Università
di Bari
Sommario: 1. Crisi del ‘modello’.
– 2. Controllo
del potere. – 3. Eforato e Tribunato. – 4. Il buon governo. La divisione dei poteri.
– 5. Proposte.
– 6. Oltre la
divisione dei poteri. – 7. Defensores e mediatori.
– 8. La giustizia. – Abstract.
La crisi economico-finanziaria
che sta investendo l’Europa non sta incidendo solamente sull’economia, perché
si proietta in una crisi generale dell’assetto delle società, spingendo a
parlare di crisi della società dei consumi, di crisi della società
del possesso o, più in generale di crisi dei valori.
Essa impone anche una
riconsiderazione della democrazia, poiché mi sembra la conseguenza del
modo con il quale è stata strutturata la società contemporanea e sono stati
concepiti la democrazia e, con essa, lo Stato contemporaneo. Infatti,
appare, a mio avviso, evidente la doverosità di una riflessione radicale,
diretta a mettere in discussione l’attuale ‘modello’ e a lavorare alla
costruzione di un nuovo modello[1]
di democrazia, che sappia dare risposte adeguate alle aspirazioni degli
uomini, ponendo rimedio all’estraneazione dei singoli rispetto alla gestione
della politica, che viene avvertita sempre più appannaggio di oligarchie[2].
Questo è tanto più urgente
quanto più vasta diventa la convinzione che oggi la crisi sia irreversibile e
che i governanti non affrontano il nodo del problema istituzionale, ma si
illudono di potervi porre rimedio con l’adozione di soluzioni provvisorie e
parziali, dalle quali spesso nascono illusioni destinate a cadere nel corso
degli anni[3].
Esempio significativo di
questa tendenza mi sembra l’inarrestabile propensione a creare (a datare dalla
fine della seconda guerra mondiale) figure di Ombudsman, che, con varie
denominazioni (Ombudsman, Médiateur, Defensor del pueblo, Parliamentary
Commissioner, Avvocato del popolo, Difensore civico, Dèfenseur
des droits) sembra procedere in modo irrefrenabile in quasi tutto il mondo,
ad eccezione degli USA e dell’Italia, suscitando entusiasmo e speranze[4].
Ciò avviene perché la figura (secondo alcuni erede degli antichi Efori o
dei Tribuni plebis ovvero dei Defensores Civitatum) è stata
proposta in Svezia[5]
proprio come intermediaria tra potere e governati[6],
sicché spesso crea l’illusione di potere colmare il solco (sempre più profondo)
esistente tra ‘potere’ e uomini, oggi avvertito come fonte di disparità ed
ingiustizie.
Poiché, tuttavia, il distacco
esistente tra governanti e governati rimane immutato e, anzi, tende a crescere,
sono indotto a ritenere che esso sia conseguenza dell’assenza di un’avvertita
riflessione progettuale sul ‘modello’ organizzativo più consono alle necessità
del presente, alla cui costruzione non bastano provvedimenti e/o istituti
miranti a far fronte all’emergenza.
È su questi aspetti che va
incentrato il dibattito sugli assetti congrui alle nostre società; di esso si
avverte l’assenza, poiché, pur quando c’è, è frammentario, episodico e, mi
sembra, carente di una riflessione organica e prospettica. Non di rado è
rissoso e confuso.
Tra i nodi intorno ai quali
più è grave l’assenza di considerazione, mi pare che sia centrale quello
concernente l’individuazione di modalità efficienti di controllo del potere.
Fin dall’antichità,
particolarmente in Sparta[7]
ed in Roma[8],
è stata avvertita la necessità di porre argini all’esercizio del potere; non
solo attraverso i normali organi della democrazia, ma anche con
l’introduzione di autorevoli controllori della correttezza ed opportunità delle
scelte operate da qualsiasi ‘potere’[9].
La questione è stata
riproposta con riguardo alla società moderna e contemporanea dai pensatori che
sono alla base dell’odierna organizzazione politica, la quale, nel frattempo, è
divenuta anche ‘statale’. Si è aperto un dibattito, oggi di grande attualità,
indirizzato alla prospettazione di soluzioni idonee a regolare, in maniera
soddisfacente per tutti, il complesso rapporto tra l’esercizio del ‘potere’ ed
il popolo, con la finalità di approdare ad un equo bilanciamento tra le
aspettative e le aspirazioni dei singoli uomini ed i detentori del potere,
spesso partendo dalle antiche istituzioni dell’Eforato e del Tribunato della
plebe.
Vediamo perché.
Eforato. Le
caratteristiche scorte nell’Eforato fecero in modo che esso fosse additato come
‘modello’ da quanti avvertivano l’esigenza del controllo del potere e della
partecipazione popolare. Perciò, a partire dal sec. XVII venne riproposto come
argine al potere del Sovrano. Nel 1603 Johannes Althusius
pubblicava la Politica, opera ritenuta l'atto di nascita del diritto
pubblico moderno, fondamentale per il pensiero federalista e la riaffermazione
della sovranità popolare. Secondo l’autore nella comunità politica vi è un
momento unitario, costituito dalla confluenza tra l'operato dei sommi
magistrati che esercitano il potere ed il concorso del popolo (con le sue
molteplici forme di aggregazioni), il quale si esprime attraverso propri
rappresentanti diretti: gli Efori. In tal modo la società si organizza intorno
ad un’istanza di guida (espressa dai governanti) e ad un’istanza di
partecipazione collegiale, che esprime direttamente la volontà della comunità.
Perciò sono gli Efori ad avere l’auctoritas
e la potestas più elevata, proprio perché promanano
direttamente dal popolo, consentendo al popolo stesso di farsi valere realmente
di fronte all’azione di governo del sommo magistrato. Più tardi Johann Gottlieb
Fichte riprese le fila del rapporto magistrato-popolo, ma da altra angolatura:
non quello positivo della rappresentatività, bensì quello del controllo. Egli
ripropose l’Eforato non come potere positivo, bensì come controllo sul
potere. Le caratteristiche dell’Eforato, tuttavia, sono state spesso anche
esaltate nei momenti nei quali si cercava di riposizionare il popolo al centro
della vita politica e costituzionale, come avvenne intorno alla metà del secolo
XVIII, quando l’Eforato è stato talora ripresentato come modello di giustizia e
di difesa delle istanze popolari. Significativa appare la sua riproposizione ad
opera del Pagano, il quale lo ipotizzò come organo idoneo a soddisfare
l’esigenza di porre in essere efficaci strumenti giuridici volti a impedire ogni
forma di usurpazione del potere. Compito dell’Eforato, per l’autore partenopeo,
era quello di dare spazio al popolo, in modo da garantirlo contro gli abusi di
potere e la violazione dei diritti, evitando di diventare a sua volta fonte di
potere incontrollato. La ricerca di una forma di controllo efficace e il
ricorso all’Eforato (proprio nell’epoca del Pagano) erano oggetto di attenzione
e tensioni anche in Francia, attraverso alcune proposte presentate
all’Assemblea legislativa. Nel febbraio del 1793, Jacques-Marie Rouzet propose
la creazione di un organo collegiale di 85 membri preposto al controllo della
costituzionalità delle leggi, da effettuarsi prima ancora della loro
approvazione da parte dell’Assemblea. Ai membri di tale organo, il Rouzet, molto
prima che il Pagano redigesse il suo Progetto, dava il nome di Efori. La sua
proposta si inseriva all’interno del progetto rivolto ad assicurare la
legalità, considerata parte essenziale dei diritti dell’uomo. Allo stesso
obiettivo si ispirò anche il ben più articolato e complesso progetto
presentato, all’Assemblea, dall’abate Sieyès, il quale prevedeva l’introduzione
di un jury constitutionnaire (da lui denominato altrove anche tribunal
des droits de l’homme) incaricato di una triplice funzione: vegliare sulla
salvaguardia del dettato costituzionale, proporre dei perfezionamenti della
Costituzione ed esercitare un controllo sulle sentenze della giurisdizione
ordinaria sulla base del diritto naturale. Conseguenza del giudizio dinanzi al jury
sarebbe stata la possibilità di dichiarare «nuls et comme non avenus» gli atti
incostituzionali. Benché apprezzato da molti, il progetto del Sieyès venne
respinto, ma, l’istanza, della quale si faceva portatore, restò un punto di
riferimento, per la cultura europea.
Tribunato. Il
Tribunato, ripetutamente nel corso del tempo, è stato considerato lo strumento
più immediato ed efficace per la salvaguardia dei diritti e delle aspettative
dei cittadini. Del Tribunato si è richiamata la carica potenzialmente rivoluzionaria
e la capacità di essere vicino alle esigenze dei cittadini; perciò esso è stato
riproposto anche ai tempi d’oggi, riconoscendogli una eccezionale attualità e
l’idoneità a contribuire alla soluzione della crisi dello Stato moderno, che ha
tutto da guadagnare dal richiamo del modello “giuspubblicistico” dell’antica
Roma, particolarmente quello della Repubblica, ritenuto il più rispettoso della
sovranità del popolo. In tale modello i Tribuni erano centrali, al punto che
Cicerone arrivava a dire che non si sarebbe potuto parlare di Respublica
se non ci fosse stato il Tribunato. L’origine plebea, il suo inserimento nelle
lotte patrizio-plebee, prima, per la riforma agraria e, più in generale, il suo
intervento a favore degli oppressi, dettero all’istituzione un fascino
trascinante, che perdura ai tempi d’oggi, tanto che alcuni pensano alla
attualizzazione del Tribunato, per rimuovere le cause della crisi di fiducia
dei cittadini. I Tribuni della plebe erano presenti in alcune città medievali:
è rivelatrice la circostanza che il governo popolare cittadino instauratosi a
Bologna nel 1300 fosse articolato intorno ai Tribuni della plebe e desse vita a
costumi che durarono fino al 1700. Nell’età moderna troviamo il Tribunato al
centro del dibattito tra Montesquieu (Charles-Louis de Secondat, barone de La
Brède e de Montesquieu) e Jean-Jaques Rousseau riguardo al ‘modello’ più adatto
all’età contemporanea. Al primo, contrario al Tribunato perché convinto che
esso fosse inconciliabile con la democrazia rappresentativa di matrice inglese,
da lui perseguita, il Rousseau controbatteva con la proposta di introduzione di
una magistratura di mediazione (un magistrat intermédiaire) forgiata in
assonanza con il Tribunato romano. I rivoluzionari Robespierre (Maximilien-François-Marie-Isidore
de Robespierre) e Babeuf (François-Noël Babeuf, il quale, volendo estremizzare
l’affermazione del ruolo del popolo, aveva visto nel Tribunato la soluzione più
pertinente), addirittura mitizzarono il Tribunato. Robespierre però diffidò dei
travisamenti degli uomini e propose che fosse il popolo stesso ad esercitare il
Tribunato. Babeuf fece del Tribunato il suo modello di eccellenza tanto che (il
5 ott. 1774) ribattezzò il suo giornale (Journal de la liberté) con il
nuovo nome di Tribun du peuple e vide nel Tribunato lo strumento per la
giustizia e la lotta dei poveri contro i ricchi ed i potenti, nel perseguimento
della democrazia popolare al posto della democrazia borghese. Tra i filosofi il
Tribunato, ignorato da Kant, fu riproposto da Schlegel (Karl Wilhelm Friedrich
von Schlegel), nella rivalutazione pre-romantica del popolo, il quale vide
nell’istituzione di un hochheiliger Tribun lo strumento ultimo di difesa
della parte migliore del popolo. Il Tribunato è stato considerato la figura cui
ispirarsi per superare i limiti della ‘democrazia’, consistente nella possibile
‘tirannia’ della ‘maggioranza’. Si è, infatti, affermato che la sola
maggioranza, contrariamente a quanto si crede sulla scorta del modello di
democrazia degli Stati Uniti d’America, non può essere garanzia di democrazia,
poiché può diventare facilmente ‘oligarchia’, per il fatto che essa «fondando
il potere della maggioranza, ha trascurato di sottoporlo a questo sindacato
permanente >il Tribunato< di cui tutti i poteri hanno bisogno». In quasi
tutte le proposte, tuttavia, più che al complesso dei poteri e delle
prerogative dei Tribuni il riferimento prevalente è alla possibilità di opporsi
al ‘potere’ dei magistrati e degli organi della repubblica[10]
Venendo all’età contemporanea,
punti cardini della riflessione degli ultimi secoli sono stati ritenuti da un
lato l’esigenza che il popolo non si sentisse escluso dalle decisioni
fondamentali che lo concernono, dall’altro la prevenzione o il blocco di
eventuali abusi da parte dei governanti. In conseguenza di questa impostazione
sono apparsi particolarmente significativi gli istituti diretti al controllo
dell’esercizio del potere, per assicurare il ‘buon governo’ e per reprimere l’uso
arbitrario ed immotivato del potere[11].
Oggi constatiamo l’attualità
di queste stesse istanze. Esse sono anche postulate dalla crescente richiesta
di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, la quale ha posto a nudo
l’inadeguatezza di due fondamenti della ‘democrazia’ occidentale, costituiti
dalla rigida affermazione della sovranità statale (o di unioni di Stati) e dal
principio della divisione dei poteri. Questi pilastri della democrazia
rappresentativa hanno generato una crescente mancanza di protezione di
fronte all’Amministrazione Pubblica ed ai cosiddetti ‘poteri forti’, i quali
appaiono invasivi, anche in conseguenza del fatto che, nel frattempo, il limite
previsto dalla dottrina della divisione dei poteri in realtà non vi è
più.
Per capire come questo sia
potuto accadere, appare utile rivisitare i termini della quaestio, che
ha accompagnato la formazione dello stato contemporaneo. Dobbiamo risalire al
pensiero, perdente, di Rousseau ed a quello, che risultò vincente, di
Montesquieu, definitivamente fatto prevalere, agli inizi del sec. XIX, da
Bénjamin Constant. Al centro della discussione e delle proposte era il modo di
concepire la democrazia, che doveva essere l’humus della Res
publica. Per Rousseau la Repubblica «è una forma di Stato essenzialmente
democratico e quindi necessariamente non rappresentativo»[12].
Tale ‘formula’ proponeva come ‘modello’ la res publica romana, dove al
centro vi era il populus, e rigettava il sistema rappresentativo
(ritenuto fonte di potere aristocratico). A lui si contrappose Montesquieu, il
quale, invece, propose come ‘modello’ di democrazia quello della monarchia
inglese, fondato sulla rappresentanza[13],
secondo una formula che è risultata vincente, anche perché adottata nel
costituzionalismo anglo-americano degli USA, nato dalla convenzione di
Filadelfia di stampo nettamente conservatore[14].
In questa costruzione diventava essenziale il bilanciamento dei poteri,
che il Montesquieu ritenne assicurato dal rispetto della divisione dei
poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), ciascuno dei quali sarebbe
stato autonomo ed indipendente dagli altri, mirando al rispetto della legge,
cui tutti erano soggetti, ed al controllo ciascuno dell’operato degli altri. In
questa costruzione era essenziale sia il primato della legge sia la convinzione
che le leggi, frutto sia pur indiretto del popolo, erano ‘giuste’ e garantivano
giustizia.
Questa costruzione è ancora
sostenibile ed attuale? Direi di no, perché proprio il perno destinato al
controllo del potere, vale a dire la divisione dei poteri si
dimostra sempre più una mera finzione, incapace di creare il necessario
bilanciamento tra poteri e, meno che mai, di assicurare il ruolo protagonista
del popolo. Per convincersi di ciò basta un fugace sguardo alla struttura dell’Unione
europea.
In essa le cosiddette norme
primarie del diritto comunitario sono costituite in primo luogo dalle norme
convenzionali, contenute nei Trattati istitutivi della Comunità e negli accordi
internazionali successivamente stipulati, al fine di modificarli. A queste
norme si affiancano quelle (di diritto derivato), provenienti dai
regolamenti CE e dalle direttive del Consiglio o della Commissione (atti
normativi) e molte altre tutte non provenienti da alcun organo legislativo. È,
poi, anche opinione concorde che possano assumere valore normativo le decisioni
ed i pareri e le sentenze della Corte di Giustizia (o del Tribunale di primo
grado). Le quali finiscono per rivestire efficacia diretta negli ordinamenti
degli Stati membri, assumendo, di conseguenza, il carattere di fonti del
diritto comunitario: infatti, l’interpretazione di una norma comunitaria, resa
in una pronuncia della Corte di Giustizia, ha carattere di sentenza
dichiarativa del diritto comunitario.
Il potere giudiziario - quello
che doveva fungere da controllore dell’esecutivo, ponendosi come terzo rispetto
all’imparziale applicazione della legge ed ergendosi a garante della legalità e
della meritevolezza degli atti dell’esecutivo – è diventato un potere
autoreferenziale, senza rapporto reale con il popolo. Nella Costituzione
italiana e di molti altri Paesi i giudici, pur dichiarando enfaticamente nelle
loro sentenze, di agire in nome del popolo, in realtà sono lontanissimi
ed estranei al popolo, il quale né concorre alla loro designazione né li
conosce né è reso partecipe in alcun modo alle loro decisioni[15].
Nell’UE poi la loro nomina e la loro conseguente posizione è paradossale,
poiché sono emanazione diretta ed esclusiva dei Governi. Invero, secondo l’art.
9 F del Trattato di Lisbona:
1. La Corte di giustizia dell'Unione europea comprende la Corte
di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati. Assicura il rispetto
del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati.
Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari
per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati
dal diritto dell'Unione.
La Corte di giustizia è composta da un giudice per Stato membro.
È assistita da avvocati generali.
Il Tribunale è composto da almeno un giudice per Stato membro.
I giudici e gli avvocati generali della Corte di giustizia e i
giudici del Tribunale sono scelti tra personalità che offrano tutte le garanzie
di indipendenza e che soddisfino le condizioni richieste agli articoli 223 e
224 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Sono nominati di
comune accordo dai governi degli Stati membri per sei anni. I giudici e gli
avvocati generali uscenti possono essere nuovamente nominati.
Ciò con buona pace
dell’esigenza di garantire a chicchessia un giudice indipendente ed
imparziale, precostituito per legge proclamata nell’art. 47 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, del 2000:
Diritto a un ricorso effettivo
e a un giudice imparziale. Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà
garantiti dal diritto dell’Unione siano stati
violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un
giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni
individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente
ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale,
precostituito per legge.
Tutto ciò accade nella paradossale situazione
dell’UE, nella quale l’esecutivo è nominato dagli esecutivi degli Stati membri
e non ha nessuna relazione né con il Parlamento europeo né, ancor meno, con i
governati, salvo il tentativo ancor timido di collegare almeno la presidenza al
popolo riflesso dal Trattato di Lisbona!
Come si vede della c.d. divisione
dei poteri non resta quasi nulla!
Rimane invece una sorta di
paravento che, fonte di illusioni ed ipocrisie, favorisce il consolidamento di
oligarchie e burocrazie e che fa sentire impotenti.
Eppure mentre fino agli anni
’80 si distingueva tra repubblica e democrazia; a partire da quel periodo si
cercò di superare tale distinzione, la quale significava distinguere tra
democrazia partecipativa, indicata anche semplicemente parlando di repubblica,
e democrazia rappresentativa: si cominciò a distinguere tra democrazia pura,
indicativa della democrazia (degli antichi) partecipativa e democrazia,
senza aggettivi, corrispondente alla democrazia elettiva e rappresentativa[16].
Attraverso l’ONU e gli altri
Organismi internazionali è proprio questo modello di democrazia rappresentativa
ad essere assunto come sinonimo di democrazia ed assistiamo al tentativo
di esportarlo ed imporlo, addirittura con la forza. In realtà ciò opera
forzature dolorose e causa una riduzione ischemica nella delineazione del
rapporto tra governanti e governanti, tra uomini e potere.
Quanto questo sia devastante
per alcune culture è sotto gli occhi di tutti e crea tensioni e ribellioni.
All’interno di ciascuno Stato,
poi, vi è delusione ed un senso di cocente estraneazione dalla ‘politica’,
vissuta come superfetazione, spesso improvvisazione o sopraffazione di pochi
(si parla sempre più spesso di ‘caste’). D’altra parte chi oggi può credere al
primato della legge, emanazione di parlamenti sempre più screditati e strumento
di ‘pochi’[17]?
Rebus sic stantibus, cosa
fare? Rassegnarsi? Riaffidarsi ancora al rispetto delle ‘regole’ della
democrazia rappresentativa, alternando periodi di risveglio democratico con
periodi di ‘indignazione’ ed allontanamento dalla vita pubblica o, peggio,
ricorrendo ad atti di ribellione?
La verità è che (a mio avviso)
vi è la necessità di riprendere il discorso là dove era iniziato, cioè intorno
alla seconda metà del sec. XVIII, quando si definirono le basi del modello
costituzionale francese, che, desunto da quello inglese, diventò ‘il modello’
universalmente adottato negli Stati contemporanei e, con varianti più o meno
significative, è quello che ancora oggi è seguito. S’impone una discussione profonda
ed in grado di ridisegnare il ‘modello’ di Stato e, ovviamente, di
Costituzione, sia formale che materiale.
Ritengo che la prorompente
esigenza di riconoscimento e protezione dei cosiddetti diritti fondamentali
stia dimostrando l’inadeguatezza dei pilastri della ‘democrazia
rappresentativa’ e richieda una profonda discussione dei princípi sui quali
essa si fonda; nella realtà essi stanno dando spazio crescente all’affermazione
di oligarchie, con conseguente estraneazione del popolo. Il nuovo disegno di
Costituzione dovrebbe, perciò, partire dalla constatazione dell’inefficacia e
del mancato funzionamento della ‘divisione dei poteri’, per ipotizzare una
differente configurazione della società, con la riproposizione della centralità
dell’uomo, la quale può essere ottenuta solo attraverso forme performanti di controllo
del potere, in tutte le sue manifestazioni e durante il suo espletamento.
Purtroppo sono in pochi ad
avere intrapreso questa strada, mentre il nodo era ben presente nelle
discussioni sulla città antica e nel pensiero dei secoli XVIII-XIX, dal quale
deriva la configurazione delle ‘democrazie’ occidentali.
Sinceramente credo che occorra
non tanto inseguire rimedi temporanei e/o parziali, quanto ritornare a
riflettere su cosa occorra alla società di oggi, ponendo al centro la
discussione del ‘modello’, sulla ‘democrazia’, senza remore o prevenzioni. Cosí
facendo, forse, si scoprirà che è proprio il modello della democrazia
rappresentativa ad essere inadeguato ed anzi fuorviante, rispetto
alle esigenze delle comunità, che è soprattutto esperienza e
vive di esperienza (cioè della vita)[18].
Nasce da ciò e dagli
interrogativi che ne sono sollevati la riflessione avviata dal Centro
interdipartimentale, la quale si è sviluppata in molteplici iniziative approdate
al convegno, incentrato sul nodo essenziale: Democrazia oggi.
Nello specifico, in esso si è
inteso rivolgere uno sguardo al ‘concreto’, con particolare attenzione al
‘diverso’, che ci riguarda. Perciò, piuttosto che la prospettazione di ipotesi
teoriche[19],
si è tentato un approccio realistico, individuando, ove possibile, come si
potrebbe cambiare il ‘modello’ che regge le comunità dell’oggi e soprattutto
avviando una riflessione della quale qui si vogliono ipotizzare alcune linee
iniziali.
Il primo punto, mi sembra,
debba necessariamente partire dalla rivisitazione del principio della divisione
dei poteri.
Esso è stato ritenuto fondamentale
nella democrazia rappresentativa e di per sé idoneo ad assicurare la democrazia
(tout court). In realtà si risolve in una limitazione di ruolo per il popolo,
il quale è privato della possibilità di interagire sia con il potere esecutivo
sia con quello giudiziario e, riguardo al potere legislativo, è ridotto al
ruolo di distretto elettorale, che si riunisce soltanto al momento
dell’elezione del Parlamento (e talora neanche di tutti i componenti di esso) e
poi sparisce dalla scena politica attiva, anche se altri (ovviamente il
Parlamento, ma anche l’Esecutivo ed i Giudici) dichiarano di agire in nome suo.
Di conseguenza, immaginare un
‘modello’ che prescinda dalla divisione dei poteri non costituisce
motivo di possibili derive antidemocratiche, bensì serve ad eliminare una finzione
ed a stimolare la ricerca di forme più incisive di partecipazione costante del
popolo, con controllo effettivo dell’esercizio del potere, che è unico
ancorché si manifesti in varie forme, con modalità ed organismi distinti.
In altre parole, anziché
assistere al tacito assorbimento di competenze da parte dell’Esecutivo nei
confronti del Parlamento o dei Giudici nei confronti del Legislativo, appare
meglio e più realistico affrontare l’ipotesi di una democrazia che
ritorni a porre i consociati al centro del Potere e del suo esercizio.
Ma qui sorge un interrogativo:
si può ipotizzare il ritorno alla democrazia diretta? Si può ipotizzare
la consultazione diretta e ricorrente dei consociati? Oggi si parla di democrazia
partecipata (talora partecipativa) e si sperimentano varie modalità
che dovrebbero consentire ai componenti della comunità di partecipare in
qualche modo al momento deliberante delle decisioni, utilizzando, all’uopo,
anche le grandi ed innovative possibilità offerte delle nuove tecnologie. Se
essa sia realizzabile o se, come è spesso obiettato, sia possibile solo in
società e/o gruppi poco estesi è oggetto di verifica. Certo occorre riflettere
scandagliando fino in fondo le potenzialità esistenti oggi ed in grado di fare
in modo che vi sia una partecipazione dei consociati al momento deliberativo e,
aggiungerei, a quello dell’attuazione dei conseguenti atti e/o provvedimenti.
Il quadro è poi complicato dal
fatto che questa forma di democrazia investirebbe soltanto gli atti
delle Pubbliche Amministrazioni e non avrebbe possibilità di incidere sulle
decisioni delle grandi imprese e dei potentati economici e/o politici e
sociali; sempre più spesso questioni sempre più vitali dipendono da gruppi
privati e solo per aspetti limitati dalla Pubblica Amministrazione.
Ecco dunque che il campo di
indagine si allarga e diventa più arduo ed impone di considerare ‘potere’ ogni
centro decisionale ed autoritario in grado di incidere sulla condizione e sulla
qualità della vita degli uomini.
La settorizzazione esistente
tra diritto pubblico e diritto privato e la separazione funzionale tra
previsione normativante, momento decisionale e processo non aiuta, anzi è di
grave ostacolo. Però occorre individuare almeno alcuni capisaldi da cui
muoversi.
Il compito, per arduo che sia,
spetterebbe ai pensatori e, per lo specifico della materia, ai giureconsulti.
Ma essi, rispetto al grande ruolo avuto durante l’esperienza romana e nel medio
evo, sono stati estromessi dal grande gioco del diritto. Montesquieu li espunse
non menzionandoli in nessun luogo nella sua trama sulla divisione dei
poteri. L’esclusione era eclatante e Alexis de Tocqueville s’ingegnò a
giustificarla, sostenendone l’opportunità per il fatto che sempre i
giureconsulti si erano mostrati corrivi con i potenti. In realtà, in genere,
era vero il contrario: erano stati i giuristi a porre gli argini più resistenti
agli arbitrii ed al dispotismo: un nome ed un esempio per tutti, quello di
Grozio, che aveva riaffermato il diritto naturale ed aveva fatto scaturire il
potere dal contratto sociale. Certo è che eliminati i giureconsulti si
erano al tempo stesso eliminate la maggiori voci critiche verso il potere e le
sue articolazioni, proposte in visione mirabolante.
Occorre, invece, ritornare
alla centralità del pensiero giuridico, come cardine della vita politica e
sociale. Esso si è mostrato in grado di arginare gli abusi, tanto riguardo alle
materie pubbliche quanto a quelle private[20]
ed è l’unico in grado di elaborare soluzioni per riporre la comunità al centro
della vita politica e sociale, ponendosi come generatrice, ma anche come
controllo del potere.
Come può essere una democrazia
senza la divisione dei poteri?
Primaria è la reintroduzione
dell’etica nel diritto; certamente non nel senso che etica e diritto si debbano
identificare, bensí nel senso (kantiano) che l’etica deve essere nel diritto.
La sicurezza è prioritaria e
deve essere effettiva e deve implicare il controllo reale e totale del
territorio.
La tutela giudiziaria oggi è
riservata a chi abbia un interesse personale attuale e diretto alla
lite. Questo è retaggio consolidato e risale al diritto romano, con la
differenza che gli antichi Romani si resero conto che in alcuni casi questi
presupposti erano devianti, poiché, dinanzi agli interessi della collettività o
di persone deboli, apparve loro opportuno prescindere da tali requisiti e
concedere la legittimazione al processo a chiunque, ancorché non
portatore di un suo particolare e specifico interesse. Fu questa la felice
invenzione dell’azione popolare. Essa consente il controllo sul corretto
esercizio del potere. Infatti, poiché qualora chi ne è obbligato non agisca,
può vedersi sostituito da chicchessia, ne consegue da un lato uno stimolo a
‘fare’ ciò cui il governante sia tenuto dall’altro un controllo indiretto del
suo operato. In altre parole, io, cittadino qualsiasi sarò verosimilmente molto
stimolato a verificare ciò che il governante fa se so che, qualora egli non
faccia il dovuto, potrò sostituirlo io stesso. L’azione popolare,
inoltre, va ben oltre la facoltà di supplenza, perché rappresenta un caso
concreto di esercizio diretto della sovranità popolare, normalmente delegata al
governante, ma il cui esercizio torna a ciascun cittadino quando chi ne
sia tenuto non adempia al suo ufficio/dovere[21].
Considerati la complessità del processo dell’oggi ed i suoi alti costi, sarà
opportuno che chi esperisca un’azione popolare possa, per ciò solo, avvalersi
del gratuito patrocinio.
L’azione popolare è
prevista da molte costituzioni latino-americane, mentre è del tutto assente nel
Trattato di Lisbona e, quindi, all’interno dell’UE.
Appare sempre più evidente
l’opportunità di attribuire l’iniziativa di proposta di legge anche a
persone o gruppi che non facciano parte del Parlamento, sia con la forma del referendum
propositivo sia attribuendo il potere di proposta ad organi o singoli, che
intendano agire per la collettività. Esempio significativo è la costituzione
albanese, la quale, in materia di diritti umani, attribuisce il potere
di iniziativa legislativa anche all’Avvocato del popolo[22].
Nell’UE siamo quasi alla
beffa: non solo manca l’azione popolare e non vi è traccia di referendum,
ma, con toni roboanti, si propaganda come una grande novità a favore dei
cittadini la cosiddetta “iniziativa popolare”, per la quale occorrono un
milione di firme, in almeno 7 Stati e con una soglia minima per Stato[23]
non perché la proposta di legge sia accolta e se ne occupi il Parlamento, ma
semplicemente con il valore di suggerimento, perché i cittadini «possono
prendere l’iniziativa d’invitare la Commissione europea, nell’ambito delle sue
attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle
quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini
dell’attuazione dei trattati». Uno si aspetterebbe che se si mobilitano tanti
cittadini in almeno 7 Stati dovrebbero avere il potere di adottare direttamente
un provvedimento o almeno di avere la legittima facoltà di sottoporre
all’approvazione diretta dei cittadini il provvedimento richiesto.
Insomma tanto rumore quasi per
nulla!
Ora la domanda è questa:
poiché le questioni diventano sempre più tecniche ed è palpabile la generale
sfiducia nei governi e nei parlamenti, non si dovrebbe dare in qualche modo voce,
anche sotto forma di proposta ed eventuale approvazione di legge, al popolo?
Nell’UE vi è un mediatore,
erede dell’Ombudsman di matrice svedese, ma con poteri tanto ristretti da incidere
poco nella vita dell’UE e sull’effettivo rispetto della dignità umana,
proclamata dal Trattato di Lisbona.
Questa figura è soltanto una
pallida replica del defensor civitatis e del glorioso Tribunato della
plebe. Quelle istituzioni erano concepite come reale freno all’esercizio
del potere, le odierne figure (Ombudsman, Mediatori, Defensor del Pueblo,
Avvocati del popolo, Difensori civici ecc.) sono espressione del potere stesso
o del Parlamento (ma chi si fida più del Parlamento?) e sono destituite di
poteri reali, essendo limitati al ruolo di intermediari e portavoce presso le
amministrazioni.
Eppure quello del controllo
del potere durante il suo esercizio, come si è detto, è un grosso nodo; non
basta, eventualmente, sovrintendere all’emanazione dei provvedimenti, occorre
controllarne l’effettiva e corretta attuazione. Senza questo controllo,
attraverso un organo dotato di poteri incisivi, la stessa democrazia perde
senso e diventa un comodo paravento per decisioni unilaterali e non rispondenti
all’interesse della collettività; in Italia manca addirittura una figura
nazionale di tal fatta, malgrado l’invito rivolto dall’ONU alla fine della
prima metà del secolo scorso.
Specialmente per i diritti
fondamentali il controllo, per essere efficace, dovrebbe essere preventivo.
L’UE ha avvertito la delicatezza di ciò e, prima con il Trattato di Maastricht
poi in quello di Lisbona, ha introdotto il principio di precauzione, che
dovrebbe consentire di bloccare un atto offensivo dell’ambiente o comunque
temuto nocivo sin dal nascere[24].
Ma alla proclamazione è seguito ben poco. Si attende che siano indicate le
forme, eventualmente anche giudiziarie, per dare sbocco a quel principio.
Qualcosa potrebbe
rappresentare la procedura detta VIA[25],
ma in molti Paesi è stata depotenziata, perché a pronunciarsi, cosí come essa
richiede, sulla non nocività ed opportunità dell’atto e/o del procedimento
sospetto non sono chiamati i cittadini-utenti, bensí le Amministrazioni ed
organismi che in molti casi sono essi stessi autori o comunque hanno
partecipato alla formazione del potenziale provvedimento sospetto.
Sotto gli occhi di tutti vi è
la crisi della giustizia, acuta particolarmente in Italia.
La Giustizia penale è allo
sfascio, particolarmente in Italia.
Quanto alla Giustizia civile
si stanno sperimentando diversi rimedi, ma essi si rivelano parziali e non
risolutori. Il più recente è del 2008, quando l’UE si è posta il problema
dell’effettività dell’accesso alla giustizia e della sua reale
fruizione; con la direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
del 21 maggio 2008, entrata in vigore il 12.6.2008, la Commissione ha inteso
promuovere il ricorso alla mediazione come metodo di risoluzione consensuale
delle controversie in materia civile e commerciale. La direttiva non menziona
la materia amministrativa, probabilmente perché per essa vi è la concorrente
azione del Médiateur européen.
In Italia questo, come è noto,
è stato inteso dal Governo non come alternativa al processo, ma come rimedio contro
la lungaggine eccessiva delle liti. Ho la preoccupazione che, specialmente
riguardo all’Italia, il ricorso alle procedure alternative, di là dagli
entusiasmi del primo momento, possa non avere molto spazio[26], diversamente dalle
esperienze anglosassoni, nelle quali sono nate, che hanno ben altri
Weltanschauung. D’altro canto è rivelatrice la circostanza che in Italia la
loro introduzione sia stata prefigurata all’interno della semplificazione e
della competitività in materia del processo civile[27].
Sta di fatto che queste sono
strade che cercano di risolvere la questione della Giustizia senza porre in
discussione l’impianto tradizionale del processo, malauguratamente isterilitosi
in ritualità e azioni dilatorie, che per l’Italia risalgono al periodo fascista
ed in particolare al Chiovenda[28],
il quale prefigurò la presenza invasiva del giudice istruttore, creando un monstrum
del quale fin dal suo sorgere se ne denunciarono i pericoli e la potenziale
inefficienza.
Che la riforma funzioni è da
verificare e non vorrei che costituisca un alibi per dilazionare la riforma del
processo, sia riguardo ai costi sia riguardo al ruolo delle parti e dei giudici[29].
A mio avviso è su questo che occorre intervenire in via prioritaria,
restituendo alle parti il potere di scelta del giudicante (come avveniva nel
modello del diritto romano, durante la Respublica, cioè in un sistema a democrazia
partecipata), secondo una visione compartecipata e non autoritaria o
oligarchica della società[30].
Invero la questione
dell’accesso alla Giustizia e dell’organizzazione del processo non è mera
questione tecnica e non è risolvibile attraverso modifiche, più o meno
radicali, settoriali o solamente processuali: essa attiene al modo stesso di
concepire la società ed il modello sociale e costituzionale cui ispirarsi[31].
Tra l’altro oggi i giudici non
hanno nessun legame con i cittadini. Nominati attraverso un concorso meramente
nozionistico[32],
non danno (in partenza) nessuna garanzia di sapere interpretare la realtà né di
avere quelle doti di discernimento, conoscenze e forza d’animo necessarie al
compito cui sono chiamati[33].
Non di rado si hanno sentenze che stupiscono per la loro estraneità al contesto
della realtà fattuale ed ai valori della società. Le motivazioni alle sentenze,
poi, costituiscono un campo nel quale è spesso impossibile addentrarsi e
certamente non sono, come dovrebbero essere, alla portata della comprensione
dell’uomo medio[34].
Oserei dire che talvolta sembra di trovarsi di fronte ad un linguaggio tanto
tecnico da essere appannaggio esclusivo di pochi, creando un altro motivo di
estraneazione dell’uomo dal diritto.
Amo ricordare che la nomina ‘a
vita’ dei giudici era motivata dalla necessità di renderli indipendenti dal
Sovrano[35]
e comunque ancora oggi il giudice resta al suo posto during good behavior.
Ma nella Repubblica questo si giustifica ancora? Ne dubiterei. D’altra parte se
questa esigenza fosse ancora attuale non si giustifica perché nelle Corti
sovranazionali, come la Corte di Giustizia europea i giudici sono designati per
un periodo limitato (di 6 anni)?
Vorrei anche chiedermi se
davvero si possano lasciare le funzioni di Pubblico Ministero esclusivamente
nelle mani di uno che, sostanzialmente, è un funzionario e se non sia più
congruo affidarle o quanto meno co-affidarle a entità più competenti e
consapevoli[36].
Da ultimo, mi sembra che sui
diritti umani si faccia molta demagogia e non si voglia vedere la realtà, che
racchiuderei in un paradosso: il diritto dell’uomo è meglio tutelato là dove
gode già di un alto grado di protezione e non là dove necessita di una
qualsiasi protezione, perché del tutto inesistente, come nei regimi
dittatoriali.
Vogliamo affrontare fino in
fondo i nodi di questa problematica, cominciando dal riflettere sul fatto che le
attuali concezioni sono frutto di visioni liberistiche e borghesi e non hanno
quel grado di universale condivisione, che invece si finge che abbiano?
Molto c’è da dire e molto c’è
da fare. Soprattutto occorre ridisegnare il ‘modello’ di società, superando
l’astrattezza del concetto di Stato, e proponendo articolazioni veritiere e non
schemi logori e spesso forieri di finzioni.
Hoy el “modelo” de democracia está en crisis. Para
comprender las causas de ello, es necesario remontarse a la formación del
actual modelo de democracia
representativa y al rechazo del modelo de la Respublica populi romani. Uno de los nudos irresueltos es el del control del ejercicio de poder.
Considerado esencial ya desde los tiempos de la antigua Creta, constituyó el germen
de la organización ciudadana en Esparta y en Roma. Por ello, los pensadores que
fundaron las bases del estado contemporáneo invocaron las antiguas figuras de
los Éforos, de los Defensores civitatum
y, sobre todo, de los Tribuni plebis.
Como un pálido eco de ellas, y de las propuestas elaboradas a su alrededor por
pensadores como Pagano, Babeuf, Rousseau, Althusius, Rouzet, Sieyès, Schlegel,
se las puede vislumbrar en el Ombudsman de origen sueco y en las figuras
variadamente inspiradas en él (Mediadores, Abogados del Pueblo, Defensores
cívicos). Tras haber suscitado mucho entusiasmo, ellos hoy no parecen del todo
idóneos para dar respuestas y una “voz” al pueblo, porque tienen instrumentos y
tareas en buena parte inadecuados. Se está intentando establecerlos como
defensores de los derechos humanos, que son asimismo ambiguos. Se propone una
revitalización de estas figuras y, sobre todo, la construcción de un “modelo”
nuevo de democracia, que debe partir de la toma de conciencia del fracaso de la
división de poderes.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].
*
Riassumo qui la relazione di apertura del VI Incontro Ionico-Polacco svoltosi a
Warszawa il 14 maggio 2011 sul tema Democrazia rappresentativa o
partecipativa? Crisi della divisione dei poteri, organizzato dal CEDICLO –
Centro di Studi, Diritti e Culture Latine Pre-latine Latine ed Orientali –
dell’Università di Bari, dall’Associazione Noi
pure e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Lazarski di
Varsavia, con la collaborazione del Dipartimento di Bioetica dell’Università di
RYK, nel corso del quale si decise di dar vita alla Carta di Varsavia,
con l’intento di mettere a punto alcuni presupposti per la transizione verso
forme di società meno oligarchiche.
[1] Questa
esigenza appare indilazionabile, dinanzi al fatto che si è generato «un
pessimismo duro e compatto come una lastra di piombo. Il futuro non è più
quello di una volta, diceva il poeta Valéry. Oggi lo dice, pressoché
all’unisono, il popolo … Nessuna autorità, sia civile sia politica, riscuote
più il consenso del popolo … serve una terapia d'urto, non basterà qualche
aspirina. E la crisi di libertà, di giustizia, d'efficienza, di legalità che si
è rovesciata sull'Italia è altrettanto micidiale d'una guerra, perché ha
corrotto il nostro tessuto connettivo, il nostro paesaggio umano, cosí come le
bombe devastano il paesaggio naturale». Perciò occorre intervenire «Rompendo il
potere delle corporazioni, delle camarille, delle lobby, che sono un ostacolo
all'affermazione dei migliori. Ma al tempo stesso rompendo il potere dei partiti,
restituendo lo scettro ai cittadini, innervando la democrazia rappresentativa
con un'iniezione di democrazia diretta». Per fare ciò bisogna ridisegnare il
modello, partendo dal passato, perché «il rimedio era stato individuato nei
secoli scorsi dai nostri antenati, per poi cadere nell'oblio: l'esperienza
dell'antica Grecia può ancora impartirci una lezione». Comunque occorrono
rimedi radicali, che devono partire dallo smantellamento di quanto non ha
funzionato, fossero anche le leggi; riguardo alle quali occorre riandare a
quanto disse Voltaire, il quale, ricordando che «Londra divenne una città
ordinata dopo che un incendio la ridusse in cenere, obbligando i londinesi a
ridisegnare strade e piazze», preconizzò un cambiamento radicale, che partiva
dal mutamento delle leggi: «Volete buone leggi? Bruciate quelle che avete, e
fatene di nuove»: M. Ainis, La
cura. Contro il potere degli inetti per una Repubblica degli eguali, Padova
2009, XIV- XV.
[2] Sul punto, cosí come per la bibliografia che accompagna
le riflessioni qui esposte, rinvio al mio articolo Il controllo del potere:
ieri ed oggi, in Studi in memoria di Giuseppe Panza [cur. G. Tatarano e R. Perchinunno], Napoli, 2010, 713-737.
[3] Di ciò
è prova la stessa reiterazione dei tentativi di affidare a nuove figure il
compito di creare un collegamento tra governanti e governati.
[4] Sul
punto, richiamo a quanto ho già osservato in,
L'eredità dei «tribuni plebis», in [cur. Maria Pia Baccari e Cosimo Cascione] Tradizione romanistica
e Costituzione, diretta da Luigi Labruna. Collana «Cinquanta anni della
Corte costituzionale della Repubblica italiana», vol. II, Napoli, 2006,
1845 ss.; Le radici. Proposte, in L’avvocato del popolo albanese
[cur. A. Loiodice, S. Tafaro, N. Shehu],
Torino 2008, 3 ss.; cui adde N. Shehu,
Dall’Högste ombudsman all’avvocato
del popolo albanese, in L’avvocato del popolo albanese cit., 3 s.; S. Anderson, Ombudsman reserch
a bibliographical essay, in Ombudsman journal, 1982, 32 ss.; E. Bernardi, v. Ombudsman, in Nuovissimo
Digesto Italiano, Appendice V, Torino, 1982, 413 ss.; P. Birkinshaw, Grievances Remedies and
the State, Sweet and Maxwell, London, 1985, 127 ss.; P. Birkinshaw, Access to justice in the
privatized and regulated state, University Press, Hull, 1991, 68 ss.; D. Borgonovo
Re, Ombudsman in diritto comparato, in Digesto delle
discipline pubblicistiche, vol. X,
Torino 1995, 306 ss.; D. Butler, V.
Bogdanor and R. Summers, (Essays in Honour of Geoffrey
Marshall) The Law Politics and the Constitution, Oxford University
Press, 1999 chapter 13; T.R. Colint, The Polish Ombudsman in Review
of Socialist Law 14 (3), 1988; M.
Comba, Ombudsman, in Digesto
delle discipline pubblicistiche, vol. X, Torino, 1995, 296 ss.; R. Delfino,
L’«Ombudsman» come modello di «alternative dispute resolution» nel
settore privato, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile,
XLIX, anno 1995, 248 ss.; G. De Vergottini, v. Ombudsman, in Enc.
Dir., XXIX, Torino, 1979, 880
ss.; M. Doyle, The Essential Guide to Appropriate Dispute
Resolution, Paperback, 2000; G.
Drewry, The Ombudsman:
Parochial Stopgap or Global Panacea?, in Administrative Law Facing the
Future.Old Constraints and New Horizons (P.
Leyland and T. Woods eds.), Blackstone Press, London, 1997, 88 ss.; H. Fix
Zamudio, Reflexiones comparativas sobre el Ombudsman, in Memoria
de el Colegío Nacional de Mexico, 1979, 99-149; Id., Ombudsman, in Enciclopedia
giuridica Treccani, vol. XXI, Roma, 1990, 2 s.; A. Gil Robles-A. Delgado,
El control parlamentano de la administración (El Ombudsman),
Madrid, 1981; M. Radi, L’extension de l'Ombudsman:
triomphe d'une idée ou deformation d’une institution?, in Rev. Int. Des
Scien. admin., 1997, 530 ss.; W.
Haller, The place of the
Ombudsman in the world community, in Fourth International Ombudsman
Conference Papers, Canberra, 1988, 29 ss.; M.M. Lasage, Les
moyens non judiciaires de protection et de promotion des droits de l'homme,
in Atti Convegno Siena 28-30 ottobre 1982, Siena 1982, 35 ss.; A. Legrand,
Une institution universelle: l’Ombudsman?, in Rev. Int. Droit comp., 1973; E.
Letowska, The Polish
Ombudsman: The Commissioner for the Protection of Civil Rights, in International
and Comparative Law Quaterly 9 (1), Londres, 1990, 209 ss.; C. Mortati, L’Ombudsman-Il
difensore civico (scritti a cura di C.
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Giuffré, Milano, 1969; M.M. Padilla, La institución del
Comisionado parlamentano, Buenos Aires, 1972; M. Seneviratne, Ombudsman
in the Public Sector, Open University Press, Buckingham, 1994; Id., The European Ombudsman, in Journal of Social Welfare and
Family Law1999 21(3), 1999, 269-278; Id.,
Ombudsmen 2000 inaugural Lecture 17 april 2000, Centre for legal
Research Nottingam Law School, Nottingam, 2000 versione elettronica, 1 ss.; F. Stacey,
Ombudsmen Compared, Clarendon Press, Oxford, 1978.
[5] Dove
venne concepito come una delle istituzioni rivolte alla progressiva limitazione
dell’assolutismo del Re. In proposito si suole fare riferimento all’art. 96
della Costituzione del 1809, il quale previde, accanto al Justitiekansler,
un commissario parlamentare (Justitie Ombudsman), scelto tra persone di
comprovata capacità tecnica, imparzialità ed integrità, con il preciso compito
di controllare l’osservanza delle leggi da parte non solo dei pubblici
ufficiali, ma anche dei giudici, ed è munito del potere di citare in giudizio i
trasgressori. In realtà il suo nome risale a quasi un secolo prima e più
precisamente ad un decreto del 1713 di Carlo XII che, per l’appunto, istituí l’Högste
Ombudsman,
il cui atto di nascita infatti risiede in un decreto di Carlo XII del
1713 con il quale venne introdotto l’Högste Ombudsman.
[6] Il termine
adoperato (Ombudsman), alla lettera, significava ‘uomo che fa da
tramite’; perciò viene indicato anche con la parola ‘Mediatore’, la quale ha
trovato l’accoglimento più significativo in Francia dove fu istituito con la
legge n° 73-6 del 3 gen. 1973, più volte completata e/o riformata: dalla legge
n° 76-1211 del 24 dic. 1976, dalla legge n° 89-18 del 13 gen. 1989, dalla legge
n° 92-125 del 6 feb. 1992 e da ultimo dalla legge n° 2000-321 del 12 apr. 2000.
Da ultimo la Francia è andata oltre il mediatore, istituendo la Figura del Défendeur
des droits, attraverso la riforma costituzionale del 23 giugno 2008, seguita dalla legge organica no 2011-333
e dalla legge ordinaria no 2011-334 del 29 marzo 2011, la quale ha definito i
suoi poteri, unificando in un’unica figura il Médiateur de la République,
il Défenseur des Enfants, creato nel 2000, la Haute Autorité de
Lutte Contre les Discriminations (halde), creata nel 2004, la Commission Nationale de
Déontologie de la Sécurité (cnds),
creata nel 2000.
[7] A
Sparta fu creato l’Eforato, introdotto sul modello dei Cosmi
cretesi, secondo alcuni già dal mitico Licurgo, secondo altri più tardi (130
anni dopo) dal re Teopompo. Gli Efori, dotati di poteri vasti ed incisivi,
furono concepiti come freno alla prepotenza dell’oligarchia e dei re. La
ragione del crescente potere degli Efori risedette nel fatto essi venivano
eletti dal popolo e, per questo, erano visti come rappresentanti di esso e
quindi anche mallevadori dei diritti dei cittadini. L’ampiezza del potere degli
Efori venne bilanciata dalla durata molto breve (soltanto un anno) della
magistratura, e dal fatto di potere essere chiamati a rispondere del proprio
operato, allo scadere della loro magistratura.
[8]
L’istanza fondamentale della protezione dei deboli e della difesa dei diritti
del popolo sia per gli antichi sia per le età moderna e contemporanea, però,
non rimase ancorata all’istituzione spartana dell’Eforato, perché trovò
migliore ed efficace collegamento con il Tribunato della plebe. Il Tribunato
suscitò nell’antichità (ed ancora promana) forti suggestioni, non solo per il
fatto che nacque in Roma, i cui destini furono vincenti in tutto il mondo
antico e si sono proiettati direttamente nelle età successive, quanto perché evoca
l’immagine della contrapposizione tra popolo e potenti in maniera più diretta e
performante: la letteratura sul Tribunato della plebe è tanto copiosa da non
poterne dare riferimenti in questa sede, soltanto per una sintesi d’assieme,
rinvio ai manuali di Storia del diritto romano, tra i quali Aa. Vari, Lineamenti di storia del
diritto romano, Milano 1989, ed in particolare alle esposizioni di L. Capogrossi-F. Càssola, alle pagine
83 s. (Le vicende fino alle XII tavole) 177 ss. (I tribuni della
plebe).
[9] La
prima ideazione di organi in grado di controllare il potere forse risalgono
alla pacifica civiltà cretese, la quale, come ricordava Aristotele, ideò
l’istituto dei Cosmi, diretto al controllo del potere esercitato dai re.
[10] Sui
punti qui richiamati v. G. Lobrano,
Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino,
1996, cui adde dello stesso autore, Diritto pubblico romano e
costituzionalismi moderni, Sassari 1994.
[11] Per
tutti, anche per la bibl., G. Lobrano,
Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere cit.,
partic. parte A cap. I; parte B cap. I; parte C cap. II; sul punto (anche per i
riferimenti bibliografici), rinvio anche ai miei articoli cit. sopra alla nt.
4., dove risalgo alle radici ed alle motivazioni dell’Ombudsman svedese
e delle altre figure che, partendo da esso, sono sorte alluvionalmente.
[12] Per
tutti, v. G. Lobrano, Res publica
res populi. La legge e la limitazione del potere cit., 221.
[14] Al punto
che un delegato del Massachussetts dichiarò che la democrazia sarebbe stata il
peggiore dei mali: v. A. Aquarone,
Due costituenti settecenteschi, note sulla Convenzione di Filadelfia e
sull’Assemblea Nazionale Francese, Pisa, 1959, 17, citato da G. Lobrano, Res publica res populi
cit., 223, dal quale desumo i miei riferimenti e gran parte delle
considerazioni qui esposte.
[15]
Eccezion fatta per l’Inghilterra, che però ha una posizione a sé stante, dove
vi sono le giurie popolari, cui è demandata la decisione sul fatto, mentre ai
giudici compete la decisione sulle conseguenze di diritto del fatto.
[16] A dir
il vero la distinzione era già prospettata da Démeurier, ammiratore del sistema
rappresentativo inglese e statunitense, e, soprattutto, dall’aristocratico
Alexis de Tocqueville, il quale riscosse grande successo proponendo come
‘modello’ di democrazia la costituzione nord-americana, nella sua fortuna opera
De la démocratie en Amèrique (1835-1840): v. G. Lobrano, Res publica res populi cit., 239 s.
[17] Cfr.,
da ultimo, G. Acocella, Etica,
diritto democrazia. La grande trasformazione, Bologna, 2010, nello
specifico partic. 92, il quale denuncia l’inadeguatezza della ‘legge’, citando
Capograssi (uno dei pensatori più originali e fecondi dell’età contemporanea, cui
appartiene la parte che qui riporto in corsivo): «La volontà di ridurre sempre
e comunque ad una legge dello Stato - con i suoi doverosi caratteri di
uniformità generale ed astratta - eventi centrali dell'esistenza umana che
devono restare affidati alla non ripetibile unicità dell'esperienza umana (e
per questa stessa possibilità messa in condizioni di divenire comune), quando
proprio la legge viene spogliata dei suoi caratteri universali e comuni per
essere assoggettata a pulsioni individuali, significa che: Lo Stato quasi si
direbbe si scorpora dall'esperienza giuridica, si entifica in sé diventa
un’entità a sé stante perché non è :dirti che un apparato il quale ha il
monopolio e la specialità della forra e perché il diritto non è altro che
comando imposto con la forza. Lo Stato diventa il creatore del diritto e la
volontà di quella forza che si è impadronita di questo appagami diventa
diritto. Qui il distacco dell’esperienza giuridica dalla volontà profonda e
oggettiva dalla quale nasce diventa completa, si compie in modo perfetto,
perché qui questa volontà profonda ed oggettiva è negata radicalmente e con
essa s'intende negato tutto il mondo dell'esperienza nel quale essa si
manifesta e s'incarna. Tutto il mondo dell’esperienza è privato di ogni valore
suo proprio, non esiste più come valore autonomo, e come autonoma ragione di
vita, ed è oggetto della volontà arbitraria della forza che ha conquistato lo
Stato, che è riuscita ad impadronirsi di questo meccanismo di forze e di forme
che è lo Stato».
[18] Cfr.
l’illuminata sintesi compiuta da P.
Grossi, Società, diritto e Stato. Un recupero per il diritto,
Milano, 2006.
[19]
S’intende non perché se ne sottovaluta l’essenzialità e la rilevanza, bensí perché
consapevoli che esse sono già oggetto di attenta e circostanziata riflessione:
cfr. F. Fistetti, La svolta
culturale dell’Occidente. Dall’età del riconoscimento al paradigma del dono,
Perugia, 3a rist. 2010, cui rinvio per la bibliografia e di cui segnalo partic.
28 ss.
[20] Un
esempio illuminante è stato l’apporto dei giuristi per la tutela del
consumatore, contro i grandi potentati economici, tradottasi in normative a
differenti livelli, nazionali e dell’UE.
[21] Di essa
si era parlato in Italia al momento dell’emanazione della legge quadro sulla
tutela dell’ambiente: la prevedeva il disegno di legge del Governo, ma fu tolta
dal Parlamento!
[23] Per le
quali vi è da superare una griglia di difficoltà, sotto forma di requisiti
formali, essendo previsto: A ogni iniziativa sono concessi 12 mesi per la
raccolta del milione di firme richieste e i firmatari devono provenire da
almeno sette Stati membri. Un numero minimo di firme per Stato membro deve
essere raccolto, numero che varia secondo la popolazione. Per l'Italia è
54.000, per la Germania 74.250 e per Malta 3.750. Gli Stati membri hanno
l'onere di verificare la validità delle dichiarazioni a sostegno delle firme e
potranno scegliere quale tipo d'informazione sia necessaria affinché le firme
siano convalidate. Nella maggioranza dei casi, il numero della carta d'identità
è obbligatorio. I firmatari dovranno essere cittadini europei e in età di voto.
La procedura termina con la decisione della Commissione europea, da adottare
entro tre mesi dal completamento della verifica delle firme, se procedere o
meno con una proposta legislativa. Tale decisione dovrà essere resa pubblica.
[24] P. de Aranjo Ayala, O principio de
precauçao e a proteòao juridica de fauna na costituiçao brasileira, in Revista
de Dereito ambiental, 39 (julho-setembro 2005) 147 ss.; L. Boisson de Chazournes, Le
principe de précaution: nature, contenu et limites, in Le principe de
précaution. Aspects de droit
international et communitaire [cur. C. Leben-J. Verhoeven], Paris, 2002; P. Martin-Bidou, Le principe de
précaution en droit international de l’environnement, in Revue générale
de droit international public, 1999, 632 ss.; C. Raffenspergen-J. Tickner, Protecting Publich health and
the Environment. Implementing the Precautionary principle, Wshington, 1999;
N. de Sadeleer, Les principes
du polleur-payeur, de prévention et de précaution. Essai sur la genèse et la
portèe juridique de quelques principes juridiques du droit de l’environnement,
Bruxelles, 1999; O. Godard, Le
principe de précaution dans la conduite des affaires humaines, Paris, 1997;
T. O’Riordan-J. Cameron, Interpreting the precautionary
principle, London, 1994.
[25] Contenuta
nella Direttiva 97/11/CE, anticipatamente recepiti nell'ordinamento italiano
con il DPR 12 aprile 1996 e attualmente definiti dal Decreto l.vo 152/2006.
[26] Su di
esse v. S. Cera - D. Colangeli – F.
Paolella, Gli istituti alternativi alla giurisdizione ordinaria,
Milano 2007; G. Cabras – D. Chianese – E. Merlino – D. Noviello,
Mediazione e conciliazione per le imprese. Sistemi alternativi di
risoluzione delle controversie nel diritto italiano e comunitario, Torino,
2003.
[29] Per ora
costituisce una speranza occupazionale della sterminata massa di avvocati
esistente in Italia ed una fonte di guadagno immediato e facile per i tanti centri
organizzatori di ‘corsi’ per mediatori e conciliatori, sorti come funghi e
che attraverso improbabili percorsi formativi (di 50 ore, a contenuto
esclusivamente giuridico), secondo lo Stato italiano, dovrebbero potere formare
operatori della mediazione e conciliazione, fuori da un percorso di formazione
profondo ed innovativo. Va poi segnalato il tentativo, quasi riuscito, degli
avvocati di riservare a sé gran parte della mediazione, senza tener conto che,
per dover essere basata sull’equità e la ragionevolezza, essa forse può essere
svolta con maggiori possibilità di successo da esperti di altre discipline (a
seconda dei casi, da psicologi, operatori sociali, economisti ecc.).
[30] Non mi
sfugge il peso delle forze contrarie a ciò (da un lato quella degli stessi
giudici, dall’altro quella degli avvocati), né trascura l’impatto provocatorio
di quanto qui affermato in una società nella quale si ritiene che debba
intervenire un’Autorità per designare i giudicanti (persino nelle partite di
calcio, che sono materia di società private, non è consentito scegliere
l’arbitro agli interessati!..).
[31] Sul
punto, v. le conclusioni espresse da me nell’articolo Mediazione e
conciliazione: storia, origini, attualità, in La mediazione. Dalla
storia la creazione di valore, Napoli, 2011, 7-46.
[32] Invero
da noi i giudici accedono alla carriera attraverso un concorso meramente
teorico, a differenza, ad esempio, dei giudici inglesi, che provengono dalle
file degli avvocati con almeno 10 anni di esperienza forense.
[33] In
Inghilterra i giudici, come si è detto, sono scelti tra operatori del diritto con
esperienza almeno decennale.
[34]
Veramente io stesso, che pur mastico qualcosa di diritto, faccio spesso fatica
a comprendere le sempre più elaborate sentenze dei giudici.
[35] Secondo una lenta conquista iniziata nei confronti di Guglielmo II (sec. XI) e conclusasi nel 1701 con l'Act
[36] Come si può
ancora credere che un’unica persona soltanto perché giudice di carriera conosca
di ambiente, di salute, di questioni patrimoniali ecc.? Ad esempio, là dove
operino Onlus di riconosciuta competenza e che, magari, siano quelle che
denunciano il fatto offensiva di un diritto fondamentale, non sarebbe miglior
PM proprio una di quelle associazioni?