Libera Università Maria Santissima Assunta
(Lumsa) Roma
All’origine della sinfonia di Sacerdotium
e Imperium: da Costantino a
Giustiniano
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Termini e concetti. – 3. Gli
antecedenti dell’imperium e sacerdotium (magistratus e sacerdotes). – 3.1. Ulpiano. – 3.2. Cicerone. – 4. Raffronto tra sacerdotes e magistratus. – 5. Alcuni
concetti del diritto pubblico. – 5.1. Populus. – 5.2. Civis Romanus. – 5.3. A
proposito di religio. – 5.4. Populus religiosus,
plebs devota, populus Dei. – 6. Sviluppo
storico del problema della “sinfonia” di imperium
e sacerdotium da Augusto a
Giustiniano. – 7. Impero e Chiesa: da Augusto a Giustiniano. – 7.1. Augusto. – 7.2. Diocleziano. – 7.3. Galerio. – 7.4. Costantino. – 7.5. Graziano. – 7.6. Teodosio. – 7.7. Giustiniano. – 8. Alcune
considerazioni conclusive. – Abstract.
In questo
articolo mi limito ad indicare alcune linee e a tentare di ricostruire, nel
sistema giuridico religioso, gli antecedenti di quella che con Giustiniano
diventerà la “teoria della sinfonia” di imperium
e sacerdotium[1].
Il tema in
oggetto è di tale ampiezza e difficoltà, anche per le implicazioni giuridiche e
religiose[2], che richiederebbe uno studio di maggiore
respiro[3].
In questa sede mi
limito a indicare alcune linee e a tentare di ricostruire, nel sistema giuridico
religioso, gli antecedenti di quella che con Giustiniano diventerà la “teoria
della sinfonia” di imperium e sacerdotium[4].
Punto focale per
cogliere pienamente la teoria della “sinfonia” è la Novella VI dell’Imperatore
Giustiniano (nella quale appaiono i due termini: imperium e sacerdotium)
avendo ben presente che l’interpretazione statalista (moderna e contemporanea
che tutto fagocita) impedisce di cogliere unità ed esclusioni che riguardano
l’universalità degli uomini, insite nei concetti di sacerdotium e imperium,
di religio (religiosus) e ius Romanum,
di communio e politeia.
Il sistema romano
antico, sia precristiano sia cristiano, non conosce l’“isolamento” (Isolierung) del diritto rispetto alla morale
o alla religione, che caratterizza invece le società contemporanee[5].
Nel quadro di una ricostruzione del diritto romano mi limito a richiamare il
pensiero di Fritz Schulz il quale vede già nelle XII Tavole una separazione del
diritto dalla morale e dalla religione[6].
Principale obiettivo odierno
dei romanisti deve essere quello di ricostruire la memoria storica dei giuristi
tornando alle fonti e recuperare alcuni antichi concetti del sistema
giuridico-religioso romano.
La compilazione dell’imperatore Giustiniano contiene talune
enunciazioni che ben potremmo chiamare, con linguaggio d’oggi, principi
fondamentali. I principi dello ius Romanum (che comprende lo ius naturale, lo ius civile e lo ius gentium), ius universale e concreto definito da
Celso come ars boni et aequi, ancora
oggi (nell’epoca c.d. della globalizzazione) possono essere utilizzati contro
l’antiumanesimo e contro questa imperante secolarizzazione che vuole eliminare
l’elemento religioso dalla vita degli uomini[7].
Appare quindi
necessaria una revisione, attraverso l’analisi terminologica,
dell’interpretazione ‘statalista’ della religione, della morale e della
cittadinanza, che è risultato di una ‘autoproiezione’ (“Stato” “diritti civili”
“capacità giuridica”) sulle fonti giuridiche romane[8].
Accanto ai termini ius
Romanum[9], Romani,
cives Romani, homines, dii, communio, conversatio, politeia, res publica, populus[10]
devono essere studiati in modo sistematico anche gli altri termini sopra citati
che vengono adoperati dagli Imperatori. Si devono recuperare gli antichi
concetti: ad esempio fas, ius,
mos; queste sono nozioni che, usando distinzioni odierne, dovremmo dire, al
tempo stesso “religiose”, “giuridiche” e “morali”[11].
Bisogna servirsi dei principi che affondano le loro radici nella giurisprudenza
romana, nello ius Romanum (che comprende lo ius naturale, lo ius
gentium e lo ius civile)[12].
Quanto alla giurisprudenza romana significativa è la definizione contenuta in
D. 1.1.10. 2: «divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti
scientia»[13].
Tutto ciò anche al fine di
comprendere l’autentico significato di odierne accezioni come ad esempio
‘laicità’[14]
(e ‘laico’) che viene comunemente (e malamente) intesa come esclusione della
religione dai vari ambiti della società e il suo confino nell’ambito del
privato e della coscienza individuale: penso, ad esempio, ad alcune pronunce
della Corte costituzionale[15]
o a quelle di alcuni giudici, tra i quali la Corte di cassazione[16].
Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha trattato il tema della tutela
della libertà religiosa[17]:
nel distinguere esplicitamente la tutela della libertà religiosa dal
separatismo, dal secolarismo e dalla «religious equidistance» – «in Europe,
secularism is optional, freedom of religion is not» – il giudice maltese è
giunto ad affermare che una Corte chiamata a difendere i diritti dell’uomo,
come quella di Strasburgo, non si può permettere di «suffer from historical
Alzheimer’s» e che la decisione di rimuovere i Crocifissi dalle scuole
costituiva «a major act of cultural vandalism».
Rilevante è quanto elaborò
Giorgio La Pira, nella seduta dell’Assemblea costituente dell’11 marzo del
1947, rispondendo alla domanda del deputato Pietro Nenni che aveva chiesto: «Lo
Stato deve o non deve essere laico?»[18].
Innanzitutto, l’illustre romanista ricordava che ogni azione dell’uomo è sempre
diretta da un’idea; quindi non può esistere uno Stato agnostico o laico,
proprio perché in base a come si concepisce la realtà umana e la società, così
si costruisce la volta giuridica. Poiché la persona umana – continuava La Pira
– ha un’intrinseca orientazione religiosa che si esprime necessariamente nelle
confessioni religiose, lo Stato deve essere talmente rispettoso di questa
propensione religiosa e di queste formazioni religiose associate che non può
che “dichiararsi incompetente” (espressione di R. Baccari) a disciplinare
direttamente questo ambito. Pertanto La Pira evidenziava la contraddittorietà
dell’espressione «Stato laico» dichiarando, però, anche il rifiuto dello «Stato
confessionale» (uno Stato, cioè, nel quale i diritti civili, politici ed
economici dipendono da una certa professione di fede) e concludeva sostenendo,
dunque, che si doveva costruire uno Stato rispettoso dell’orientazione religiosa
del singolo e delle collettività[19].
Il pericolosissimo ricorso
alle astrazioni, peraltro, è proprio della cultura contemporanea: il pensiero
contemporaneo è intessuto di astrazioni[20]
e il lessico contemporaneo lo sostiene, dotandosi di neologismi astratti;
‘laicità’ è uno di questi[21].
Grandi sono gli
inconvenienti derivanti, oggi, dalla mancanza di quel rigore terminologico (e
concettuale) che dovrebbe essere una delle necessarie risposte alla sfida della
globalizzazione. Questa, caratterizzata dalla ‘rapidità della comunicazione’,
comporta l’uso di un linguaggio rozzo e impreciso e, dunque, ambiguo e
fuorviante.
A conferma della massima
attenzione che deve essere data al rigore terminologico, si ricorda che alla
metà del secolo XX il romanista Biondo Biondi ha dedicato un lavoro alla
terminologia romana come prima dommatica giuridica[22].
Per comprendere
la teoria della sinfonia tra imperium
e sacerdotium si deve fare riferimento a magistrati e sacerdoti. I due termini
richiamano la tripartizione ulpianea dello ius
publicum; per scoprire la radice della sistematica ulpianea, il riferimento
va anche, in particolare, al pensiero di Cicerone.
A ben vedere anche i due
termini imperium e sacerdotium richiamano in certo qual
modo la nota definizione ulpianea di ius
publicum collocata in apertura dei Digesta
di Giustiniano: «est quod ad statum rei
romanae spectat» D. 1.1.1. Infatti quanto al contenuto dello ius publicum leggiamo la tripartizione ius publicum in sacris in sacerdotibus in
magistratibus consistit[23].
Questi sono elementi portanti della struttura organizzativa su cui si fonda il
modo di essere (status) della res romana.
L’aspetto divino
del potere è chiarito dalla tripartizione ulpianea.
Può essere interessante un
raffronto con la descrizione della costituzione romana in Cicerone[24].
Le riflessioni dell’Arpinate sulla realtà giuridica erano basate su una
tradizione di studi giuridici (era amico di grandi giuristi Servio Sulpicio
Rufo e di Trebazio Testa).
Nel de legibus Cicerone
tratta prima della religione[25].
dei sacerdoti (Pontefici, Vestali, Auguri, Feziali, Aruspici) e poi dei magistrati
e (quindi del senato e dei comizi)[26]
e dunque possiamo parlare, a proposito del pensiero ciceroniano, di una
derivazione dalla giurisprudenza repubblicana (cfr. Trebazio Testa autore di un
libro de religione)[27].
Nel sistema ulpianeo i magistrati seguono sacra e sacerdotes (D.
1.1.1.2): si tratta di una suddivisione propria della giurisprudenza
repubblicana, tracciata probabilmente in conformità e stretta adesione ai
documenti sacerdotali e magistratuali. Come ha evidenziato Sini: «Un secolo
emblematico e significativo per la storia della scienza giuridica romana; che
si apre con la lex Ogulnia de sacerdotibus ex plebe creandis, cioè con
l’ammissione dei plebei ai collegi sacerdotali e si chiude con i tripertita di
Sesto Elio Peto, peraltro egli stesso appartenente ad una famiglia di
tradizione sacerdotale»[28].
La ‘distinzione’ è segnata
fin dall’epoca più antica dalla diversità di fondamento dei poteri: vi è una
profonda diversità poiché diverso è l’apporto della volontà divina nelle
investiture dei sacerdoti e dei magistrati.
Mi limito a indicare alcuni
punti focali. L’inauguratio è propria
dell’“investitura” sacerdotale[29]
e la lex curiata viene mantenuta per
il conferimento del potere ai magistrati. Mentre dall’“investitura” dei
sacerdoti è escluso l’intervento della volontà popolare, infatti il populus non può creare sacerdoti[30].
Come ha precisato Catalano che più volte è tornato su questi temi: «il potere
del Pontefice massimo non può essere confuso con l’imperium: anche se poteva assommarsi ad esso nella stessa persona,
come accadde ripetutamente in età repubblicana e poi, a partire da Augusto,
costantemente fino alla rinunzia al pontificato massimo compiuta
dall’Imperatore Graziano (forse già nel 379)»[31].
In questo contesto è
centrale il concetto di populus
richiamato da Cicerone. Egli nel de
republica 1.25.39 definisce la repubblica “la cosa del popolo” (res publica id est res populi) per fornire
quindi – immediatamente di seguito – la grande, insuperata definizione del
popolo come “società” (populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus sed coetus
multitudinis iuris consensu atque utilitatis communione sociatus). Sulla natura
societaria del popolo si dovranno fare ulteriori indagini (a partire anche dai
diversi termini della definizione ciceroniana)[32].
Quel che va detto subito è che a monte di tale dottrina sta la dottrina della
natura “concreta” del popolo come insieme dei cives/Quirites. Nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano
troviamo populi appellatione universi
cives significantur (Gaio 1.3 e Inst.
1.2.4) e nella “formula giuridico-religiosa” populus Romanus Quirites.
I magistrati repubblicani
sono mandatari del popolo, del quale devono eseguire la volontà (dichiarata
dagli universi cives per mezzo del
voto: D. 1.3.32.[Iul.]1 … suffragio
populus voluntatem suam declaret …). Non sono, invece, mandatari del
popolo i sacerdoti: populus per
religionem sacerdotia mandare non poterat (Cic. leg. agr. 2.18)[33].
Con l’epoca repubblicana, in
luogo dell’unicità del potere regio, si costituisce una sorta di “dialettica”
(Lobrano) tra i sacerdozi e le magistrature (Cicerone de leg. 2.19-22; Ulpiano, Digesta
di Giustiniano D. 1.1.1.2) i quali sono ormai due complessi istituzionali
nettamente distinti, che trovano i propri vertici, rispettivamente, nel
consolato e nel pontificato massimo.
Il cittadino (civis) è una “parte” (pars) del populus, ed il popolo è una res
di cui i cives sono partes: così per il giurista Alfeno
Varo, ripreso nella codificazione di Giustiniano (analogamente il populus è un corpus secondo il filosofo Seneca)[34].
Pertanto stranieri e servi
possono diventare cittadini senza differenze di lingua, di razza, di religione.
Dall’istituzione dell’asylum di
Romolo in Campidoglio fino alla costituzione dell’imperatore africano Antonino
Caracalla (Magnus) ed oltre, la civitas è in crescita permanente (civitas augescens è concetto giuridico:
Pomponio D. 1.2.2)[35]:
fino a che Giustiniano elimina dal diritto romano il concetto di “straniero”[36].
Il principio della civitas augescens spiega come il giudeo
Saul (Paolo) di Tarso potesse essere civis
Romanus fin dalla nascita (Atti degli Apostoli 22.27-28); spiega come poi,
secondo le costituzioni degli imperatori cristiani, non venisse meno la
cittadinanza romana dei giudei e dei gentili.
È grave errore storico e
giuridico identificare i concetti di “romano” e di “cristiano” (ortodosso,
cattolico)[37],
anche se sarebbe errato negare, per la “rivoluzione” costantiniana, la
continuità dell’Impero ecumenico romano e cristiano[38].
Per comprendere a
fondo quale rapporto esistesse tra religio
e populus nel sistema
giuridico-religioso romano, conviene prendere le mosse nuovamente da quanto ci
testimonia Cicerone. Mi limito a richiamare un passo del de natura deorum dal quale emerge chiaramente il vulnus che si viene a creare nella res publica (res populi) se si
dimentica (negligere) la religione,
mentre la grandezza della res publica
(res publica amplificata) è
strettamente connessa all’obbedienza dei precetti religiosi; rispetto ad altri
popoli il popolo Romano fu pari o anche inferiore ad eccezione della religione
(religione, id est cultu deorum)
nella quale primeggiarono (multo
superiores)[39].
E precisamente, come ha rilevato Sini: «l’analisi di alcune delle sue più
pregnanti definizioni, dove religio è
sempre intesa nel senso di “culto degli dèi” (Cicerone, De nat. deor. 2. 8), lascia infatti intravedere, con grande
chiarezza, la giustificazione teologica dell’egemonia politica romana, che gli
antichi attribuivano naturalmente al favore degli dèi, ma non senza merito da
parte dei Romani; i quali per sensibilità e cautela verso la religio superavano di gran lunga tutti
gli altri popoli. Dunque, nella concezione teologica (e giuridica) romana il parere religionibus non può che
determinare, nella dinamica della storia, la costante amplificatio della res
publica»[40].
All’inizio del III secolo d. C. è una fonte, per dir così extra giuridica, che ci
offre un uso interessante di religio.
Tertulliano, nell’Ad Scapulam
(cap. 2), aveva affermato che per ciascuno è di diritto e di potestà naturale (humani iuris et naturalis potestatis) praticare il culto secondo quanto
crede, né ad alcuno è di ostacolo o di beneficio la religione di un altro[41].
E neppure compete alla religione di obbligare ad
abbracciare una fede, che deve essere fatta propria spontaneamente.
Con queste espressioni si
precisa che «la libertà religiosa è un “diritto umano” e una “potestà
naturale”, che appartiene ad ogni uomo in quanto tale e non ha bisogno di
essere concessa dall’ordinamento giuridico. Il riconoscimento formale della
cosiddetta libertà religiosa è in certo senso un di più che è richiesto spesso
dalla situazione storica e che molti secoli più tardi diventerà necessario
dinanzi al mito dello Stato, creatore unico del diritto (inteso questo in senso
oggettivo di “ordinamento giuridico”) e quindi creatore dei “diritti soggettivi
di ciascun individuo”»[42].
A) La prima costituzione del libro XVI del Codex Theodosianus de fide catholica parla di homines
Cristianae religionis (CTh. 16.1.1 del 365)[43].
Nelle costituzioni del Codex Thedosianus e del Codex
Iustinianus il termine populus
indica uomini che svolgono una funzione attiva nella Chiesa. Anche al populus entro la Chiesa viene
riconosciuto un ruolo attivo[44].
Tra populus
religiosus e fideles vi è un
rapporto analogo a quello che esiste tra populus
Romanus e cives.
Rilevante è il rapporto che c’è tra populus Romanus e populus religiosus. Come civis
non si identifica con Christianus
catholicus, così populus non si
identifica con il populus religiosus
o con il populus fidelium.
B) La precisa distinzione tra populus e plebs, caratteristica dell’età repubblicana, secondo alcuni autori
non ha più ragion d’essere[45] e vi sarebbe, secondo altri, una tendenza
ad usare il termine plebs come
sinonimo di populus[46].
Tuttavia è da chiarire che mentre è
indubbia la tecnicità del termine populus,
plebs non ha un preciso significato
giuridico attuale: basti pensare che mentre sono numerose le costituzioni
indirizzate ad populum, nessuna è
indirizzata alla plebs.
C) Nelle fonti patristiche si trova spesso plebs e non ha una connotazione negativa
o comunque spregiativa: basti pensare all'espressione plebs Dei[47]. Nella metà del V secolo Papa Sisto III
donò la basilica di Santa Maria Maggiore alla plebs Dei[48].
ll populus
è presente attivamente nella vita della Chiesa, specialmente per quanto
riguarda la partecipazione alle elezioni dei vescovi[49]: «episcopus
ordinetur electus ab omni populo» si legge nella Traditio apostolorum, di Ippolito di Roma[50]. Cipriano precisa «post populi suffragium, post consensum plebis vel populi» (Ep. 55; cfr. Ep. 38; 43; 59; 68). Nella Ep. 72 troviamo populus Dei: «contra unanimem et concordem Dei populum hostilis discordiae furore
pugnasse».
Gli autori cristiani usano l’antico termine
populus per indicare l’insieme degli uomini
che partecipano all’ekklesia, che non
è solo l’assemblea, la comunità locale, ma anche la Chiesa universale. Chiamata
di tutti gli uomini, uniti quindi da un elemento volontaristico, senza
distinzione di nazione, razza, popolo e lingua (Apoc.7.9; 5.9).
Al populus
Dei si giunge attraverso il battesimo, al quale tutti possono partecipare[51]. Tutti hanno ricevuto lo stesso battesimo[52].
Anche i pagani possono entrare a far parte
del populus Dei. Il messaggio, ad esempio,
dell'Apostolo delle genti ha valore per tutti i popoli, anzi «deve recare ai
popoli (pagani) il nome di Cristo»[53]. Paolo nella Epistula ad Romanos più volte parla dei pagani: ‘ta ethne’ distinti
dai Giudei, e di Elleni contrapposti a barbari.
Una volta
fissati, sia pure per grandi linee, gli strumenti terminologici e concettuali
da utilizzare possiamo riprendere il cammino per giungere alla creazione della
teoria giustinianea della sinfonia tra imperium
e sacerdotium. Siamo al I secolo:
Impero e Chiesa (Augusto e Cristo) due realtà (due protagonisti della storia,
essenziali alla storia dell’umanità, G. La Pira[54])
che si incontrano ciascuna con compiti specifici. Preciso lo sviluppo storico
di imperium e sacerdotium attraverso alcuni Imperatori vissuti tra il I e il VI
secolo.
Mi limito a
richiamare soltanto alcuni esempi di Imperatori che in linea di continuità
(vedi supra) hanno assommato nella
stessa persona il potere del Pontefice massimo con l’imperium a partire da Augusto, costantemente fino alla rinunzia al
pontificato massimo compiuta dall’Imperatore Graziano.
In particolare mi
soffermerò brevemente su Augusto, Diocleziano, Galerio, Costantino, Graziano,
Teodosio e Giustiniano.
Nel contesto
sopra richiamato non possiamo non ricordare Augusto, il quale assume il titolo
di Pontefice massimo (Res gestae 10)[55].
Nello schema
della 1ª lezione 18/XI/68 Giorgio La Pira a proposito del “diritto romano
contestato” afferma: «… Per rispondere: anzitutto situare questa “res” nel contesto geografico e storico
(demografico, politico, culturale, sociologico, “profetico”, religioso,
scientifico, giuridico, contestativo, economico) del tempo di Augusto: (“l’anno 1”) ciò che è specifico di questi
tempi: il livello culturale, spirituale,
politico, giuridico: il censimento. L’anno 1»[56].
A proposito della “strategia di san Paolo” l’illustre autore afferma: «A questa
“strategia di Dio” nella storia del mondo va ricondotto l’intiero “mistero di
Roma”: la pienezza dei tempi include l’unità politica del mondo nel tempo di
Augusto, la pace del mondo (l’Ara Pacis inaugurata, il tempio di Giano chiuso)
ed il censimento del mondo (Lc 2, 1 ss.) nel quale furono censiti, a Betlemme,
Cristo e Maria!»[57].
«Un anticipo e quasi un “modello” (come dice Theilard de Chardin) di questa stagione storica fu costituita dalla
singolare (“unica” davvero!) età di Augusto: l’età della paolina “pienezza dei
tempi”: una età caratterizzata (“specificata” appunto ) dalla unità del mondo (realizzata, attorno a
Roma, da Augusto: cfr. Mon. Ancyranum), dalla pace del mondo (ARA PACIS: “con Costui pose il mondo in tanta pace
che fu chiuso a Giano il suo delubro”, come Dante dice: Parad. VI, 80) e dal censimento del mondo (al quale si lega
in certo senso l’evento finalizzatore
della storia intiera del mondo: la nascita, cioè, di Cristo a Betlemme “toto orbe terrarum in pace composito”)»[58].
Nell’articolo
“Arco di Costantino: riflessione storico-politica” in seguito all’incontro
fatto da La Pira a Roma, l’illustre romanista afferma: «finalmente la Chiesa
esce dalla catacombe e diventa la protagonista della storia, con l’impero
(sempre inteso non come imperialista, ma come unità del mondo intero)» … «tutta
la storia universale viaggia verso Roma, verso l’impero romano (impero in senso
profondo, non in senso imperialista) impero come unità del mondo che fu
realizzata veramente da Augusto»[59].
Quando? Quando
lui fece il censimento, da cui nacque Gesù, il Figlio di Dio. Quindi tutta la
storia precedente è avviata verso questa cosa misteriosa, ma reale, che è la
nascita del Redentore, è cristocentrica come si dice, viaggia verso Cristo, e
dopo che Cristo è nato, e dopo l’affermazione della Chiesa qui a Roma con
Pietro e con Paolo, questa Chiesa fondata qui, comincia un discorso con chi?
Con l’impero (intendo per impero non l’imperialismo ma la struttura unitaria
del genere umano)»[60].
Diocleziano in
una costituzione del 295, dichiara che il favore degli dei per il nomen Romanum dipende dalla vita pia,
religiosa, quieta e casta (pia,
religiosaque et quieta et casta) di qui
sub imperio nostro agentes…» (Coll. 6.4).
L’Imperatore
utilizza il concetto di ius Romanum
in stretta connessione con gli antichi valori religiosi, in riferimento al
matrimonio. In una costituzione di Diocleziano e Massimiano del 294 il concetto
di humanitatis ratio era stato
integrato con quello di religionis ratio[61].
Nel 311 avviene un fatto di grande importanza per l’unificazione,
il consolidamento dell’unità, il recupero dei valori e la comunione tra i
diversi popoli intorno alla disciplina romana: il 30 aprile, a
Nicomedia, Galerio pubblica un editto con il quale si concede ai Cristiani,
purché vengano ‘rispettate le leggi’, libertà di culto e si precisa che i
cristiani in diversi luoghi attirano svariati popoli: «... per diversa varios
populos congregarent»[62].
Costantino fundator quietis, definito il più grande
rivoluzionario[63]
tuttavia è certamente un tradizionalista. Egli si dichiara episcopos ton ektos[64].
Di bipolarità, di due
protagonisti della storia, di due “organi” essenziali alla storia dell’umanità
parla Giorgio La Pira riguardo all’epoca costantiniana e all’Imperatore
Costantino: «L’altro principio è la bipolarità della storia. Vi sono due
protagonisti, due organi essenziali allo sviluppo del piano di Dio nel mondo, e
quindi della storia umana. E sono per un verso lo stato, cioè oggi si direbbe
l’ONU, al tempo di Costantino era l’Impero romano. Sono coessenziali, non si
può farne a meno»[65].
L’intreccio fra le massime
preoccupazioni degli Imperatori e le convinzioni religiose custodite dal popolo
erano già state ben espresse nei versi di Publilio Optaziano Porfirio,
VIII.3-5: «Summe, fave! te tota rogat
plebs gaudia rite, / et meritam credit, cum servat iussa timore / Augusto et
fidei, Christi sub lege probata».
A proposito di Costantino
Zenone dice: qui veneranda christianorum
fide Romanum munivit imperium[66].
Graziano nel 379 rinunzia al
Pontificato, lascia le insegne di Pontefice[67].
Ha chiarito Catalano che «ciò sembrerebbe costituire un distacco dal paganesimo
e un rafforzamento del Papato»[68].
Mi limito a richiamare
l’editto di Tessalonica Cunctos populos del
380 (CTh. 16.1.2 = C.1.1.1) con il quale l’Imperatore Teodosio vuole mettere in
luce il primato di Pietro e della sua sede. Roma è la città nella quale la sede
del divino apostolo fu stabilita e dalla quale fu impartito il suo
insegnamento, il centro di quella comunità che sola può prendere, come si legge
nella costituzione, il nome di ecclesia[69].
A.
Alcune
considerazioni sulla “strategia romana”
Importante, a mio avviso, è
che III kal. Mart. sia ‘data’ la
costituzione CTh. 16.1.2 = C.1.1.1, cioè proprio nel giorno, come risulta ad
es. dai Fasti di Furio Filocalo[70]
(una delle fonti calendariali più complete pervenuteci attraverso il Cronografo
del 354), in cui era celebrato il Natalis
divi Constantini. La coincidenza non mi sembra casuale: l’omaggio, da parte
di Teodosio, all’Imperatore Costantino, che per primo aveva accordato a tutti
la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità
qualunque essa sia, desse pace e prosperità. Nel Cronografo del 354 è contenuto
anche il più antico calendario cristiano di Roma pervenutoci: la cosiddetta Depositio martyrum; ivi, accanto alle feste
strettamente legate alle deposizioni dei martiri è registrata al 22 febbraio la
celebrazione del magistero di Pietro: VIII
kal. Martias, natale Petri de cat[h]edra[71].
Orbene, cinque giorni dopo (III kal. Mart.)
è ‘data’[72]
la nostra costituzione; anche questa coincidenza non mi sembra casuale:
Teodosio sottolinea così l’esigenza dell'adesione di cuncti populi al magistero di Pietro.
Il 22 febbraio era celebrata
la festa pagana dei Caristia, che
rinsaldava i vincoli della famiglia[73].
è noto che feste pagane «si
trasfigurarono a Roma in feste cristiane»[74]:
la data del 29 giugno, il dies natalis
di Pietro e Paolo, che nel calendario pagano era il giorno sacro a Romolo e poi
a Romolo e Remo[75],
può contribuire a mettere in maggiore evidenza le affinità tra il concetto di concordia Apostolorum e quello di concordia Augustorum. Anche il 22
febbraio, a mio avviso, è un esempio di questa connessione: «per i Cristiani
aveva un significato particolare in quanto rappresentava l'unità dei fedeli nel
magistero di Pietro»[76].
Secondo quanto riferisce il
Gotofredo (nota f a CTh. 16.1.2)[77],
in alcuni manoscritti dei Basilici il nome di Paolo è aggiunto dopo quello di
Pietro.
In questa prospettiva anche
la politica religiosa di Teodosio si può considerare, a mio avviso, come
conseguenza di quella che è stata chiamata, dal La Pira, “la strategia romana”
di Pietro e di Paolo[78].
Il 29 giugno del 441 Leone
Magno pronunzia, in natali apostolorum
Petri et Pauli, un sermone, assai suggestivo, con ampi riferimenti alla
storia di Roma e all'universalità dell'urbs.
In apertura si legge: «hodierna
festivitas, praeter illam reverentiam quam toto terrarum orbe promeruit,
speciali et propria nostrae urbis exultatione veneranda est ... Isti enim sunt
viri per quos tibi Evangelium Christi, Roma, resplenduit»[79].
«Dès la naissance de l’Urbs le
mot Romanus n’indique pas
l'appartenence à une ethnie ... Le mot Romanus
signifie faire partie d'une citoyenneté ‘volontariste’, ouverte et dynamique»[80]. Ma esso era, a mio avviso, giuridicamente
significativo in quanto continuava ad essere connesso anche cristianamente,
seguendo la “strategia romana” di Pietro e Paolo, all’urbs Roma. In tal senso Leone Magno ricordava: «beatissimus Petrus princeps apostolici
ordinis, ad arcem Romani destinatur imperii: ut lux veritatis quae in omnium
gentium revelabatur salutem, efficacius se ab ipso capite per totum mundi
corpus effunderet. Cuius autem
nationis homines in hac tunc urbe non essent? aut quae usquam gentes ignorarent
quod Roma dedicisset?»[81].
Diverso ma complementare al
nesso individuato da Papa Leone tra ‘Romano’ e ‘Roma’ è, a mio avviso, il
pensiero di Agostino, che poneva l'accento, invece che sull'urbs Roma, sui Romani: «Forte Roma non perit,
si Romani non pereunt: Non enim peribunt si Dominum laudabunt; peribunt si
blasphemabunt. Roma enim quid est nisi Romani?»[82].
La semantica del termine Romanus si sviluppa con continuità nel
linguaggio giuridico-religioso: dalla Epistula
ad Romanos a Teodosio I a Giustiniano I. Continuità della terminologia e
continuità di “strategie”.
Nella Novella VI
Giustiniano, nel 535, tratta di sacerdotium
e imperium. Sacerdotium et imperium (ierosune
kai basileia) sono i massimi doni elargiti da Dio agli uomini. Questi doni
sono elargiti dalla clemenza di Dio agli uomini. L’uno il sacerdotium riguarda le cose divine, l’altro l’imperium presiede le cose umane e le controlla[83].
Entrambi, poiché derivano da un unico medesimo principio, adornano (exornant) la vita umana. Pertanto niente
starà maggiormente a cuore (studiosum
erit) agli imperatori quanto l’onestà dei sacerdoti, poiché essi pregano
continuamente Dio anche per loro. E qui l’Imperatore del VI secolo introduce
l’idea dell’impero universale e della sinfonia (consonantia[84])
che deve esservi tra imperium e sacerdotium[85].
L’armonia[86]
deve essere una caratteristica essenziale e questa è utile (utile est)[87]
al genere umano. Nella Novella VI si legge «se infatti sacerdotium è del tutto irreprensibile, fiducioso in Dio e se l’imperium con rettitudine e competenza
provvede alla res publica a lui
affidata vi sarà una mirabile sinfonia che conferirà al genere umano ogni
utilità»[88].
Se vi sarà questa armonia ne beneficerà tutto il genere umano. Difesa della
religione e difesa dell’Impero si saldano e si può trovare la manifestazione di
questo disegno, ad esempio, nella punizione della bestemmia da parte di
Giustiniano[89]. Essa è punita con la pena di morte perché
i danni prodotti dalla bestemmia ricadono sull’intera umanità.
Secondo Giustiniano, le Romanae leges o Romana sanctio o lo ius
Romanum riguardano tutti gli uomini (Deo
auctore 1; Tanta 12; 19; 23) e
tutti i popoli (Imperatoriam 1); le leges delle Institutiones e dei Digesta
sono espressamente dichiarate «in omne
aevum valituras» (Tanta, 23; cfr.
12; Deo auctore 14). Come ha
affermato Catalano vi è pertanto una profonda distinzione tra lo ‘Stato’
(moderno e contemporaneo) ‘particolare’ ed ‘effettivo’, e l’Impero romano,
universale ed eterno.
Nella costituzione
indirizzata agli studenti delle scuole di diritto Giustiniano afferma: «Imperatoriam maiestatem non solum armis
decoratam, sed etiam legibus oportet esse armatam» ed aggiunge che il princeps Romanus … «fiat tam iuris religiosissimus quam victis hostibus triumphator» (Imperatoriam pr.).
La Nov. 78, del 539, si inserisce in questo
programma. Giustiniano sente il dovere di estendere la libertà: «nobis autem omne extat studium subsistere
libertates atque valere et in nostra florere et augeri republica» (cap.
IV), e conseguentemente prende delle misure: «quoniam autem semper aliquid melius de nostris subiectis tractamus, et
ipsum quod perfectius datum est [a] maioribus aestimavimus oportere
adiectionibus ampliare ...». Qualche riga dopo egli sostiene che non fa
nulla di nuovo, ma segue quanto già fatto da altri Imperatori (facimus autem novum nihil, sed egregios ante
nos imperatores sequimur, cap. V).
Su questa linea di continuità sono
considerati punti salienti Antonino Pio, Costantino, Teodosio, rispettivamente
per il conferimento della cittadinanza, per la fondazione di Costantinopoli,
per la riforma dello ius liberorum: «Sicut enim Antoninus Pius cognominatus, ex
quo etiam ad nos appellatio haec pervenit, ius Romanae civitatis prius ab
unoquoque subiectorum petitus et taliter ex eis qui vocantur peregrini ad
Romanam ingenuitatem deducens ille hoc omnibus in commune subiectis donavit, et
Theodosius iunior post Constantinum maximum sacratissimae huius civitatis
conditorem filiorum prius ius petitum in commune dedit subiectis ...». Gli
studiosi ritengono comunemente, a proposito del nome Antoninus Pius, che Giustiniano – o comunque la cancelleria che
“citava a memoria” – indicasse qui Antonino Pio “confondendo gli Imperatori
omonimi” e cioè scambiandolo con Antonino Caracalla[90]. Ma, a ben vedere, il nome ufficiale
dell’Imperatore soprannominato Caracalla è, notoriamente, dopo la sua morte: divus Magnus Antoninus ovvero divus Magnus Antoninus Pius[91]. Il titolo di Pius è attestato fin dal 198 [92]. Dobbiamo quindi ritenere che Giustiniano
si sia voluto ricollegare ad Antonino Caracalla, chiamandolo correttamente Pius[93]. A proposito del titolo di Pius non si deve dimenticare lo scopo
religioso della constitutio Antoniniana
enunciato dallo stesso Imperatore[94]. Giustiniano chiama Caesar maximus e Augustus
pius proprio nella Novella con la
quale stabilisce le modalità di confezione dei documenti e più precisamente i
criteri da seguire riguardo al nome dell'Imperatore: Nov. 47 praef.
Nello stesso anno (539)
un'altra Novella, la 89, riguardante
i naturales liberi, si inserisce in
questo programma di apertura. In essa Giustiniano, richiamando anche numerose
leggi succedutesi a partire da Costantino, ed anche innovando, ribadisce di
voler dare la libertà dalla schiavitù a molti uomini: «nos enim duplex habuimus studium, plurimos in libertatem perducere
homines ex priore servitute et ex naturalibus ad legitimos elevare» (praef.). Nella Nov. 74.1, del 538,
Giustiniano aveva sottolineato che per natura tutti gli uomini sono liberi e
ingenui: «neque enim a principio, quando
sola natura sanciebat hominibus, antequam scriptae provenirent leges, fuit
quaedam differentia naturalis atque legitimi, sed antiquis parentibus antiqui
filii mox procedebant fiebant legitimi, et sicut in liberis natura quidem
liberos fecit omnes, bella vero servitutem adinvenerunt».
Impero e Chiesa due realtà che si incontrano ciascuna con compiti
specifici. Entrambe riguardano l’uomo; entrambe rispondono ai bisogni
dell’uomo; entrambe devono provvedere alle utilitates
(e questo è termine ciceroniano e ulpianeo[95])
del populus l’una e l’altra
strettamente connesse. Vi è o, perlomeno, vi dovrebbe essere “sinfonia”,
“armonia”[96],
collaborazione (consonantia), anche
per consentire il libero sviluppo dell’uomo (e dei popoli) ed evitare nello
stesso (e negli stessi) contraddizioni, fratture laceranti e schizofrenie[97],
purtroppo sempre più presenti anche negli Stati e nelle Monarchie della vecchia
Europa.
Nel corso dei secoli si è parlato di
cesaropapismo o di papocesarismo[98],
di Chiesa di stato, di “religione di stato” per indicare le relazioni tra impero
e Chiesa nel sistema giuridico romano. Si è parlato anche di intolleranza ma si
tratta a ben vedere di una terminologia impropria, poiché sono concetti che non
hanno riscontro nelle fonti. Si tratta di termini inesistenti nell’esperienza
giuridica romana. Non si può ricostruire la storia alla stregua di idee moderne
(laicità, intolleranza, religione di stato, Stato laico, Stato etico).
Il Biondi, già mezzo secolo fa,
rimproverava gli storici moderni di aver trascurato le fonti e ricostruito la
storia alla stregua delle idee moderne. Chiesa e Impero, o meglio sacerdotium e imperium sono realtà istituzionali (universali) ben distinte ed
entrambe non possono venir compresse (e non possono essere comprese) dall’uso
anacronistico del concetto di “Stato”[99].
All’uso del concetto di Stato corrisponde nella dottrina una svalutazione del
concetto e della realtà del populus[100].
Altrettanto centrale, in
questo contesto è l’approfondimento del concetto di “religione del popolo”: è
il popolo che – nei millenni – ha professato e professa la religione[101].
L’idea della sinfonia, tra imperium e sacerdotium (in verità al plurale imperia, sacerdotia e iura) strettamente connessa alla
crescita dell’urbs e all’idea dell’aeternitas è tratteggiata da Livio, a
proposito della splendida rogatio del
tribuno Canuleio: “Quis dubitat quin in
aeternum urbe condita, in immensum crescente, nova imperia, sacerdotia, iura
gentium hominumque instituantur?” (Livio 4.4.4). La crescita della res Romana è dovuta soprattutto alla
politica della cittadinanza nei confronti dei popoli vinti: “vultis exemplo maiorum augere rem Romanam,
victos in civitate accipiendo” (Livio 8.13.16)[102].
In questa prospettiva,
può ben comprendersi come l’esistenza di uno stretto rapporto tra poteri
religiosi e istituzioni (politiche e giuridiche) continuasse ad essere
considerata peculiarità dello ius del
popolo romano (ius publicum) ed elemento basilare dell’imperium populi Romani, anche nel corso
dei secoli successivi[103].
Attraverso una ricerca terminologica
e concettuale vengono analizzati gli antecedenti di quella che con Giustiniano
diventerà la “teoria della sinfonia” di imperium
e sacerdotium (magistratus e sacerdotes).
Per comprendere meglio l’idea della sinfonia (consonantia) viene prestata attenzione ad alcuni concetti del
diritto pubblico: quali ad esempio populus;
civis Romanus; religio; populus religiosus, plebs devota, populus Dei, avendo ben presente che l’interpretazione statalista (moderna e
contemporanea che tutto fagocita) impedisce di cogliere unità ed esclusioni che
riguardano l’universalità degli uomini, insite nei concetti di sacerdotium e imperium, di religio (religiosus) e ius Romanum, di communio
e politeia.
In questa prospettiva, può ben comprendersi
come l’esistenza di uno stretto rapporto tra poteri religiosi e istituzioni
(politiche e giuridiche) continuasse ad essere considerata peculiarità dello ius del popolo romano (ius publicum)
ed elemento basilare dell’imperium populi
Romani, anche nel corso dei secoli successivi: da Augusto a Giustiniano
(vedi anche Diocleziano; Galerio; Costantino; Graziano; Teodosio).
Punto focale per cogliere pienamente la
teoria della “sinfonia” è la Novella VI dell’Imperatore Giustiniano, nella
quale appaiono i due termini imperium
e sacerdotium e il termine sinfonia (consonantia).
L’idea della ‘sinfonia’ richiama la
necessità di una collaborazione tra e imperium
e sacerdotium: Impero e Chiesa due
realtà che si incontrano ciascuna con compiti specifici. Entrambe riguardano l’uomo;
entrambe rispondono ai bisogni dell’uomo; entrambe devono provvedere alle utilitates del populus l’una e l’altra strettamente connesse, anche per consentire
il libero sviluppo dell’uomo (e dei popoli) ed evitare nello stesso (e negli
stessi) contraddizioni, fratture laceranti. L’idea della sinfonia, tra imperium e sacerdotium (in verità al plurale imperia, sacerdotia e iura) strettamente connessa alla
crescita dell’urbs e all’idea dell’aeternitas è tratteggiata da Livio, a
proposito della splendida rogatio del
tribuno Canuleio.
Altrettanto centrale, in questo contesto è
l’approfondimento del concetto di “religione del popolo”: è il popolo che – nei
millenni – ha professato e professa la religione.
All’inizio del III secolo Tertulliano,
nell’Ad Scapulam (cap. 2), aveva
affermato che per ciascuno è di diritto umano e di potestà naturale (humani iuris et naturalis potestatis)
praticare il culto secondo quanto crede, né ad alcuno è di ostacolo o di
beneficio la religione di un altro (cfr. libertà religiosa). E neppure compete
alla religione di obbligare ad abbracciare una fede, che deve essere fatta
propria spontaneamente. Con queste espressioni, in maniera definitiva, si
precisa che la libertà religiosa è un “diritto umano” e una “potestà naturale”,
che appartiene ad ogni uomo in quanto tale.
[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di
valutazione da parte dei promotori e del Comitato scientifico del Colloquio
internazionale, d’intesa con la direzione di Diritto @ Storia].
[Colloquio internazionale La
laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità
religiosa, svoltosi in Bari il 4-5 novembre 2010 per iniziativa della
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari “Aldo Moro”, del Centre
d’études internationales sur la romanité Université de La Rochelle e dell’Unità
di ricerca “Giorgio La Pira” CNR – Università di Roma “La Sapienza”]
[1] Mi piace qui ricordare che la riflessione
su queste tematiche, incentrate dapprima su Costantino e sul Codex Thedosianus, iniziò sotto la guida di Riccardo Orestano e poi
continuò, su Giustiniano e quindi sul Codex
Iustinianus e sulle Novellae, con Pierangelo Catalano. Sul
concetto di sinfonia (consonantia) tra imperium e sacerdotium
vedi, più ampiamente, M.P. Baccari,
“Imperium e sacerdotium: a proposito di universalismo e diritto romano”, in Le sfide del diritto. Scritti in onore del
Cardinale Agostino Vallini, Soveria Mannelli 2009, 255 ss. e il volume in corso di stampa su Religione del popolo.
[2] Non si può qui non richiamare la
“confidenza” fatta dal Mommsen a Luigi Cantarelli, e ricordata da Gabrio
Lombardi: «così nella trattazione della ‘storia romana’, come nella trattazione
del ‘diritto pubblico romano’, si era arrestato alle soglie dell'impero, perché
le vicende dell'impero erano così strettamente legate alle vicende della
Chiesa, che non potevano affrontarsi seriamente senza conoscere a fondo la
storia della Chiesa: ed egli – Mommsen – non la conosceva abbastanza»: così
Gabrio Lombardi, “L’emergere
dell’ordinamento giuridico della Chiesa nel contesto sociale del mondo romano”,
in Atti del Colloquio
romanistico-canonistico, febbraio 1978, (Utrumque ius, 4) Roma 1979, 25. Tutto questo, credo, deve essere
motivo di prudenza scientifica, ma non di scoraggiamento e di rinuncia. Sulla
malinconia e umiltà del Mommsen vedi G. Pasquali,
“Il testamento di Teodoro Mommsen”, in Rivista
storica italiana, LXI, 1949, 337 ss. [ora in Id., Pagine stravaganti
di un filologo, II, Firenze 1994, (a cura di C.F. Russo) 383 ss.].
[3] Ho avviato la pratica per un PRIN 2008 il
cui titolo è “Imperium e sacerdotium: a proposito della cd.
laicità a Roma”, con la speranza di ricevere il finanziamento che qualche anno
fa (bando PRIN 2006) non è stato concesso perché la ricerca interdisciplinare
dal titolo “Famiglia, convivenze more
uxorio e altre forme di convivenza tra storia e attualità: prospettive
critiche in tema di diritti civili e sociali” è stata, da una Commissione
composta da anonimi revisori, bollata dal seguente giudizio: “Tematica abusata
e impostazione ideologica accentuata”. A titolo informativo aggiungo che la
domanda del PRIN 2008 non è stata accolta; nella motivazione si legge tra
l’altro che imperium e sacerdotium sono considerati una endiadi
(sic!).
[4] Vedi più ampiamente, M.P. Baccari, “Imperium e sacerdotium: a
proposito di universalismo e diritto romano” cit., 255 ss.
[5] Si veda P.
Catalano, “Religione, morale,
diritto nella prospettiva dello ius
Romanum”, in Roma e America, 1,
1996, 3; Id., voce “Ius/iustitia/Iustitia”, in Enciclopedia Virgiliana, vol. 3, Roma 1987, 66.
[6] f. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934, cit. la trad. it. I principii
del diritto romano, (a cura di V.
Arangio-Ruiz), Firenze 1946, 16
ss.; vedi, in generale, P. Catalano,
Linee del sistema soprannazionale romano,
Torino 1965, 30 s.; Id., Diritto e persone, I, Torino 1990; Id., “La religione romana
‘internamente’: il punto di vista giuridico”, in Studi e materiali di Storia delle Religioni, 62, 1996, 143 ss., su
diversi punti specifici.
[7] Mi sia consentito richiamare, per
ulteriori approfondimenti, l’Audizione al Parlamento italiano, I Commissione
Affari costituzionali dell’11 gennaio 2007, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XV legislatura, 24 ss.; 41
[ora pubblicata in Chi difende i principi
non negoziabili? La voce dei giuristi, I
quaderni dell’Archivio, 3, a cura di M.P. Baccari, Modena 2011, pp. 185
ss.] riguardante i disegni di legge “Norme sulla libertà religiosa e
abrogazione della legislazione sui culti ammessi” (d’iniziativa del deputato
Boato n. 36 del 28 aprile 2006 nonché Spini ed altri n. 134 del 28 aprile del
2006; che provengono da altri testi variamente accorpati. Vedi anche il
Progetto di legge “Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della
legislazione sui culti ammessi” (C. 36 Boato e C. 134 Spini) - Testo base,
adottato dalla Commissione nella seduta del 4 luglio 2007, ove appare il
tentativo di modificare, mediante una legge, principi costituzionali
consolidati e di imporre attraverso una legge la “libertà religiosa”; all’art.
1 (Principi generali) recita: «1. La Repubblica garantisce a tutti la
libertà di religione quale diritto fondamentale della persona in conformità
alla Costituzione e nel rispetto delle disposizioni dell'Unione europea e delle
convenzioni internazionali sui diritti inviolabili dell’uomo nonché delle norme
del diritto internazionale generalmente riconosciute in materia. 2. La presente
legge si fonda sul principio della laicità dello Stato al quale è data
attuazione nelle leggi della Repubblica».
[8] Vedi M.P. Baccari, Cittadini
popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996, (II.
ed. Torino 2011) 15 ss.
[9] Vedi P. Catalano,
“Ius Romanum. Note sulla formazione
del concetto”, in La nozione di ‘Romano’
tra cittadinanza ed universalità («Da Roma alla Terza Roma», Studi II),
Napoli 1984, 531 ss. (ora in Id.,
Diritto e persone, Torino 1990, 53 ss.)
il quale afferma: «Sia consentita un’osservazione sorprendente. Il concetto di
“diritto romano” è tra quelli meno studiati dai romanisti».
[10] Vedi M.P. Baccari, Cittadini
popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI cit., 15 ss.; vedi
anche la Prefazione alla seconda edizione
Torino 2011, XI ss. e, per alcuni aspetti, le risposte alle domande poste nella
recensione di J. Gaudemet, in Revue historique de droit français et
étranger, 76, 1998, 98 s.; cfr. la recensione di K.H. Ziegler, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte - Romanistiche Abteilung, 117,
2000, 603 e ss. e di M. Luciani,
in Rivista di diritto costituzionale,
2, 1997, 227 e ss.; Replica dell’A.
(si possono leggere ora in Appendice
al volume citato sopra, 348-354; 356 s.; 358-366 ss.).
[11] Ha affermato P. Catalano che «sarebbe errato distinguere sacerdotia e magistratus,
sacerdotium e imperium usando la contrapposizione odierna tra “religione” e
“politica”».
[12] Mi sia consentito per approfondimenti
rinviare a M.P. Baccari, “Ius naturale e praecepta iuris nella giurisprudenza: Ulpiano precursore dei
diritti umani?”, in La legge morale
naturale. Problemi e prospettive, Roma 2007, 207 ss. In questa ottica è da
analizzare anche la nozione di ius naturale (e/o il concetto di disciplina)
che si badi è dentro lo ius privatum
e quindi lo ius naturale è qualcosa
non di avulso dalla realtà “concreta” o facente parte del mondo della
religione, dell’etica, della filosofia o della “metafisica” etc., ma esistente
specificamente per l’utilitas singulorum.
Quanto
allo ius gentium è da evidenziare che
è principio di diritto delle genti, cioè comune a tutti gli uomini e quindi
parte dello ius Romanum, quello della
religio verso Dio. L’imperatore
cristiano Giustiniano I lo trae dal pensiero di un giurista del II secolo:
«....Veluti erga deum religio»
(Pomponio D. 1.1.2).
[13] É corrente poi nella dottrina romanistica
l’uso del termine “laico” per indicare i giuristi non sacerdoti: si parla di
“laicizzazione della giurisprudenza”. Per qualche approfondimento mi sia
consentito richiamare “Ius naturale e
praecepta iuris nella giurisprudenza:
Ulpiano precursore dei diritti umani?” cit., 207 ss.; “Diritti umani”, voce in Enciclopedia
di Bioetica e Scienza Giuridica (a cura di E. Sgreccia e A. Tarantino),
Napoli 2011, 349 ss.
[14] La parola ‘laicità’ (che, come è noto,
appare in epoca moderna) non si trova né ha un corrispettivo diretto nelle
fonti giuridiche romane né, più in generale, nel lessico latino e/o greco,
anche se, sovente, nelle opere romanistiche si affrontano le tematiche della
«laicizzazione della giurisprudenza» con la connessa nota nozione di
“Isolierung” del Diritto romano rispetto alla religione: vedi Fritz Schulz Prinzipien cit.; trad. it. I principi del diritto romano cit. L’aggettivo odierno ‘laico’
viene (attraverso l’aggettivo del latino ecclesiastico ‘laicus’) dall’aggettivo del greco antico ‘laïkós’, il quale si forma dal sostantivo ‘laós’ cioè ‘popolo’ e vi è, oggi, la tendenza a ricercare il nesso concettuale
sotteso al nesso linguistico tra ‘laicità’ e laós/popolo: vedi, in generale, P. Catalano - P. Siniscalco,
“Laicità tra diritto e religione. Documento introduttivo del XIV Seminario «Da Roma alla Terza Roma»”, pubblicato in
Index 23 (1995) 461 ss.; P. Siniscalco, “Intervento introduttivo.
Sui termini imperium e sacerdotium” in Diritto
e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca (“Da Roma alla Terza Roma”, XI Seminario,
Campidoglio-Roma, 21-23 aprile 1991), a cura di M. P. Baccari, Roma 1994; vedi,
da ultimo, il volume Laicità tra diritto
e religione
da Roma a Costantinopoli a Mosca (“Da Roma alla Terza Roma“, XVI Seminario, Campidoglio-Roma, 21-23
aprile 1994), a cura di P. Catalano - P. Siniscalco, Roma 2009; G. Dalla
Torre, Europa. Quale laicità ?,
Cinisello Balsamo, 2003; Id., “Le
laicità e la laicità nella prospettiva europea”, La costituzione repubblicana. Fondamenti, principi e valori, tra
attualità e prospettive (Convegno 13-15 novembre 2008); V. Mathieu, Il fondamento romano e cristiano della laicità, in L’identità in conflitto dell’Europa.
Cristianesimo, laicità, laicismo, Bologna 2005; A.a.V.v., Lessico della laicità, a cura di G. Dalla Torre, Roma 2007; da ultimo, G. Dalla Torre, “Laicità: i confini della tolleranza e
l’esercizio della libertà”, in Emergenze
umanistiche e fondamentalismi religiosi. Con quale dialogo? (cur. I. Sanna), Roma 2008.
[15] Si pensi, al riguardo, alla giurisprudenza
della Corte costituzionale degli anni ’90 e, in particolare, alla sentenza n.
203 del 1989, relatore Casavola; vedi, in generale, F.P. Casavola, “Laicità tra religione e
diritto nell’esperienza del mondo antico”, in Laicità tra diritto e religione
da Roma a Costantinopoli a Mosca, cit., (Roma 2009); J.-L.
Halperin, “Un regarde historique et français sur la décision
constitutionnelle qui a reconnu «La laïcité de l’État comme un principe suprême
de l’ordre juridique italien»”, in Aa.Vv.,
Tradizione romanistica e Costituzione,
diretto da L. Labruna, a cura di M.P. Baccari - C. Cascione, I, Napoli, 2006,
59 ss. La giurisprudenza della Corte si è avviata su una strada volta, come ha
rilevato parte della dottrina, a espungere il fattore religioso «dalla vita
pubblica, riaffermando così una concezione illuminista della libertà religiosa,
in cui questa viene intesa in modo strettamente privatistico»: così, a
proposito della sentenza n. 149 del 1995, con la quale è stata dichiarata
l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedevano il giuramento del
testimone nel processo civile, S. Mangiameli,
“La «laicità» dello Stato tra neutralizzazione del fattore religioso e
«pluralismo confessionale e culturale» (a proposito della sentenza che segna la
fine del giuramento del teste nel processo civile)”, in Diritto e Società, 1997, 14. Va, inoltre, sottolineato che la Corte
costituzionale – in contrasto con quanto detto circa il riconoscimento operato
dalla Costituente in ordine alla posizione delle diverse confessioni religiose
nella realtà concreta – ha inteso equiparare il trattamento della religione
cattolica a quello delle altre religioni. In proposito vedi la giurisprudenza
ricordata da P. Caretti, I diritti fondamentali. Libertà e diritti
sociali, II ed.,Torino 2005, 181 s.; per una ricostruzione storica, da
ultimo, A. Barbera, “Il cammino
della laicità”, in Laicità e diritto,
Bologna 2007, 33 ss.; la letteratura su questi temi, visti da diverse
angolature è assai vasta, mi limito a ricordare A.a. V.v, Libertà e
laicità, (a cura di M. Pera), 2006; M. Bertolissi-U.
Vincenti, “Laicità e diritto”, in
Laicità. Una geografia delle nostre radici, (a cura di G. Boniolo),
Torino 2006; A.a.V.v, Alla ricerca di una sana laicità. Libertà e centralità dell’uomo, (a cura
di G. Quagliariello), 2007.
[16]
Sulla base di un’arbitraria ricostruzione del principio di laicità, hanno
considerato abrogate le norme che prevedono l’esposizione obbligatoria del
Crocifisso in alcuni locali pubblici, come le scuole o gli stessi tribunali:
Corte di cassazione sent. 1 marzo 2000, n. 439. Al riguardo v. R. Iannotta, “Alcune notazioni sulla sentenza del Tar Veneto sulla
controversia relativa al Crocifisso”, in Iustitia,
2005, 331 ss.; V. Tondi della Mura,
Note a margine del dibattito
sull’obbligatorietà del crocefisso
nelle scuole, sul sito
Internet della Rivista Quaderni
costituzionali (www.forumcostituzionale.it). Sullo stesso sito vedi anche gli
interventi di R. Baccari, R. Coppola e M. Olivetti. Sulle decisioni del Bundesverfassungsgericht e del Tribunale federale elvetico sulla
esposizione del Crocifisso nelle aule giudiziarie e in quelle scolastiche v. le
considerazioni di P.F. Grossi, Considerazioni introduttive per uno studio
sulle fonti, VII ed., Roma 2004, 112 s.; vedi, su “laicità
positiva” laicismo nonché sulle conseguenze del laicismo F. Vari,
“Appunti sul rapporto tra religione e poteri pubblici nella
Costituzione italiana”, in Religione e spazio pubblico, (a cura di
G. Quagliariello), 2007, 206 ss., ivi bibliografia; P. Cavana, “Modelli di laicità nelle
società pluraliste. La questione dei simboli religiosi nello spazio pubblico”,
in Archivio giuridico “Filippo Serafini”, CCXXVI, 2006, 518; da ultimo,
C. Cardia, Identità religiosa
e culturale europea. La questione del crocifisso, Torino-Londra-Venezia-New
York 2010.
[17] Decisione della seconda sezione della
Corte europea nel caso Lautsi v. Italia:
vedi sent. 3 novembre 2009 (requête n.
30814/06): vedi M. Lugato,
“Simboli religiosi e Corte europea dei diritti dell’uomo: il caso del
Crocifisso”, in Rivista di diritto
internazionale, 2010, 451 ss. È stata, poi, depositata la decisione della Grande Chambre della Corte europea dei diritti
dell’uomo (sent. 18 marzo 2011 - application
n. 30814/06). La sentenza d’appello, cancellando quella della seconda
sezione, ha riconosciuto che la decisione di esporre il Crocifisso nelle aule
scolastiche rientra nell’ambito del margine di apprezzamento di ciascuno Stato
e che tale esposizione non lede la libertà di educazione dei genitori nei
confronti dei figli. Al tempo stesso non vale nemmeno a dar vita ad alcuna
forma di discriminazione nei confronti dei non credenti o dei fedeli di
religioni diverse da quella cristiana. Nella giurisprudenza della Corte
europea, dunque, per la prima volta una decisione presa all’unanimità da una
sezione viene ribaltata dalla Grande
Chambre, che ha deciso con una maggioranza schiacciante di ben quindici
voti contro due e con una concurring
opinion di rara durezza del giudice maltese. La decisione della Corte
europea dei diritti dell’uomo nel caso Lautsi
ha una portata tale da trascendere la questione, pur importante,
dell’esposizione obbligatoria del Crocifisso nelle aule scolastiche: vedi, da
ultimo, anche per la bibliografia F. Vari,
“Note su religione e sfera pubblica tra Costituzione italiana e Convenzione
europea «dei diritti dell’uomo», Stato, Chiese e pluralismo confessionale”,
in Rivista telematica www.statoechiese.it. 2012; G. Puppinck, “Il caso Lautsi contro Italia”, ibid.
[18] L’11 gennaio 2007 ho iniziato il mio
intervento all’Audizione al Parlamento italiano, I Commissione Affari
costituzionali, citando questo passo di G. La Pira (ed anche uno di De
Martino), a conforto di quanto sono andata sostenendo circa la pericolosità di
adoperare astrazioni e di imbrigliare in una legge la “libertà religiosa” cit.,
24 ss.: si tratta di una precisazione fondamentale fatta da G. La Pira dopo
avere utilizzato ampiamente il diritto romano con preziosi riferimenti anche
alla tradizione (ad esempio a Francisco De Victoria, fondatore del diritto
internazionale). Mi permetto di riportare quanto ho scritto nel testo
dell’Audizione: «è sintomatico
che nella Relazione del Progetto (Spini, Chiti, Grillini etc.) si affermi che:
“La libertà di religione assume una valore particolare, perché attiene alla
sfera più personale e intima, riguardante il proprio rapporto con il
trascendente o comunque la convinzione personale sul senso della vita”. E si
legge ancora: “Non a caso Franklin Delano Roosevelt nel 1941 le mise in
evidenza tra le sue quattro libertà: libertà di espressione, di religione, dal
bisogno e dalla paura. Un programma tuttora valido e attuale”. Eppure anche
cantautori contestatori negli anni ’70 celebravano la libertà cantando: “la
libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”». Vedi l’Audizione I Commissione Affari
costituzionali. Indagine conoscitiva in tema di “Libertà religiosa” ora
pubblicata in Chi difende i principi non
negoziabili? La voce dei giuristi, I
quaderni dell’Archivio cit., 185 ss.
[19] G. La Pira, inoltre, scriveva a Nikita Kruscev,
presidente del Consiglio dell’URSS nella lettera del 26-29 luglio 1959: «E del
resto voglio proprio dirvi una cosa che forse vi riuscirà nuova: questa:
l’ateismo, l’anticristianesimo, è un fatto tipicamente ‘borghese’,
‘capitalista’: non è un fatto popolare: è, invece, il ‘fatto mistico’ un fatto
essenzialmente popolare, comunitario, ecclesiale, unitivo …»; G. La Pira, “Abbattere i muri e costruire
i ponti. Il primo viaggio di Giorgio La Pira in Russia (15 agosto 1959)”, in La
Badia. Quaderni della Fondazione Giorgio La Pira, 8, Firenze 1985, 70.
[20] A proposito della locuzione ‘Stato laico’
vedi G. La Pira, Scritti editi, vol. VI, 46 s. (citato da
P. Catalano, “Alcuni principi
costituzionali alla luce della dottrina di Giorgio La Pira”, in Aa.Vv., Tradizione romanistica e Costituzione cit., 111 s.) per il quale la
nozione di ‘Stato laico’ è contraddittoria, poiché «la libertà delle coscienze
non significa che la società statale – che ha per fine essenziale la
organizzazione giuridica di tutto il corpo sociale – si edifichi senza fare un
fondamentale giudizio di valore: senza, cioè, riconoscere che l’orientazione
religiosa è essenziale all’uomo». Sul punto vedi U. De Siervo, “Giorgio La Pira e l’elaborazione della
Costituzione italiana”, in Aa.Vv.,
Tradizione romanistica e Costituzione
cit., 99 s. Vedi, in generale: W. Boeckenfoerde,
Recht, Staat, Freiheit, Frankfurt
1991, 92-114.
[21] In generale, sul concetto di laicità, vedi
Gabrio Lombardi, Persecuzioni laicità libertà religiosa.
Dall’Editto di Milano alla ‘Dignitatis humanae’, Roma 1991, anche per
individuare da cosa derivi il termine ‘laicità’ e per approfondire e
distinguere nel sistema giuridico religioso romano il ‘potere di governo’
rispetto al ‘potere religioso’ e conseguentemente analizzare l’affermazione
della sua autonomia; cfr. anche per il rapporto tra istituzioni politiche e
cristianesimo.
[22] B.
Biondi, . Biondi, “La terminologia romana come prima dommatica
giuridica”, in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz, II, Napoli 1953, 73
ss.
[23] P. Catalano,
Laicità tra diritto e religione cit.;
F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica, Sassari 1983, 213 s.; Id.,
“Dai documenti dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella
religione e nel diritto pubblico di Roma antica”, in Diritto @ Storia, 2,
2003 < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Dai-Documenti.htm
>; cfr. G. Aricò Anselmo, “Ius publicum - ius privatum in
Ulpiano, Gaio e Cicerone”, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università
di Palermo 37, 1983, 447 ss., in part. 461 ss.
[24] Non sarà oggetto di analisi in questa sede
il pensiero di Polibio VI.11-13, riguardo alla costituzione romana (politeia), mi limito a richiamare P. Catalano, “La
divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone)”, in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino
1974, pp. 676 s., il quale «ha avanzato una rilevante ed organica
serie di testimonianze, desunte soprattutto (ma non solo) dalle antiche formule
del diritto pubblico, che provano come lo schema tripartito della costituzione
romana non fosse affatto radicato nella concezione che i Romani stessi avevano
della loro costituzione. Innanzi tutto, il Catalano ha notato l’assenza, tra i
poteri nella repubblica romana menzionati da Polibio, dei sacerdozi e del
tribunato, ai quali Cicerone assegna l’importanza loro dovuta»: così A. Mastrocinque,
“Omnes civitates divisae sunt in duas partes. Una Testimonianza di
Cesare sulla funzione tribunizia”, in Diritto
@ Storia, 7, 2008 < http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Mastrocinque-Civitates-Cesare-funzione-tribunizia.htm >. Vedi, per un’ampia prospettiva G. Silvestri, La separazione dei poteri, I, Milano 1984.
[25] Cic. de
leg. 1.23: «Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque est et in
homine et in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem
ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege
quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio
legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia,
ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et
potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni
mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una
civitas communis deorum atque hominum existimanda»; Cicerone aveva ben presente tale
concezione della religio quando nel de legibus affermava che gli Dei e gli
uomini appartengono alla medesima societas,
alla medesima civitas e che la loro
associazione è fondata nella comunanza della legge (lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus): vedi P. Catalano, “Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni”,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris,
61, 1995, Studi in memoria di Gabrio
Lombardi II, Roma 1996, 723 ss.; Id.,
“La religione romana “internamente”: il punto di vista giuridico” cit., 143
ss.; 152 s.; da ultimo, F. Fontanella,
“Ius pontificium, ius civile e ius naturae in de legibus II,45-53”, in Athenaeum – Studi di Letteratura e Storia
dell’Antichità, 84, 1996, 254 ss.; F. Sini,
“Religione e poteri del popolo in Roma repubblicana”, in Diritto @ Storia, 6, 2007
< http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Sini-Religione-poteri-Popolo-Roma-repubblicana.htm >, 6 ss. [dell’estratto a stampa]. Sui
rapporti fra religio e superstitio vedi F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto
pubblico in Roma antica, Torino 2001, 60-73.
[27] «Fu un secolo di sviluppo della giurisprudenza
romana interamente caratterizzato dall’azione di pontefici-giuristi, i quali
mostrarono di possedere una molteplicità di interessi che investiva i diversi
(ma non separati) campi dello ius: sacrum, publicum, privatum.
Si tratta di giuristi quali P. Sempronio Sofo, Tiberio Coruncanio, L. Cornelio
Lentulo, P. Licinio Crasso: sacerdoti, ma soprattutto cultori di ius sacrum e
di ius publicum. La dottrina moderna, con alcune eccezioni, ha
sottovalutato il contributo alla iuris scientia di questi giuristi»:
così F. Sini, “Religione e poteri
del popolo in Roma repubblicana” cit., 12 ss.; vedi, in generale, Gabrio Lombardi, “Il concetto
di ius publicum negli scritti di Cicerone”, in Reale Istituto Lombardo, 72, 2 (1938-1939) 465 ss.
[28] F. Sini,
“Religione e poteri del popolo in Roma repubblicana” cit., 12 ss.; Id., “Dai documenti dei sacerdoti
romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e nel diritto pubblico di
Roma antica” cit.; Id., “Initia Urbis. La fondazione di Roma tra teologia e diritto nei poeti
dell'epoca di Augusto
(Virgilio e Ovidio)”, in Diritto @ Storia, 1, 2002 < http://www.dirittoestoria.it/lavori/Contributi/Sini%20Initia%20Urbis.htm >; Id.,
“Diritto e Pax Deorum in Roma
antica”, in Diritto @ Storia 5, 2006
< http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm >; in generale, vedi A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions
religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], 24 ss.; sia il
manuale di J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III. Das
Sacralwesen, 2a ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an. New York 1975], 7 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, Paris 1889, 10 ss.]; da ultimo, R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992, 78 ss.
[29] Sulla necessità di compiere l’inauguratio dei sacerdoti creati vedi P. Catalano, Contributi
allo studio del diritto augurale, Torino 1960, 238 s.; vedi P. Catalano, “Elementi romani della
cosiddetta laicità”, in Laicità tra
diritto e religione. Documento introduttivo del XIV Seminario internazionale di
studi storici «Da Roma alla terza Roma», in Index, 23, 1995, 461 ss., il quale afferma: «La religio non consentiva un vero suffragio
popolare per la scelta dei sacerdoti, come chiarisce ancora Cicerone
nell’orazione De lege agraria, né era concepibile una inauguratio dei magistrati». Vedi, in
generale, F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica cit., 212 s.; da ultimo, per le diverse implicazioni ed anche per
la bibliografia F. Sini, “Religione
e poteri del popolo in Roma repubblicana” cit., 12 ss.; L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano. L'età di
Publio Licinio Crasso (212-183 a. C.), Napoli 2008, 283 ss.; F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica
romana, Torino 2008, 11 ss.
[30] Cic. de
lege agraria, 2.7-18 chiarisce: «Item,
inquit, eodemque modo, capite altero,'ut comitiis pontificis maximi. Ne hoc
quidem vidit, maiores nostros tam fuisse popularis ut, quem per populum creari fas
non erat propter religionem sacrorum, in eo tamen propter amplitudinem
sacerdoti voluerint populo supplicari. Atque hoc idem de ceteris sacerdotiis
Cn. Domitius, tribunus plebis, vir clarissimus, tulit, quod populus per
religionem sacerdotia mandare non poterat, ut minor pars populi vocaretur; ab
ea parte qui esset factus, is a conlegio cooptaretur». Vedi A. Corbino, “I sacerdozi”, in A.a.V.v., Ordinamento costituzionale e produzione del diritto in Roma antica,
Napoli 2001, 75 s.
[31] A proposito di Graziano vedi infra. Su tutto quanto sin qui detto si
fa definitivo rinvio a P. Catalano,
Contributi allo studio del diritto
augurale cit., 362 ss.; 538 ; Id.,
“La religione romana “internamente”: il punto di vista giuridico” cit., 153; Id., “Europa e universalismo romano”,
in Nova historica, 14, 2005.
[32] Vedi, in generale, G. Lombardi, “Su alcuni concetti del
diritto pubblico romano: civitas, populus, res publica, status rei
publicae”, in Archivio giuridico,
CXXVI, 1941, 192 ss. Sull’importanza del concetto di multitudo vedi J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche (1971), cito
la tr. it. Popolo e casa di Dio in
Sant’Agostino, Milano 1978, 33 ss., spec. 38: «così il concetto di multitudo si presenta come la faccia esterna
del concetto di popolo di Dio», a tal proposito vedi M.P. Baccari, Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI
cit., 56 ss.; in particolare anche il Capitolo Coetus multitudinis, 195 ss. Cfr. P. Catalano, Diritto e
persone. Studi su origine e attualità
del sistema romano, Torino 1990, 189 ss.; da ultimo, G. Lobrano, “Dottrina della ‘inesistenza’
della costituzione e ‘modello del diritto pubblico romano’”, in Aa.Vv., Tradizione romanistica e Costituzione cit., 321 ss.; Id., “Dalla rete di città dell’Impero
“municipale” romano, la alternativa al pensiero unico statualista anche per la
‘Costituzione’ europea”, in Aa. Vv., Roma, la convenzione e il futuro
dell’Europa, (Atti Convegno Roma 11 febbraio 2003), Roma 2003, 23 ss.
[34] R. Orestano,
Il “problema delle persone giuridiche” in
diritto romano, Torino 1968, 122
ss.; A. Schiavone, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana.
IL secolo della rivoluzione scientifica nel pensiero giuridico antico,
Roma-Bari 1987, 42 ss.; 132 ss.; P. Catalano,
Diritto e persone cit., 185 ss.
[35] Il sintagma civitas augescens è usato da Pomponio nel noto passo del Liber
singulari enchiridii: D. 1.2.2.7. Per precisazioni terminologiche e
concettuali e per un’analisi di altri passi su civitas augescens e civitas
amplianda rinvio ad un mio scritto: “Il concetto giuridico di civitas
augescens: origine e continuità”, in Studi
in memoria di Gabrio Lombardi, in Studia
et documenta historiae et iuris, 61, 1995, 759 ss.; vedi anche Cittadini
popoli e comunione cit., 55 ss.; ivi bibliografia, in particolare per
quanto riguarda l’analisi del pensiero, su queste tematiche, di D. Nörr e P.
Catalano; M. Cacciari, “Il mito della
civitas augescens”, in Il Veltro. Rivista della civiltà italiana, 2 - 4,
41, marzo-agosto 1997, 161 ss. L’aumento della multitudo dei cives è un
principio da salvaguardare.
[36] Per approfondimenti vedi M.P. Baccari, Cittadini popoli e comunione cit., 53 ss.; 116 e passim.
[38] P. Catalano, Laicità tra diritto e religione cit.
[39] Cic. de
nat. deor. 2.8: «C. Flaminium Coelius
religione neglecta cecidisse apud Trasumenum scribit magno cum rei publicae
vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam
amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum
externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione,
id est cultu deorum, multo superiores».
[40] F. Sini,
“Poteri religiosi e istituzioni”, in Diritto
@ Storia 2, 2003 < http://www.dirittoestoria.it/memorie2/Testi%20delle%20Comunicazioni/Sini-Introduzione.htm
>.
[41] Ius
humanum è una locuzione che troviamo in Tertulliano, Padre della Chiesa,
esperto di diritto, ed è utilizzata proprio in riferimento alla religione.
Egli, rifiutando ogni coazione, affermava che è un principio che deriva dal
‘diritto umano’ e dalla libertà naturale (humani
iuris et naturalis potestatis; cfr. il passo di Fiorentino D.1.5.4) che
ciascuno abbia la possibilità di venerare ciò in cui crede: «è di diritto umano
e di libertà naturale, per ciascuno, di praticare il culto secondo quanto egli
crede, né ad alcuno è di impedimento o di giovamento la religione di un altro.
Né compete alla religione di costringere alla religione, che deve essere scelta
spontaneamente» (ad Scapulam 2).
[42] G. Lombardi,
Persecuzioni laicità libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla
‘Dignitatis humanae’ cit., 129; per approfondimenti mi sia consentito
rinviare a Cittadini popoli e comunione, 3 ss.; voce “Diritti umani” cit., 349
ss.; “Ius humanum, ius Romanum”, Comunicazione presentata
al XXXI Seminario internazionale di Studi storici “Da Roma alla Terza Roma” su Libertà religiosa da Roma a Costantinopoli a
Mosca, Campidoglio, 20-21 aprile 2011. Sulla pericolosità di una concezione
statalista P. Catalano, “La
religione romana “internamente”: il punto di vista giuridico” cit., 152 ss.: «è
impossibile appiattire e confondere uomini e Dei in un unico concetto astratto
di “Stato”».
[43] Per un’analisi delle diverse costituzioni imperiali
mi sia consentito rinviare a Cittadini
popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI cit., 163 ss,
[44] M. P. Baccari,
Cittadini popoli e comunione nella
legislazione dei secoli IV-VI cit., 195 ss.
[45] F. De
Martino, Storia della costituzione
romana, V, Napoli 1975, 206 ss., afferma che «l'antica precisa distinzione
tra populus e plebs, che aveva avuto rilevanza costituzionale nell'età
repubblicana, non ha più alcuna ragione d'essere ... Nelle fonti della chiesa
il termine non ha riferimenti alle antiche differenziazioni ed allude piuttosto
alla massa, alla moltitudine»; qualche riga dopo, tuttavia, precisa: «La plebe
urbana, in ispecie quella delle capitali, aveva una grande importanza nella
vita dell'impero. Verso di essa si dirigevano le preoccupazioni dei governanti,
per evitare malcontento e sommosse». Vedi anche, in vario senso, R. Hosek, “Zur Frage der spätrömischen
Plebs”, in Die Rolle der Plebs im
spätrömischen Reich, Berlin 1969, 19 ss.
[46] Così D. Grodzynski, “Pauvres et indigents, vils
et plébéiens. Une étude
terminologique sur le vocabulaire des petites gens dans le Code Theodosien”, in
Studia et Documenta Historiae et Iuris,
53, 1987, 210, la quale afferma che in molti casi populus, nelle costituzioni imperiali, avrebbe potuto essere
facilmente sostituito da plebs.
[47] In Girolamo, Tract. de Ps. 84.9 plebs
sta ad indicare tutti i cristiani ed è sinonimo di populus. In generale sulla nozione di ‘Popolo di Dio’ e sulle
diverse espressioni: populus Dei, plebs
Dei, populus Christi, plebs Christi, populus credentium, plebs credentium,
vedi V. Loi, “Populus Dei - plebs Dei. Studio storico
linguistico sulle denominazioni del «Popolo di Dio» nel latino paleo-cristiano
”, in Salesianum, a. 27, 1965,
606-628. P. Brown, “Dalla plebs Romana alla plebs Dei. Aspetti della cristianizzazione di Roma” in AA. VV., Governanti e intellettuali. Popolo di Roma e
popolo di Dio, Torino 1982, 123 ss., a proposito dei rifornimenti della
città di Roma e del mercato romano, nel V secolo, afferma che: «in tali
condizioni, la nuova definizione cristiana della plebs Romana come, semplicemente, la parte meno fortunata della plebs Dei, risultava effettivamente più
realistica»; vedi anche la Premessa nella quale vi è un accenno al popolo di
Roma che diventa popolo di Dio.
[48] R. Krautheimer,
Roma. Profilo di una città 312 - 1308,
Roma 1981, 66 s.
[49] L. Pietri
- Y. Duval - Ch. Pietri, “Peuple chrétien ou plebs: le
rôle des laïcs dans les élections ecclésiastiques en Occident”, in Institutions, société et vie politique dans
l'Empire romain au IVe siècle ap. J.-C., Rome 1992, 373 ss. (ivi bibliografia).
[50] Sources
chrétiennes, XI bis, p. 40 e passim;
l’attribuzione a Ippolito è dubbia.
[51] Matteo, 28, 19: «Andate e fate miei
discepoli tutti i popoli (panta ta ethne),
battezzandoli ...». Vedi J. HERVADA, "Elementi per una teoria fondamentale
sulla relazione Chiesa - mondo", in Ius
Ecclesiae 1, 1990, 35 ss.
[52]
Rom. 6.3; I Cor.
12.13. Ambrogio, sacram. I.1: «In Christiano enim viro prima est fides.
Ideo Romae fideles dicuntur qui baptizati sunt». Tutti partecipano allo
stesso pane: I Cor. 10.17; abbiamo visto in molte costituzioni la particolare cura
degli Imperatori per il confezionamento del pane. Non si può qui non
richiamare il panem sanctum vitae
aeternae: vedi C. Mohrmann,
“Quelques observations sur l’évolution stylistique du Canon de la Messe
romaine”, in Etudes sur le latin de
chrétiens, voll. I-IV, Roma 1961-1977, spec. vol. III, 227 ss., la quale
sottolinea che «le Canon dit gélasien nous présente dans sa verbosité
solennelle d'allure parfois juridique un specimen admirable de cette alliance
de Romanitas et de Christianitas qui restera, à travers les
siècles, un des traits caractéristiques de la liturgie de Rome». Rom. 6.3; I
Cor. 12.13. Ambrogio, sacram. I.1: «In Christiano enim viro prima est fides. Ideo Romae fideles dicuntur
qui baptizati sunt». Tutti partecipano allo stesso pane: I Cor.
10.17; abbiamo visto in molte costituzioni la particolare cura degli Imperatori
per il confezionamento del pane. Non si può qui non richiamare il panem sanctum vitae aeternae: vedi C. Mohrmann, “Quelques observations sur
l’évolution stylistique du Canon de la Messe romaine”, in Etudes sur le latin de chrétiens, voll. I-IV, Roma 1961-1977, spec.
vol. III, 227 ss., la quale sottolinea che «le Canon dit gélasien nous présente
dans sa verbosité solennelle d'allure parfois juridique un specimen admirable
de cette alliance de Romanitas et de Christianitas qui restera, à travers les
siècles, un des traits caractéristiques de la liturgie de Rome».
[53] H. Schlier, Der Römerbrief (= Herders theologischer Kommentar zum Neuen
Testament VI), Freiburg im Breisgau, trad. it. La Lettera ai Romani (= Commentario teologico del Nuovo Testamento
VI), Brescia 1982, 72 s. Analiticamente M.P. Baccari,
Cittadini popoli e comunione nella
legislazione dei secoli IV-VI cit., 35 ss. Sez. I, Cap. I, par. 1, a
proposito dell'Epistula ad Romanos e
per il riferimento a quella che La Pira chiama la “strategia romana”.
[54] Vedi infra
a proposito del pensiero di Giorgio La Pira.
[55] La letteratura su Augusto è sterminata, mi
limito a richiamare gli studi di R. Orestano,
Diritto incontri e scontri, Bologna 1986,
565 ss. Vedi, in generale, anche per gli altri Imperatori riguardo ai imperium e sacerdotium, potere civile e potere religioso: R. Orestano, Il “problema delle persone giuridiche” in diritto romano cit., 265
ss.
[56] Pubblicata in Index. Quaderni camerti di studi romanistici 23, 1995, 11: I
Profeti; «la Chiesa a Roma (Pietro e Paolo): il fermento della rivolta di
Isaia! Le tre città: Gerusalemme, Atene, Roma! La “pienezza dei tempi” Anno 1».
[57] “Paolo VI e l’incontro della Chiesa con i
popoli”, in Il Focolare, 28 febbraio
1971 (ora in Il fondamento e il progetto
di ogni speranza, a cura di C. Alpigiano Lamioni e P. Andreoli. Prefazione
di G. Dossetti, Roma 1992, 160 ss.). Nella lettera ad Amintore Fanfani del 1°
luglio 1971, Giorgio La Pira cita il libro del Padre redentorista Benedetto d’Orazio, Il mistero di
Roma, edito nel 1965 («in vendita in Via Merulana 31» nota il La Pira: vedi
A. Fanfani, Giorgio La Pira.
Un profilo e 24 lettere, Milano 1978, 151 ss.): così P. Catalano, “Unità, pace, giustizia, grazia. Roma Costantinopoli Mosca secondo Giorgio La Pira”, Eykosmia,
Studi in onore di Poggi,
2003, 135 ss., al quale si fa rinvio su questi temi ampiamente.
[58] “Nota introduttiva” cit., XI. L’antico
testo della Kalenda che annuncia la “nascita storica” del Salvatore,
secondo il martirologio romano viene cantato nel giorno della vigilia di Natale
alla conclusione delle Lodi o di un’ora minore della Liturgia delle Ore: «Da
lunghi secoli dopo la creazione del mondo / quando Dio all'inizio creò il cielo
e la terra … /1000 anni dopo l’unzione
del re David/ e la promessa del Messia/ 752 anni dopo la fondazione di Roma
… /quando venne la pienezza dei
tempi/essendo Cesare Augusto imperatore a Roma/ Erode re di Giudea/ sotto il
pontificato di Anna/ tutto l’universo essendo in pace/ nei giorni del grande
censimento Gesù Cristo, Dio eterno/e Figlio dell’Eterno Padre volle santificare
il mondo con la sua misericordiosa venuta …».
[59] “Arco di Costantino: riflessione
storico-politica”, in Prospettive n. 33-35
(1974), 134 ss. (=Scritti editi, vol.
XIX, 117 ss.); anche in Chiesa e Stato dal IV al VI secolo (Prospettive, Quaderno 2) Firenze 1974,
134 ss.
[60] Op.
ult. cit., 134 ss. (= Scritti editi
cit., pp. 117 ss.); anche in Chiesa e Stato dal IV al VI secolo cit.,
134 ss. Su questi passi lapiriani vedi P. Catalano,
“Alcuni concetti e principi giuridici romani secondo Giorgio La Pira”, in Il
ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e
contemporanea, in Atti del Convegno internazionale di studi in onore di
Alberto Burdese, Padova-Venezia-Treviso, 14-15-16 giugno 2001, III,
Padova 2003, 126 ss.; Id,, “La
Pira ‘personalità monolitica’: le note nel Digesto”, in Il Veltro, XLI,
1997, 45 ss.; Id., “Da Roma a
Betlemme. A proposito della ‘strategia romana’ di Cristo e degli Apostoli
secondo Giorgio La Pira”, in Studium
2, marzo-aprile 2001, anno 97; Id.,
“Unità, pace, giustizia, grazia. Roma Costantinopoli Mosca secondo
Giorgio La Pira” cit., 135 ss.
[61] C. 5,62,23: «Humanitatis ac religionis ratio non permittit, ut adversus sororem vel
filios sororis actionum necessitates tutelae occasione suscipias […]»;
vedi, più diffusamente, i miei lavori Concetti
ulpianei per il “diritto di famiglia”, Torino 2000, 64 ss., ivi riferimenti
bibliografici; “Il conubium nella legislazione di Costantino”, in Poteri
religiosi e istituzioni politiche: il culto di San Costantino tra Oriente ed Occidente,
Torino 2003, 212 ss.
[62] «Inter
cetera quae pro rei publicae semper commodis atque utilitate disponimus, nos quidem
volueramus antehac iuxta leges veteres et publicam disciplinam Romanorum cuncta
corrigere atque id providere, ut etiam Christiani, qui parentum suorum
reliquerant sectam, ad bonas mentes redirent, siquidem quadam ratione tanta
eosdem Christianos voluntas invasisset et tanta stultitia occupasset, ut non
illa veterum instituta sequerentur, quae forsitan primum parentas eorundem
constituerant, sed pro arbitrio suo atque ut isdem erat libitum, ita sirime
leges facerent quas observarent, et per diversa varios populos congregarent.[…]
Ut denuo sint Christiani et conventicula sua componant, ita ut ne quid contra
disciplinam agant. <Per> aliam autem epistolam iudicibus significaturi
sumus quid debeant observare. Unde iuxta hanc indulgentiam nostram debebunt deum
suum orare pro salute nostra et rei publicae ac sua, ut undique versum res
publica praestetur incolumis et securi vivere in sedibus suis possint».
Sull’importanza di questo editto, tramandatoci, nel testo originario in latino,
da Lattanzio (De mortibus persecutorum,
34) e, in una traduzione greca, da Eusebio, (H. E. 8,17) vedi M. Amelotti, “Da Diocleziano a Costantino.
Note in tema di costituzioni imperiali”, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris, 27, 1961, specialmente pp. 280 ss.; da
ultimo vedi T. Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen
Überlieferung, Stuttgart 1990, 57 ss. Vedi P. Siniscalco, “L’editto di Galerio del 311. Qualche osservazione storica alla luce
della terminologia”, in Atti Accademia Romanistica
Costantiniana, X, Napoli 1995, 41 ss., spec. 47 s.; sulla disciplina Romana e, più in generale,
sull’editto di Tarracius Bassus e su quello di Galerio mi sia consentito
rinviare a Cittadini popoli e comunione,
cit., 32; 147; 193; cfr. su disciplina
Romana anche Religione del popolo
in corso di stampa.
[63] Mazzarino,
in G. Giannelli-S. Mazzarino, Trattato di storia romana, Roma 1962, II, 447; F. Amarelli, Vetustas – innovatio. Un’antitesi
apparente nella legislazione di Costantino, Napoli 1978, 24 s., attribuisce
maggiore rilevanza alla «tendenza conservatrice di Costantino … colta nella
continuità … con taluni elementi ch’erano venuti emergendo nel III secolo» e,
in certo modo critico, parla di «cosiddetta rivoluzione costantiniana»; cfr. G.
Crifò, “Su alcuni abusi del
‘costantinianesimo’”, in Costantino il
Grande. Dall’antichità all’umanesimo (Atti Colloquio Macerata 18-20
dicembre 1990), Macerata 1992, 347 ss. Per altri aspetti ‘rivoluzionari’ della
politica costantiniana vedi R. Soraci,
“Innovazione e tradizione nella politica scolastica di Costantino”, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, V,
Milano 1984, 763 ss.; V.A. Sirago,
“La figura di Costantino nel pensiero storico di S. Mazzarino”, in Quaderni catanesi di studi classici e
medievali, X, n. 19, gennaio-giugno 1988
[Studi in memoria di Santo Mazzarino
I, Catania 1990], 207 ss.; M.P. Baccari,
“Costantino Imperatore rivoluzionario? A proposito di barbaricus e barbarus
nelle costituzioni di Costantino”, in Poteri
religiosi e istituzioni politiche: il culto di San Costantino tra Oriente ed
Occidente cit., 245 ss.; cfr., anche per i riferimenti a Lattanzio, de mort. persec., 48, 193 ss. “Il conubium nella legislazione di
Costantino”. Cfr. supra
sull’Imperatore Galerio.
[64] P. Catalano,
Laicità tra diritto e religione
cit., afferma: «La cristianizzazione comporta una certa “separazione” tra i due
poteri: non più le medesime persone presiedono alla religione ed al governo
della res publica (secondo una linea
del tutto diversa da quella antica espressa da Cicerone, De domo 1,1)».
[65] “Arco di Costantino: riflessione
storico-politica”, in Prospettive n.
33-35 (1974), 134 ss. (= Scritti editi,
vol. XIX, 117 ss.); anche in Chiesa e Stato dal IV al VI secolo (Prospettive,
Quaderno 2) Firenze 1974, 134 ss. Ricorda ancora Giorgio La Pira: «Lui [sc. Costantino]
intanto fondò anche Costantinopoli. Se non avesse fatto l’accordo con la
Chiesa, poteva fare Costantinopoli? Ma Costantinopoli significa l’Oriente. Aprì
alla Chiesa, aprì al Cristianesimo, aprì alla storia del mondo e della civiltà,
tutto l’Oriente fondando Costantinopoli, bellissima città, dalla quale deriva
poi Ravenna ecc., tutto il mondo orientale, il mondo russo, greco, parte di là.
Se non avesse fatto la pace con la Chiesa, poteva fare queste cose? No!».
[67] Su questo Imperatore la letteratura è
assai ampia vedi, anche per la bibliografia A.
Di Mauro Todini, Aspetti della
legislazione religiosa del IV secolo, Roma 1990, passim.
[83] Vedi C. 1.17.1 pr.: «Deo auctore nostrum gubernantes
imperium …»; 7: «omne ius omnisque
potestas populi Romani in imperatoriam translata sunt potestatem …» del
530; (cfr., quanto al potere popolare, D. 1.4.1 pr.)
[84] Il termine consonantia è adoperato dall’Imperatore Giustiniano nella c. Tanta: «erat enim mirabile romanam sanctionem ab urbe condita usque ad nostri
imperii tempora, quae paene in mille et quadringentos annos concurrunt,
intestinis proeliis vacillantem hocque et in imperiales constitutiones
extendentem in unam reducere consonantiam, ut nihil neque contrarium neque idem
neque simile in ea inveniatur et ne geminae leges pro rebus singulis positae
usquam appareant» (C. 1.17.2 pr. del 533). Il termine consonantia è adoperato dall’Imperatore anche in un’altra
costituzione di grande rilievo per le implicazioni con il diritto naturale; si
afferma che «la legge delle XII Tavole provvide bene al genere umano non
facendo differenza tra i maschi e le femmine legittimi, sia trattandosi delle
loro successioni che dei loro figli. Non fece alcuna differenza trattandosi di
successioni poiché la natura creò il maschio e la femmina onde perpetuare le
generazioni, l’uno abbisogna del soccorso dell’altro; e l’uno mal vive
dall’altro separato …» (Lege duodecim
tabularum bene romano generi prospectum est, quae unam consonantiam tam in
maribus quam in feminis legitimis et in eorum successionibus nec non libertis
observandam esse existimavit, nullo discrimine in successionibus habito, cum
natura utrumque corpus edidit, ut maneat suis vicibus immortale et alterum alterius
auxilio egeat, ut uno semoto et alterum corrumpatu C. 6.58.14 pr del 531).
Cfr., in generale, H.E. Dirksen, Manuale latinitatis fontium iuris civilis
Romanorum, Berolini 1837, s. v. consonantia:
concordia, aequalitas. Vedi M.P. BACCARI, “Imperium
e sacerdotium: a proposito di
universalismo e diritto romano” cit., 282.
[85] Un altro esempio di utilizzo da parte
dell’Imperatore Giustiniano del termine “sinfonia” (consonantia) si trova nella Novella
XLII pr. del 536, a proposito dell’imperium
che fu sempre in armonia con l’autorità sacerdotale: «Rem non insolitam imperio et nos agentes ad praesentem venimus legem.
Quotiens enim sacerdotum decretum aliquos indignorum sacerdotio sacerdotalibus
deposuit sedibus … totiens et imperium condecernens sacerdotium auctoritati
fuit ut diviniora et humana concurrentia, unam consonantiam rectis facerent
decretis».
[86] Di
‘armonia’ intesa come ordine del creato ha parlato il Maestro Riccardo Muti, in
occasione della lezione magistrale per il conferimento della laurea honoris causa, conferita dalla Facoltà
di Lettere e filosofia, nella sede aretina dell’Università di Siena. A
proposito di armonia il pensiero va ai lavori sul diritto e la musica di S. Pugliatti:
L’interpretazione musicale, Messina 1941; Id.,
Essenza musicale della parola, in Rassegna d’Italia 1946, IX, 38
ss.
[87] Utilis,
utilitas sta ad indicare i bisogni
materiali o spirituali essenziali dei cittadini; nelle fonti troviamo utilitas publica, utilitas communis, utilitas
singulorum, utilitas populorum, utilitas hominum, utilitas omnium. Per
alcune considerazioni e per la bibliografia mi sia consentito rinviare a “Bene
comune: quale passato? quale futuro?”, in Penna&mouse,
2007, 3 ss.
[88] Traduzione della Novella nel testo di G. Caputo, Introduzione allo studio del diritto canonico moderno, I, Ius publicum ecclesiasticum, Padova
1978, 277 s.
[89] Nov.
77: la bestemmia è punita con la morte, perché da questa – essendo un’offesa a
Dio – derivano pestilenze, terremoti e calamità.
[91] Vedi, ad es., P. von Rohden, “Aurelius”,
in PW RE, II,2, 1896, coll. 2436 ss.
[92] Sul nome Antoninus Pius vedi più ampiamente, per le iscrizioni, A. Mastino, Le titolature di Caracalla e Geta attraverso le iscrizioni (indici),
Bologna 1981, 38; 91; 143 ss.; per le numerosissime monete vedi H. Cohen, Description historique des monnaies frappées sous l'Empire romain
communément appelées médailles impériales, IV, rist. an., Graz 1955,
139-245.
[93] A proposito di Pius è stato notato da G. Rösch,
Onoma Basileias. Studien zum offiziellen Gebrauch der
Kaisertitel in spätantiker und frühbyzantinischer Zeit, Wien 1978, 42 s.
che: «Seit dem ausgehenden 2. Jahrhundert
ist der Titel regelmässiger Beiname der römischen Kaiser».
[94] Sulla politica religiosa di questo
Imperatore e, in generale, sulle implicazioni religiose della constitutio Antoniniana vedi, in vario
senso, F. De Visscher, “La
costituzione Antoniniana e la dinastia africana dei Severi”, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università di Bari, XVI, 1960, 13 ss.; A. Díaz Bialet, "La constitución Antoniniana y las
querellas y libelos de Q. Septimius Florens Tertullianus", in Revista de la Sociedad Argentina de Derecho
Romano, XII, 1966-1967, 55 ss.; R. Muth,
“Vom Wesen römischer ‘religio’”, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II. 16, Berlin-New York 1978, 308 ss.;
R. Turcan, “Le culte impérial au
III siècle”, ibid., 1064 ss.; E. Dal Covolo, I Severi e il cristianesimo. Ricerche sull’ambiente
storico-istituzionale delle origini cristiane tra il secondo e il terzo secolo,
Roma 1989, 43 ss.; H.G. Gundel,
“Die ‘constitutio Antoniniana’ auf Reisen”, in Geschichtliche Rechtswissenschaft: ars tradendo innovandoque aequitate
sectandi. Freundesgabe für A. Söllner zum 60 Geburtstag, Giessen 1990, 57
ss.
[95] Mi sia consentito rinviare a “I quattro
pilastri della pace secondo i Pontefici romani e alcuni principi del diritto
romano”, in L’archetipo dell’amore fra
gli uomini (a cura di G. Dalla Torre) Roma 2007, 137 ss.;
“Bene comune: quale passato? quale futuro?” cit., 3 ss.
[96] Questo termine sinonimo di sinfonia (consonantia) è stato adoperato dal Presidente della Repubblica
italiana, in occasione della visita al S. Padre il 20 novembre del 2006. Il
Presidente Napolitano nel suo discorso ha ribadito come i rapporti di “armonia”
tra lo Stato e la Chiesa siano «garantiti dal principio laico di distinzione
sancito nel dettato costituzionale e dall’impegno, proclamato negli accordi di
modifica del concordato, alla reciproca collaborazione per la promozione
dell’uomo e per il bene del paese». Il sommo Pontefice ha aggiunto che quando i
fedeli si impegnano a fronteggiare le grandi sfide attuali, come guerra,
terrorismo, fame, povertà, ma anche la tutela della vita umana in tutte le sue
fasi, «non agiscono per un loro interesse peculiare o in nome di principi
percepibili unicamente da chi professa un determinato credo religioso» Lo
fanno, ha ribadito, «secondo le regole della convivenza democratica» «per il
bene di tutta la società» e «in nome di valori che ogni persona di retto
sentire può condividere». Valori, ha rilevato il Papa, che per la gran parte
sono proclamati dalla Costituzione italiana.
[97] Vedi più ampiamente quanto ho scritto in “Alcune osservazioni sui ‘diritti umani’”,
in Revista general de derecho romano,
12, 2009; “Principi del diritto romano e magistero dei Pontefici romani su
iustitia, libertas, veritas, caritas/amor (a proposito della Deus caritas est e
della Caritas in veritate)”, in Revista
general de derecho romano, 15, 2010; cfr., in particolare, quanto ha
dichiarato Alessio II, in
occasione del “Concilio episcopale” (Arkhierejskij sobor) della Chiesa
ortodossa russa a Mosca; egli ha lamentato che «nell’attività di molte
organizzazioni internazionali che si occupano dei diritti dell’uomo, sono
sempre più evidenti i tentativi di separare questi diritti dagli obblighi
morali». Nel testo approvato dal Concilio si afferma che la Chiesa ortodossa
russa «vede un enorme pericolo nell’appoggio pubblico e legislativo a diversi
vizi, per esempio alle licenze e deviazioni sessuali, al culto del profitto e
della violenza». Inoltre «è ugualmente inammissibile l’elevazione a norma di
atti immorali e antiumani come l’aborto, l’eutanasia, l’utilizzo degli embrioni
umani in medicina, gli esperimenti che cambiano la natura dell’uomo».
[98] Vedi, per tutti, R. Orestano, Il problema delle persone giuridiche cit., 262 ss. Quanto all’uso
(e abuso), anche del termine, un solo recente esempio, assai significativo: Ch.
Pietri, “La politique de Constance II: un premier
cesaro-papisme” , in L’Eglise et
l'Empire au IVème siècle, Fondation Hardt, XXXIV, Genève 1989.
[99] A proposito della pericolosità dell’utilizzo
di concetti moderni ad esempio ‘Stato’ vedi quanto afferma R. Orestano, Il “problema delle persone giuridiche” cit., 186 ss., riguardo
anche al Mommsen il cui pensiero giuridico è di derivazione hegeliana e
liberale; lo storico costruì il Römisches
Staatsrecht su «populus ist der
Staat». E qui ben si inserisce quanto afferma Nietzsche, a proposito del
pensiero hegeliano dello Stato: «Si chiama Stato il più gelido di tutti i
gelidi mostri. Esso è gelido anche quando mente; e questa menzogna vomita: “Io,
lo Stato, sono il popolo”» Vedi G. Lobrano,
Res publica res populi cit., 147.
[100] Vedi G. La Pira, “La Chiesa,
centro della storia”, in La Chiesa, casa
di Dio e del popolo, Centro di Cultura “A. Rosmini”, Trento 1976, 13 ss.:
«È questo, romano, del diritto, l’ordine giuridico universale, un valore
permanente. C’era anche in Grecia il diritto, in Egitto, in Africa, dovunque.
Ma la scienza del diritto è costruzione unicamente romana. Ha un valore
universale, perciò è immutabile nella sua struttura ed attraversa i secoli e i
continenti, oggi come ieri e come domani. Quindi io situo questo valore nel
contesto attuale e dico che quando si farà, supponiamo, il diritto dell’ONU,
cioè del mondo unito, delle nazioni unite, bisognerà rifarsi al diritto, al cosiddetto
“ius gentium: quo omnes gentes utuntur”,
diritto di tutti i popoli della terra che noi abbiamo costruito. […] Anche
l’unità medioevale: Carlo Magno continua il discorso, continua la unità di
Augusto. Nel futuro, l’ONU continuerà l’unità di Augusto. […]».
[101] Cfr. R. Baccari,
“La religione cattolica da religione dello Stato a patrimonio del popolo”, in Il Diritto ecclesiastico, XCVIII, 1987,
I, 13 ss. Vedi, M.P. Baccari, Cittadini popoli e comunione cit., 314 s.; riguardo a libertà e
religione del popolo, l’Audizione al Parlamento italiano, I Commissione Affari
costituzionali dell’11 gennaio 2007, ora pubblicata in Chi difende i principi non negoziabili cit., 185 ss.: «Penso, ad
esempio, al concetto di libertà con Robespierre il quale, nel discorso del 21
novembre 1793, dichiarò: “L’atéisme est aristocratique; l’idée d’un grand être
qui ville sur l’innocence opprimé, et qui punit le crime triomphant est toute
populaire”: anche da questa affermazione, in linea di continuità con il
pensiero romano, appare la convinzione che la religione appartenga al popolo».
Cfr. Cic. de legibus, 1.43.
[102] L’idea romana di “crescita” della
cittadinanza, di aumento del popolo risale all’antica repubblica. Con una
continuità che abbraccia un lungo arco di secoli si precisa dunque, nel
pensiero dei giuristi e degli Imperatori, l’idea giuridica della civitas augescens (vedi supra, anche per i riferimenti
bibliografici). I processi di ampliamento della civitas sono dunque legati alla convinzione che essi ridondino a
giovamento di tutto il populus.
[103] M.P. Baccari,
Imperium e sacerdotium: a proposito di universalismo e diritto romano cit., 255 e ss., in
particolare sul concetto di sinfonia, armonia, consonanza; mi sia consentito
rinviare anche a I quattro pilastri della
pace secondo i Pontefici romani e alcuni principi del diritto romano cit.,
specialmente a proposito della publica
auctoritas universalis, distinta,
si badi, dagli hodierna suprema gremia
internationalia, che dovrebbero
«dedicarsi con tutto l’impegno alla ricerca dei mezzi più idonei a procurare la
sicurezza comune»: Gaudium et spes,
23 e 82; cfr. Benedetto XVI nella Caritas
in veritate ritorna su questa idea affermando la necessità di tendere “verso
lo sviluppo solidale di tutti i popoli” e per questo è necessaria la presenza
di una Autorità politica mondiale, secondo quanto tratteggiò Giovanni
XXIII: «Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale
esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale …
per il governo della globalizzazione e che si dia finalmente attuazione ad un
ordine sociale conforme all’ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e
sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello
Statuto delle Nazioni Unite». Da ultimo sulla ‘sinfonia’, si veda la traduzione
italiana del volume pubblicato dal Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill, Libertà e responsabilità: alla ricerca dell’armonia. Dignità dell’uomo
e diritti della persona, Città del Vaticano 2010.