morale e religiosa, pure non può a queste leggi avversare”[140]. Né pare che tale teoria abbia avuto, almeno in Italia, ulteriori epigoni[141]. In effetti, chi intendesse oggi sostenere una piena ed assoluta separazione tra norme penali e norme culturali, o anche solo tra norme penali e norme morali, si scontrerebbe con lo stesso, insormontabile ostacolo che impedisce di accogliere anche l’opposta teoria della “coincidenza”: entrambe queste teorie, infatti, nella loro assolutezza non rispecchiano la realtà degli ordinamenti penali vigenti, come risulterà evidente dalle considerazioni che verranno svolte nelle pagine successive a dimostrazione dei plurimi nessi, delle plurime intersecazioni, esistenti tra norme penali e norme culturali (comprese le norme morali).
a) Esposizione della teoria.
Davvero capace di rispecchiare la realtà degli ordinamenti penali vigenti è solo una terza teoria, secondo la quale norme penali e norme culturali (comprensive, queste, anche delle norme morali) – pur costituendo sistemi normativi tra loro autonomi, nettamente distinti quanto ad origine, identità e rispettivi ruoli[142] – nondimeno presentano una serie di reciproche implicazioni o, come è stato felicemente scritto, “zone, anche nevralgiche, di sovrapposizione o interazione”[143].
Questa teoria si colloca in una posizione intermedia tra le due estreme (quella della “coincidenza”, e quella della “separazione”) sopra esaminate. Essa per un verso nega che le norme penali ricalchino necessariamente preesistenti norme culturali, ma, per altro verso, nega, altresì, che tra norme penali e norme culturali ci sia una barriera che ne impedisca qualsiasi contatto e scambio. Questa teoria sostiene, piuttosto, l’esistenza di “un qualche collegamento tra i due diversi ordinamenti normativi, seppur solo in settori limitati e solo secondo alcuni specifici punti di vista”[144]: tra il cerchio delle norme penali ed il cerchio delle norme culturali vi sarebbe, dunque, una zona di non casuale intersecazione[145].
All’interno della dottrina italiana, la presenza di una siffatta zona di intersecazione è stata nitidamente rilevata, in sede di riflessione sui rapporti tra norme penali ed il complesso delle norme culturali, da Pulitanò nel 1976: “autonomia formale dei sistemi normativi [penale e culturale] non significa (…) isolamento del fenomeno giuridico dal contesto (già altrimenti pregno di valori) in cui e per cui il diritto è posto. Se i sistemi penali assumono certi contenuti e non altri, non è per capriccio di legislatori e nemmeno di despoti, ma perché i detentori del potere normativo giuridico hanno sentito l’opportunità di apprestare tutela coattiva a dati assetti di beni od interessi, o a dati valori in qualche modo connessi all’esistente sistema sociale. In questo senso, l’apparato statuale coercitivo non può non essere in relazione – come «sovrastruttura» – con una struttura sociale e culturale storicamente determinata (…). Un sistema come quello penale, con i suoi costi e la sua incidenza spesso drammatica, non sarebbe concepibile al di fuori di uno stretto rapporto dei suoi lineamenti e contenuti fondamentali, con un contesto sociopolitico che li produce e li giustifica” [146].
Più spesso, l’esistenza della predetta zona di intersecazione è stata messa in luce dalla dottrina che ha preso in considerazione il più ristretto ambito dei rapporti tra norme penali e norme morali. In tal senso, pur partendo da presupposti differenti e pur con differenti sfumature, si sono tra gli altri espressi:
- Pedrazzi: “ferma la distinzione degli ambiti e dei piani, il rapporto [tra diritto penale e morale], è più di implicazione che di estraneità. Altro è rifiutare l’equazione delitto-peccato, altro chiudere gli occhi ai potenziali sinergismi che raccomandano i dettami dell’etica sociale all’attenzione del legislatore penale”[147];
- Pagliaro: la relazione tra “ordinamento etico” e “ordinamento giuridico statale” “non è di contenenza, ma di correlazione effettuata attraverso tutta una serie di rinvii, analoghi a quelli che la dottrina, specie di diritto ecclesiastico e internazionale, ha posto in luce tra i diversi ordinamenti giuridici”[148];
- Marinucci e Dolcini: “il rapporto tra diritto penale ed etica sociale non è di coincidenza, ma nemmeno di estraneità: si tratta piuttosto di un complesso e articolato rapporto di implicazione”[149].
b) Dimostrazione del fondamento della teoria: linee della successiva indagine.
La teoria del “rapporto di implicazione”, secondo cui il cerchio delle norme penali si interseca, pur senza coincidere integralmente con esso, con il cerchio delle norme culturali (cerchio all’interno del quale si collocano anche le norme morali), merita accoglimento in quanto trova una serie di riscontri nella realtà degli ordinamenti giuridici vigenti, riscontri i quali emergono – secondo una felice indicazione di Roxin[150] – non appena si osservi il diritto penale da determinati “punti di vista”, e non appena si soffermi lo sguardo su alcuni “settori” del diritto penale.
Seguendo tale indicazione, pertanto, nei seguenti paragrafi procederemo, in primo luogo, ad osservare il diritto penale da determinati “punti di vista”: segnatamente, dai punti di vista della prevenzione generale positiva, della prevenzione speciale intesa come rieducazione, e della possibilità di conoscere la norma penale violata. Tale ‘osservazione’ ci consentirà, infatti, di renderci conto che la presenza di intersecazioni tra norme penali e norme culturali contribuisce ad un maggior ‘successo’ del diritto penale. In altre parole, grazie a tali intersecazioni il sistema penale funziona meglio, aumenta la sua capacità di rendimento, aumenta il suo grado di effettività (v. infra, 2.4 ss.).
Ci soffermeremo, in secondo luogo, su quei “settori” del diritto penale all’interno dei quali è possibile rinvenire significative intersecazioni tra il cerchio delle norme penali ed il cerchio delle norme culturali: si tratta dei settori occupati dalle norme penali che impiegano elementi normativi c.d. culturali, nonché da altre norme penali che, pur senza impiegare elementi normativi culturali, risultano comunque particolarmente ‘impregnate’ di cultura (v. infra, 2.5 ss.).
Un certo grado di consonanza, di sintonia, di intersecazione tra norme penali e norme culturali contribuisce indubbiamente ad un maggior ‘successo’ del sistema penale[151].
In effetti, quando le prescrizioni del diritto penale trovano eco nella coscienza collettiva, nella cultura dei destinatari, aumentano le chances di un loro effettivo rispetto da parte di questi, mentre solo un ordinamento penale votato al suicidio si disinteressa completamente di quelle che sono le valutazioni culturali diffuse tra i destinatari delle sue norme[152].
In tempi diversi e partendo da presupposti differenti, questa ‘ovvietà’, pur con terminologia varia, è stata ad esempio rilevata da:
- Beccaria, il quale bollava come “inutili e per conseguenza dannose tutte le leggi che si oppongono ai naturali sentimenti dell’uomo. Accade ad esse ciò che agli argini opposti direttamente al corso di un fiume: o sono immediatamente abbattuti e soverchiati, o un vortice formato da loro stessi gli corrode e gli mina sensibilmente” [153]
- da Mayer, il quale non dubitava del fatto che “una legge estranea alla cultura (ein kulturfremdes Gesetz) non può durare a lungo” [154];
- da Levi, che, pur opponendosi strenuamente alla teoria della “coincidenza” di Mayer, tuttavia a sua volta riconosceva che “non si debbono imporre norme, che troppo si discostino dalla moralità media di coloro che sono chiamati ad osservarle, sia perché esse sarebbero troppo facilmente violate, sia perché ciò può determinare delle reazioni che (…) pongono in pericolo l’esistenza dell’aggregato politico” [155];
- da Antolisei, il quale avvertiva che “quando il legislatore si mette troppo in contrasto con le esigenze della coscienza etica del popolo, le norme di legge finiscono spesso col restare lettera morta” [156];
- da Hassemer, secondo il quale “il diritto penale non deve – né può – allontanarsi troppo dai modelli di comportamento dettati da una certa cultura, anche quando li ritenga irrazionali (…). Una politica criminale troppo in anticipo rispetto al momento storico perde ogni collegamento col suo tempo e diventa a sua volta irrazionale, lontana dalla realtà, pericolosa” [157];
- infine, in anni recenti, da Marinucci e Dolcini, i quali hanno rilevato che “norme penali che confliggano con i giudizi di valore dominanti nella società saranno (…) votate all’inefficacia. Divieti di comportamenti
socialmente approvati o comandi di comportamenti socialmente disapprovati non riusciranno a legittimarsi agli occhi dei destinatari”[158].
Come anticipato, che le intersecazioni tra diritto penale e cultura contribuiscano al ‘successo’ del primo, può essere dimostrato procedendo ad una osservazione del diritto penale da tre punti di vista:
1) quello della prevenzione generale c.d. positiva;
2) quello della prevenzione speciale intesa come rieducazione;
3) quello della possibilità di conoscere la norma penale violata.
Un quarto punto di vista potrebbe essere costituito – ma si tratta di questione altamente controversa che, pertanto, preferiamo non approfondire nella presente sede per non allontanarci troppo dall’obiettivo della nostra indagine – dalla colpevolezza, quale elemento fondante la pena e la sua misura, qualora la si volesse intendere come colpevolezza materiale[159], e, in particolare, “come colpevolezza morale: quale libera e responsabile risoluzione volontaria contro un dovere morale riconosciuto”[160]. Una colpevolezza così intesa, infatti, dovrebbe necessariamente ‘nutrirsi’ delle valutazioni morali diffuse tra i consociati per verificare se nei confronti dell’autore del fatto di reato possa essere mosso un rimprovero, per l’appunto, di ordine morale[161].
Per prevenzione generale positiva si intende la funzione pedagogica, di orientamento culturale, che può essere svolta dalla minaccia della pena. La pena minacciata, oltre che intimidire, potrebbe infatti servire anche a favorire e stabilizzare l’identificazione della maggioranza con il sistema dei valori protetto dall’ordinamento giuridico[162].
Se, pertanto, si osserva un sistema penale dal punto di vista della prevenzione generale positiva, risulta incontestabile che quanto più le prescrizioni penali affondano le loro radici nella coscienza collettiva, nella cultura dei destinatari, tanto più risultano idonee ad esplicare una siffatta funzione di orientamento culturale[163]: in effetti, “solo norme penali che rispecchino le norme etico-sociali dominanti non appariranno arbitrarie e vessatorie e potranno perciò aspirare ad orientare con il massimo di efficacia i comportamenti dei destinatari” [164]. Per contro, come ha scritto un autorevole studioso delle problematiche della prevenzione generale, “l’applicazione di divieti sentiti come illegittimi da ampi settori della collettività può provocare rabbia, risentimento e reazioni violente, anziché l’adeguamento desiderato” [165].
Un sistema penale che intenda puntare (anche) sulla prevenzione generale positiva, non può, quindi, prescindere dalla necessità di assicurare “un raccordo della sanzione ai giudizi dominanti nella società” [166], giacché “il grado di adesione morale [rectius, culturale] alle norme penali ed ai valori che esse tutelano è un importante fattore che nelle società democratiche e pluralistiche condiziona la commissione di reati” [167].
Ciò non implica – si badi – che ogni singola norma penale debba necessariamente corrispondere ad una preesistente norma culturale, perché altrimenti si ritornerebbe all’insostenibile teoria della “coincidenza” à la Mayer. Significa, piuttosto, che il diritto penale, nel suo complesso, non deve collocarsi troppo distante dalle valutazioni culturali dei suoi destinatari. Ben potranno esserci norme penali che contrastano con tali valutazioni e che, anzi, sono state emanate proprio per correggere tali valutazioni e modificare l’atteggiamento diffuso presso i consociati[168]. Come pure ben potranno esserci norme penali emanate in ambiti ‘culturalmente indifferenti’, rispetto ai quali, cioè, la cultura non ha ancora elaborato, né mai forse elaborerà, norme di comportamento[169]. Ma un diritto penale composto esclusivamente o prevalentemente di precetti totalmente estranei, o addirittura confliggenti con le valutazioni culturali diffuse tra i suoi destinatari, sortirebbe un effetto di rigetto, di repulsione, da parte del corpo sociale nel quale si pretendesse di innestarlo.
Se, invece, il sistema penale nel suo complesso è vicino alle valutazioni culturali dei consociati cui è rivolto, allora anche quelle singole norme, che con tali valutazioni confliggono, potranno più agevolmente penetrare e stabilizzarsi nel corpo sociale, allo stesso modo in cui una medicina amara, se diluita in molta acqua zuccherata, viene assunta di buon grado, quasi inavvertitamente, ma una volta ingerita è capace di produrre tutti i suoi effetti benefici.
Il ‘successo’ della funzione di prevenzione generale positiva, pertanto, è subordinato alla condizione che “esista una tendenziale convergenza tra disapprovazione ‘sociale’ e disapprovazione ‘legale’”, mentre tale funzione “si indebolisce, laddove risulti insufficiente o incerta la stigmatizzazione del comportamento nella morale collettiva”[170].
Breve: come rilevava nitidamente Pedrazzi, solo “una legge penale che affonda le radici nella coscienza sociale può ambire nel tempo a plasmarla”[171].
Anche la prevenzione speciale, al pari della prevenzione generale, può operare, come è noto, con più modalità: l’intimidazione individuale, la neutralizzazione (o incapacitazione), e la rieducazione (o risocializzazione)[172].
Per quanto riguarda, in particolare, quest’ultima modalità, è pacifico, per un verso, che in un sistema penale moderno, laico e secolarizzato, “rieducazione” significa, principalmente, “sensibilizzazione ai valori consacrati dall’ordinamento”[173], implicando il conferimento all’individuo della “capacità di adeguarsi al minimo etico giuridico-sociale, così da rendere favorevole la prognosi di un suo reinserimento nella società”[174]. Si sottolinea, per altro verso, che la rieducazione, per risultare fattibile ed efficace, presuppone una disponibilità psicologica di base del condannato a ‘lasciarsi’ rieducare[175].
Ecco, quindi, che se si osserva un sistema penale dal punto di vista della prevenzione speciale intesa come rieducazione, risulta, ancora una volta, indubbio che quanto più i “valori consacrati dall’ordinamento” (attraverso la ‘sanzione’ della pena) si mostrano in sintonia con le valutazioni culturali diffuse tra i destinatari delle norme penali, tanto più l’opera di “sensibilizzazione” a tali valori sarà agevole e capillare, e tanto più aumenterà la probabilità che la pena inflitta “potrà essere compresa dal condannato, contribuendo a distoglierlo dalla commissione di ulteriori reati”[176].
Un diritto penale che presta orecchio alle norme culturali crea, pertanto, i presupposti per il ‘successo’ della prevenzione speciale sub specie di rieducazione del condannato. Per contro, un diritto penale sordo a tali norme culturali rischia di rivelarsi inetto ad attuare qualsiasi opera di rieducazione nei confronti dei suoi destinatari, giacché “una pena subita come ingiusta (…) non può aspirare a una funzione rieducativa: è anzi fomite di ribellione”[177], e preclude la indispensabile disponibilità psicologica del condannato alla sua rieducazione.
Esattamente, pertanto, è stato rilevato che nella prospettiva di un’efficace ed effettiva rieducazione del condannato, “il radicamento del diritto, e segnatamente del diritto penale, nell’ordinamento etico [rectius, culturale], costituisce il problema fondamentale”[178].
Vale, naturalmente, anche a proposito della prevenzione speciale intesa come rieducazione, quanto sopra osservato in relazione alla prevenzione generale positiva: la ‘sintonia’ tra norme penali e norme culturali non va ricercata in ogni singola norma penale, quanto piuttosto nel diritto penale nel suo complesso[179].
Vi è, infine, un terzo punto di vista, osservando dal quale un ordinamento penale è agevole rendersi conto dell’importanza del contributo offerto dalla presenza di intersecazioni tra norme penali e norme culturali al ‘successo’ dell’ordinamento penale stesso: è il punto di vista costituito dalla possibilità di conoscere la norma penale violata[180].
Non ha bisogno di particolari dimostrazioni, infatti, l’affermazione secondo cui quanto più le norme penali corrispondono alle valutazioni espresse da norme culturali diffuse nel corpo sociale, tanto più il contenuto di esse risulterà noto, o per lo meno conoscibile, ai consociati.
Già negli anni Settanta del secolo scorso, un attento studioso delle problematiche connesse alla conoscenza-ignoranza della legge penale, aveva in effetti richiamato l’attenzione sul fatto che “la conoscenza generale delle norme coattive, da parte di chi sia tenuto ad osservarle, è legata” alla “corrispondenza tendenziale fra sovrastruttura giuridica e struttura sociale”[181], e aveva conseguentemente indicato nella “congruenza fra norme penali e norme di civiltà” una “garanzia di base” della possibilità di conoscenza delle prime[182].
Negli anni Ottanta tale indicazione è stata poi ripresa ed autorevolmente ribadita dalla Corte costituzionale nella sua “storica” sentenza sull’art. 5 c.p. (“ignoranza della legge penale”).
Ivi si afferma, infatti, che tra i doveri costituzionali incombenti sullo Stato, il cui adempimento potrebbe garantire la “riconoscibilità” dei contenuti delle norme penali, figura anche quello di formulare precetti che possano essere “percepiti anche in funzione di norme «extrapenali», di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare”[183].
Più di recente, infine, attenta dottrina ha nuovamente osservato che il soddisfacimento dell’“esigenza di una più agevole riconoscibilità dei precetti penali” è subordinato all’osservanza, tra l’altro, della seguente condizione: che le fattispecie criminose siano “poste a tutela di beni o interessi che trovano corrispondenza nel sistema sociale dei valori”[184]. Una tendenziale coincidenza tra norme penali e norme culturali costituisce, pertanto, una condizione in presenza della quale è più agevole, per il consociato, conoscere i contenuti delle norme penali[185].
Del resto, la stessa rilevanza riconnessa, nell’ambito della tematica dell’ignoranza della legge penale, alla distinzione tra delitti ‘naturali’ e reati ‘artificiali’[186], poggia sull’assunto che quando una norma penale ricalca consolidate norme culturali, ben difficilmente l’autore del reato – se proveniente dalla cultura ove tali norme culturali sono diffuse – potrà invocare a propria scusa un’ignorantia legis inevitabile[187]: in effetti, si afferma autorevolmente, “è quasi impensabile che un soggetto ‘imputabile’ commetta i c.d. delitti naturali nell’ignoranza della loro illiceità”[188].
Pare, quindi, innegabile che anche l’osservazione del diritto penale dal punto di vista della possibilità di conoscere la norma penale violata, fornisca un’ulteriore conferma del fatto che le intersecazioni tra il cerchio delle norme penali ed il cerchio delle norme culturali contribuiscono decisamente al ‘successo’ delle prime.
Vale, naturalmente, anche a proposito della possibilità di conoscere la norma penale violata, quanto sopra osservato in relazione alla prevenzione generale positiva: la ‘sintonia’ tra norme penali e norme culturali non va ricercata in ogni singola norma penale, quanto piuttosto nel diritto penale nel suo complesso[189].
Nelle pagine precedenti, osservando il diritto penale da determinati punti di vista, abbiamo dimostrato che la presenza di intersecazioni tra norme penali e norme culturali crea le ‘condizioni di successo’ delle prime, contribuisce, cioè, ad aumentare il grado di effettività ed efficacia delle prescrizioni penali. Un’ulteriore conferma di tale affermazione ci può essere fornita, a contrario, da un veloce sguardo a quelle codificazioni penali, emanate o solo progettate, che non hanno avuto ‘successo’ proprio perché non presentavano alcuna significativa connessione con le norme culturali dei soggetti cui erano destinate[190].
Con un rapido volo nel tempo e nello spazio, potremmo cominciare ricordando il fallito tentativo di Giuseppe II d’Asburgo di introdurre, ab auctoritate, anche nella Lombardia austriaca il codice penale asburgico del 1787 (la c.d. Giuseppina): tale codice, a causa della sua distanza e dei profondi elementi di rottura rispetto alla cultura, non solo giuridica, dei sudditi lombardi ai quali avrebbe dovuto applicarsi, incontrò forti resistenze – esso, infatti, con “un colpo di scure decisivo”, avrebbe “neutralizzato le forze sociali, culturali e professionali” della Lombardia di Ancien Régime[191] – sicché alla morte dell’Imperatore, nel 1790, il suo successore, Leopoldo II, preferì desistere da una simile impresa. Commentando il tentativo di importazione-imposizione del codice penale asburgico ai sudditi lombardi, un acuto osservatore dell’epoca, Pietro Verri, così scriveva: “Giuseppe II conobbe che il sistema [scil., della giustizia penale lombarda] era viziato; ma non conobbe che una contemporanea ed universale distruzione delle leggi e delle pratiche d’un Paese è un rimedio peggior del male. Non fece alcun caso all’opinione, che pure è la regina del mondo”[192].
Cambiando epoca e latitudine, potremmo ricordare altresì il fallimento dei tentativi dell’Italia, divenuta nel frattempo ‘potenza coloniale’, di imporre un codice penale di matrice nostrana ai sudditi della colonia Eritrea: come riferisce Manzini scrivendo nel 1926, l’entrata in vigore di un siffatto codice, pur pronto fin dal 1908, fu ripetutamente rinviata perché ci si rese conto del grave divario dei suoi contenuti rispetto alla cultura delle popolazioni cui era destinato[193]. Lo stesso Manzini non manca di precisare che “i conoscitori della colonia ritengono cotesto codice tutt’altro che lodevole: «lungo tempo dovrà passare, moltissimo dovranno ancora progredire le popolazioni a noi soggette prima che gran parte delle disposizioni in quello contenute possano tranquillamente applicarsi senza tema di turbare la coscienza giuridica delle popolazioni medesime»”[194].
Le vicende legislative nel Corno d’Africa hanno continuato, tuttavia, ad essere molto turbolente – e per gli stessi motivi – anche dopo la partenza degli Italiani: riferisce, infatti, Bettiol che l’Etiopia, per munirsi di una legislazione penale, “si è rivolta a Graven [giurista svizzero] che le ha dato un codice penale più legato tradizionalmente alla civiltà ginevrina che a quella del Feta Negast o delle consuetudini vigenti su quell’acrocoro africano. E questo codice è stato esteso all’Eritrea (…), ma in effetti non viene applicato perché non compreso”[195].
Questi brevi cenni[196] ci forniscono un’ulteriore conferma del fatto che la presenza di significative intersecazioni tra norme penali e norme culturali può senz’altro contribuire al ‘successo’ delle prime, mentre la loro assenza ne rende sicuramente più difficile un’effettiva ed efficace applicazione[197].
Completata l’osservazione dell’ordinamento penale dai predetti tre punti di vista, passiamo ora a scandagliare quei “settori” dell’ordinamento penale all’interno dei quali è agevole cogliere le intersecazioni tra il cerchio delle norme penali ed il cerchio delle norme culturali.
Si tratta, segnatamente, dei settori occupati:
1) dalle norme penali che impiegano elementi normativi c.d. culturali;
2) da altre norme penali che risultano particolarmente ‘impregnate’ di cultura.
Come potrà constatarsi nelle seguenti pagine, in questi settori le norme penali traggono la loro ‘linfa vitale’ da corrispondenti norme culturali.
Un terzo settore potrebbe essere costituito dalle norme penali che incriminano i delitti c.d. naturali, contrapposti ai reati c.d. artificiali.
Come è noto, la contrapposizione ‘delitti naturali versus reati artificiali’ ha origini risalenti[198] ed utilizzazioni moderne[199], ed è stata espressa – a seconda dei contesti e degli scopi per i quali è stata utilizzata – con le formule più varie: delitti naturali-delitti semplicemente legali[200], mala in semala quia prohibita (vel vetita)[201], delicta per se-delicta mere prohibita[202], delitti rientranti nel diritto penale classico-reati di pura creazione legislativa[203], etc.
A ben guardare, tuttavia, la contrapposizione tra delitti naturali e reati artificiali, “pur rilevandosi di non trascurabile utilità”[204], non è immune da gravi riserve. Non solo, infatti, non possono escludersi “componenti di artificialità nei reati naturali e viceversa”[205], ma, prima ancora, la collocazione di un reato nell’uno o nell’altro gruppo risente inevitabilmente di quella stessa “relatività”, storica e geografica, che da sempre connota il catalogo delle condotte vietate (si ricordi la “relativity of crime” di cui parlava Sutherland)[206]. Inoltre, la contrapposizione delle due categorie di reati – essendo priva di confini netti e precisi – è stata piegata ai più diversi scopi di politica criminale (comprese le proposte di decriminalizzazione dei reati ambientali, tributari e dei ‘colletti bianchi’ che – per non essere avvertiti dalla generalità dei consociati come delitti naturali – non dovrebbero essere assoggettati ad una disciplina penale). Né sono mancate teorie criminologiche che, all’opposto, hanno in radice negato l’esistenza di delitti naturali, riconducendo tutto il complesso degli illeciti penali alla categoria dei reati artificiali, in quanto rivolti alla protezione di determinati assetti politici ed economici, variabili e transeunti[207].
La categoria dei delitti naturali, quindi, a causa dell’ambiguità della sua natura e dell’indeterminatezza dei suoi contenuti, non sembra proficuamente utilizzabile ai nostri presenti fini.
Per elementi normativi della fattispecie penale si intendono quei concetti che “si riferiscono a dati che possono essere pensati e rappresentati solo sotto il presupposto logico di una norma”[208]. All’interno della categoria degli elementi normativi è poi possibile ulteriormente distinguere, a seconda del tipo della norma ‘logicamente presupposta’, tra elementi normativi giuridici e elementi normativi extragiuridici[209]. Mentre i primi rinviano a norme giuridiche, i secondi rinviano a norme culturali (morali, sociali, o di costume che siano)[210], e sono, pertanto, designati anche come elementi normativi extragiuridici “etico-sociali” [211], ovvero “culturali o di valutazione culturale”[212].
Le norme penali all’interno delle quali compaiono elementi normativi culturali richiamano la nostra attenzione in quanto costituiscono una prova evidente delle possibili intersecazioni tra il cerchio delle norme penali ed il cerchio delle norme culturali[213]: in presenza di tali elementi, infatti, “l’applicatore del diritto è chiamato – per scelta dello stesso legislatore penale – ad attribuire decisivo rilievo a valori che il diritto penale recepisce nella loro obiettiva consistenza di elementi della cultura (dell’etica, del costume) in un dato momento storico”[214]. Insomma, gli elementi normativi culturali sono “elementi di «valutazione culturale», esprimenti valutazioni proprie del mondo della «cultura»”[215], e costituiscono, quindi, un veicolo attraverso il quale, per espressa volontà legislativa, penetrano, nel diritto penale, le norme culturali[216].
In particolare, nella nostra legislazione penale compaiono numerosi elementi normativi culturali[217], a dimostrazione del fatto che il nostro legislatore attinge a piene mani dalla cultura[218].
1. Tra gli esempi più noti e più studiati, vi è l’elemento del “comune sentimento del pudore”, impiegato dal legislatore nella definizione di “atti e oggetti osceni” (art. 529 comma 1 c.p.): nessun dubbio, infatti, che per stabilire, ai sensi delle norme incriminatrici pertinenti (artt. 527 e 528 c.p.), se un atto o un oggetto sia “osceno”, l’interprete (in primis, il giudice) deve fare riferimento alle norme culturali che, in un determinato contesto di tempo e di luogo, individuano il “comune sentimento del pudore”[219].
Come ulteriori esempi possono poi menzionarsi:
- l’elemento “vilipendio” che compare in vari delitti (v., inter alios, i reati di cui agli artt. 290, 291, 292, 403 e 404 c.p.), e che costituisce “concetto normativo non giuridico”, in quanto il giudice, per qualificare una condotta come vilipendiosa, deve “basarsi su determinati parametri socioculturali”[220];
- l’elemento “pubblico scandalo” di cui al reato di incesto (art. 564 c.p.), cioè quel “profondo senso di turbamento e disgusto diffusosi in un numero indeterminato di persone estranee alla cerchia familiare degli incestuosi” [221];
- l’elemento “morale famigliare” che figura nel reato di attentati alla morale famigliare commessi col mezzo della stampa periodica (art. 565 c.p.) [222];
- l’elemento “ordine e morale delle famiglie” di cui al reato di violazione degli obblighi di assistenza famigliare (art. 570 c.p.) [223];
- l’elemento “deformazione e sfregio permanente del viso” di cui all’art. 583 comma 2 c.p. (lesioni personali gravissime), l’accertamento della cui sussistenza implica un “giudizio di tipo estetico” [224];
- l’elemento “biasimevole motivo” che compare nella contravvenzione di molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.) [225];
- l’elemento “pubblica decenza” che figura nelle contravvenzioni di commercio di scritti, disegni o altri oggetti contrari alla pubblica decenza (art. 725 c.p., ora depenalizzato), di atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 comma 1 c.p.), di turpiloquio (art. 726 comma 2 c.p., ora abrogato)[226].
Talora il legislatore ha utilizzato elementi normativi culturali anche nella formulazione del testo di circostanze attenuanti o aggravanti:
- è il caso del “particolare valore morale o sociale” dei motivi ad agire, che può comportare il riconoscimento della circostanza attenuante comune di cui all’art. 62 n. 1 c.p., o della “abiezione o futilità” dei motivi ad agire che può per contro portare all’applicazione della circostanza aggravante comune di cui all’art. 61 n. 1 c.p.[227];
- è il caso, altresì, dell’elemento “fatto ingiusto altrui”, richiesto per il riconoscimento della circostanza attenuante comune della provocazione di cui all’art. 62 n. 2 c.p.: secondo l’orientamento prevalente, infatti, in questo caso l’ingiustizia si radica nella contrarietà, oltre che a norme giuridiche, anche a norme culturali (qui la terminologia usata da dottrina e giurisprudenza è assai varia, in quanto si parla di contrarietà alle norme “condivise dalla collettività”, alle norme “etiche”, alle norme “sociali o di costume”, ovvero alle norme “di civile convivenza”)[228].
Altre volte ancora il legislatore è ricorso ad elementi normativi culturali nella formulazione del testo di talune esimenti:
- si pensi all’esimente della provocazione nei delitti contro l’onore (art. 599 comma 2 c.p.), ai fini del riconoscimento della quale si richiede la sussistenza di un “fatto ingiusto altrui”, inteso, anche qui, come fatto contrario non solo a norme giuridiche, ma anche a norme culturali[229];
- si pensi altresì alla “giusta causa”, la cui presenza esclude la punibilità
dei delitti contro l’inviolabilità dei segreti di cui agli artt. 616 comma 2, 618, 619 comma 2, 620, 621, 622 c.p.: secondo un autorevole orientamento dottrinale, accolto anche in giurisprudenza, attraverso tale esimente si intende infatti fare spazio, nell’ordinamento penale, a “tutto il sistema degli apprezzamenti etico-sociali di valore, di cui la legge è fondamentale, ma certo non unica espressione”[230].
Non mancano, infine, casi in cui l’elemento normativo culturale compare nei “titoli” (si vedano, ad esempio, nel libro secondo del codice penale, il Titolo IV: “Dei delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti”; il Titolo IX: “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”; nonché il Titolo IX bis: “Dei delitti contro il sentimento per gli animali”), e nei “capi” (si veda, ad esempio, il Capo II del summenzionato Titolo IX: “Delle offese al pudore e all’onore sessuale”) del nostro codice penale.
2. Oltre a quelli sopra riferiti – esempi noti e pacifici di elementi normativi culturali – vi sono poi ulteriori concetti la cui natura di elementi normativi culturali è meno nota o meno pacifica, o semplicemente non ha finora costituito oggetto di specifico approfondimento. Si pensi ad esempio:
- all’elemento della “proporzione” di cui alla scriminante della legittima difesa (art. 52 c.p.): secondo un autorevole orientamento dottrinale, che ha trovato accoglimento anche in recenti pronunce di legittimità, il giudizio di proporzione tra il bene dell’aggredito esposto a pericolo, e il bene dell’aggressore sacrificato dalla condotta difensiva, deve essere effettuato facendo riferimento al sistema di valori etico-sociali generalmente condivisi in un dato momento storico, ed eventualmente consacrati nella Costituzione[231];
- all’“uccisione per crudeltà o senza necessità” di un animale, con cui si integra il fatto tipico del delitto di cui all’art. 544 bis (uccisione di animali), potendo la crudeltà e l’assenza di necessità essere determinate (anche) alla stregua di parametri culturali[232];
- ai concetti di “onore”, “decoro” e “reputazione”, che compaiono nei delitti di ingiuria e diffamazione (artt. 594 ss. c.p.), i quali, almeno secondo una parte della dottrina, sono elementi normativi culturali in quanto fanno riferimento “non ad una realtà di natura, ma a valori socioculturali”[233]. In ogni caso – al di là della loro controversa qualificazione come elementi ‘normativi’ o ‘descrittivi’ – un dato pare innegabile: in sede applicativa, il giudice, per verificare se una determinata espressione sia, o meno, offensiva dell’onore, dovrà necessariamente utilizzare parametri culturali[234]. Come esattamente rilevava già Mayer, se il giudice tedesco non ha nessun dubbio sul fatto che ‘asino’ costituisca un epiteto offensivo dell’onore altrui, ciò è dovuto al fatto che sta “attingendo alla cultura tedesca”[235];
- al (vecchio) concetto di “atti di libidine”: benché dottrina e giurisprudenza, sotto la vigenza del vecchio art. 521 c.p. che incriminava, per l’appunto, gli “atti di libidine violenti”, non avessero esplicitamente qualificato questo concetto in termini di elemento normativo culturale[236], nondimeno di fatto lo consideravano tale, giacché ad esso riconducevano “tutte le manifestazioni dell’istinto sessuale, e cioè tutte le forme in cui può estrinsecarsi la libidine, escluso il coito”[237]. Ed è chiaro che per verificare se l’atto fosse manifestazione di istinto sessuale, di libidine, era imprescindibile il riferimento a parametri etico-sociali attinenti alla sfera sessuale[238];
- al (nuovo) concetto di “atti sessuali”, che compare oggi negli artt. 609 bis ss. c.p.: un concetto che, secondo la dottrina “certamente configura un elemento normativo extragiuridico all’interno della struttura del reato, per la cui determinazione è necessario far riferimento inevitabilmente alle scienze antropologiche e sociologiche”, dal momento che “è in base alla cultura e ai costumi di un popolo che si configura ciò che è «sessualmente rilevante»”[239].
Come, infatti, è stato giustamente osservato, “è più che altro in base ai costumi di un popolo che si configura ciò che è «sessualmente rilevante»”[240]. Su tali posizioni si è allineata anche parte della giurisprudenza più recente, ad avviso della quale la nozione di “atti sessuali” rimanda al “costume sociale”[241]. In particolare, in riferimento alla controversa questione se il “bacio sulla bocca” possa integrare un “atto sessuale”, la Cassazione ha precisato – in termini che non sembrano lasciare alcun dubbio sulla riconducibilità di tale nozione alla categoria degli elementi normativi culturali – che “se il bacio sulla bocca indubbiamente attinge una zona generalmente considerata erogena, è altrettanto indubbio che esso perde il connotato sessuale se è dato in particolari contesti sociali e culturali. Per esempio, nella tradizione russa il bacio sulla bocca è scambiato come forma di saluto, sicché il bacio c.d. alla russa non può identificarsi come atto sessuale. Altrettanto può avvenire in certi contesti familiari o parentali, in cui il bacio sulla bocca tra parenti è solo un segno di affetto, privo di connotazioni sessuali penalmente rilevanti. In questi e in consimili contesti non erotici esula la nozione penale di atti sessuali”[242], [243];
- al concetto di “mezzi di correzione o di disciplina” che compare nel reato di cui all’art. 571 c.p., e che una parte della dottrina non esita a qualificare come elemento normativo extragiuridico[244]: per l’individuazione di tali mezzi pare, in effetti, indispensabile fare riferimento non solo a norme giuridiche (ad esempio, ai regolamenti scolastici), ma anche a norme extragiuridiche di matrice culturale, dal momento che “i mezzi di correzione o di disciplina sono di solito previsti (…) anche in usi sociali che per consuetudine vengono considerati socialmente adeguati”[245]. Come, infatti, ha espressamente puntualizzato la Cassazione, il giudice, nel determinare quale sia un “mezzo di correzione”, “recepisce inevitabilmente concetti e valutazioni che fanno parte del patrimonio culturale (…) di un Paese e di una civiltà”[246];
- al concetto di “maltrattamenti” su cui si incentra la descrizione del fatto tipico del delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli di cui all’art. 572 c.p. A dire il vero, benché non risulti alcuna presa di posizione esplicita, in dottrina o in giurisprudenza, a favore di una qualificazione del concetto in parola come “elemento normativo culturale”[247], un risalente orientamento dottrinale di fatto lo considerava tale, dal momento che ammetteva una sua relativizzazione “in base alle condizioni di tempo, di luogo e di persona”[248]. Inoltre, se si vanno a vedere talune definizioni proposte, anche di recente, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, per superare la vaghezza che, per unanime opinione, connota la nozione di “maltrattamenti”, ci si accorge agevolmente che esse rinviano costantemente a valutazioni da effettuarsi alla stregua di norme culturali. Così è, ad esempio, per la definizione di “maltrattamenti” che considera tali “tutti i fatti che, comunque, producono sofferenze fisiche o morali in colui che li subisce e che sono riprovati dalla coscienza pubblica in quanto ritenuti vessatori”[249]; e così è pure per la definizione di “maltrattamenti” secondo cui integra l’elemento oggettivo del delitto in parola una “serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita”[250], dal momento che quali siano queste “normali condizioni di vita” può essere determinato solo alla stregua di parametri socio-culturali[251]. Del resto, la stessa Cassazione – pur senza evocare in termini espliciti la categoria dei concetti normativi culturali – ha chiaramente stabilito che il giudice, nel determinare che cosa si intenda per “maltrattare”, “recepisce inevitabilmente concetti e valutazioni che fanno parte del patrimonio culturale (…) di un Paese e di una civiltà”[252];
- infine, al concetto di “prostituzione”, che viene in rilievo in una serie di fattispecie criminose (oltre quelle previste dalla c.d. legge Merlin, v. anche quelle di cui agli artt. 600 ss. c.p.[253]), e che una parte della dottrina ritiene trattarsi “indubbiamente di un concetto normativo-sociale che abbisogna di una eterointegrazione con il richiamo alle regole etico-sociali o di costume presenti in un determinato contesto storico”[254].
3. Oltre agli esempi sopra riferiti – esempi noti e pacifici, ovvero meno noti o meno pacifici di elementi normativi culturali, che comunque trovano un diretto ancoraggio testuale nella lettera della legge – possiamo menzionare anche alcuni esempi di elementi normativi culturali di matrice, per così dire, giurisprudenziale, in quanto è stata la giurisprudenza a dare spazio, pur in assenza di univoche indicazioni testuali, a valutazioni culturali per la loro interpretazione ed applicazione:
- così, ad esempio, in tema di circostanze attenuanti generiche, benché nel testo dell’art. 62 bis c.p. non compaia, alla lettera, alcun elemento normativo culturale, nella concreta dinamica applicativa esse sono state talora negate dai giudici in casi in cui l’imputato aveva mostrato “ferocia” nell’esecuzione dell’azione criminosa[255], ovvero “insensibilità morale”[256]: in tal modo, quindi, si è subordinata la concessione di queste attenuanti a valutazioni condotte alla stregua di norme culturali, dal momento che è solo sulla scorta di siffatte norme che può essere accertata la “ferocia” o l’“insensibilità morale” dell’imputato;
- a parametri culturali la giurisprudenza ha dato, altresì, spazio in sede di valutazione dell’imputabilità dell’infradiciottenne (art. 98 c.p.), giacché si è ritenuto che ai fini del suo accertamento occorra “valutare la capacità del soggetto in concreto in relazione alla natura del reato, con la conseguenza che l’imputabilità di uno stesso soggetto può essere ritenuta per alcuni reati ed esclusa per altri in considerazione della maggiore o minore avvertibilità del disvalore etico-sociale del reato e dell’immoralità secondo il comune modo di sentire”[257];
- analogamente, tra gli indici di valutazione del “sicuro ravvedimento” quale presupposto per la concessione della liberazione condizionale (art. 176 c.p.), la giurisprudenza ha talora utilizzato anche un parametro culturale (segnatamente, etico-sociale), giacché si è affermato che l’accertamento del sicuro ravvedimento postula un’ampia e penetrante valutazione della personalità del soggetto, che tenga conto, tra l’altro, “della volontà di reinserimento nella società, dedotta dall’interesse dimostrato per i valori etici e sociali, dalle prove di altruismo e di solidarietà”[258]. Sempre in ambito penitenziario, infine, un analogo parametro di matrice culturale (eticosociale) è stato talora utilizzato dai giudici ai fini della concessione della liberazione anticipata[259], e della semi-libertà[260].
L’elenco esemplificativo degli elementi normativi culturali presenti nella nostra legislazione potrebbe, in realtà, continuare a dismisura se intendessimo procedere lungo i binari indicati da autorevole dottrina, la quale ha limpidamente intuito che:
- “attraverso le interpretazioni anche l’elemento più descrittivo può diventare normativo”[261];
- “è la cultura che influenza l’interpretazione”[262].
Al di là di quest’ultima suggestione, un dato pare comunque innegabile: la presenza, nel nostro ordinamento, di numerose ipotesi in cui la norma penale si ‘appoggia’ ad una norma culturale, al pari della vite che, per portar frutto, deve aggrapparsi al suo sostegno.
Un secondo “settore” all’interno del quale assistiamo all’intersecazione tra il cerchio delle norme penali ed il cerchio delle norme culturali, è costituito da una serie di previsioni incriminatrici le quali – pur non utilizzando elementi normativi culturali (supra, 2.5.1) – nondimeno risultano particolarmente ‘impregnate’ di cultura, a tal punto che la loro introduzione nella legislazione penale italiana e la loro successiva permanenza, modificazione o scomparsa dal diritto vigente si spiega solo in funzione della parallela evoluzione conosciuta dalle corrispondenti norme culturali.
Se, infatti, andiamo a guardare la versione originaria del codice Rocco, vi troviamo alcune fattispecie criminose chiaramente ‘modellate’ su altrettante norme culturali che, all’epoca dell’emanazione di tale codice, erano diffuse tra gli Italiani (o, per lo meno, nella cultura all’epoca ‘egemone’ in Italia[263]). La successiva evoluzione di queste norme culturali ha, tuttavia, reso “anacronistiche” le corrispondenti norme incriminatrici, rimaste “ancorate a valori che l’attuale società non sente più come tali”[264], ed ha quindi comportato, in alcuni casi, la loro abrogazione o dichiarazione di incostituzionalità, in altri casi, la loro modificazione[265], in altri casi ancora, una loro re-interpretazione evolutiva ad opera della giurisprudenza[266]:
1) si pensi, ad esempio, all’originaria presenza, nel codice Rocco (artt. 394 ss. c.p.), di una disciplina apposita per il duello e gli altri delitti cavallereschi, e alla particolare mitezza delle pene ivi previste[267]. Per effetto di tale disciplina (si veda in particolare l’art. 396 c.p. Rocco, ora abrogato: “uso delle armi in duello”), se il duellante cagionava una lesione personale grave o gravissima all’avversario, era punito con la reclusione fino a due anni, mentre se ne cagionava la morte era punito con la reclusione da uno a cinque anni: pene ridicole per la loro mitezza se confrontate con quelle che sarebbero derivate dall’applicazione delle ordinarie fattispecie di lesioni personali gravi o gravissime (art. 583 c.p.), o di omicidio doloso (art. 575 c.p.) o preterintenzionale (art. 584 c.p.), le quali avrebbero altresì dovuto subire l’aumento per effetto dell’aggravante dell’uso delle armi (art. 585 c.p.). Ebbene, che cosa giustificava la presenza nel codice Rocco di una disciplina così magnanima per i duellanti, se non le convinzioni culturali diffuse, in tema di onore e difesa dell’onore, nella società italiana nei primi decenni del Novecento[268]? La disciplina penale del duello costituiva un ‘prodotto’ della cultura di quell’epoca, che era tuttavia divenuto, a seguito del’evoluzione culturale dei decenni successivi, “un fossile” del passato[269], sicché molto opportunamente tale disciplina è stata infine estromessa dal nostro ordinamento[270];
2) analogo discorso vale anche per i delitti di adulterio (art. 559 c.p.) e di concubinato (art. 560 c.p.): non solo la disparità di trattamento tra marito e moglie ivi sancita, ma, prima ancora, la stessa previsione di delitti siffatti all’interno del nostro codice penale non si comprende, se non si ha riguardo alle norme culturali diffuse nella società italiana negli anni di gestazione del codice[271]. E tali delitti sono a lungo sopravvissuti nel nostro ordinamento, per esserne espunti dalla Corte costituzionale alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, sotto la pressione – divenuta ormai incontenibile – di un rinnovamento culturale maturato nella coscienza collettiva a partire dal Secondo Dopoguerra[272]. Nelle motivazioni delle relative sentenze di incostituzionalità (la n. 126/1968 e la n. 149/1969), in effetti, la Corte prende atto del ruolo svolto dalle norme culturali nel determinare l’introduzione, prima, la permanenza, poi, e, infine, l’esigenza di rimozione di tali norme incriminatrici dal nostro ordinamento:
- nella prima di tali sentenze, quella con cui è stata dichiarata l’illegittimità dei commi 1 e 2 dell’art. 559 c.p. per contrasto con l’art. 29 Cost., la Corte costituzionale ha infatti rilevato quanto segue: “con la sentenza n. 64 del 23 novembre 1961, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 559, primo comma, del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione. L’ordinanza del Tribunale di Ascoli Piceno prima, e le altre successivamente hanno riproposto la questione ulteriormente argomentando e sostenendo che, negli ultimi anni, è sostanzialmente mutata in materia la coscienza collettiva. Di conseguenza sarebbe necessario accertare se – nell’attuale momento storico sociale – continui a sussistere oppur no quella diversità obbiettiva di situazione che nella precedente sentenza la Corte ritenne di riscontrare sì da giustificare il differente trattamento, fatto dal legislatore penale all’adulterio della moglie rispetto a quello del marito. La Corte ritiene che la questione meriti di essere riesaminata (…). Ritiene la Corte, alla stregua dell’attuale realtà sociale, che la discriminazione, lungi dall’essere utile, è di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia”[273];
- nella seconda di tali sentenze, dichiarativa dell’illegittimità del comma 3 dell’art. 559, e dell’intero art. 560 c.p. per contrasto con l’art. 29 Cost., la Corte costituzionale ha poi aggiunto che “tutto il sistema desumibile dagli artt. 559 e 560 c.p. (…) reca l’impronta di un’epoca nella quale la donna non godeva della stessa posizione sociale dell’uomo e vedeva riflessa la sua situazione di netta inferiorità nella disciplina dei diritti e dei doveri coniugali”[274];
3) similmente, è stata ancora una volta l’originaria congruenza (nei primi decenni del secolo scorso) e la sopravvenuta incompatibilità (al più tardi, negli anni Settanta di quel secolo) con le norme culturali diffuse nella “coscienza comune” a spingere la Corte costituzionale a dichiarare l’incostituzionalità del delitto di incitamento a pratiche contro la procreazione di cui all’art. 553 c.p. Nella sentenza dichiarativa di incostituzionalità, la Corte ha, infatti, tra l’altro rilevato che “il problema della limitazione delle nascite ha assunto, nel momento storico attuale, una importanza e un rilievo sociale tale, ed investe un raggio di interesse così ampio, da non potersi ritenere che, secondo la coscienza comune e tenuto anche conto del progressivo allargarsi della educazione sanitaria, sia oggi da ravvisare un’offesa al buon costume nella pubblica trattazione dei vari aspetti di quel problema, nella diffusione delle conoscenze relative, nella propaganda svolta a favore delle pratiche anticoncettive”[275];
4) una forte impronta culturale reca, altresì, la disciplina dei delitti in materia sessuale[276]. In particolare, la disciplina originariamente prevista nel codice Rocco (artt. 519-526 c.p.) era stata concepita in un’epoca in cui le norme culturali attribuivano alla donna e alla sua sessualità un valore profondamente diverso da quello acquisito nei decenni successivi: basti pensare che tali delitti erano originariamente collocati tra quelli contro la moralità pubblica e il buon costume!
Al più tardi a partire dall’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso, tuttavia, la dottrina aveva rilevato che tale disciplina non era “del tutto immune da concezioni della sessualità femminile ormai obsolete”, dal momento che essa presupponeva “una realtà storico-culturale della donna e della sua sessualità ormai tramontata”[277]. L’esigenza di ri-allineare la disciplina dei delitti in materia sessuale a più moderne concezioni della libertà sessuale femminile ha, quindi, indotto il legislatore ad abrogare le originarie fattispecie criminose e ad emanare i nuovi artt. 609 bis ss. c.p. con una legge di riforma (n. 66 del 1996), che ha voluto “innanzitutto essere espressione, anche sul piano normativo, della rivoluzione culturale e sociale che ha preso di mira la concezione della sessualità della donna nella società moderna”[278], e che ha tenuto conto, pertanto, del “profondo cambiamento dei costumi sociali, frutto del rapido mutamento del modo di vivere e del fenomeno della emancipazione femminile”[279];
5) forse l’esempio più evidente di norme penali culturalmente ‘impregnate’ era costituito, all’interno del testo originario del codice Rocco, dall’art. 544 c.p., che prevedeva il c.d. matrimonio riparatore quale causa speciale di estinzione dei reati in materia sessuale, nonché dagli artt. 551, 578 (vecchio testo), 587 e 592 c.p., che prevedevano un trattamento sanzionatorio particolarmente benevolo, rispettivamente, per i delitti di aborto, infanticidio, omicidio o lesioni personali, e abbandono di neonato, commessi per causa d’onore[280]: si consideri, ad esempio, che grazie all’art. 587 c.p., se un omicidio era commesso “per causa d’onore”, la pena massima prevista in via ordinaria per l’omicidio (ventiquattro anni di reclusione ex art. 575 c.p.) si riduceva a sette anni; se poi la vittima era la moglie o la sorella dell’autore, i predetti sette anni si sostituivano alla pena massima di trent’anni di reclusione altrimenti comminati dall’art. 577 comma 2 c.p., mentre se la vittima era la figlia, i sette anni sostituivano l’ergastolo altrimenti derivante dall’art. 577 comma 1 c.p.
La presenza, e la lunga sopravvivenza, di disposizioni siffatte all’interno del nostro ordinamento penale si spiega soltanto con la loro originaria, e a lungo perdurante, congruenza con altrettante norme culturali, diffuse nella società italiana almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Il contenuto di queste norme culturali che fornivano la linfa vitale alle citate norme penali, trapela dalla lettura di alcune risalenti pronunce della Cassazione:
- così, da una sentenza del 1932 risulta che, ad avviso della Cassazione, “il fondamento morale e sociale delle disposizioni contenute nell’art. 587 c.p., pur non dovendosi ricercare in un ritorno a forme barbariche del diritto familiare di uccidere e neppure nella possibilità di una vendetta ammessa come forma di soddisfazione del patito oltraggio, ma soltanto in uno stato umano ed insopprimibile di angoscia e di dolore che suscita l’impeto d’ira e determina i conseguenti atti di violenza, pur tuttavia sta [stava] sostanzialmente nella colpevole relazione del coniuge, delle figlie e delle sorelle che recarono offesa a quell’onore familiare, la cui tutela e il cui rispetto sono loro commessi come adempimento di uno specifico dovere” [281];
- in una successiva sentenza del 1950, la Cassazione, a proposito dell’omicidio a causa d’onore, aveva poi affermato che “una tale speciale figura di reato trova la sua ragion d’essere, oltre che nello stato d’ira, nel desiderio di tutelare l’onor proprio e della famiglia, inteso come patrimonio morale proprio e della famiglia e pertanto in un sentimento spiccatamente morale e sociale corrispondente a quello che può determinare l’attenuante comune [di cui all’art. 62 n. 1]”[282];
- addirittura, l’asserita corrispondenza della “causa d’onore” con un “motivo di particolare valore morale e sociale” ad avviso della Cassazione consentiva all’autore di un omicidio, commesso per motivi d’onore ma in assenza degli ulteriori presupposti indicati dall’art. 587 c.p., di beneficiare comunque dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 c.p.: “poiché la tutela dell’onore sessuale della donna attiene non solo all’interesse della donna sedotta ma anche a quello dei di lei stretti congiunti, oltre a quello più lato della morale, com’è intesa nell’attuale momento storico dalla coscienza sociale, ben può la causa d’onore, ai fini della concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 c.p., essere invocata da chi uccide il seduttore della propria sorella[283].
Tuttavia, negli anni Sessanta e Settanta una parte della dottrina aveva cominciato a denunciare apertamente l’anacronismo delle norme penali in parola. Scriveva, ad esempio, Antolisei nel 1972 che l’omicidio per causa d’onore, “porto di rifugio di non pochi e gravi fatti delinquenziali, caratterizzato da una pena edittale assai lieve e quasi mai scontata per l’incidenza di diminuenti e per la prassi dell’indulto, ha fatto il suo tempo. Frutto di una forma mentis improntata a retrivo egoismo e di concezioni ancestrali dell’onore che non trovano più rispondenza nella coscienza della maggior parte dei cittadini, esso si risolve in un ramo secco dell’ordinamento destinato inevitabilmente a cadere”[284].
Nonostante questa ed altre prese di posizioni critiche[285], tuttavia, il legislatore è intervenuto per espellere dal nostro codice le fattispecie in questione solo nel 1981, così finalmente adeguando le norme penali alla rapida evoluzione conosciuta, nel Dopoguerra, dalle norme culturali in materia di onore sessuale e di libertà di autodeterminazione sessuale della donna. Nella Relazione che accompagna il disegno di legge che portò a detta abrogazione, si legge infatti che “si tratta di riforma da troppo tempo invocata e più che matura per la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica”, sicché la sua approvazione risulta essere “un atto dovuto al cambiamento di cultura e di sensibilità etico-giuridica avvenuto nella nostra società” [286].
La ritrovata corrispondenza tra norme penali e norme culturali in subiecta materia risulta oggi certificata da recenti pronunce giurisprudenziali in cui la Suprema Corte – prendendo nettamente le distanze dalle posizioni conservatrici ancora emerse negli anni Cinquanta del secolo scorso – ha ritenuto che la tutela dell’onore non possa nemmeno essere più invocata ai fini della concessione dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, giacché “la c.d. causa d’onore non può assurgere al rango di circostanza attenuante generale secondo il dettato dell’art. 62 n. 1 c.p., in quanto espressione di una concezione angusta e arcaica del rapporto di coniugio, apertamente confliggente con valori ormai acquisiti nella società civile che ricevono un riconoscimento e una tutela anche a livello costituzionale (…). Pertanto, l’omicidio commesso dal marito per salvaguardare l’onore asseritamente offeso da una pretesa relazione sentimentale della moglie e dettato da un malinteso senso dell’orgoglio maschile è l’espressione di uno stato passionale sfavorevolmente valutato dalla comune coscienza etica, in quanto manifestazione di un sentimento riprovevole ed esasperato di superiorità maschile”[287].
Giunti a questo punto – dopo aver toccato con mano le plurime intersecazioni esistenti tra il cerchio delle norme penali ed il cerchio delle norme culturali – ci sembra risulti confermata l’affermazione di partenza: il diritto penale, più di altri settori dell’ordinamento giuridico, presenta la caratteristica di essere un diritto ‘impregnato’ di cultura, un diritto, cioè, che risente particolarmente della cultura diffusa all’interno dello Stato che tale diritto ha elaborato (v. supra, 2.1).
Pare, quindi, condivisibile una valutazione di recente espressa da Winfried Hassemer proprio in sede di riflessione sulle ricadute per il diritto penale della pluralità culturale derivante dall’immigrazione:
“il diritto penale, accanto al diritto di famiglia, è indubbiamente l’unico settore dell’ordinamento giuridico, la cui vita risente con tale intensità dei fattori culturali e delle norme sociali (von den kulturellen Gegebenheiten und den sozialen Normen) dei luoghi in cui vige, che la pluralità delle sue norme e dei suoi strumenti e la stessa possibilità di una sua modificazione dipendono, di volta in volta, dai contenuti e dall’evoluzione della cultura locale (…). Il diritto penale è l’unico settore dell’ordinamento giuridico (…) fortemente impregnato di cultura (stark kulturell verhaftet) al punto che è praticamente impossibile trasferirlo da una cultura all’altra (kaum interkulturell beweglich)”[288].
I risultati raggiunti nelle precedenti pagine possono essere così riepilogati:
- il diritto penale è un prodotto ‘locale’: Paese che vai, reato che trovi (supra, 1.4);
- il diritto penale non è ‘culturalmente neutro’: è un diritto fortemente ‘impregnato’ di cultura (supra, 2.6).
‘Localismo’ e ‘non-neutralità culturale’ sono caratteristiche tradizionali e, in un certo senso, naturali di ogni ordinamento penale, che non pongono particolari problemi, fin tanto che il diritto penale, quale prodotto ‘locale’, è destinato ad essere applicato a soggetti che da sempre abitano in quel luogo, e fin tanto che il diritto penale, quale diritto ‘impregnato’ di cultura, è destinato ad essere applicato a soggetti formatisi all’interno di quella cultura (e che tale cultura conoscono anche quando decidono di ribellarsi ad essa, eventualmente proprio tramite la commissione di un reato).
In Italia e in altri Paese europei, tuttavia, ‘localismo’ e ‘nonneutralità culturale’ del diritto penale vivono oggi una stagione di forti tensioni, in quanto sono scossi e messi in crisi da un processo tipico delle società contemporanee: l’immigrazione[289].
Che cosa succede, infatti, quando un migrante lascia un Paese e va in un altro Paese?
Succede che, nel luogo di arrivo, egli trova un diritto penale diverso da quello del luogo di partenza e che tale diversità è dovuta, almeno in alcuni settori e almeno da alcuni punti di vista, alla diversità di cultura. Il passaggio dei confini da uno Stato all’altro viene allora a coincidere con il passaggio ad un ordinamento penale diverso, talora significativamente diverso, da quello di origine.
Ai migranti in arrivo da altri luoghi e formatisi in altre culture, le intersecazioni tra le norme penali vigenti nel luogo d’arrivo, e le norme culturali diffuse in quel luogo, non possono certamente comunicare i medesimi messaggi che sono, invece, percepibili dalla ‘gente del luogo’[290].
Conseguentemente, per un verso le condizioni di ‘successo’ di ogni ordinamento penale, che sono emerse osservando il diritto penale dai punti di vista della prevenzione generale c.d. positiva, della prevenzione speciale intesa come rieducazione, e della possibilità di conoscere la norma penale violata (v. supra, 2.4), risulteranno inevitabilmente depotenziate nei confronti di chi è estraneo alle norme culturali che, nel luogo d’arrivo, si intersecano con le norme penali ivi vigenti.
Per altro verso, le norme penali che impiegano elementi normativi culturali, nonché le altre norme penali comunque ‘impregnate’ di cultura (v. supra, 2.5), assumeranno necessariamente un significato diverso quando sono rivolte a soggetti rispetto ai quali le corrispondenti norme culturali sono mute o hanno, addirittura, un significato di segno opposto[291].
Tutto ciò ha, inevitabilmente, implicazioni assai significative per il diritto penale del nostro Paese e degli altri Paesi europei recettori, negli ultimi decenni, di massicci flussi immigratori[292]. La diversità culturale dell’immigrato – rectius, la sua estraneità rispetto alla cultura di cui sono impregnate talune norme penali vigenti nel luogo d’arrivo – può, infatti, portarlo a scontrarsi con tali norme penali, ogni qual volta egli commetta un fatto previsto come reato nell’ordinamento giuridico di quel luogo, ma che risulta, invece, conforme, o per lo meno tollerato, nella cultura del luogo d’origine.
‘Localismo’ e ‘non-neutralità culturale’ del diritto penale creano, quindi, fatalmente, condizioni ‘favorevoli’ alla commissione, da parte degli immigrati, di reati culturalmente motivati.
Le precedenti considerazioni ‘teoriche’ trovano piena conferma nella ‘prassi’ giudiziaria, italiana ed europea. Come risulterà dalla rassegna di giurisprudenza svolta nel successivo capitolo, non costituiscono più una rarità, infatti, i casi in cui l’imputato afferma di aver commesso il reato per essersi comportato in adesione alle norme della sua cultura d’origine.
I reati commessi per motivi culturali dagli immigrati stanno in effetti assumendo una significativa dimensione prasseologica in Italia ed in altri Paesi europei recettori di flussi immigratori, giacché l’immigrato, giunto nel nuovo Paese, deve fare i conti con una prospettiva (“ciò che è reato qui, potrebbe non esserlo in un altro luogo” [293]) che per i più – per gli ‘autoctoni’, per i ‘sedentari’, per tutti coloro che non devono cambiare luogo – rimane solo teorica.
Tale prospettiva diviene, invece, drammaticamente concreta per l’immigrato, che deve fare esperienza, talora sulla propria pelle, del fatto che ciò che non è reato nel Paese d’origine, potrebbe invece esserlo nel Paese d’arrivo.
[1] Illustrano altre sfide poste dall’immigrazione
al diritto penale, BARBAGLI, Immigrazione e sicurezza in Italia,
Bologna, 2008, p. 13 ss. (con particolare riguardo al controverso rapporto tra
andamento dei tassi di criminalità e immigrazione); RODRÍGUEZ MESA-RUÍZ
RODRÍGUEZ, Inmigración y sistema penal. Retos y desafíos para el
siglo XXI, Valencia, 2006, p. 3 ss. (con
particolare riguardo all’incremento dei fatti, penalmente rilevanti,
espressione di discriminazione e razzismo nei confronti degli immigrati);
HÖFFE, Gibt es ein interkulturelles Strafrecht? - trad. it. Globalizzazione
e diritto penale, Torino, 2001, p. 43 ss. (con particolare riguardo agli
sforzi filosofici intesi a fornire una legittimazione ad un diritto penale che
possa aspirare ad essere transculturale e, in quanto tale, applicabile anche
agli immigrati che provengono da una cultura differente da quella che pretende
di punirli).
[2] Per la nozione di società multiculturale di tipo
polietnico, in cui il pluralismo culturale trae origine dall’immigrazione di
individui e famiglie, v. supra, Cap. I, 7.
[3] Già ANTOLISEI, Introduzione alla parte speciale
del diritto penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1953, p. 396,
evidenziava congruamente la correlazione esistente tra la “relatività degli
illeciti penali che mutano (…) coi luoghi”, da un lato, e la loro “stretta
connessione col grado di civiltà e con l’indole di ciascun popolo”, dall’altro.
Più di recente, nella dottrina di lingua tedesca, v., in senso analogo,
HASSEMER, Vielfalt und Wandel. Offene Horizonte eines interkulturellen
Strafrechts, in appendice alla versione tedesca di HÖFFE, Gibt es ein
interkulturelles Strafrecht?, cit., p. 170.
[4] Per una sottolineatura del carattere marcatamente “provincialistico/nazionalistico” del diritto penale, v., di recente, anche BERNARDI, Modelli penali e società multiculturale, Torino, 2006, p. 53; DELMAS MARTY, Verso un diritto penale comune europeo?, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1997, p. 543.
[6] MEZGER, Kriminologie.
Ein Studienbuch, München-Berlin, 1951, p. 4. Mezger, oltre a sottolineare la variabilità del diritto penale nello
spazio, nello stesso passaggio ne sottolineava anche la variabilità nel tempo.
La citazione completa è, infatti, la seguente: ciò che “è reato qui e oggi,
potrebbe non esserlo domani o in un altro luogo, o viceversa”.
[7] FLETCHER, Basic
Concepts of Criminal Law, New York-Oxford, 1998 (trad. it. di M. Papa, Grammatica
del diritto penale, 2004), p. 13.
[10] SUTHERLAND-CRESSEY, Criminology, IX ed., Santa
Barbara, 1974, p. 15 (la prima edizione risale al 1924); v. pure la traduzione
in italiano, a cura di ZANCHETTI, Criminologia, Milano, 1996, p. 22.
[11] SUTHERLAND-CRESSEY, Criminologia, cit., p. 22
(corsivo aggiunto). Sul concetto di “relatività [geografica] del reato”, v.
pure, ex pluris, FATTAH, Criminology: Past, Present and Future: a
Critical Overview, London-New York, 1997, p. 53 ss., nonché WOLFGANG-COHEN,
Delitto e razza: convincimenti e interpretazioni errate, Roma, 1971, p.
21 s. (con numerosi ulteriori esempi); nella letteratura criminologica
italiana, v. PONTI, Compendio di criminologia, IV ed. riv. e agg.,
Milano, 1999, p. 37 ss.; tra i penalisti, v. FORTI, L’immane concretezza:
metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, 2000, p. 305 ss., in
part. p. 335; ANTOLISEI, Introduzione alla parte speciale del diritto penale,
cit., p. 396, che parla anch’egli di “relatività” degli illeciti penali, i
quali “mutano”, oltre che coi tempi, anche “coi luoghi”.
[12] PASCAL, Pensées et opuscules, pubblicati a
cura di Léon Brunschvicg, Paris, 1959, n. 294, p. 465 (trad. it.: “curiosa
giustizia, quella che è delimitata da un fiume. Verità al di qua dei Pirenei,
errore al di là”). Come annota Brunschvicg (Pensées, loc. cit.), Pascal si ricollega ad
un analogo pensiero formulato da Montaigne del 1595: “Quelle bonté est-ce
que je voyais hier en crédit et demain ne l’estre plus, et que trajet d’une
rivière fait crime? Quelle vérité est-ce que ces montagnes bornent, mensonge au
monde qui se tient au delà?”.
[13] Oltre ai contributi di Schultz e Marinucci qui di
seguito indicati, citano la frase di Pascal ROXIN, I compiti futuri della
scienza penalistica, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2000, p. 4 e, tra i
non penalisti, SACCO, Antropologia giuridica, cit., p. 42.
[14] SCHULTZ, Vérité au deçà des Pyrénées, erreur au
delà?, in Festschrift für Wilhelm Gallas, Berlin - New York, 1973,
p. 49 ss.
[15] MARINUCCI, Relazione di sintesi, in AA.VV., La
giustizia penale italiana nella prospettiva internazionale, 2000, p. 200.
Nello stesso senso, e nello stesso contesto, v. pure RIZ, Unificazione
europea e presidi penalistici, in AA.VV., La giustizia penale italiana,
cit., p. 90, il quale, tra gli ostacoli che si presentano all’armonizzazione
dei sistemi penali dei Paesi europei, individua il fatto che gli “ordinamenti
giuridici vigenti nella maggior parte degli Stati membri dell’UE (…) presentano
ciascuno una propria individualità” (corsivo aggiunto).
[16] BETTIOL, Sull’unificazione del diritto penale
europeo, in Prospettive per un diritto penale europeo, Padova, 1968,
p. 9 (corsivo aggiunto): da quando Bettiol faceva tali affermazioni sono
passati quarant’anni durante i quali, almeno a livello comunitario,
significativi progressi verso l’armonizzazione/unificazione del diritto penale
dei Paesi europei sono stati
indubbiamente compiuti (v. infra, 1.3), ma di certo l’originaria
frammentazione localistica del diritto penale non è stata ancora ricomposta in
unità.
[17] In argomento v. CAVANNA, Storia del diritto
moderno in Europa - Le fonti e il pensiero giuridico, 1, Milano, 1982, p.
68 ss.; PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto in Europa, Bologna, 2007, p.
296 ss., p. 314 ss. Con specifico riferimento al diritto penale, v. pure
ROXIN, I compiti futuri, cit., p. 4: “all’epoca dell’assolutismo, e
ancora nell’età del nazionalismo ottocentesco, il diritto era inteso, quanto
meno dalla prassi, come un insieme di norme di rilievo esclusivamente
interno, adottate in base ai particolari rapporti di potere ed interesse
propri di una data società”.
[18] Si tratta, come è noto, dell’opera che avrebbe
segnato il momento iniziale della cultura illuministica e che tanta influenza
avrebbe avuto sulle iniziative codificatorie dei decenni successivi: v.
TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione
del diritto, Bologna, 1976, p. 262 ss.; PADOA SCHIOPPA, Storia del
diritto, cit., p. 394 ss.
[19] MONTESQUIEU, De
l’esprit des lois, 1748, Première partie (livres I à VIII), livre III (v.
versione telematica a cura di Jean-Marie Tremblay, in http://classiques.uqac.ca/classiques). Si ricordi che, in base alla sistematica delle leggi
adottata da Montesquieu, le “leggi politiche” sono quelle che “regolano le
relazioni fra i governanti e i governati”, mentre le “leggi civili” quelle che
“regolano i rapporti che tutti i cittadini hanno fra loro” (ibidem).
[20] V. PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto, cit.,
p. 394 ss., il quale ben evidenzia come l’Esprit des lois sia in effetti
attraversato dall’idea di fondo secondo cui “ogni popolo ha il proprio diritto,
le sue leggi, i suoi costumi”.
[21] Secondo PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto,
cit., p. 392, è proprio a partire dall’età dei Lumi che la legge diventa “in
Europa ciò che non era mai stata nei lunghi secoli del diritto comune, la fonte
prima e dominante del diritto, lo strumento privilegiato se non addirittura
esclusivo delle sue trasformazioni e della sua evoluzione”. Nello stesso senso,
v. pure SACCO, Antropologia giuridica, cit., p. 91 ss.
[22] Come sottolinea SACCO, Antropologia giuridica,
cit., p. 92, a partire da quest’epoca “il potere legislativo spetta ormai allo
Stato. Vale a dire, il diritto è ormai statizzato. L’idea del «legislatore», e
l’idea della statualità del diritto, tendono ad andare di pari passo”.
[23] Cfr. BUSSI, Introduzione al colloquio: Organizzare
l’ordinamento. Federalismo e statualismo, forme di Stato e forme di governo,
in Diritto @ Storia (www.dirittoestoria.it ), n. 3, maggio 2004, par. 5. Poiché il processo di
codificazione prosegue tutt’oggi, il ‘localismo’ del diritto penale non sembra
affatto in fase recessiva: v. FLETCHER, Grammatica, cit., p. 13, secondo
cui una delle principali cause dell’attuale “accentuata provincializzazione del
diritto penale” risiede proprio nel fatto che “in molti Paesi si continua ancor
oggi a codificare o a ricodificare il diritto”.
[24] BECCARIA, Dei delitti e delle pene, ed.
Livorno 1766, pubblicata a cura di Venturi, Torino, 1994: si vedano, in
particolare, i paragrafi “IV. Interpretazione delle leggi”, e “V.
Oscurità delle leggi”.
[25] Secondo WEBER, Politik als Beruf, Einleitung,
1919, “Staat ist diejenige menschliche Gemeinschaft, welche innerhalb eines
bestimmten Gebietes (…) das Monopol legitimer physischer Gewaltsamkeit für sich
(mit Erfolg) beansprucht (Stato è quella comunità umana che, all’interno di
un determinato territorio (…), reclama per sé (con successo) il monopolio della
violenza fisica legittima)”.
[26] DELMAS MARTY, Verso un diritto penale comune
europeo?, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1997, p. 543; nello stesso
senso, v. pure TIEDEMANN, L’europeizzazione del diritto penale, in Riv.
It. Dir. Proc. Pen. 1998, p. 3: “il sistema penale è (…), più di altre
materie giuridiche, espressione della sovranità nazionale”; da ultimo, v. in
tal senso SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea,
Milano, 2005, p. 102.
[28] Come avvenne, ad esempio, nel Regno d’Italia, ove con
decreto 12 novembre 1810 Napoleone approvò la traduzione italiana del codice
penale dell’Impero francese (noto anche come Code pénal Napoleon) e ne
fissò al 1° gennaio 1811 l’entrata in vigore in tutti i dipartimenti del Regno
d’Italia: cfr. DEZZA, Saggi di storia del diritto penale moderno,
Milano, 1992, p. 199.
[29] Come è noto, il Code pénal Napoleon – oltre ad
essere imposto sui territori conquistati dalla Grand Armè (v. nota precedente)
– fu assunto ‘spontaneamente’ a modello da vari codici penali successivi, ad
esempio da quello belga e, in Italia, da quello parmense e da quello
sardo-piemontese: su tali vicende v. i vari contributi raccolti in VINCIGUERRA
(a cura di), I Codici preunitari e il Codice Zanardelli, Padova, 1993;
nonché MANACORDA, L’armonizzazione dei sistemi penali: un’introduzione,
in AA.VV., La giustizia penale italiana nella prospettiva internazionale,
2000, p. 39 s. Del tutto particolare è, invece, la vicenda del codice penale
bavarese che, a partire dal 1834, venne adottato anche in Grecia: ciò fu dovuto
al fatto che Ottone di Baviera, asceso al trono del neo-nato Stato greco,
‘impose’ nel suo nuovo regno molte delle leggi già vigenti nel suo Paese
d’origine (sul punto v. SOLNAR, Difficoltà e prospettive nell’unificazione
del diritto penale in Europa, in AA.VV., Prospettive per un diritto
penale europeo, cit., p. 170).
[30] V., ma con riferimento ad un periodo storico ancor
più ampio, PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto in Europa, cit., p. 9: “la
storia del diritto in Europa è la storia di una comune civiltà, di una comune
«repubblica della cultura giuridica»”.
[31] CAVANNA, La codificazione penale in Italia. Le
origini lombarde, Milano, 1987 (ristampa inalterata), p. 6 s.
[32] Sul ruolo svolto dal Consiglio d’Europa nel processo
di armonizzazione degli ordinamenti giuridici penali dei 47 Stati membri, v.
per tutti DELMAS MARTY, Studi giuridici comparati e internazionalizzazione
del diritto, Torino, 2004, p. 17, la quale non manca, tuttavia, di
sottolineare le notevoli difficoltà incontrate da tale processo, che hanno tra
l’altro indotto la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ad elaborare la dottrina
del c.d. margine nazionale di apprezzamento, “inventata dal giudice
europeo” proprio al fine di “prendere in considerazione le diversità,
soprattutto culturali e religiose, che esistono all’interno di una regione
peraltro abbastanza omogenea” (in argomento, v. pure DELMAS MARTY-IZORCHES, Marge
nationale d’appréciation et internationalisation du droit, in Riv. Int.
Dir. Com. 2000, n. 4, p. 753, e in Mc Gill Journal 2001, vol. 46, p.
5 ss.; DONATI-MILAZZO, La dottrina del margine di apprezzamento nella
giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, in
FALZEA-SPADARO-VENTURA (a cura di), La Corte costituzionale e le Corti
d’Europa, Torino, 2003, p. 65 ss.; nonché FRONZA, Legislazione
antiterrorismo e deroghe ai diritti fondamentali: riflessioni sulla teoria del
“margine nazionale di apprezzamento”, in Studi sulla questione criminale
- Dei delitti e delle pene 2006, p. 31 ss.).
[33] In argomento, v. SOTIS, Il diritto senza codice.
Uno studio sul sistema penale europeo vigente, Milano, 2007; SICURELLA, Diritto
penale e competenze dell’Unione europea, cit.; BERNARDI, L’europeizzazione
del diritto e della scienza penale, Torino, 2004, p. 7 ss., p. 55 ss.,
nonché i vari saggi raccolti nel volume di FOFFANI (a cura di), Diritto
penale comparato, europeo e internazionale: prospettive per il XXI secolo,
Milano, 2006.
[34] Cfr. SOTIS, Il diritto senza codice, cit., p.
42; SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, cit., p.
102 ss. Una competenza “diretta” delle Istituzioni comunitarie in materia
penale viene costantemente negata anche dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia delle Comunità europee: v., da ultimo, CGCE sentenza 3 maggio 2007,
causa C-303/05, in Raccolta della giurisprudenza 2007, p. I-03633.
[35] Per una particolare sottolineatura di tale ritardo,
v. TIEDEMANN, L’europeizzazione del diritto penale, cit., p. 3.
[36] Sui rispettivi significati dei concetti
“armonizzazione” ed “unificazione” del diritto v., anche per ulteriori
riferimenti, BERNARDI, Modelli penali, cit., pp. 9-12.
[37] Per una siffatta lettura della vicenda del mandato
d’arresto europeo, v., anche per ulteriori riferimenti, MANACORDA, Il
mandato di arresto europeo nella prospettiva sostanzialpenalistica:
implicazioni teoriche e ricadute politico-criminali, in Riv. It. Dir.
Proc. Pen. 2004, p. 789 ss.; SOTIS, Il diritto senza codice, cit.,
p. 180 s.
[38] Vedi in proposito FLETCHER, Grammatica, cit.,
p. 14, il quale, pur sottolineando l’“accentuata provincializzazione del
diritto penale” (v. supra, note 7-9, e testo corrispondente), ritiene
comunque di poter individuare alcuni “basic concepts” comuni
all’esperienza giuridico-penale di tutti i Paesi occidentali: “la tesi di
questo libro è che già oggi esista, tra le varie esperienze giuridiche
penalistiche del mondo occidentale, un’affinità molto significativa di concetti
e problemi, tratti comuni assai più marcati di quanto siamo soliti ritenere”.
[39] V. i numerosi studi di recente condotti o coordinati
su questo tema da Delmas Marty: DELMAS MARTY, Pour un droit commun,
Paris, 1994; ID. (a cura di), Vers un droit commun de l’humanité, Paris, 1996; ID., Les
forces imaginantes du droit. Le relatif et universel, Paris, 2004; v.
inoltre MANACORDA, Ius commune criminale? Enjeux et perspectives de la
comparaison pénale dans la transition des systèmes, in AA.VV., Variations
autour d’un droit commun, Paris, 2002, p. 323 ss.; BERNARDI, L’europeizzazione,
cit., p. 55 ss.
[40] Per un analogo catalogo di ipotesi in cui più marcate
possono risultare le distanze tra Stato e Stato, v. anche HASSEMER, Vielfalt,
cit., p. 172; SOLNAR, Difficoltà e prospettive, cit., p. 171.
[42] Già SCHULTZ, Vérité au deçà des Pyrénées, cit.,
p. 49 ss., aveva fatto riferimento proprio al delitto di furto per sottolineare
la possibile esistenza di differenze significative anche tra gli ordinamenti
penali di Paesi tra loro ‘contigui’ (in quel caso: Germania e Svizzera): v. supra,
nota 14, e testo corrispondente. Sulla irrilevanza penale del furto d’uso in
Germania, a parte le limitate eccezioni di cui ai §§ 248 b e 290 StGB, vedi per
tutti TRÖNDLE-FISCHER, Strafgesetzbuch und Nebengesetze, 54. Aufl.,
München, 2007, sub § 242, Anm. 38 ss.
[43] V., ad esempio, BERNARDI, Europeizzazione, cit.,
p. 63, il quale giudica, senza giri di parole, come “illusoria”, nell’attuale
contesto storico, la prospettiva di un codice penale valido su scala mondiale;
nello stesso senso, v. anche MANACORDA, Ius commune criminale, cit., p.
323. In generale, sui (limitati) risultati finora raggiunti sul terreno
dell’armonizzazione del diritto penale a livello globale, v.
AMATI-CACCAMO-COSTI-FRONZA-VALLINI, Introduzione al diritto penale
internazionale, Milano, 2006; CASSESE, A., Lineamenti di diritto
internazionale penale. Vol. I - Diritto sostanziale, Bologna, 2005;
AMBOS, Der allgemeine Teil des Völkerstrafrechts: Ansätze einer
Dogmatisierung, Berlin, 2002.
[45] Sul concetto, di derivazione gramsciana, di “cultura
egemone”, v., anche per ulteriori rinvii, GRUPPI, Il concetto di egemonia in
Gramsci, Roma, 1972; LEARS, The Concept of Cultural Hegemony: Problems
and Possibilities, in The American Historical Review, Vol. 90, No. 3
(Jun., 1985), p. 567 ss. Sulla capacità della cultura egemone di imporre come
diritto le proprie regole, v. il fondamentale studio di Karl MANNHEIM, Ideologia
e utopia, Bologna, 1965 (prima edizione in tedesco: Bonn, 1929; seconda
edizione in inglese, ampliata e migliorata: London, 1936), in cui si sostiene
la tesi secondo cui il diritto positivo sarebbe l’espressione delle ideologie
della classe dominante.
[46] SELLIN, Culture
Conflict and Crime, New York, 1938, p. 21. In termini sorprendentemente analoghi si esprimeva, solo qualche anno
prima qui in Italia, LEVI, Dolo e coscienza dell’illiceità nel diritto
vigente e nel Progetto, in Studi economico-giuridici pubblicati a cura
della Facoltà di giurisprudenza di Cagliari, Anno XVI, 1928, p. 56 ss., p.
65 s.: a plasmare la legge penale sono le “idee proprie della classe
legislatrice; chiamarla dirigente o privilegiata, imprecare o benedire a questa
imposizione alle moltitudini attraverso la legge penale di un sistema morale,
patrimonio di pochi, è lecito (…), ma l’affermare che quanto al diritto penale,
vige una specie di democrazia diretta, per la quale la volontà della legge
sarebbe volontà di tutto il popolo, preso nel suo complesso, è assumere come
realtà una idealità che non ha mai avuto riscontro nella pratica, né è lecito
chiudere gli occhi alla verità sol perché meno gradita”. Più di recente, nella
letteratura criminologica italiana, v. BARATTA, Criminologia critica e
critica del diritto penale: introduzione alla sociologia giuridico-penale,
Bologna, 1982, p. 73: “il diritto penale non rispecchia solo regole e valori
accettati unanimemente dalla società, ma seleziona tra valori e modelli
alternativi, a seconda dei gruppi sociali che nella sua costruzione
(legislatore) e nella sua applicazione (magistratura, polizia, istituzioni
penitenziarie) hanno un peso prevalente”.
[47] GARLAND, Punishment and Modern Society,
Oxford, 1990 - trad. it. di CERETTIGIBELLINI, Pena e società moderna. Uno
studio di teoria sociale, Milano, 1999, p. 242 (all’interno di un capitolo
specificamente dedicato a “Pena e cultura. Forme culturali e pratiche penali”).
[48] Sul punto v. DE MAGLIE, Multiculturalismo e
diritto penale. Il caso americano, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2005,
p. 173; CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale, in
FIANDACAFRANCOLINI (a cura di), Sulla legittimazione del diritto penale,
Torino, 2008, p. 83; BERNARDI, Minoranze culturali e diritto penale, in Dir.
Pen. Proc. 2005, p. 1199. Un’analoga considerazione sembra poter essere
valida anche per la situazione di molti altri Paesi europei, che fino ad un
recente passato presentavano un assetto culturale sicuramente più omogeneo o,
perlomeno, meno eterogeneo di quanto lo sia adesso dopo i cambiamenti
verificatisi a seguito dei flussi immigratori degli ultimi decenni.
[49] Relazione del Ministro Guardasigilli al Re per
l’approvazione del testo definitivo del codice penale, in Codice penale,
a cura del Ministro della Giustizia e degli Affari di Culto, Roma, 1930, p. 9 e
10 (corsivo aggiunto); su questo passaggio della Relazione, v. CATTANEO, Il
codice Rocco e l’eredità illuministico-liberale, in La questione
criminale 1981, p. 99 ss.; BERNARDI, Modelli penali, cit., p. 62.
[50] Relazione, cit., p. 72 (corsivo aggiunto).
[51] Relazione, cit., p. 79 (corsivo aggiunto).
[52] V. PALICI DI SUNI PRAT, Intorno alle minoranze,
Torino, 2002, p. 5 ss., p. 191 ss.; GROSSO, Multiculturalismo e diritti
fondamentali nella Costituzione italiana, in BERNARDI (a cura di), Multiculturalismo,
diritti umani, pena, Milano, 2006, p. 116 s.; BERNARDI, Modelli penali,
cit., p. 61 s., il quale giustamente sottolinea che fino a qualche decennio fa
l’Italia non presentava minoranze culturali caratterizzate da costumi
significativamente diversi, tali da reclamare una loro specifica considerazione
in ambito penale.
[53] Sottolinea il fatto che solo in conseguenza
dell’immigrazione degli ultimi decenni è cresciuto in Italia (e in altri Paesi
d’Europa) il tasso di eterogeneità culturale, anche MANCINI, L., Società
multiculturale e diritto italiano. Alcune riflessioni, in Quad. Dir.
Pol. Eccl. 2000, p. 71.
[54] V. supra, 1.2.
[55] Così SACCO, Antropologia giuridica, cit., p.
29; in argomento v. pure VIOLA, Diritti fondamentali e multiculturalismo,
in BERNARDI (a cura di), Multiculturalismo, diritti umani, pena, Milano,
2006, p. 42; PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto, cit., p. 502 ss.;
nonché TREVES, Diritto e cultura, 1947, ora in TREVES, Il diritto
come relazione: saggi di filosofia della cultura, Napoli, 1993, p. 122, il
quale ricorda, tra gli esponenti della Scuola storica del diritto, anche la
figura di ARNOLD, che nel suo lavoro Kultur und Rechtsleben, Berlin,
1865, mise in luce, secondo le parole di Treves, “l’indissolubile legame che
unisce il diritto all’economia, alla politica e ad altre forme di cultura”.
[56] Si tratta di un’idea sostenuta da Savigny fin dai
tempi del ‘manifesto’ della Scuola storica, il libello Vom Beruf unsrer Zeit
für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft (Sulla vocazione del nostro
tempo per la legislazione e la giurisprudenza), Heidelberg, 1814, scritto
in replica all’invito, formulato da Anton Thibaut nello scritto Über die
Nothwendigkeit eines allgemeinen bürgerlichen Rechts für Deutschland (Sulla
necessità di un diritto civile generale per la Germania), Heidelberg, 1814,
di procedere all’elaborazione di una codificazione sul modello napoleonico,
volta ad unificare il diritto civile nel mondo germanico. In argomento v. ora
MARINI, G. (a cura di), La polemica sulla codificazione tra A.F.J. Thibaut e
F.C. Savigny, Napoli, 1982, ove sono riprodotti, in traduzione italiana, i
due citati scritti.
[57] Si vedano, a tal
proposito, i contributi di MEZGER, Sein und Sollen im Recht, Tübingen,
1920, in part. p. 33 ss.; di SAUER, W., Lehrbuch der Rechts- und
Sozialphilosophie, Berlin, 1929; nonché di MÜNCH, F., Kultur und Recht,
Leipzig, 1918.
[58] RADBRUCH, Rechtsphilosophie,
III ed., Leipzig, 1932, p. 4. La stessa
identica affermazione era già presente, agli inizi del Novecento, in
BEROLZHEIMER, System der Rechtsund Wirtschaftsphilosophie, München,
1906, vol. 3, p. 159, nonché, negli stessi anni in cui scriveva Radbruch, in
TSATOS, Der Begriff des positiven Rechts, Heidelberg, 1928, p. 120 s., e
in MAYER, M.E., Rechtphilosophie, Berlin, 1922, p. 31 (il quale già
qualche anno prima aveva sostenuto che “il diritto è uno dei principali fattori
di cultura”: MAYER, M.E., Kulturnormen und Rechtsnormen, Breslau, 1903,
p. 24). Nello stesso senso v. pure ROSS, A., On Law and Justice, 1958,
trad. it. Diritto e giustizia, 1990, Torino, p. 94: “non diversamente da
qualsiasi espressione oggettiva di cultura, le norme giuridiche non possono
essere comprese isolandole dal mileu culturale che le ha generate”. Da
noi in Italia, v. PAGLIARO, Diritto penale e cultura europea, in AA.VV.,
Prospettive per un diritto penale europeo, cit., p. 151: “il diritto è
un fenomeno di cultura”; da ultimo, SACCO, Antropologia giuridica, cit.,
p. 42: “il diritto non è diverso, né separato, dagli altri fenomeni sociali e
culturali”.
[59] Sul preciso significato di tale affermazione, nonché
sull’ampio movimento filosofico che la prepara e la porta a maturazione, sorto
in Germania nei primi decenni del secolo scorso ma poi diffusosi anche in
Italia, v. TREVES, Diritto e cultura, cit., p. 113 ss.; ID., Il
diritto come componente della cultura, 1980, ora in TREVES, Il diritto
come relazione: saggi di filosofia della cultura, cit., p. 197 ss. (in
questo secondo saggio Treves torna sull’analisi dei rapporti tra diritto e
cultura da Egli svolta nel 1947, arricchendola di ulteriori riferimenti agli
studi dei filosofi della società – tra i principali, quelli di Dilthey e
Spranger – e dei sociologi – tra i più significativi, quelli di Sorokin e
Gallino – coi quali, nel corso del secolo scorso, era stato messo in luce il
ruolo del diritto quale “componente della cultura”).
[60] Per un inquadramento generale di tale tematica,
restano fondamentali le pagine di WÜRTENBERGER, Die geistige Situation der
deutschen Strafrechtswissenschaft, Kahrlsruhe, 1957 (trad. it. di
LOSANO-GIUFFRIDA RÉPACI, La situazione spirituale della scienza penalistica
in Germania, Milano, 1965).
[61] SPIRITO, Storia del diritto penale italiano,
III ed., Firenze, 1974, p. 271.
[62] HÖFFE, Globalizzazione, cit., p. 11.
[63] PONTI, Compendio, cit., p. 37.
[64] GARLAND, Pena e società moderna, cit., p. 235
s., il quale sottolinea, altresì, “l’esistenza di un rapporto sistematico tra
fenomeni culturali e istituzioni penali”.
[65] BETTIOL-PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale,
XII ed., Padova, 1986, p. 13.
[66] BERNARDI, I tre volti del “diritto penale
comunitario”, in PICOTTI (a cura di), Possibilità e limiti di un diritto
penale dell’Unione europea, Milano, 1999, p. 42. In senso analogo, v. pure
DE FRANCESCO, G.A., Multiculturalismo e diritto penale nazionale, in
BERNARDI (a cura di), Multiculturalismo, diritti umani, pena, Milano,
2006, p. 137.
[67] TIEDEMANN, L’europeizzazione del diritto penale,
in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1998, p. 3; nello stesso senso, v. ID., Das neue
Strafgesetzbuch Spaniens und die europäische Kodificationsidee, in Jur.
Zeitung 1996, p. 647: “die Straftatbestände [müssen] als negativ
formulierter Ausdruck der Wertungen einer Gesellschaft deren fundamentale, auf
Dauer angelegte Wertaussagen möglichst vollständig spiegeln”. In senso analogo, v. pure PULITANÒ, Diritto penale,
II ed., Torino, 2007, p. 4: “il diritto penale è prodotto e specchio
significativo del modo di essere e dei valori della società che lo esprime”.
[68] CADOPPI-VENEZIANI, Elementi di diritto penale.
Parte speciale, II ed., Padova, 2007, p. 7. Nutre, invece, talune
perplessità sulla “tendenza a considerare il codice [penale] come lo specchio
in cui si riflettono i valori fondamentali di una società in un dato momento
storico”, FIANDACA, Problemi e prospettive attuali di una nuova
codificazione penale, in Foro it. 1994, V, p. 1 ss. (in part. par.
6).
[69] Le forze – e le cognizioni – limitate di chi scrive
non consentono di procedere, in questa sede, ad una precisa ed accurata
illustrazione di ciò che si intende per “morale” (come complesso di regole
morali), di distinguerla dall’“etica” (come teoria della morale), e soprattutto
di specificare quali siano i rapporti tra “morale” e “cultura”. Ai limitati
fini della presente indagine, ci sia tuttavia consentito dare per presupposto
che la morale costituisce una componente della cultura. Da questo stesso
presupposto, del resto, partono – per affrontare il medesimo tema oggetto di
queste nostre pagine – anche M. E. Mayer (su cui v. subito infra, 2.3.1,
in particolare nota 74, e testo corrispondente); MANNHEIM, H., Trattato di
criminologia comparata, trad. it. a cura di FERRACUTI, Torino, 1975, vol.
I, p. 46 ss.; LAMPE, Strafphilosophie, Köln, 1999, p. 228; PONTI, Compendio,
cit., p. 46 ss.
[70] La letteratura sui rapporti tra diritto penale e morale
è immensa. Oltre alle opere citate nelle seguenti pagine, si vedano, anche per
ulteriori indicazioni e sviluppi, nella dottrina di lingua tedesca, HENKEL, Einführung
in die Rechtsphilosophie, II ed., München 1977, in particolare pp. 66 ss.,
81 ss., 90 ss.; ENGISCH, Auf der Suche nach der Gerechtigkeit, München,
1971, p. 82 ss.; KAUFMANN, Arth., Recht und Sittlichkeit, Tübingen,
1964, p. 41 ss.; ID., Strafrechtspraxis und sittliche Normen, in Juristische
Schulung (JuS) 1978, p. 361 ss.; WELZEL, Recht und Sittlichkeit,
in Festschrift für Schaffstein, Göttingen, 1975, p. 45 ss. Nella
dottrina di lingua inglese, oltre agli scritti che animarono la polemica tra il
giudice Lord Devlin ed il professore H.L.A. Hart di Oxford (per una sintesi
della quale v. MANNHEIM, H., Trattato di criminologia comparata, vol. I,
cit., p. 67 ss.), v. PACKER, The Limits of the Criminal Sanction,
Stanford, 1968, p. 261 ss.; FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law,
Oxford-New York, 1984-1988; HART, Il concetto di diritto, Milano, 2002
(si veda, in particolare, il cap. IX su Diritto e morale); per ulteriori
citazioni di dottrina di lingua inglese si veda pure CADOPPI, Liberalismo,
paternalismo e diritto penale, cit., p. 83 ss. Per la dottrina italiana ci
limitiamo a richiamare i contributi di recente raccolti in CANESTRARI (a cura
di), Laicità e diritto, Bologna, 2007, ove possono trovarsi ampi rinvii
alla letteratura in argomento. Peraltro, alla produzione scientifica sui
rapporti tra diritto penale e morale, occorre necessariamente aggiungere, per
avere un quadro più completo, anche quella relativa al “diritto naturale”,
anch’essa sterminata: per alcune prime indicazioni, v. PASSERIN D’ENTRÈVES, Natural
Law. An Introduction to Legal Philosophy, IV ristampa, London, 1957; WOLF,
E., Das Problem der Naturrechtslehre, Karlsruhe, 1955; WELZEL, Naturrecht
und materielle Gerechtigkeit, IV ed., Göttingen, 1962 (trad. it. 1965 a
cura di DE STEFANO).
[71] Seguiamo qui l’impostazione, e in particolare la
‘tripartizione’, già adottate da ROXIN, Sul rapporto tra diritto e morale
nella riforma penale tedesca, in Ind. Pen. 1982, p. 24 ss.
[72] MAYER, M.E., Rechtsnormen
und Kulturnormen, Breslau, 1903 (ristampa Frankfurt am Main - Tokyo, 1977),
p. 16. Tradizionalmente, nella dottrina
italiana, fin dal lavoro di LEVI, Dolo e coscienza dell’illiceità, cit.,
p. 49 ss., il termine mayeriano “Kulturnormen” è stato tradotto con
“norme di civiltà”. Più di recente, tuttavia, CADOPPI, Il ruolo delle Kulturnormen
nella “opzione penale” con particolare riferimento agli illeciti economici,
in Riv. trim. dir. pen. econ. 1989, p. 298, traduce con “norme di
cultura”.
[73] L’affermazione della “coincidenza” costituisce lo
snodo centrale di una più ampia teorica sviluppata da Mayer nell’opera in
parola, secondo cui “tutte le leggi sono rivolte agli amministratori delle
leggi; gli organi dello Stato, deputati ad applicarle, sono gli unici
destinatari dei comandi contenuti nella legge” (MAYER, M.E., Rechtsnormen,
cit., p. 4). Partendo da tale presupposto, Mayer si pone, quindi, il seguente
interrogativo: “perché le leggi, pur non essendo rivolte ai cittadini, sono
tuttavia vincolanti per i cittadini?” (ivi, p. 16), cui ritiene di poter
fornire una convincente risposta proprio sulla base dell’asserita coincidenza
delle norme giuridiche con le Kulturnormen: “le norme giuridiche
coincidono con norme di civiltà, la cui forza vincolante l’individuo conosce e
riconosce” (ivi, p. 16); “se quindi gli obblighi, che sorgono per
l’individuo dall’ordinamento giuridico, sono identici agli obblighi che gli
sono imposti dalla Kultur, allora nessuno può lamentarsi di essere
giudicato sulla base di norme che non gli sono state comunicate” (ivi,
p. 17). Da tale teorica Mayer ritiene, altresì, di poter desumere importanti
corollari in ordine alla ricostruzione dei contenuti della colpevolezza e, in
particolare, in ordine alla soluzione da dare al problema dell’ignoranza della
legge penale. Per l’illustrazione e la critica di tali corollari – che fuoriescono
dall’oggetto della nostra indagine – v. LEVI, Dolo e coscienza
dell’illiceità, cit., p. 48 ss.; PULITANÒ, L’errore di diritto nella
teoria del reato, Milano, 1976, pp. 131-142.
[74] Tale consapevolezza emerge, ad esempio, laddove Mayer
chiarisce di voler utilizzare il concetto di “Kultur”, anziché quello di
“Moral”, essendo il primo più ampio e ricomprensivo del secondo (MAYER,
M.E., Rechtsnormen, cit., p. 116, nota 7).
[75] V. quanto già detto supra, nota 69.
[76] MAYER, M.E., Rechtsnormen,
cit., p. 17. Altrove Mayer precisa, a
proposito delle “esigenze imposte dai rapporti sociali o dalla vita
professionale”, che i rapporti sociali possono essere tanto quelli
relativi alla circolazione stradale, quanto quelli relativi agli scambi
economici e spirituali, mentre la vita professionale può essere tanto
quella del medico, quanto quella del soldato, del commerciante,
dell’accademico, etc.: MAYER, M.E., Rechtsphilosophie, cit., p. 38.
[77] MAYER, M.E., Rechtsphilosophie, cit., p. 38;
ivi v. pure, a p. 39, nota 1, alcuni esempi di Kulturnormen.
[78] MAYER, M.E., Rechtsnormen,
cit., p. 18.
[79] MAYER, M.E., Der
allgemeine Teil des deutschen Strafrechts - Lehrbuch, 2. Aufl., Heidelberg,
1923, p. 38; nello stesso senso, v. pure ID., Rechtsphilosophie, cit.,
p. 33 ss.
[80] MAYER, M.E., Rechtsphilosophie,
cit., p. 35.
[81] MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit., p. 19 e 20.
[82] MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit., p. 20.
All’interno della dottrina italiana, in termini pressoché identici si è espresso
Manzini (principale sostenitore, da noi, di una variante della teoria di Mayer:
quella del minimo etico, su cui v. infra, 2.3.1.1): “nelle società
primitive, in cui lo sviluppo etico è naturalmente rudimentale, le norme morali
(…) sono tutte e necessariamente norme imperative e coattive (…). Non è già che
in quest’epoca il diritto si trovi ‘confuso’ con l’etica (costume e religione),
come spesso si dice; esso invece costituisce con questa un tutto inscindibile
senza logica possibilità di differenziazione”; solo in una fase successiva il
diritto “si differenzia dall’etica mediante i caratteri specifici del precetto
imperativo e della sanzione coercitiva” (MANZINI, Trattato di diritto penale
italiano, vol. I, V ed., Torino, 1981, p. 36-37).
[83] MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit., p. 20.
[84] Ibidem.
[85] MAYER, M.E., Lehrbuch,
p. 49. Tra gli Autori contemporanei va segnalato il tentativo di HASSEMER, Theorie
und Soziologie des Verbrechens - Ansätze zu einer praxisorientierten
Rechtsgutslehre, Frankfurt am Main, 1973, p. 127 ss., e, ancor più, di
AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, Frankfurt am
Main, 1972, p. 287 ss., di riproporre la teoria della “coincidenza” di Mayer,
affinandola attraverso un approccio sociologico.
[86] BETTIOL, Istituzioni di diritto e procedura penale,
III ed., Padova, 1980, p. 32.
[87] CADOPPI, Il ruolo delle Kulturnormen, cit., p.
289 ss., in part. p. 297 ss.; nello stesso senso v. pure CADOPPI, Il reato
omissivo proprio, I, Padova, 1988, p. 677 ss., p. 681, p. 687, p. 713, p.
715, ove si auspica una maggior convergenza, soprattutto de lege ferenda,
tra norme penali e norme di cultura; nonché CADOPPI-VENEZIANI, Elementi di
diritto penale. Parte generale, Padova, 2007, p. 94 ss., p. 149 ss.
[88] Così PULITANÒ, L’errore, cit., p. 135.
[89] Si veda, ad esempio, la spietata critica rivolta a
Mayer da BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, vol. II, prima parte,
II ed., Leipzig, 1914 (rist. Aalen, 1965), p. 366 ss.: secondo Binding l’opera
di Mayer contiene autentiche “mostruosità” (p. 366, nota 5), e si avvale di
“esempi che fanno paura” (p. 368, nota 12), sicché l’unico suo merito è che “in
essa tutto è sbagliato” (p. 368-9). Secondo Binding, insomma, “questa Kulturnorm,
intesa /quale indispensabile presupposto (Hintergrund) della norma
giuridica e quale unica forza che dovrebbe vincolare i consociati (Rechtsgenossen),
costituisce davvero la più detestabile creazione (die hässlichste Schöpfung)
di una dogmatica giuridica sociologicamente snaturata e completamente deviante
rispetto al vero diritto” (p. 370; ivi v. pure, a p. 366-370 e note 5-16, il
richiamo ad altri Autori che muovono rilievi critici alla teoria della
“coincidenza”, cui va aggiunto anche KELSEN, Hauptprobleme der
Staatsrechtslehre, II ed., Tübingen, 1923 (rist. Aalen, 1960), p. 370 ss.,
che bolla la teoria di Mayer come “insostenibile”.
[90] Oltre al già citato lavoro di PULITANÒ (supra,
nota 88), tra i primi e più limpidi critici della teoria di Mayer figura LEVI, Dolo
e coscienza, cit., p. 56 s., il quale aveva messo in evidenza la fragilità
e l’antistoricità delle tesi di Mayer, sottolineando, in particolare, il “netto
distacco” esistente “tra diritto penale e coscienza popolare”, come comprova la
“simpatia onde l’anima popolare circonda gli autori di taluni, e tra i più
gravi delitti”. Più di recente, v. pure MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit.,
p. 420.
[91] MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit., p. 22 s.
(corsivo aggiunto).
[92] Ibidem.
[93] MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit., p. 23.
[94] MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit., p. 25 s.
[95] MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit., p. 26.
[96] MAYER, M.E., Rechtsnormen,
cit., p. 27. Subito dopo, tuttavia, Mayer
precisa: “la nostra teoria (unser Prinzip) non deve piegarsi di fronte a
tale realtà (Thatsache), bensì la realtà di fronte alla teoria”. Ma,
come annota ironicamente BINDING, Die Normen, vol. II, cit., p. 369, si
tratta solo di una mossa per “trasformare una sconfitta in una vittoria!”.
[97] MAYER, M.E., Rechtsnormen,
cit., p. 27.
[98] Ibidem.
[99] MAYER, M.E., Rechtsnormen,
cit., p. 109-129. Sulla distinzione tra Justiz- und Verwaltungsstrafrecht,
v. pure ID., Der allgemeine Teil des deutschen Strafrechts, cit., p. 53
ss.
[100] È lo stesso MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit.,
p. 113, a sottolinearne il gran numero: “nelle nostre leggi le norme del
diritto penale amministrativo sono presenti a iosa”.
[101] MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit., p. 115 ss.
Quali esempi di norme penali culturalmente indifferenti, appartenenti al Verwaltungsstrafrecht,
Mayer indica:
- le norme che vietano
lo svolgimento di un’attività senza aver ottenuto una previa autorizzazione
amministrativa: “la cultura pretende senz’altro che chi prepara la
polvere da sparo debba usare la massima cautela, ma non pretende certo che per
tale preparazione si munisca di un’autorizzazione amministrativa: questo lo
pretende solo la legge” (corsivo aggiunto);
- le norme che
puniscono una condotta contraria a determinati provvedimenti amministrativi: la
cultura impone al “prudente cavaliere” di attraversare un ponte al
passo, quando il ponte è pieno di persone e di veicoli, ma non gli impedisce
certo di attraversarlo al trotto quando sul ponte non c’è anima viva; per
contro, “l’autorità amministrativa potrebbe avere buoni motivi per vietare
l’attraversamento in velocità del ponte sempre e comunque”, e allora appone un
cartello all’inizio del ponte, riportante tale divieto penalmente sanzionato da
una legge.
[102] Considerazioni analoghe sono svolte anche da Manzini
(come già detto, principale sostenitore, in Italia, di una variante della teoria
di Mayer: v. infra, 2.3.1.1), il quale, dopo aver rilevato che “tutti i
reati, comprese le contravvenzioni, non sono che precetti di condotta morale
coattivamente imposti”, ammette che esistono “leggi immorali” o comunque leggi
che nulla hanno a che fare con la morale: ma le prime “sono eccezioni, che non
possono infirmare la regola”, mentre le seconde fanno parte del “così detto
diritto penale amministrativo [che] non è il diritto penale caratteristico”:
MANZINI, Trattato, cit., vol. I, p. 37 s.
[103] MAYER, M.E., Rechtsnormen, cit., p. 126 ss.
[104] Fa leva sulla presenza, in ogni ordinamento
giuridico, di norme “culturalmente indifferenti”, per respingere la teoria
della “coincidenza”, anche KELSEN, Hauptprobleme der Staatsrechtslehre,
cit., p. 374.
[105] V. a tal proposito l’ironico commento di LEVI, Dolo
e coscienza, cit., p. 61 s.: Mayer pare come “il viandante che ha smarrito
la direzione e che dopo aver lungamente errato, vede finalmente delinearsi un
abitato, ma dolorosamente constata che altro non è se non quello da cui prese
mosse. Tanto lavoro, tanto sfarzo di scintillante ingegno (le pagine di Mayer
sono forse le più interessanti tra quelle dedicate al nostro tema) per
ritrovarci alla distinzione tra delitti naturali e delitti di mera creazione
politica; poiché non ad altro si riducono le distinzioni tra diritto penale
di giustizia e diritto penale amministrativo, alle quali ricorre il
Mayer”.
[106] Sollecitato dalle numerose critiche ricevute, Mayer,
nel suo Lehrbuch, cit. (la cui prima edizione risale al 1915), chiarisce
infatti – in termini inequivocabili – che la teoria della “coincidenza delle
norme giuridiche con le Kulturnormen” non è rivolta a descrivere il
diritto positivo nel suo complesso, ma solo una parte di esso, e intende,
quindi, fornire indicazioni de iure condendo per il futuro legislatore:
cfr. MAYER, M.E., Lehrbuch, cit., p. 45, nota 9: “Diese Untersuchung [hat]
mit dem positiven Recht zu wenig Fühlung (…), als daß sie hier
aufgenommen dürfte”, nonché ivi, p. 54, dove si ribadisce che i
tentativi di distinguere il diritto penale di giustizia dal diritto penale
amministrativo “hanno una rilevanza pratica solo nella misura in cui contengono
proposte de lege ferenda”; ed infine ivi, p. 55, nota 27: “non so
in che modo avrei potuto sottolineare con ancor maggior vigore di quanto ho
fatto, che un diritto penale amministrativo de lege lata non esiste, che
quindi io non potevo avere l’ambizione di fornire una ricostruzione del diritto
positivo”.
[107] Per tale rilievo v. pure MANTOVANI, Diritto
penale. Parte generale, cit., p. 15.
[108] BELING, Die Lehre vom
Verbrechen, Tübingen, 1906 (ristampa Aalen, 1964), p. 33.
[109] BELING, Die Lehre vom
Verbrechen, cit., p. 184.
[110] JELLINEK, Die
sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und Strafe, Wien, 1878, ove, a
p. 48, compare la celebre affermazione secondo cui “das Recht ist das
ethische Minimum”.
[111] Così riassume l’idea centrale di tale teoria ROXIN, Sul
rapporto tra diritto e morale, cit., p. 27. Come ricorda LAMPE, Strafphilosophie,
cit., p. 272, nota 1, in Germania la teoria della “coincidenza” tra diritto
penale e “ordinamento morale di un popolo (sittliche Ordnung eines Volkes)”
venne sostenuta – su presupposti ideologici ben differenti da quelli dai quali
partiva Jellinek – anche dalla c.d. Scuola di Kiel: v., ad esempio,
SCHAFFSTEIN, Das Verbrechen als Pflichtverletzung, Berlin, 1935, p. 7,
p. 18.
[112] MANZINI, Trattato, cit., vol. I, p. 35.
[113] MANZINI, MANZINI, op. cit., p. 37.
[114] MANZINI, op. cit., p. 38. Affermazioni
sostanzialmente identiche si ritrovano anche nell’edizione del Trattato del
1926: v. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, Torino,
1926, p. 21 ss.
[115] MANZINI, op. cit., p. 30.
[116] MAGGIORE, Principi di diritto penale. Parte
Generale, Bologna, 1932, p. 16. Per un quadro di sintesi di tali posizioni
(sia pur con varietà di accenti sostenute, oltre che da Maggiore, anche da
Battaglini, Bettiol e Petrocelli), v., in termini critici, PANNAIN, Il
diritto penale e la morale, in Scritti giuridici in onore di Manzini,
Padova, 1954, p. 345 ss. Per l’illustrazione, e la critica, di analoghe
posizioni eticizzanti, sostenute dalla dottrina tedesca nella prima metà del
secolo scorso, v. BARATTA, Antinomie giuridiche e conflitti di coscienza,
cit., p. 155 ss.
[117] BINDING, Die Normen,
cit., vol. I, p. 320, nota 7 (il testo originale della citazione è il seguente:
“Bei der Verschiedenheit der Grundlagen beider Reiche [Reich der
Sittlichkeit und Reich des Rechts] muss es rechtsmässige Handlungen geben,
die sehr unsittlich, widerrechtliche Handlungen, die sittlich sein können”).
Più di recente, in senso critico sulla
teoria della coincidenza tra diritto e morale, v., in una prospettiva
criminologica, MANNHEIM, H., Trattato di criminologia comparata, cit.,
vol. I, p. 66, ed in una prospettiva giusfilosofica, LAMPE, Strafphilosophie,
cit., p. 272 s.
[118] PEDRAZZI, voce Diritto penale, in Dig.
disc. pen., vol. IV, Torino, 1990, ora in ID., Studi di diritto penale,
vol. I,
Milano, 2003, p. 155.
[119] ROXIN, Was darf der
Staat unter Strafe stellen? Zur Legitimation von Strafdrohungen, in Studi
in onore di Marinucci, cit., p. 722 (testo originale: “die Berufung auf
ethische Grundsätze ist noch nicht kein für eine Pönalisierung ausreichendes
Argument”).
[120] MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 418
(corsivi nell’originale). Nello stesso senso, limitandoci alla sola
manualistica più recente, v. pure, inter alios, ANTOLISEI, Manuale di
diritto penale. Parte generale, XVI ed., Milano, 2003, p. 12: “la dottrina
che ravvisa un legame indissolubile fra il diritto e la morale non resiste ad
un sereno esame critico”, in quanto essa “è contraddetta dalla realtà. Un esame
completo e spassionato delle norme del diritto positivo, infatti, dimostra che
non sempre il reato è un’azione immorale: dimostra, in altri termini, che sono colpiti
da pena anche fatti che non contrastano coi postulati dell’etica” (corsivo
nell’originale); analogamente, ROMANO, Commentario, cit., Pre-Art. 39,
punto 76; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 15; PULITANÒ, Diritto
penale, cit., p. 41 ss.; PAGLIARO, Principi, cit., p. 676 s.;
CANESTRARI-CORNACCHIA-DE SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte generale,
Bologna, 2007, p. 225 ss..
[121] Per analoghi esempi, v. pure ROXIN, Sul rapporto
tra diritto e morale, cit., p. 28.
[122] Uno degli scritti più dirompenti della letteratura
criminologica del secolo scorso si intitola “Il ‘reato del colletto bianco’ è
un reato?” (SUTHERLAND, Is ‘White-Collar Crime’ Crime?, in American
Sociological Review, vol. X, 1945, p.
132-139). In tale lavoro, Sutherland riferisce di aver sorprendentemente
constatato che solo una minima percentuale (il 9 % su un campione di 547 casi)
delle violazioni di leggi speciali relative a materie economiche (le leggi in
materia di antitrust, false advertising, national labor relations,
infringment of patents, e copyrights and trademarks), era stata
effettivamente punita in sede penale, e ciò anche quale conseguenza della
scarsa riprovazione etico-sociale espressa, rispetto a tali violazioni, non
solo dagli uomini d’affari, ma anche dalle autorità locali e da ampi settori
dell’opinione pubblica, tanto da far sorgere l’interrogativo se tali violazioni
costituissero davvero “reato” (per ulteriori sviluppi di tale ricerca, v. pure
SUTHERLAND, White Collar Crime, New York, 1949, e, in versione
integrale, New York, 1983). In argomento, v. da ultimo FORTI, Il crimine dei
colletti bianchi come dislocazione dei confini normativi. “Doppio standard” e
“doppio vincolo” nella decisione di delinquere o di Blow the Whistle, in
AA.VV., Impresa e giustizia penale: tra passato e futuro, Milano, 2009,
p. 173 ss..
[123] Ad esempio, la guida senza patente, criminalizzata in
alcuni ordinamenti, come quello tedesco: v. § 21 StVG (per tale esempio, v.
LAMPE, Strafphilosophie, cit., p. 272).
[124] Si veda, ad esempio, quanto sostenuto da PANNAIN, Il
diritto penale e la morale, cit., p. 347, ad avviso del quale i reati
colposi “non hanno alcun rapporto con la morale”; nonché da ANTOLISEI, Manuale
di diritto penale. Parte generale, cit., p. 12, che ritiene “assai
discutibile” l’immoralità dei reati colposi, dal momento che “la coscienza
sociale in genere non li considera disonoranti”.
[125] Come è noto, secondo l’opinione espressa da una parte
della dottrina, specie di lingua tedesca, in caso di colpa incosciente “un
rimprovero etico risulta – almeno sotto il profilo della colpevolezza del
volere – del tutto impossibile”: così ROXIN, Sul rapporto tra diritto e
morale, cit., p. 28. In argomento v. KAUFMANN, Arth., Das Schuldprinzip:
eine strafrechtlich-rechtsphilosophische Untersuchung, 2. Aufl.,
Heidelberg, 1976, p. 223; HORN, Verbotsirrtum und Vorwerfbarkeit,
Berlin, 1969, p. 150 ss.; JAKOBS, Das Fahrlässigkeitsdelikt, in ZStW-Beiheft,
1974, p. 7; VOLK, Reformüberlegungen zur Strafbarkeit der
fahrlässigen Körperverletzung im Straßenverkehr, in Gold. Archiv 1976,
p. 177.
[126] Si tratta del § 3, Abs.
2, del Gesetz gegen heimtückische Angriffe auf Staat und Partei und zum
Schutz der Parteiuniformen, meglio noto come Heimtückegesetz, del 20
dicembre 1934, pubblicato in Reichgesetzblatt 1934, I, p. 1269. Su tale legge – successivamente abrogata, come ricorda
MANNHEIM, H., Trattato di criminologia comparata, cit., p. 73, in quanto
ritenuta “contraria alla coscienza ed al senso di giustizia di tutti gli esseri
umani onesti” – v. DÖRNER, „Heimtücke“: Das Gesetz als Waffe, Paderborn,
1998. Per una riflessione su alcune norme giuridiche, emanate in Germania sotto
il regime nazista, contrastanti intollerabilmente con principi etici o valori
diffusi nella collettività, v. RADBRUCH, Gesetzliches Unrecht und
übergesetzliches Recht, in Süddeutsche Juristen-Zeitung 1 (1946),
pp. 105-8, e, in ‘dialogo’ con Radbruch, v. ALEXY, Begriff und Geltung des
Rechts, München, 1992 (trad. it., Concetto e validità del diritto,
Torino, 1997, p. 26 ss.); nonché VASSALLI, Formula di Radbruch e diritto
penale: note sulla punizione dei delitti di Stato nella Germania postnazista e
nella Germania postcomunista, Milano, 2001.
[127] Si tratta dell’art. 65 r.d. 8 luglio 1938, n. 1415
(c.d. legge italiana di guerra), in base al quale “nessuna sanzione collettiva,
pecuniaria o d’altra specie, può essere inflitta alle popolazioni a causa di
fatti individuali, salvoché esse possano esserne ritenute solidalmente
responsabili”. Su tale disposizione e sulla sua incompatibilità con il
principio della responsabilità individuale, v. VENDITTI, Il principio della
personalità della pena e le sanzioni collettive, in Riv. It. Dir. Pen. 1956,
p. 567 ss.
[128] Oltre alle tristemente note leggi razziali naziste e
fasciste, si pensi pure alle varie leggi segregazioniste in vigore, fino a
pochi decenni fa, in alcuni Stati degli USA: ad es., il Racial Integrity Act
del 20 marzo 1924, legge dello Stato della Virginia che tra l’altro puniva
– considerandoli alla stregua di un felony – i matrimoni misti tra
“bianchi” e “non-bianchi”, rimasta in vigore fino al 1967; ed una legge
dall’analogo contenuto – quantunque priva di sanzioni penali – è rimasta in
vigore nello Stato dell’Alabama addirittura fino al 2000 (v. sito CNN:
//archives.cnn.com/2000/ALLPOLITICS/stories/11/07/alabama.interracial/).
[129] Per un impressionante catalogo di queste e altre
immorali atrocità commesse dagli Stati attraverso il ricorso allo strumento
formale della legge penale, si può vedere STELLA, La giustizia e le
ingiustizie, Bologna, 2006, passim.
[130] LEVI, Dolo e coscienza, cit., p. 57.
[131] LEVI, Dolo e coscienza, cit., p. 55, nota 136.
[132] LEVI, Dolo e coscienza, cit., p. 59; la
citazione di Massari è tratta da MASSARI, La norma penale, S. Maria
Capua Vetere, 1913, p. 137.
[133] Per una ricostruzione critica della teoria di
Carmignani, anche in prospettiva storica, v. CARNEVALE, Il principio morale
nel diritto criminale, Palermo, 1895; ID., La dottrina morale nel
diritto penale, in Riv. Pen. vol. LV (1902), p. 137 ss.
[134] CARMIGNANI, Teoria delle leggi della sicurezza
sociale, Pisa, 1833, p. 21.
[135] CARMIGNANI, Teoria delle leggi, cit., p. 73.
[136] CARMIGNANI, Teoria delle leggi, cit., pp.
89-90.
[137] CARMIGNANI, Teoria delle leggi, cit., p. 111.
[138] V. CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale,
trad. it. sulla V ed. di Pisa del 1833, Milano, 1863, § 7 (corsivo
nell’originale).
[139] CARMIGNANI, Elementi, cit., § 34.
[140] CARRARA, Programma del corso di diritto criminale.
Parte generale, Lucca, 1876, III ed., vol. I, § 12.
[141] Fuori d’Italia, l’aspirazione ad una totale
estromissione della morale dalla sfera penale potrebbe rinvenirsi in talune
posizioni sostenute da una parte della dottrina anglosassone a partire dal
celebre passaggio dell’opera di MILL, J.S., On Liberty, London, 1859,
ove viene esposta la teoria dell’autoprotezione (self-protection): sul
punto, v. l’attenta analisi di FORTI, Per una discussione sui limiti morali
del diritto penale. Tra visioni ‘liberali’ e paternalismi giuridici, in Scritti
in onore di Marinucci, cit., p. 310 ss.
[142] V. supra, 2.3.1.1, lett. b).
[143] FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 73.
[144] Così ROXIN, Sul rapporto tra diritto e morale,
cit., p. 28 s. (corsivo aggiunto), con specifico riferimento ai rapporti tra
norme penali e norme morali.
[145] V. ancora ROXIN, op. loc. ult. cit.; nello
stesso senso, e con ricorso alla stessa immagine dei cerchi intersecantisi, v.
pure MANNHEIM, H., Trattato di criminologia comparata, vol. I, cit., p. 81; LAMPE, Strafphilosophie,
cit., p. 230; EGETER, Das ethnisch-kulturell motivierte Delikt, cit., p.
16.
[146] PULITANÒ, L’errore, cit., p. 139. Nello stesso
senso v. pure STELLA, Laicità dello Stato: fede e diritto penale, in
MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano,
1985, p. 316, il quale, riprendendo il citato passaggio di Pulitanò, così
scrive: “l’apparato statuale coercitivo non può non essere in relazione con un
assetto sociale e culturale storicamente determinato”.
[147] PEDRAZZI, voce Diritto penale, cit., p. 157.
[148] PAGLIARO, Principi, cit., p. 676 s.
[149] MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 425
(corsivo nell’originale); in senso adesivo, v. FORTI, Per una discussione
sui limiti morali del diritto penale, cit., p. 305, il quale, dopo aver
riportato questo stesso passaggio di Marinucci e Dolcini, aggiunge: “anche i
più decisi fautori di un’idea di laicità del diritto penale non possono fare a
meno di riconoscere” l’esistenza di un siffatto rapporto di implicazione.
[150] ROXIN, Sul rapporto tra diritto e morale,
cit., p. 28 s.
[151] La correlazione esistente tra ‘grado di
consonanza delle norme penali con le norme culturali’ e ‘grado di
funzionalità del sistema penale’ è già stata messa in luce da attenta dottrina:
v., ad es., PEDRAZZI, voce Diritto penale, cit., p. 156 s., che indaga
la tematica delle intersecazioni tra questi due corpi normativi proprio “in
un’ottica di funzionalità sociale” del diritto penale; nonché PULITANÒ, Diritto
penale, cit., p. 44, secondo il quale “la congruenza del diritto penale con
un’etica condivisa resta un aspetto importante (…) per la sua stessa
funzionalità”. Per la dottrina di lingua tedesca che sottolinea il ruolo delle
intersecazioni tra norme penali e norme culturali ai fini del ‘buon
funzionamento’ del sistema penale, v. EGETER, Das ethnisch-kulturell
motivierte Delikt, cit., p. 17, e Autori ivi richiamati a nota 72.
[152] V. infra, 2.4.4, dove si accennerà ad alcune
esperienze di ‘insuccesso’ di codici penali i cui contenuti erano, del tutto o
in buona parte, rimasti sordi alle valutazioni culturali diffuse tra i loro
destinatari.
[153] BECCARIA, Dei delitti e delle pene, cit., p.
47.
[154] MAYER, M.E, Rechtsnormen,
cit., p. 23.
[155] LEVI, Dolo e coscienza, cit., p. 59; v. già supra,
nota 132, e testo corrispondente.
[156] ANTOLISEI, Problemi penali odierni, Milano,
1940, p. 185.
[157] HASSEMER, Principio di colpevolezza e struttura
del reato, in Arch. Pen. 1982, p. 47 s.
[158] MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 425.
[159] Sulla distinzione tra colpevolezza ‘formale’ e
colpevolezza ‘materiale’, oltre alle fondamentali pagine di ENGISCH, Untersuchungen
über Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, Berlin, 1930 (rist. Aalen, 1964), p. 38 ss.,
v., più di recente, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, AT, 5. Aufl., Berlin, 1996, p. 422; MARINUCCI, “Societas
puniri potest”: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee,
in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2002, p. 1208 s.
[160] Si tratta, come è noto, della posizione sostenuta da
Arthur Kaufmann, secondo cui non c’è colpevolezza al di fuori della
colpevolezza ‘materiale’: KAUFMANN, Arth., Das Schuldprinzip, cit., p.
126 (donde è tratta la citazione riportata nel testo - corsivo aggiunto); nello
stesso senso v. pure LAMPE, Strafphilosophie, cit., p. 225 s., con
ulteriori rinvii. La concezione della colpevolezza in senso materiale – con
conseguente sottolineatura del giudizio di rimproverabilità morale che
essa implicherebbe – è stata fatta propria anche da una sentenza del Bundesgerichtshof,
secondo cui “la ragione ultima del rimprovero di colpevolezza risiede nella
libera e responsabile autodeterminazione morale (freie,
verantwortliche, sittliche Selbstbestimmung) dell’uomo, che lo rende capace
di risolversi per il diritto e contro l’illecito” (BGHSt 2, p. 194 ss., in
part. p. 200). Oltre Oceano, sembra aderire ad un siffatto ordine di idee anche
FLETCHER, Grammatica, cit., p. 329, secondo il quale la morale
“interferisce con il giudizio concernente l’ascrizione dell’illecito” a tal
punto che parrebbe opportuno “considerare il problema di ascrizione
dell’illecito come un problema di ascrizione di responsabilità morale”.
[161] Sulla possibilità che la colpevolezza possa offrire
un quarto punto di vista dal quale osservare il diritto penale per meglio
apprezzare le intersecazioni tra norme penali e norme culturali, v. pure le
suggestioni evocate da MAYER, M.E., Lehrbuch, cit., p. 236, laddove
afferma che “la colpevolezza è un prodotto della cultura (Kulturprodukt)
(…). La disapprovazione implicita nell’ascrizione della colpevolezza si basa su
pretese conformi alla cultura del nostro popolo e della nostra epoca”.
[162] Sulla prevenzione generale positiva, oltre alle
classiche opere di ANDENAES, Punishment and Deterrence, Ann Arbor, 1974,
e ZIMRING-HAWKINS, Deterrence. The Legal Threat in Crime Control,
Chicago, 1973, v., anche per ulteriori rinvii, DOLCINI, La commisurazione
della pena, Milano, 1979, p. 226 ss.; MILITELLO, Prevenzione generale e
commisurazione della pena, Milano, 1982, p. 83 ss.; PADOVANI, L’utopia
punitiva: il problema delle alternative alla detenzione nella sua dimensione
storica, Milano, 1981, p. 251 ss.; FORTI, L’immane concretezza,
cit., p. 137 ss.; DE VERO, L’incerto percorso e le prospettive di approdo
dell’idea di prevenzione generale positiva, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2002,
p. 439 ss.; nella manualistica più recente, v. PULITANÒ, Diritto penale,
cit., p. 23 ss.; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 703
ss.; PAGLIARO, Principi, cit., p. 677 ss.
[163] V., in proposito, le riflessioni di ALEXY, Concetto
e validità del diritto, cit., passim, in part. p. 91 ss.
[164] MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 424; nello
stesso senso v. pure FIORE-FIORE, Diritto penale. Parte generale,
vol. I, Torino, 2004, p. 9 ss.; FORTI, L’immane concretezza, cit., p.
75, nonché MUSCO, Consenso e legislazione penale, in Riv. It. Dir.
Proc. Pen. 1993, p. 81, il quale giustamente sottolinea “l’opportunità,
anzi la necessità di evitare un conflitto tra la legalità di un tipo di
normazione, di un assetto giuridico regolativo di interessi e le
concezioni e le rappresentazioni di valore presenti in una data società in un
determinato momento storico”.
[165] ANDENAES, La prevenzione generale nella fase della
minaccia, dell’irrogazione e dell’esecuzione della pena, in ROMANO-STELLA
(a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati,
Bologna, 1980, p. 34.
[166] MUSCO, La premialità nel diritto penale, in Ind.
Pen. 1986, p. 595.
[167] MILITELLO, Prevenzione generale, cit., p. 83.
[168] Sul punto v. già LEVI, Dolo e coscienza, cit.,
p. 54, nota 134. Più di recente, v. LAMPE, Strafphilosophie, cit., p.
274, secondo il quale in questi casi “il legislatore viola consapevolmente le
norme morali (die sittlichen Normen) per riformare o rivoluzionare la
cultura nazionale”.
[169] Si ricordi quanto già osservato a proposito delle
norme penali il cui “contenuto è culturalmente indifferente (kulturell
indifferent)”, di cui parlava Mayer: v. supra, 2.3.1.
[170] FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 713;
in senso analogo, v. pure PAGLIARO, Principi, cit., p. 685: “si deve
ritenere che la più alta efficacia preventiva del sistema penale si ottenga
dove le sanzioni corrispondano – nella legge, nella commisurazione giudiziale,
nella effettiva esecuzione – al senso di giustizia dei consociati”.
[171] PEDRAZZI, voce Diritto penale, cit., p. 157.
[172] In argomento, v. DOLCINI, La commisurazione della
pena, cit., p. 105 ss., p. 156 ss.; MILITELLO, Prevenzione generale,
cit., p. 59 ss.; nella manualistica più recente, v. PULITANÒ, Diritto penale,
cit., p. 27 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 711 ss.; PAGLIARO, Principi,
cit., p. 681 ss.
[173] Così PEDRAZZI, voce Diritto penale, cit., p.
156; v. pure FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 705, che intendono
la rieducazione come “processo di riappropriazione, da parte del delinquente,
dei valori fondamentali della convivenza”.
[174] DOLCINI, La commisurazione della pena, cit.,
p. 165.
[175] Sulla necessità di una collaborazione e disponibilità
del condannato per il successo della sua rieducazione, v. PETERS, Die
ethischen Voraussetzungen des Resozialisierungs- und Erziehungsvollzugs, in
Festschrift für Heinitz, Berlin, 1972, p. 509; FIANDACA-MUSCO, Diritto
penale, cit., p. 706; DOLCINI, La commisurazione della pena, cit.,
p. 179.
[176] MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 424; nello
stesso senso v. pure FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 75.
[177] PEDRAZZI, voce Diritto penale, cit., p. 155.
[178] PETERS, Die ethischen
Voraussetzungen, cit., p. 510.
[179] V. le considerazioni svolte supra, 2.4.1
(parte finale).
[180] Per un inquadramento sistematico di tale possibilità
(altrimenti indicabile anche come conoscibilità della norma penale) quale
elemento autonomo della colpevolezza intesa in senso normativo, v., anche per
ulteriori rinvii, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 396 ss.;
BARTOLI, Colpevolezza: tra personalismo e prevenzione, Torino, 2005, pp.
129 ss., 147 ss.
[181] PULITANÒ, L’errore, cit., p. 140.
[182] PULITANÒ, L’errore, cit., p. 459. Quale
coerente sviluppo di tali osservazioni, Pulitanò prosegue rilevando che nelle
società “fortemente omogenee, legate a valori universalmente accettati, un
problema d’errore sull’illiceità non sarebbe sensatamente proponibile”, mentre “lo
diventa (…) quando alla crescente complessità della vita moderna segue
l’estendersi progressivo dei compiti e degli interventi coattivi dello Stato,
da un lato, e dall’altro una divisione della società secondo concezioni dei
valori diverse od addirittura antagonistiche” (PULITANÒ, L’errore,
cit., p. 460; corsivo aggiunto).
[183] C. cost., sentenza n. 364/1988, punto 17 della
motivazione “in diritto”. Secondo CADOPPI, Il ruolo delle Kulturnormen,
cit., p. 303, “se si volesse attribuire piena efficacia” a tale affermazione,
significherebbe che la Corte costituzionale “potrebbe porre nel nulla una
disposizione penale solo perché tutelante valori non (ancora, o più)
consolidati nella public opinion. Potrebbe cioè sindacare le scelte del
legislatore perché troppo avanzate, o troppo arretrate rispetto al sentire
sociale”.
A nostro avviso,
invece, dalla riportata affermazione della Corte costituzionale, se letta nel
complessivo contesto della sentenza n. 364/1988, non può essere desunta una
siffatta conclusione. La Corte, infatti, rileva chiaramente che se lo Stato
fosse davvero in grado di adempiere tutti i suoi doveri che garantiscono la
conoscibilità della legge penale, allora non ci sarebbe (stato) alcun bisogno
di dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p., che
avrebbe così potuto conservare il suo contenuto originario: ignorantia legis
(poenalis) non excusat.
Senonché, sottolinea
la Corte, le cose non stanno così. In un ulteriore passaggio della sentenza
citata, infatti, essa – nel criticare una delle “impostazioni ideologiche”
sulle quali il ‘vecchio’ art. 5 c.p. poggiava: quella secondo cui l’ordinamento
giuridico sarebbe “sorretto da una «coscienza comune»” – osserva che “in tempi
in cui le norme penali erano circoscritte a ben precisi illeciti, ridotti nel
numero e, per lo più, costituenti violazioni di norme sociali universalmente
riconosciute, era dato sostenere la regolare conoscenza, da parte dei
cittadini, dell’illiceità dei fatti violatori delle leggi penali; ma, oggi,
tenuto conto del notevole aumento delle sanzioni penali, sarebbe quasi
impossibile dimostrare che lo Stato sia effettivamente sorretto da una
«coscienza comune» tutte le volte che «aggiunge» sanzioni a violazioni di
particolari, spesso «imprevedibili», valori relativi a campi, come quello
previdenziale, edilizio, fiscale, ecc., che nulla hanno a che vedere con i
delitti, c.d. naturali, di comune «riconoscimento» sociale” (punto 3 della
motivazione “in diritto”): da qui l’inevitabile accettazione, da parte della
Corte, della presenza, all’interno del nostro ordinamento, anche di norme
penali che non coincidono con norme culturali (o “di civiltà”) – presenza che,
però, va allora ‘compensata’ dal riconoscimento della scusabilità della loro
eventuale ignoranza inevitabile.
[184] FIANDACA, Problemi e prospettive attuali di una
nuova codificazione, cit., par. 8.
[185] Cfr. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 75
s.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 424.
[186] Su tale distinzione, v. infra, 2.5.
[187] V. per tutti MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit.,
p. 424.
[188] Corte costituzionale, sentenza n. 364 del 24 marzo
1988, punto 20 delle motivazioni “in diritto”.
[189] V. le considerazioni svolte supra, 2.4.1
(parte finale).
[190] V., in proposito, quanto osservato anche da PAGLIARO,
Diritto penale e cultura europea, cit., p. 151: “il diritto è un
fenomeno di cultura e perciò sarebbe probabilmente vano tentare di estendere
norme o principi giuridici, validi in un determinato ambito culturale, a popoli
che hanno una vita culturale profondamente diversa”.
[191] CAVANNA, La codificazione penale, cit., p. 40,
cui rinviamo anche per una più ampia descrizione della vicenda in parola.
[192] VERRI, P., Pensieri sullo stato politico nel
Milanese nel 1790, edito in Scritti inediti del Conte Pietro Verri
Milanese, Londra-Lugano, 1825, p. 24, riportato da CAVANNA, La
codificazione penale, cit., p. 38, nota 46.
[193] MANZINI, Trattato di diritto penale, vol. I,
rist. della II ed., Torino, 1926, p. 159 s.
[194] MANZINI, op. ult. cit., p. 160, citando
PETAZZI, L’odierno diritto penale consuetudinario dello Hamasien (Eritrea),
Asmara, 1918, p. 6. In argomento, v. pure RAVIZZA, L’ordinamento legislativo
della colonia Eritrea con particolare riferimento alla materia penale, in Riv.
Pen. 1914, vol. LXXX, p. 5 ss., nonché, in chiave di ricostruzione storica
di tali vicende, MARTONE, Giustizia coloniale. Modelli e prassi penale per i
sudditi d’Africa dall’età giolittiana al fascismo, Napoli, 2002, p. 7 ss.;
ZACCARIA, Magistratura togata vs. giustizia amministrativa nella colonia
Eritrea, 1907-1911, in Ethnorema - Lingue, popoli e culture 2006, p.
49 ss. (on-line su www.ethnorema.it).
Un ulteriore esempio
di fallito tentativo di imposizione di una legislazione di matrice occidentale
su territori coloniali – ma questa volta in ambito civilistico – è riferito da
FACCHI, L’evoluzione del diritto fondiario algerino, Milano, 1987, p. 31
s.: nel 1905 il Governatore Generale d’Algeria aveva incaricato della
codificazione del diritto civile algerino una commissione di sedici esperti che
portò a termine il proprio lavoro nel 1916, ma il code Morand (così
detto dal nome del presidente di detta commissione), non fu mai adottato
ufficialmente. La sua emanazione incontrò, infatti, molte opposizioni e
resistenze sia da parte dei musulmani, che lo considerarono un attentato
all’evoluzione del diritto islamico e alla sua capacità di adattamento,
rilevando, tra l’altro, che molti istituti erano stati profondamente alterati,
perché si era attinto a riti diversi e si era poi mescolato tutto secondo le
concezioni francesi, sia da parte di alcuni giuristi francesi che lo
ritenevano uno strumento “maldestro e prematuro”, capace solo di creare
“resistenze pericolose” e “raffreddamenti inutili”, giacché “la legislazione
non modifica i costumi, sono i costumi che modificano la legislazione”.
[195] BETTIOL, Sull’unificazione del diritto penale
europeo, in AA.VV., Prospettive per un diritto penale europeo, cit.,
p. 4.
[196] Per l’illustrazione di ulteriori tentativi di
‘importazione’ di codici e leggi di matrice occidentale in ambienti culturali
eterogenei, v., con riferimento alle vicende sudamericane, HURTADO POZO, La
ley “importada”: recepción del derecho penal en el Perú, Lima, 1979,
e con riferimento all’Africa coloniale e post-coloniale, ALLIOT, Über die
Arten des “Rechts-Tranfers”, in FIKENTSCHER-FRANKE-KÖHLER (a cura di), Entstehung
und Wandel rechtlicher Traditionen, Freiburg - München 1980, pp. 161-231.
[197] Ciò non esclude, naturalmente, che in presenza di
condizioni particolari anche un codice penale per gran parte estraneo alla
cultura dei soggetti cui è destinato, possa superare le naturali resistenze e
riuscire alla fine ad affermarsi come diritto effettivamente vigente. In tale
prospettiva potrebbe, ad esempio, essere analizzata la vicenda del codice
penale turco del 1926, ampiamente ispirato al codice Zanardelli per volontà di
Ataturk, che in tal modo mirava ad una occidentalizzazione ‘accelerata’
dell’ex-Impero Ottomano (sul punto, v. GÜNAL, L’unificazione del diritto
penale europeo con riferimento alla Turchia, in AA.VV., Prospettive per
un diritto penale europeo, cit., p. 71; HAKERI, L'eredità del codice
Zanardelli nella nuova Europa: la Turchia, in CANESTRARI-FOFFANI (a cura
di), Il diritto penale nella prospettiva europea, Milano, 2005, p. 33
ss.).
[198] In proposito v., anche per ulteriori rinvii,
MANNHEIM, H., Trattato di criminologia comparata, cit., p. 38; SILVA
DIAS, “Delicta in se” e “delicta mere prohibita”, Coimbra, 2008, passim;
nonché, nella dottrina italiana contemporanea, VALLINI, Antiche e nuove
tensioni tra colpevolezza e diritto penale artificiale, Torino, 2003, p. 13
ss.; CALABRIA, Delitti naturali, delitti artificiali ed ignoranza della
legge penale, in Ind. Pen. 1991, p. 40.
[199] La stessa Corte costituzionale, ad esempio, vi ha
fatto ricorso nella citata sentenza 364/1988: v. supra, nota 183.
[200] V., ad esempio, FLORIAN, Trattato di diritto
penale. Parte generale, IV ed., Milano, 1934, p. 381.
[201] V., ad esempio, MANNHEIM, H., Trattato di
criminologia comparata, cit., p. 38; SILVA DIAS, “Delicata in se”,
cit., p. 3 ss.; CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I, cit., p. 673
ss.
[202] V., ad esempio, HASSEMER, Il bene giuridico nel
rapporto di tensione tra Costituzione e diritto naturale, in Dei delitti
e delle pene 1984, p. 108 s.
[203] V., ad esempio, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale,
cit., p. 366, p. 398.
[204] PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale,
III ed., Torino, 2008, p. 453 ss.
[205] PALAZZO, Corso, cit., p. 453 ss.
[206] V. supra, note 10-11, e testo corrispondente.
Assai istruttiva, in proposito, può essere la vicenda del prestito di denaro
dietro interessi: nel Medio Evo cristiano, sulla base di un passo del Vangelo
secondo Luca (6, 34 s.), tale pratica, qualunque fosse stato il tasso degli
interessi richiesti, era considerata dalla coscienza collettiva (ad esclusione
dei noncristiani: in primis, dagli ebrei) odiosa e detestabile, e quasi
ovunque era punita anche con gli strumenti del diritto penale (il Concilio di
Lione II del 1274 aveva, ad es., espressamente condannato la riscossione di
interessi a fronte della concessione di un prestito di denaro), e l’usura
costituiva, quindi, un delitto naturale per antonomasia (in argomento, v. il
paragrafo “Usura ed ebrei”, in LE GOFF, La bourse et la vie. Economie et religion
au Moyen Age, Paris, 1986, trad. it. La borsa e la vita: dall’usuraio al
banchiere, Roma - Bari, 1987). Oggi, invece, il prestito di denaro dietro
interessi è ritenuto perfettamente lecito, ed assume rilevanza penale solo
entro confini ben circoscritti, in particolare solo qualora vengano superate
determinate soglie di interesse che, almeno per quanto riguarda il nostro
ordinamento, variano di anno in anno e da operazione ad operazione, e vengono
individuate in base ad un meccanismo ad alto tasso di artificialità (v. art.
644 c.p., come modificato dalla l. 7 marzo 1996 n. 108): oggi pare, pertanto,
assai arduo continuare a collocare l’usura tra i delitti naturali.
[207] In argomento, v. BARATTA, Criminologia critica e
critica del diritto penale, cit., p. 117 ss., con riferimento alle teorie
“conflittuali” di Lewis Coser e Ralf Dahrendorf.
[208] Così secondo la felice, e ormai classica, definizione
di ENGISCH, Die normativen Tatbestandselemente im Strafrecht, in Festschrift
Mezger, München, 1954, p. 147. Offre di recente una limpida sintesi
dell’evoluzione dogmatica della categoria degli elementi (o concetti) normativi
di fattispecie, RISICATO, Gli elementi normativi della fattispecie penale.
Profili generali e problemi applicativi, Milano, 2004, p. 70 ss.
[209] Su tale distinzione – di recente sottoposta a
rivisitazione critica da parte di RISICATO, Gli elementi normativi,
cit., p. 73, p. 217 s., p. 346 ss. – v., da ultimo, GATTA, Abolitio criminis e
successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, Milano, 2008, p. 841
s.
[210] Già MEZGER, Vom Sinn der strafrechtlichen
Tatbestände, in Festschrift für Ludwig Traeger, Berlin, 1926, p.
226, aveva chiaramente individuato gli elementi normativi implicanti una
valutazione “culturale”, e aveva indicato le fattispecie criminose contenenti
siffatti concetti con la formula “kulturelle Wertungsdelikte (delitti a
valutazione culturale)”.
[211] Per tale terminologia, v., ad es., MARINUCCI-DOLCINI,
Corso, cit., p. 131, e p. 140.
[212] Per tale terminologia, v., ad es., PULITANÒ, Diritto
penale, cit., p. 165. Si tenga presente che per taluni Autori la categoria
degli elementi normativi extragiuridici comprende, oltre a quelli
“etico-sociali” o “culturali”, anche quelli “di natura tecnica”
(MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 141; DE VERO, Corso, cit., p.
229, nota 41; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 66;
GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 41 e p. 842 s.; contra,
PULITANÒ, L’errore, cit., p. 330 s.). In questa sede, tuttavia, la
nostra attenzione si appunterà esclusivamente sugli elementi normativi
extragiuridici che rinviano a norme culturali – a prescindere dalla
controversa questione se essi esauriscano, o meno, la categoria degli elementi
normativi extragiuridici.
[213] In tal senso, v. ad esempio
AMBROSETTI-MEZZETTI-RONCO, Diritto penale dell’impresa, II ed., Bologna,
2009, p. 12, secondo i quali la massiccia presenza di elementi normativi
rinvianti a norme extragiuridiche o di costume è “rivelativa della permeabilità
tra diritto ed etica [rectius, cultura] e viceversa”. In passato, anche
GUARNERI, Morale e diritto, in Gius. Pen. 1946, I, p. 332, aveva
espressamente individuato negli elementi normativi extragiuridici una chiara
testimonianza dei legami esistenti tra diritto penale e morale (rectius,
cultura). Vale, inoltre, la pena sottolineare che il primo, consapevole
‘scopritore’ della categoria degli elementi normativi – come hanno da ultimo
ricordato RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 15 ss., e GATTA, Abolitio
criminis, cit., p. 21 s. – fu proprio M.E. Mayer, vale a dire l’Autore che,
nella dottrina tedesca di inizio Novecento, più era sensibile alle reciproche
interrelazioni tra norme penali e norme culturali (v. MAYER, M. E., Lehrbuch,
cit., p. 182 ss., fin dalla prima edizione del 1915, ove, replicando alla
concezione del Tatbestand di Beling quale fatto oggettivo privo di
elementi valutativi, aveva messo in evidenza come già a livello di descrizione
legale del fatto siano presenti anche elementi implicanti un giudizio di
valore). Per una sottolineatura del legame di derivazione logica della scoperta
degli elementi normativi dalla teoria mayeriana della “coincidenza” delle norme
penali con le norme culturali, v. KUNERT, Die normativen Merkmale der
strafrechtlichen Tatbestände, Berlin, 1959, p. 28.
[214] PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 166.
[215] PULITANÒ, L’errore, cit., p. 227. Nello stesso
senso, nella dottrina di lingua tedesca, v. per tutti ROXIN, Strafrecht. AT -
Band I, 4. Aufl., München, 2006, p. 308, che parla a tal proposito di
elementi che presuppongono “eine kulturelle Bewertung (una valutazione
culturale)”.
[216] Così, quasi alla lettera, BIANCHI D’ESPINOSA, Introduzione,
in AA.VV., Valori socioculturali della giurisprudenza, Bari, 1970, p. 4.
In questa sede, peraltro, prescindiamo dalla controversa questione – di grande
rilevanza ad altri fini, sia teorici che pratici (come ha da ultimo dimostrato
GATTA, Abolitio criminis, cit., pp. 9 s., 41 s. e 841 s.) – della natura
‘integratrice’ o meno della norma culturale rispetto alla norma penale: qui
basti evidenziare l’intersecazione tra il cerchio delle norme culturali ed il
cerchio delle norme penali che si produce ogni qual volta in una fattispecie
criminosa compaia un elemento normativo culturale.
[217] V. AMBROSETTI-MEZZETTI-RONCO, Diritto
penale dell’impresa, cit., p. 12: “nel diritto penale (…) è tutto un
pullulare di elementi normativi, molti dei quali sono oggetto di qualificazione
ad opera di norme extragiuridiche o di costume”; nello stesso senso (ma con
riferimento agli elementi normativi tanto giuridici, quanto culturali), v. pure
PAGLIARO, Principi, cit., p. 52: “gli elementi normativi sono assai più
diffusi di quel che generalmente si pensi”.
[218] Un’analoga constatazione era espressa anche da
MEZGER, Vom Sinn, cit., p. 227, e nota 2, che, osservando la
legislazione penale tedesca degli anni Venti del secolo scorso, rilevava la
“straordinaria frequenza” di elementi normativi culturali. Più di recente, un
analogo giudizio sulla legislazione penale tedesca e svizzera, è formulato
anche da EGETER, Das ethnisch-kulturell motivierte Delikt, cit., p. 23,
con ulteriori rinvii.
[219] Altro profilo, ben più problematico, è quello della
esatta individuazione di quali norme culturali possano venire in rilievo e di
come vada determinato il loro contenuto: sul punto, v. per tutti PULITANÒ, Il
buon costume, in AA.VV., Valori socio-culturali della giurisprudenza,
cit., p. 167 ss.; FIANDACA, Problematica dell’osceno e tutela del buon
costume: profili penali, costituzionali e politico-criminali, Padova, 1984,
p. 3 ss.
[220] SIRACUSANO, I delitti in materia di religione,
Milano, 1983, p. 120 s., con ulteriori rinvii. Anche la Corte costituzionale,
con sentenza n. 188/1975 (punto 3 della motivazione “in diritto”) – dopo aver
ricordato un proprio precedente (sentenza n. 20/1974) in cui si era affermato
che “secondo la comune accezione del termine, il vilipendio consiste nel tenere
a vile, nel ricusare qualsiasi valore etico o sociale o politico all’entità
contro cui la manifestazione è diretta sì da negarle ogni prestigio, rispetto,
fiducia, in modo idoneo a indurre i destinatari della manifestazione (…) al
disprezzo delle istituzioni o addirittura ad ingiustificate disobbedienze” – ha
ritenuto che il termine “vilipendio” richiami “concetti di comune esperienza
o valori etico-sociali”. Considerano, invece, il termine “vilipendio” alla
stregua di un elemento descrittivo di fattispecie, MARINUCCI-DOLCINI, Corso,
cit., p. 134.
[221] Per una siffatta nozione di “pubblico scandalo”, v.
Cass. 17 marzo 1975, Letteriello, CED 132576, in Cass. Pen. 1977, p.
840; Cass. 30 giugno 1967, Gilimberti, in Cass. Pen. 1968, p. 543.
[222] V., in argomento, PISAPIA, voce Attentato alla morale
famigliare col mezzo della stampa, in Novissimo dig. - Appendice,
vol. I, 1982, p. 577 s.
[223] In giurisprudenza, v. da ultimo Cass. 14 ottobre 2004
(dep. 17 novembre 2004), CED 230523, secondo cui in tema di violazione degli
obblighi di assistenza familiare, la condotta tipica di abbandono del domicilio
domestico è integrata solo quando l’allontanamento “si connota di disvalore
dal punto di vista etico e sociale” (corsivo aggiunto). Anche la Corte
costituzionale, con sentenza 24 febbraio 1972, n. 42, in Giust. Pen. 1972,
I, p. 348, ha espressamente riconosciuto la presenza, nella fattispecie di cui
all’art. 570 c.p., di “concetti extragiuridici (…) diffusi e
generalmente compresi nella collettività in cui il giudice opera”
(corsivo aggiunto).
[224] Così MANZINI, Trattato, cit., vol. VIII, p.
265; BAIMA BOLLONE-ZAGREBELSKY, Percosse e lesioni personali, Milano,
1975, p. 88; per la giurisprudenza, v. Cass. 2 ottobre 1981, Bucella, CED
151231, in Riv. Pen. 1982, p. 631. Si veda pure quanto già rilevato da
MEZGER, Vom Sinn, cit., p. 229, secondo il quale per accertare la
“deformazione (Entstellung)”, quale ipotesi di lesione grave ai sensi
del vecchio testo del § 224 StGB, occorre una “valutazione estetica”.
[225] Sul punto sia consentito rinviare a BASILE, Commento
all’art. 660, in DOLCINI-MARINUCCI, Codice penale commentato, vol.
II, II ed., Milano, 2006, p. 4831.
[226] In proposito, v. PULITANÒ, Il buon costume,
cit., p. 200 ss.; GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 843; in
giurisprudenza v., da ultimo, Cass. 25 ottobre 2005 (dep. 14 dicembre 2005),
CED 233128, secondo cui “il comune sentimento della decenza attiene al complesso
di norme etico-sociali che costituiscono il costume ed il decoro della
comunità” (corsivo aggiunto).
[227] In argomento, v. per tutti VENEZIANI, Motivi e
colpevolezza, Torino, 2000, p. 57. Sulla natura di elemento normativo
extragiuridico del termine “abietto”, v. già ENGISCH, Introduzione al
pensiero giuridico, cit., p. 174.
[228] MALINVERNI, voce Circostanze del reato, in Enc.
Dir., vol. VII, Milano, 1960, p. 87 s.; MARCONI, voce Provocazione,
in Enc. Dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, p. 824 ss.; VERGINE, Commento
all’art. 62, in DOLCINI-MARINUCCI, Codice penale commentato, vol. I,
cit., p. 819, con ulteriori rinvii a dottrina e giurisprudenza conformi. In
senso contrario, ma con posizione rimasta isolata, v. MARINI, Il fatto
“ingiusto” nella provocazione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1961, p.
806 ss.: il fatto “ingiusto” è solo ed esclusivamente il fatto “antigiuridico”,
contrario, cioè, ad una norma di un ordinamento giuridico.
[229] Oltre agli Autori citati nella nota precedente, v.
PISTORELLI, Commento all’art. 599, in DOLCINI-MARINUCCI, Codice
penale commentato, vol. II, cit., p. 4120.
[230] CRESPI, La tutela penale del segreto, Palermo,
1952, p. 96 (corsivo aggiunto), e p. 133 ss. In giurisprudenza v. Cass. 10
luglio 1997 (dep. 1° ottobre 1997), CED 208613, in Cass. Pen. 1998, p.
2361, con nota di LARIZZA, La “giusta causa” quale limite alla libertà e
segretezza della corrispondenza: “la nozione di giusta causa, alla cui
assenza l’art. 616 comma 2 c.p. subordina la punibilità della rivelazione del
contenuto della corrispondenza, non è fornita dal legislatore ed è dunque
affidata al concetto generico di giustizia (…) che il giudice deve determinare
di volta in volta con riguardo alla liceità – sotto il profilo etico e
sociale – dei motivi che determinano il soggetto ad un certo atto o
comportamento” (corsivo aggiunto).
[231] In tal senso v., pur con varietà di sfumature,
BETTIOL-PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, XII ed.,
Padova, 1986, p. 364; FIORE-FIORE, Diritto penale. Parte generale, vol.
I, cit., p. 333; MARINUCCI-DOLCINI, Manuale, cit., p. 243; VIGANÒ, Commento
all’art. 52, in DOLCINI-MARINUCCI, Codice penale commentato, vol. I,
cit., p. 603; in giurisprudenza, v. Cass. 10 novembre 2004, P., CED 230392.
Tale orientamento risale a DELITALA, Le dottrine generali del reato nel
progetto Rocco, ora in Scritti, Milano, 1976, p. 290, secondo il
quale il giudizio di proporzione, all’interno della disciplina della legittima
difesa, costituisce un limite di tollerabilità etico-sociale all’estensione
del diritto all’autodifesa.
[232] Sul punto v., anche per ulteriori rinvii, GATTA, Commento
all’art. 544 bis, in DOLCINI-MARINUCCI, Codice Penale Commentato,
cit., vol. II, p. 3677.
[233] Così MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale,
vol. I, cit., p. 186; nello stesso senso ID., Diritto penale. Parte generale,
cit., p. 65; PARODI GIUSINO, I reati di pericolo, Milano, 1990, p. 227,
nota 120; MARINUCCI, voce Consuetudine (dir. pen.), in Enc. Dir.,
vol. IX, Milano, 1961, p. 512; GRASSO, Considerazioni in tema di errore
sulla legge extrapenale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1976, p. 169;
nella dottrina più risalente, nello stesso senso già FLORIAN, Ingiuria e
diffamazione, Milano, 1939, p. 43; MESSINA, Teoria generale dei delitti
contro l’onore, Roma, 1953, p. 17; JANNITTI-PIROMALLO, Ingiuria e
diffamazione, Torino, 1953, p. 22. Contrapposta alla concezione ‘normativa’
dell’onore è, invece, la concezione ‘fattuale’ di esso: per l’esposizione di
tali due concezioni, con ampi riferimenti dottrinali ad entrambi gli
orientamenti, v. SIRACUSANO, voce Ingiuria e diffamazione, in Digesto
pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 32 ss.; MUSCO, Bene giuridico e tutela
dell’onore, Milano, 1974, p. 3 ss., i quali, a loro volta, propongono una
concezione ‘normativo-fattuale’ dell’onore.
[234] In tal senso v. ROXIN, Sul rapporto tra diritto e
morale, cit., p. 38: “la fattispecie dell’ingiuria si può concretamente
interpretare solo riferendola alle concezioni dell’onore e della morale
dominanti all’interno del gruppo sociale che viene di volta in volta in
considerazione”. In precedenza, nello stesso senso già MEZGER, Vom Sinn,
cit., p. 227.
[235] MAYER, M. E., Lehrbuch,
cit., p. 50.
[236] Un cenno in tal senso si trova, tuttavia, in
GRISPIGNI, Diritto penale italiano, vol. II, Padova, 1945, p. 21.
[237] Tale definizione è riportata, ad es., da ANTOLISEI, Manuale
di diritto penale. Parte speciale, VI ed., Torino, 1972, p. 390, con rinvii
alla giurisprudenza conforme; in termini storico-ricostruttivi, v. pure
CADOPPI, in CADOPPI (a cura di), Commentari delle norme contro la violenza
sessuale e della legge contro la pedofilia, III ed., Padova, 2002, p. 42
ss.
[238] Nessun dubbio, invece, presso la dottrina e la
giurisprudenza tedesche meno recenti, che l’equivalente formula “unzüchtige
Handlungen”, che compariva nel vecchio testo dei §§ 180 ss. StGB,
costituisse un elemento normativo culturale: v. MEZGER, Vom Sinn, cit.,
p. 227; ENGISCH, Introduzione, cit., p. 200; in giurisprudenza, ex
pluris, Bundesgerichtshof (Großer Senat) 17 febbraio 1954, in
BGHStr. 6 (1954), p. 47 ss.
[239] FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale,
vol. II, tomo I, II ed., Bologna, 2007, p. 208 (corsivo aggiunto). In senso
analogo v. pure FIANDACA, La rilevanza penale del “bacio” tra anatomia e
cultura, in Foro It. 1998, II, p. 505; MANTOVANI, Diritto penale.
Parte speciale, vol. I, cit., p. 338.
[240] CADOPPI, in CADOPPI (a cura di), Commentari delle
norme contro la violenza sessuale, cit., p. 53, che così prosegue: “per
taluni popoli lo sfregamento del naso contro naso altrui può assumere connotati
sessuali, e sul punto le ‘pratiche sessuali’ delle varie comunità nel mondo
sono le più varie e curiose”. Per suggestive considerazioni in proposito, v.
pure MERZAGORA, Relativismo culturale e percezione sociale in materia di
comportamenti sessuali devianti, in CADOPPI (a cura di), Commentario
delle norme contro la violenza sessuale, Padova, 1996, p. 343 ss.; v. anche
quanto si dirà infra, 2.5.2, punto 4, in relazione alla riforma dei
delitti in materia sessuale.
[241] Cass. 5 giugno 1998, Vacca, in Guida dir. 25/1998,
p. 131.
[242] Cass. 13 febbraio 2007 (dep. 2 luglio 2007), CED
236964, in Cass. Pen. 2008, p. 1039 (corsivo aggiunto); sul punto, v.
anche VIZZARDI, Bacio sulle labbra e diritto penale, in Cass. Pen. 2008,
p. 293.
[243] Anche per la dottrina e la giurisprudenza tedesche
contemporanee, l’analoga formula “sexuelle Handlungen von einiger
Erheblichkeit (atti sessuali di una certa rilevanza)”, che compare oggi nel
§ 184 lett. f) StGB, al posto della precedente nozione di “unzüchtige
Handlungen” (v. supra, nota 238), presuppone il riferimento a
valutazioni etico-sociali: v. TRÖNDLE-FISCHER, Strafgesetzbuch, cit., sub
§ 184 lett. c), Rn. 6; ROXIN, Strafrecht. AT, vol. I, cit., p. 308;
LENCKNER-PERRON, in SCHÖNKE/SCHRÖDER, Strafgesetzbuch, 27. Aufl., München, 2006, sub § 184 lett. f), Rn.
15, tutti con rinvii alla conforme giurisprudenza tedesca. Infine, anche
secondo la dottrina e la giurisprudenza svizzere, la formula “sexuelle
Handlungen”, impiegata nel codice svizzero per descrivere i reati sessuali,
costituisce un elemento normativo culturale: v. per tutti EGETER, Das
ethnisch-kulturell motivierte Delikt, cit., p. 24, con ulteriori rinvii.
[244] In tal senso, v. MANTOVANI, Diritto penale. Parte
generale, cit., p. 66.
[245] FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale,
vol. II, tomo I, cit., p. 340 (corsivo aggiunto); nello stesso senso, già
FIORE, C., Esercizio dei mezzi di correzione e adeguatezza sociale, in Foro
Pen. 1963, p. 35 ss., in particolare p. 45, ove si dà rilievo alla “normalità
della condotta, dal punto di vista dei comportamenti socialmente usuali”.
[246] Cass. 18 marzo 1996 (dep. 16 maggio 1996), Cambria,
CED 173956.
[247] All’interno della dottrina tedesca, v. invece MAYER,
M.E., Lehrbuch, cit., p. 182, il quale aveva già qualificato in tali
termini il concetto di maltrattamento-Mißhandlung (che all’epoca
compariva nel delitto di lesione personale lieve di cui al § 223 comma 1 StGB,
e che ora compare nel delitto di maltrattamenti di persone affidate alla
propria tutela di cui al § 225 StGB).
[248] PISAPIA, voce Maltrattamenti in famiglia o verso
fanciulli, in Noviss. Dig. It., vol. X, Torino, 1964, p. 76; sul
punto v. anche infra, Cap. V, Parte seconda, 1.3.
[249] ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte
speciale, vol. I, cit., p. 537 (con rinvio a conforme giurisprudenza).
[250] V., ex pluris, Cass. 4 dicembre 2003 (dep. 19
febbraio 2004), Camicia, CED 228461, in Cass. Pen. 2005, p. 1259.
[251] Sul punto v. anche COPPI, Maltrattamenti in
famiglia, Perugia, 1979, p. 265, secondo cui il legislatore, ai fini della
redazione dell’art. 572 “ha sostanzialmente recepito un linguaggio collaudato
da decenni di uso e che non aveva creato particolari problemi interpretativi; e
sembra ragionevole che il legislatore possa pur fare affidamento sul
significato di un termine ormai acquisito all’esperienza giuridica e che, in
mancanza di segni contrari, l’interprete possa a sua volta riferirsi al
contenuto tradizionale dell’espressione”. Sulla variabilità del concetto di
“maltrattamenti” in funzione della cultura di riferimento, si veda pure quanto
rilevato da FACCHI, I diritti, cit., p. 134: “ciò che è considerato come
‘maltrattamento’ dalla cultura occidentale è invece ritenuto un comportamento
normale e talvolta doveroso all’interno di comunità immigrate”.
[252] Cass. 18 marzo 1996 (dep. 16 maggio 1996), Cambria,
CED 173956.
[253] Per un elenco aggiornato di norme incriminatrici in
cui figura il concetto di “prostituzione” (o quello analogo di “meretricio”),
v. APRILE, I delitti contro la personalità individuale - Schiavitù e
sfruttamento sessuale dei minori, Padova, 2006, p. 137 s.
[254] FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale,
vol. II, tomo I, cit., p. 140 (corsivo aggiunto). V. pure APRILE, op. cit.,
p. 138, ad avviso del quale il concetto di prostituzione va ricostruito
“secondo la comune esperienza” (corsivo aggiunto); v., infine,
MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, cit., p. 406, per il
quale, accanto ad una prostituzione femminile, deve oggi darsi rilevanza penale
anche alla prostituzione maschile perché “tale ritenuta dall’attuale coscienza
sociale” (corsivo aggiunto).
[255] Così Cass. 6 ottobre 1975 (dep. 13 maggio 1976), in Cass.
Pen. 1976, p. 1013.
[256] Così Cass. 7 aprile 1980 (dep. 15 giugno 1981), in Cass.
Pen. 1982, p. 1160.
[257] V., ad es., Cass. 28 settembre 1989 (dep. 17 novembre
1989), CED 182554; Cass. 6 ottobre 1986 (dep. 16 aprile 1987), CED 175733.
[258] V. Cass. 7 aprile 1993 (dep. 8 giugno 1993), CED
194403 (corsivo aggiunto). Nello stesso senso v. pure Cass. 26 marzo 1992 (dep.
17 settembre 1992), CED 191760; Cass. 13 maggio 1991 (dep. 22 agosto 1991), CED
188096.
[259] V., ad es., Cass. 20 ottobre 1992 (dep. 2 dicembre
1992), CED 192397.
[260] V., ad es., Cass. 26 febbraio 1991 (dep. 29 aprile
1991), CED 187043.
[261] BETTIOL, Il ruolo svolto dal codice penale Rocco
nella società italiana, in La questione criminale 1981, p. 35.
[262] Ibidem.
[263] Sul concetto di “cultura egemone”, v. supra,
nota 45, e testo corrispondente.
[264] MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale,
cit., p. L.
[265] V. in proposito, il chiaro invito formulato dalla
Corte costituzionale nei confronti del legislatore con la sentenza 28 giugno
1973 n. 133: “non è certo sottratto alla discrezionalità del legislatore
l’abrogare o il modificare una legge ove si ravvisi un mutamento dei
presupposti etico-sociali di essa” (punto 11 della motivazione “in
diritto”; corsivo aggiunto): trattasi, tuttavia, di un invito spesso trascurato
dal nostro legislatore, sicché in molti casi, come vedremo, il ri-allineamento
delle norme penali alle (nuove) norme culturali è stato operato – nell’inerzia
del legislatore – dalla stessa Corte costituzionale o dalla giurisprudenza
ordinaria.
[266] Sull’interpretazione evolutiva di norme
incriminatrici divenute “anacronistiche”, v. BIANCHI D’ESPINOSA, Introduzione,
cit., p. 3, secondo cui i giudici procedono ad una siffatta interpretazione
“allorché si verifica un contrasto tra il giudizio di valore tenuto presente
all’epoca dell’emanazione della norma e la realtà in sviluppo, e che si è
andata trasformando”.
[267] Tale disciplina in parte riproduceva, rendendole però
ancora più indulgenti, le previsioni già contenute negli artt. 237 ss. del
codice Zanardelli.
[268] In argomento, v. per tutti AZZALI, voce Duello
(dir. pen.), in Enc. Dir., vol. XIV, Milano, 1965, p. 95, il quale
fra l’altro ben sottolinea che il duello era concepito come una sorta di
“procedimento di accertamento” della “qualità di uomini d’onore” dello sfidante
e dello sfidato. A riprova delle concezioni dell’onore e del duello diffuse in
Italia nei primi decenni del Novecento, si veda poi un’autentica apologia di un
duello, avvenuto sul prato del Velodromo di Milano nel maggio del 1922,
pubblicata in Riv. Pen. 1922, vol. XCV, p. 509 (senza firma, quindi
attribuibile al direttore della rivista, Lucchini), in cui si esalta la natura
“cavalleresca” della condotta tenuta dai duellanti, ritenuta ben più
apprezzabile della “rettorica pietistica e socialistica di quanti preferiscono
colpire a tergo, che non di fronte gli avversari”.
[269] MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale,
cit., p. L; nello stesso senso v. pure PIFFER, Commento all’art. 394, in
CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale,
Padova, 1992, p. 865.
[270] Sia pur con un colpevole ritardo da parte del
legislatore, che ha provveduto all’abrogazione degli artt. 394 ss. c.p. solo
con l. 25 giugno 1999, n. 205.
[271] V. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale,
cit., p. L s.
[272] V. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte
speciale, vol. I, VI ed., Torino, 1972, p. 347, nota 30.
[273] Corte costituzionale, sent. 19 dicembre 1968, n. 126
(corsivo aggiunto).
[274] Corte costituzionale, sent. 3 dicembre 1969, n. 147
(corsivo aggiunto).
[275] Corte costituzionale, sent. 16 marzo 1971, n. 49
(corsivo aggiunto). Anche in questa occasione, la Corte costituzionale si è,
quindi, rivelata più capace del pigro legislatore di intercettare l’evoluzione
culturale della società italiana e di saggiarne le conseguenze sulla disciplina
penalistica di alcune condotte.
[276] V., in proposito, quanto rilevato da ANTOLISEI, Manuale
di diritto penale. Parte speciale, vol. I, XV ed. (agg. a cura di GROSSO),
Milano, 2008, p. 549: “non vi è forse un terreno in cui così sensibilmente
differiscano le vedute etiche e giuridiche sul limite tra il lecito e
l’illecito, persino tra popoli della stessa epoca e civiltà. Anche un esame
sommario di diritto comparato lo dimostra nel modo più palese”. Un semplice
esempio può chiarire tali concetti: in molte culture un seno nudo femminile è
considerato erotico e sessualmente eccitante, ma ciò non è vero dappertutto,
tant’è che presso alcune popolazioni tribali [oltre che su molte spiagge
italiane] le donne non indossano alcun indumento a copertura del seno (per tale
esempio, v. TAYLOR, Cultural Ways, III ed., Illinois, 1988, p. 263).
[277] BERTOLINO, Libertà sessuale e tutela penale, Milano,
1993, rispettivamente pp. 60 e 55.
[278] FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale,
vol. II, tomo I, cit., p. 198.
[279] FIANDACA-MUSCO, op. loc. ult. cit.; in
argomento, v. pure MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, cit.,
p. 327, il quale, pur esprimendo forti perplessità nei riguardi della riforma
del 1996 (paragonata, “sotto il profilo della politica criminale”, alla
“classica montagna che partorisce il topolino”), nondimeno riconosce che essa
introduce “innovazioni di valore genericamente culturale”. In parallelo
all’evoluzione – culturale prima, legislativa poi – dei delitti contro la
libertà sessuale in Italia, può essere osservata anche l’analoga vicenda
svoltasi in Germania, ove si è passati dai “Verbrechen und Vergehen wider
die Sittlichkeit (contro la morale)”, alle “Straftaten gegen die
Selbstbestimmung (contro l’autodeterminazione)”: sul punto v. per tutti
ROXIN, Was darf der Staat unter Strafe stellen?, cit., p. 722.
[280] Per un quadro ricostruttivo della disciplina dei
delitti d’onore, v. CASALINUOVO, La causa d’onore nella struttura del reato,
Napoli, 1939; CARACCIOLI, voce Causa d’onore, in Enc. Dir., vol.
VI, Milano, 1960, p. 580 ss. Norme analoghe a quelle citate erano peraltro
presenti anche nel codice Zanardelli: si vedano gli artt. 352 (matrimonio
riparatore); 363 (causa d’onore in relazione ai delitti di supposizione e
soppressione di stato); 369 (causa d’onore in relazione all’infanticidio); 377
(causa d’onore in relazione ai delitti di omicidio e lesioni personali); 385
(causa d’onore in relazione all’aborto).
[281] Cass. 21 ottobre 1932 (corsivo aggiunto), riportata
da CELORIA-PETRELLA, La condizione della donna, in AA.VV., Valori
socio-culturali della giurisprudenza, cit., p. 147 s., cui si rinvia per una
più ampia ricostruzione del concetto di onore sessuale sulla scorta
dell’analisi della giurisprudenza relativa agli artt. 551, 578 (vecchio testo)
e 587 c.p.
[282] Cass. 30 giugno 1950 (corsivo aggiunto), riportata da
CELORIA-PETRELLA, op. cit., p. 151.
[283] Cass. 13 marzo 1952 (corsivo aggiunto), riportata da
CELORIA-PETRELLA, op. cit., p. 148.
[284] ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte
speciale, vol. I, VI ed., Torino, 1972, p. 51. Sorprende, invece, l’assenza
(nella stessa edizione del manuale citato) di qualsiasi cenno critico rispetto
all’istituto del matrimonio riparatore: l’insigne Autore si limita, infatti, a
considerarlo “un caso di ravvedimento attivo post delictum, al quale
eccezionalmente è attribuita l’efficacia di estinguere la punibilità” (ivi,
p. 400). Molto più aspro, invece, era il giudizio di MANTOVANI, Diritto
penale. Parte generale, Padova, 1979, p. 30: “l’istituto del matrimonio
riparatore (…) aggiunge all’onta dell’offesa subita (normalmente) dalla donna
la beffa di un matrimonio, sovente contratto dal reo al solo scopo di sottrarsi
alla pena” (giudizio ribadito, in retrospettiva, anche nell’ultima edizione del
manuale, quella del 2009, a p. LI).
[285] Tra le più penetranti, v. quella di PISANI, Pena
di morte all’italiana, in ID., Tutela penale e processo: studi,
Milano, 1978, p. 409, secondo cui il delitto d’onore costituiva una sorta di
“pena di morte ad iniziativa privata”.
[286] La citata Relazione – a firma dell’on. Gozzini – può
essere letta in La legislazione italiana 1981, IV, p. 57 s. La legge 5
agosto n. 442, ha abrogato le norme suddette, ad eccezione dell’art. 551 c.p.
che, riguardando la materia dell’aborto, era già stato in precedenza abrogato
con la legge 22 maggio 1978 n. 194, recante la nuova disciplina
dell’interruzione della gravidanza. Per una ricostruzione storica delle
fattispecie in parola, v., anche per ulteriori rinvii, RIONDATO, «Famiglia»
nel diritto penale italiano, in RIONDATO (a cura di), Diritto penale
della famiglia, in ZATTI (diretto da), Trattato di diritto di famiglia,
vol. IV, Milano, 2002, p. 48 s.
[287] Cass. 26 settembre 2007 (dep. 10 ottobre 2007), CED
237679 (corsivo aggiunto). Nello stesso senso, v. anche Cass. 14 ottobre 1996
(dep. 24 ottobre 1996), Giordano, CED 205918: “va escluso che un
omicidio, commesso per salvaguardare l’onore pretesamente offeso dalla
relazione amorosa con il proprio coniuge, e per ricostituire l’unità familiare,
trovi approvazione nella coscienza etica collettiva: la gelosia e la
vendetta, dettate da un malinteso senso dell’orgoglio maschile colpito
dall’infedeltà coniugale, costituiscono sempre passioni morali riprovevoli
mai suscettibili di valutazione etica positiva” (corsivo aggiunto); v.
infine Cass. 1° marzo 1994 (dep. 16 aprile 1994), CED 197192, secondo cui “la
causa d'onore non può identificarsi con un malinteso senso dell’orgoglio
maschile che è incompatibile con i valori sociali che si sono consolidati
nella moderna società in tema di infedeltà coniugale” (corsivo aggiunto).
[288] HASSEMER, Vielfalt, cit., p. 157. Nello stesso
senso, v. pure HURTADO POZO, Schuld, individuelle Strafzumessung und
kulturelle Faktoren, in Strafrecht und Wirtschaftsstrafrecht –
Festschrift für Tiedemann, Köln - München, 2008, p. 359: “in ambito penale,
fatto illecito e colpevolezza sono costantemente legate a norme etiche e
sociali. La determinazione del comportamento meritevole di pena e l’ambito
della colpevolezza dipendono fortemente dal contesto sociale e culturale.
Questo legame è una peculiarità del diritto penale”.
[289] In tal senso, v. HASSEMER, Vielfalt, cit., p.
158, il quale giustamente segnala che, oltre all’immigrazione, anche un secondo
processo, tipico della società contemporanea, scuote e mette in crisi quanto
meno il ‘localismo’ del diritto penale: la globalizzazione (o internazionalizzazione),
dal momento che l’aumentata circolazione transfrontaliera di merci e capitali
sconvolge inevitabilmente l’originario assetto di un diritto penale chiuso nei
confini nazionali e ripiegato su se stesso. Sul tema degli effetti della
globalizzazione sul diritto penale – tema che non rientra nell’oggetto della
nostra indagine – la dottrina ha già avviato da qualche decennio
un’approfondita riflessione, come testimonia una bibliografia divenuta ormai
sconfinata: anche per ulteriori rinvii, v., oltre agli scritti citati alla nota
39, HÖFFE, Globalizzazione e diritto
penale, cit.; DAVID, Globalizzazione, prevenzione del delitto e
giustizia penale, Milano, 2001 (trad. it. di Amendolito); DE SOUSA SANTOS, Toward
a NewCommon Sense. Law, Science and Politics in the Paradigmatic
Transition, New York - London, 1995; TWINING, Globalisation and Legal Theory,
London-Edinburgh-Dublin, 2000.
[290] In senso analogo, v.
pure EGETER, Das ethnisch-kulturell motivierte Delikt, cit., p. 28.
[291] Con specifico riferimento agli elementi normativi
culturali (ma con validità estendibile anche agli altri settori di
intersecazione tra norme penali e norme culturali), v. quanto rilevato da
MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 138: “le norme etico-sociali [scil.:
richiamate dagli elementi normativi culturali], soprattutto in società
pluralistiche come quelle contemporanee, hanno una naturale incertezza di
contenuti e validità per i consociati”. Sottolinea la problematicità degli
elementi normativi culturali all’interno di “una società pluralista nella quale
diverse culture e diverse etiche possono legittimamente confrontarsi e
convivere”, anche PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 168; in termini
altrettanto problematici, v. pure ROXIN, Strafrecht. AT, Band I, cit.,
p. 932: “le valutazioni sociali e morali in una società pluralista sono così
oscillanti che il diritto non può pretendere incondizionatamente che i
consociati orientino la loro condotta a tali valutazioni”.
[292] Come ha osservato di recente BERNARDI, Modelli
penali, cit., p. 1, “l’incrementata facilità di spostamento da un punto
all’altro del globo – dei singoli come di intere comunità, spinte a emigrare
dalla crescente ricchezza dell’Occidente e dalla vieppiù vistosa povertà del
terzo mondo – tende ormai a porre in stretto contatto soggetti appartenenti a
culture spesso assai diverse, con conseguenze difficilmente preventivabili ma
comunque ricche di implicazioni a sfondo penale”.
[293] È la frase di Mezger che abbiamo citato all’inizio
del capitolo: v. supra, nota 6.