Il
dolo tra affetto ed effetto: Alberto De Simoni e la scienza penalistica
italiana della seconda metà del XVIII secolo
Università
di Sassari
SOMMARIO: Introduzione. – 1. Il
dolo nel pensiero illuministico. – 2. Il dolo nella dottrina penalistica italiana
alla fine del XVIII secolo. – 2.1. L’eredità
del diritto comune. – 2.2. Una prospettiva nuova: l’analisi
degli istituti dal punto di vista sostanziale.
– 2.3. Il contenuto volitivo del
dolo. – 3. Alberto
De Simoni. – 3.1. Il
dolo tra affetto ed effetto. – 3.2. La
colpa come sospetto di dolo. – 3.3. Il caso della moglie ghiottona: il grado di
previsione nel dolo intenzionale. –
3.4. La prova del dolo. – Abstract.
La
seconda parte del diciottesimo secolo rappresenta una fase essenziale nello
svolgimento storico del concetto di dolo. Perde ormai vigore la tradizionale
impostazione oggettivistica, legata alla originaria Doctrina Bartoli (è sufficiente per il dolo che la condotta
illecita rechi in sé la tendenza all’evento) e che culmina nel dolus indirectus di Carpzov (sono ritenuti abbracciati indirettamente dal
dolo non solo gli effetti considerati, ma anche, trattandosi di un fatto
illecito, quelli non considerati ma che avrebbero potuto, o almeno dovuto,
essere presi in considerazione). Tende allora ad affermarsi una effettiva
dimensione psicologica, e in particolare volitiva. Tutto ciò si lega a
sviluppi storico-sociali e politico-criminali, così come a nuovi influssi
filosofici (in particolare della Philosophia
practica universalis del 1739 di Christian Wolff).
I
protagonisti di questa nuova fase sono in Italia i giuristi-filosofi
dell’Illuminismo, ma anche nell’insegnamento universitario si
avvertono i segni di un mutamento di prospettiva. Afferma uno storico del
diritto, Ettore Dezza, con riferimento all’opera del criminalista Tommaso
Nani, che «i giuristi italiani della fine del XVIII secolo sono immersi
in cambiamenti che, coinvolgendo non solo il dato istituzionale ma anche la
mentalità, i costumi e lo stesso modo di vivere, sono destinati a
produrre una radicale trasformazione dell’intera società»[1].
Pur essendo tutti i giuristi dell’epoca in vario modo investiti dello
spirito riformatore settecentesco, è opportuno distinguere i
giuristi-penalisti dai giuristi-filosofi-politici che fanno della riforma del
diritto penale un capitolo del loro pensiero filosofico e politico[2].
L’analisi dei primi – oggetto del nostro lavoro – ci
dà un’idea del dolo come è studiato a quei tempi, vive nei
tribunali e si propone al legislatore; l’analisi dei secondi non solo di
ciò che è ma anche di ciò a cui si aspira in un contesto
sociale rinnovato[3].
Il
pensiero giuridico illuministico viene celebrato soprattutto per le sue
conquiste sul piano della certezza del diritto. In particolare nelle opere di
Montesquieu e di Beccaria e poi di Feuerbach, si trovano le radici
dell’idea della legge come strumento di tutela della libertà del
cittadino dagli arbitri sia dei giudici che del potere esecutivo[4].
Le
filosofie utilitaristiche dell’illuminismo rappresentano poi terreno
culturale propizio per lo sviluppo delle teorie relative della pena, con il
rifiuto di una metafisica della pena, l’ancoraggio di questa alla
realtà sociale e la fiducia nelle possibilità di formazione
pedagogico-sociale anche dell’uomo adulto. In particolare Cesare Beccaria
(1738-1794) afferma la necessità dell’abbandono di prassi punitive
disumane e di una riforma della giustizia penale nel senso della valorizzazione
della pena come mezzo di prevenzione. Paul Johann Anselm Feuerbach sviluppa poi
la funzione preventiva nel senso della prevenzione generale, sostenendo che con
la minaccia della pena si determina una costrizione psicologica
all’astensione dai reati. Sarà infine von Liszt a teorizzare
compiutamente lo svolgimento della funzione preventiva in senso speciale[5].
Le
funzioni della pena influenzano la teoria della colpevolezza.
Proprio
il collegamento con la funzione della pena è alla base della teoria
psicologica del dolo di Feuerbach[6].
E sempre questa funzione condiziona in vario modo, a partire da Beccaria, le
teorie della responsabilità dolosa nella dottrina italiana. E la
porterà a conclusioni differenti da quelle di Feuerbach, in virtù
di quell’eclettismo che si ritiene caratterizzi il pensiero giuridico
illuminista[7].
Mentre
è comune il riconoscimento a livello dottrinale e poi legislativo della
personalità della responsabilità penale come rifiuto della
responsabilità per fatto altrui, assai più variegate sono le
opinioni in che cosa il fatto proprio debba consistere, se a esso si addica
cioè una dimensione oggettiva o soggettiva.
Come
è noto, Beccaria, in coerenza a una concezione del reato meramente
utilitaristica, ripudia la tradizionale visione, di stampo romanistico,
dell’elemento soggettivo come misura dell’illecito penale: «… l’unica e vera misura dei
delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che
credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette»[8].
La “misura” dei delitti
è unicamente nel “danno
della società” (§ VIII) e dunque il fine della pena
«non è altro che d’impedire
il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini, e di rimovere gli altri dal farne
uguali»[9].
Le pene dunque sono «motivi
sensibili … che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si
affacciano alla mente per controbilanciare le forti impressioni delle passioni
parziali che si oppongono al bene universale»[10].
Come
sottolinea oggi Marinucci, «spostando l’accento di ciò che
può meritare il nome di delitto dall’”intenzione” al
“danno alla società”,
Beccaria forniva poi la “misura” primordiale – “l’unica
e vera misura” – di un diritto penale liberale: non più un
arnese da utilizzare per frugare e penetrare a forza nel “foro
interno”, bensì, innanzitutto, strumento di tutela della pace
‘esteriore’, dell’integrità dei beni individuali e
collettivi»[11].
L’insegnamento di Beccaria sulla “vera misura” dei delitti
trovo poi nel fondatore della scienza penalistica moderna, Feuerbach, il suo
divulgatore e codificatore[12].
Lasciato il ruolo di fondamento della responsabilità, l’intenzione ovvero
l’elemento soggettivo rappresentato ora dal “dolo”, dalla
“colpa grave” e dalla “colpa leggiera”, decide
unicamente del grado della pena da
ricollegare alla “azione esterna socialmente dannosa”[13].
E tutto ciò si lega a quella esigenza di proporzione punto fermo nella commisurazione della pena, e
presupposto perché la pena avvertita come giusta possa svolgere al
meglio la sua finalità preventiva[14].
Il
nesso tra finalità della pena e colpevolezza si iscrive in
un’epoca storica nella quale si consumano i postulati del diritto comune
in tema di dolo. Il terreno concettuale a disposizione è dunque assai
ampio. L’eredità lasciata dalla dottrina del diritto comune in
tema di elemento psicologico è infatti soprattutto di tipo pratico, una
indicazione di regole di ascrizione del dolo da riferire in particolare ai
delitti di sangue: può invece dirsi mancare fino a tutta la prima
metà del XVIII secolo «la sicurezza e la chiarezza dei principi in
ciò necessari per la giustizia»[15].
Alla base di tale mancanza: «la traslazione di regole proprie del Diritto
civile nel campo di quello penale, sia quanto al dolo sia quanto alla
determinazione dei gradi della colpa; le eccezioni per reati di natura politica
e per quelli detti atroci; la varietà dei criteri pratici per
determinare la natura del reato; l’arbitrio dominante; la
diversità delle consuetudini e delle leggi particolari, che dovevano
concordarsi col diritto comune; anche la influenza, non sempre tenuta nei
dovuti confini, dei concetti religiosi»[16].
È dunque ora necessario enucleare i principi fondamentali intorno ai
quali costruire, con rigore scientifico, una dottrina sistematica degli
elementi del reato, in particolare della componente psichica, che più di
ogni altra presta il fianco all’arbitrio dell’interprete[17].
Mentre
nella dottrina tedesca motivo conduttore è l’analisi e il
superamento della teoria del dolus
indirectus, con l’utilizzo di strumenti di tipo concettuale (il dolus eventualis) e processuale (la allgemeine praesumtio doli), il corso
della dottrina italiana dello stesso periodo è differente. Non che lo
scambio culturale tra le due dottrine non ci sia, soprattutto finché la
lingua scientifica comune rimane il latino: anzi, in particolare le Observationes selectae ad Benedictus
Carpzovi di von Böhmer sono un riferimento costante nelle
università e nelle opere scientifiche (anche italiane), così come
lo è l’opera di recupero, in funzione garantista, della tradizione
classica compiuta dal giurista tedesco-olandese Anton Matthes nel suo De criminibus[18].
Limitando
l’analisi all’oggetto della nostra indagine, i criminalisti
italiani della seconda parte del XVIII secolo procedono a un riordino del
concetto e delle varie forme di dolo così come risultanti dalla dottrina
italiana del diritto comune e attingendo ancora alle fonti romane e alla
filosofia greca, in particolare all’Etica
Nicomachea di Aristotele[19].
Mentre in passato l’allargamento della sfera del dolo intenzionale era,
spesso, volta a punire con la più grave poena ordinaria condotte non strettamente riconducibili a tale
forma intensiva di dolo, con i
giuristi italiani della seconda metà del ‘700, a partire da
Filangieri e De Simoni, le varie sequenze di intensità del dolo (e
più in generale delle diverse forme di colpevolezza) rispondono alla
logica di differenziare la responsabilità e dunque la sanzione. E
ciò per rispetto dell’individuo singolo e per evitare arbitrii da
parte del giudice.
Per il
dolo intenzionale è oggi irrilevante il grado di probabilità o
possibilità che l'agente ha attribuito al realizzarsi del suo obiettivo.
Il possibile concorso di cause, il fatto cioè che il fine programmato
non sia conseguenza certa e immediata della propria condotta, motiva invece,
allora, un diverso grado di imputazione soggettiva: una tendenza instaurata da
De Simoni, che in vario modo influenzerà Pagano e Carmignani, e che
sarà invertita, fino a corrispondere a quella di oggi, da Carrara.
Con la
decadenza dei sistemi di prova legale, strettamente raccordati con la
confessione e la tortura, il problema della prova del dolo, come degli altri
elementi del reato, è ben avvertito, ma esso non porta ad allargarne il
concetto o a fornirne presunzioni processuali, quanto piuttosto a sviluppare
una teoria degli indizi, e più in generale della stessa struttura del sistema
probatorio, che occupa ampi spazi al fianco delle (e non più
immedesimato nelle) stesse opere istituzionali sul diritto criminale: basti
pensare alle Animadversiones ad
criminalem jurisprudentiam pertinentes di Paolo Risi, al De indiciis eorumque usu in cognoscendis
criminibus di Tommaso Nani e alla Logica
de’ probabili di Mario Pagano; ma anche alla monografia di Alberto de
Simoni Dei delitti considerati nel solo
affetto ed attentati. Lo studio della natura e della struttura del dolo
avviene nella fase denominata comunemente, dalla gran parte dei criminalisti,
della “imputabilità”,
mentre l’accertamento appartiene alla fase, distinta ma collegata, della
“imputazione”. Nella fase
della “imputabilità”, la nostra colpevolezza, i giuristi
italiani di allora comprendono lo studio, spesso indifferenziato, oltre che del
dolo e della colpa, anche di quelle che noi oggi identifichiamo e come suitas (coscienza e volontà
dell’azione od omissione) e propriamente come imputabilità
(capacità di intendere e di volere ex
art. 85 c.p.). L’essenza della “imputabilità” è
la “volontarietà”: tutto ciò che pertiene a essa
– sia per fondarla che per escluderla – rientra in questa fase.
Anche alla colpa inerisce un profilo
di volontarietà; inoltre la ratio della sua punizione è
ravvisata, secondo una tradizione che va da De Simoni a Carmignani e a cui
porrà fine Carrara, nel sospetto
di dolo.
Nell’oggetto
del dolo rientra anche la violazione
della legge. Abbiamo visto come con Feuerbach la conoscenza della legge
penale fosse funzionale al meccanismo della imputazione soggettiva peculiare
del giurista tedesco. Ma il collegamento psichico con la legge non è
proprio solo di chi attribuisce alla pena una finalità generalpreventiva
ma anche di chi riconosce in essa una funzione retributiva. Si è osservato,
infatti, che la scienza giuridica dell’ottocento non riesce a svincolarsi
da una concezione del dolo fondata su uno stretto collegamento tra funzione
retributiva della pena e “volontà ribelle” espressa nella
singola manifestazione criminosa[20]:
la pena deve tendere alla riaffermazione del diritto, colpendo la
volontà ribelle in base al grado e alla intensità
dell’intenzione criminosa[21].
Il riferimento alla volontà contraria alla legge era tradizionale nei
giuristi italiani del diritto comune, in ossequio al concetto di dolo
romanistico per cui era necessaria “ein
unmittelbares Wollen der Rechtswidrigkeit”[22].
Adesso però si fonda non solo su ciò ma anche sull’etica
dell’intenzione teorizzata da Kant[23],
secondo il quale cioè l’etica non richiede una asettica
conformità al dovere, quanto piuttosto la convinzione interiore che
è giusto fare ciò che la legge comanda (e il giudizio etico si
basa alla fine sul valore delle intenzioni, indipendentemente dal risultato che
esse producono nel mondo). Mentre poi nel diritto comune la violazione della
legge si accoppiava pressoché immancabilmente alla “volontà
malvagia” dell’autore del reato, data l’assoluta
preponderanza dei delitti c.d. naturali (e in particolare di quelli contro la
persona, il patrimonio e l’autorità), e rappresentava in
definitiva un tutt’uno con il rimprovero morale[24],
ora, a partire dalla seconda metà del settecento si inizia ad avvertire
il disagio del mantenimento del dogma dell’assoluta inescusabilità
della legge penale, a causa dell’estensione del numero delle fattispecie
penali, dell’attribuzione di rilevanza penale al delitto colposo e del
manifestarsi, ben più frequente, delle figure di reato omissivo. Da
parte di alcuni autori – in particolare Mario Pagano[25]
– la coscienza dell’antigiuridicità si pone al di fuori del
dolo e si distingue il rimprovero in base al tipo di leggi violate e dunque
alla possibilità di conoscenza di esse[26]:
questa impostazione non è solo aspirazione dottrinale ma trova
accoglimento nella codificazione penale napoletana del 1808.
L’impostazione
volontaristica avrebbe dovuto guidare anche la soluzione nel senso della
colpevolezza della disciplina degli effetti ulteriori non voluti di una
condotta dolosa, ipotesi centrale del dolo nel diritto comune. Ebbene, qui le
soluzioni sono variegate: si ricorre al concetto tutt’altro che nuovo di
prevedibilità o si ammette senz’altro l’imputazione
dell’evento più grave, bastando la volontà della
condotta-base illecita. Così accade anche nelle codificazioni: il codice
napoletano del 1808 stabilisce l’imputazione a titolo di dolo del fatto,
a condizione che fosse possibile prevedere l’effetto ulteriore; il codice
delle due Sicilie ammette una forma di imputazione meramente oggettiva[27].
Si è rilevato che non poche codificazioni penali, a partire dai primi
decenni dell’Ottocento, hanno rinunciato sì a qualificare
espressamente come doloso l’effetto ulteriore non voluto, ma al contempo
hanno omesso di indicare la necessità di un qualche coefficiente
psicologico rispetto a questo più grave effetto. In tutto ciò vi
è un regresso storico: si abbandona il dolus indirectus e si lascia il campo al versari in re illicita (alla mera responsabilità oggettiva)[28].
Oggi i
reati ‘a formazione giudiziaria’, definiti «tristi simulacri
della legalità trasmigranti dall’antica congerie dei nomina delicti e cioè reati
sprovvisti di un corpus e rimessi ad
un incontrollabile apprezzamento giudiziario»[29],
sono indicati come il segno tangibile della crisi che investe il dogma della
strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale[30].
Fattispecie sostanziali concepite in vista del procedimento per accertarle,
delle prove, delle facoltà del giudice, erano invece i cardini del
diritto penale ‘a dimensione processuale’ tra il XIII e il XVI
secolo[31].
La
giustizia penale veniva composta dai giuristi nelle practicae, un intricato ma ingegnoso sistema, utile per i giudici e
produttivo, nel tempo, di un diritto penale nuovo. Il sistema era ispirato alle
seguenti linee metodologiche: «centralità del processo e del
giudice, diritto penale misurato sulla tela giudiziaria, fattispecie costruite
intorno ai modi di provarle, categorie penali (imputabilità,
responsabilità penale, rapporto di causalità, colpevolezza,
circostanze, tentativo, concorso, ecc.) elaborate a partire dalla
commisurazione delle pene»[32].
Le practicae criminales servivano a
legittimare la procedura e dettavano al giudice la decisione davanti alla
infinita varietà di casi che gli si presentano. L’utilità
della pratica è bene espressa nelle parole di Ippolito Marsili: «Parum prodest habere theoricam ipsarum
causarum criminalium sine practica». Il giurista del tempo fondeva
allora scienza ed esperienza in un’opera sola, destinata agli artifices iustitiae: il modello divenne
per tutti il Tractatus de maleficiis di
Alberto da Gandino. Ne derivò quella che Sbriccoli definisce “una
sorta di ordito”, composto da prassi processuali e percorsi giudiziari,
sul quale ordito si dispone una trama di figure delittuose intricate a esso con
una fittissima rete di casi, fattispecie, circostanze; di definizioni, principi
giuridici, massime e opinioni comuni, quaestiones
et dubia; di tipologie indiziarie, modi e gradi di prova, tecniche di
escussione, modelli e formule di procedimenti, di interrogatori, di sentenze.
Il tutto con lo scopo di misurare su ogni singola figura l’an, il quomodo e il quantum della
pena da applicare[33].
E’ un diritto penale ‘casistico’, che segue un modello
logico-giuridico di derivazione scolastica perfettamente aderente alle
caratteristiche di un’esperienza giuridica per nulla abituata a ragionare
secondo schemi astratti: spesso le singole circostanze di realizzazione
dell’illecito erano criteri di identificazione di un delitto. Obbiettivo
principale, se non unico, delle practicae
era quello di fornire esempi, offrendo soluzioni per le future controversie[34].
Le practicae erano sì orientate al
processo, “pensate per i giudici”, ma contenevano in nuce principi e dogmi di diritto
penale sostanziale[35].
Il diritto penale che emergeva nelle practicae
rappresentò la base di avvio per prassi ulteriori, costruendo un
diritto penale sostanziale che mostrasse la regula
recti a un potere di punire naturalmente tentato dall’abuso. La
scienza penalistica, legata alle fonti romanistiche e statutarie, fedele al
metodo analitico, mancava della capacità di sintesi e soprattutto non
sentiva la necessità di riunire i singoli elementi in un sistema chiaro,
deduttivo, basato su criteri generali e astratti applicabili in tutti i casi[36].
Le
forme di allargamento del concetto di dolo rispetto alla base intenzionale di
origine romanistica nacquero dunque in un sistema casistico, si ponevano cioè
come criteri di accertamento (come regole
di ascrizione di esso in sede processuale) e solo il loro consolidarsi
nella pratica gli attribuì alla fine natura sostanziale. Struttura e
accertamento del dolo divennero realtà interdipendenti, quando non la stessa
cosa[37].
Già
nella seconda metà del Cinquecento affiorano i primi segnali di un
approccio nuovo al diritto penale[38].
Ora la scienza penalistica inizia a concentrarsi sul diritto penale
sostanziale, analizzando istituti, elementi e delitti in modo separato e
autonomo dal loro ruolo processuale. Accanto all’esigenza politica di
superare lo stile casistico, la dottrina segnala, quali ragioni di questo
cambiamento, le influenze metodologiche della scuola umanistica, i nuovi stili
della didattica e la conseguente comparsa di una letteratura penalistica che,
commentando passi giustinianei, focalizza l’attenzione sui temi sostanziali[39].
Si creano così presupposti e condizioni per la separazione del diritto
penale materiale da quello processuale, prospettando la strumentalità
del secondo rispetto al primo. L’autorità pubblica, per
consolidarsi, ha bisogno del diritto penale: legislatore e scienza giuridica
scoprono e sfruttano l’efficacia generalpreventiva del diritto penale
sostanziale, le sue potenzialità di ordine e di indirizzo dei
comportamenti sociali. Esigenze di razionalizzazione e semplificazione
dell’assetto espositivo si incontrano con l’interesse preferenziale
del Princeps per il diritto penale
sostanziale, «capace di tradurre direttamente in precetti coercitivi le
sue volontà imperative e velleità dominative»[40].
Il
più alto livello di razionalizzazione e chiarezza si ritiene venga
raggiunto da Tiberio Deciani nel suo Tractatus
criminalis (1590), opera basata su due pilastri fondamentali: la
separazione del diritto penale sostanziale da quello processuale e
l’elaborazione di una parte dedicata ai generalia del delitto, ai principi e alle regole del reato come
concetto astratto[41].
L’opera di Tiberio Deciani pur dall’interno della riflessione
tradizionale, si pone come la fine di un percorso: porta a compimento un lento
itinerario di maturazione dommatica e segna nel contempo l’inizio di un
discorso destinato a continuare nel tempo[42].
Questa
evoluzione in sistema del diritto penale è un processo lento. Avviato da
Baldo degli Ubaldi e soprattutto da Tiberio Deciani, il processo si compie con
i criminalisti operanti a cavallo tra XVIII e XIX secolo, i quali –
influenzati non superficialmente dal pensiero giusnaturalistico e illuminista
– sono attivamente volti alla sistemazione razionale e al rinnovamento
scientifico del diritto penale, attraverso il superamento dei più
vistosi difetti dell’Ancien
Régime[43].
Oltre a essere impegnati nell’insegnamento universitario, molti di loro
sono protagonisti attivi dell’opera di codificazione.
La
dottrina del dolo si forma attraverso lo studio delle fonti del diritto comune
italiano e tedesco (è ben presente il passaggio da Carpzov a
Böhmer), operando un richiamo costante ai frammenti del diritto penale
romano e con la conoscenza della filosofia greca, in particolare di Platone e
di Aristotele.
Con
giuristi come Paolo Risi, Filippo Maria Renazzi, Luigi Cremani, Alberto De
Simoni e Tommaso Nani[44],
si compie quell’evoluzione in sistema della materia penale a cui aveva
dato inizio Tiberio Deciani elaborando, come appena visto, nel suo Tractatus criminalis (1590) una parte
dedicata ai generalia del delitto, ai
principi e alle regole del reato come concetto astratto, separato e autonomo
dal processo.
Il
disegno formale delle trattazioni di questi autori è a grandi linee il
medesimo: si parte da una definizione di delitto, se ne esaminano gli elementi,
si prospettano i motivi che ne possono determinare l’esclusione e le
circostanze che possono accompagnarlo. Questo schema non rimane solo teoria.
Infatti analogo è il disegno, anche rispetto all’elemento
soggettivo, che poi si ritroverà nel progetto di codice penale lombardo,
progetto che ci porta direttamente alle sorgenti della codificazione penale in
Italia[45].
La
natura del delitto viene così descritta da Renazzi: «Delictum est humana actio externa, ab
interna dependens, homini conscia, libera, consilio facta, ideoque imputabilis,
sive immediate sive mediate perfecta, societatis tranquillitatem et sociorum
securitatem ac commoda laedens»[46].
Il principio di materialità, che
anche oggi svolge nel nostro sistema la prima funzione di delimitazione
dell’illecito penale[47],
trova compiuta espressione già nelle Animadversiones
di Risi. Il delitto è un fatto: un mero stato soggettivo non è
competenza del diritto penale: «Delictum
est factum sponte dolo, vel culpa admissum, quo jus alterius laeditur. Ac
delictum quidem factum esse oportet … Qui si in mente tantum, animoque
consistant, neque usquam excurrant, unico Judice, & Vindice Deo utuntur»[48].
Con
una commistione tra quelle che oggi sono la suitas
(coscienza e volontà della condotta, art. 42 comma 1 c.p.),
l’imputabilità (capacità di intendere e di volere, art. 85
c.p.) e il dolo (previsione e volizione dell’evento, art. 43 comma 1
c.p.), si afferma che il fatto deve essere prodotto della volontà,
cioè commesso spontaneamente e liberamente. La volontarietà
dipende in parte dall’intelletto e in parte dalla libertà.
Innanzitutto è necessario che l’agente abbia cognizione della
realtà e sia in grado di poter giudicare tra il bene e il male. Tra le
più possibilità che gli offre la conoscenza egli esercita la
propria facoltà di scelta dirigendo le forze della mente verso il moto
fisico degli organi del corpo: in ciò consiste la humana libertas. Secondo Cremani, questa è la plena voluntas a cui corrisponde il perfectum delictum e la ordinaria
sanzione. Quando invece manchi la cognitio
e la relativa possibilità di iudicium
per una causa “evitabile” (ab
illo superari poterat), l’azione si giudica minus voluntaria e si realizza un delitto minus plenum, detto anche quasi
delictum, da punire con pena più mite (extraordinaria). Infine l’azione è del tutto
involontaria quando la cognizione e il relativo giudizio manchino per una causa
invincibile, come una violenza o una coazione o per simili motivi. In
quest’ultimo caso non si è più in presenza di un delitto e
il danno è da attribuire al fato[49].
Il
contenuto volitivo del dolo è così descritto dal successore di
Cremani nella cattedra pavese, Nani: «La determinazione della
volontà dipende dall’agire la medesima per un principio intrinseco
della sua attività e dall’avere una forza elettiva regolatrice
delle sue operazioni per cui fra gli oggetti rappresentati
dall’intelletto siasi scelto quello che si poteva rifiutare»[50].
Sia in Cremani che in Nani è evidente (e da Cremani espressa in nota) la
derivazione di questo contenuto psicologico dall’Etica Nicomachea di Aristotele[51].
Ancora più manifesta tale radice in questo assunto di Nani:
«Determinandosi la volontà colla spinta dell’appetito e con
i calcoli della ragione, se un’azione intraprenda pel solo impulso della
facoltà appetitiva comune a tutti gli animali, senza che abbia potuto
preagire la facoltà raziocinativa, vi mancherebbe la deliberazione e
conseguentemente una vera determinazione della volontà»[52].
Per
Renazzi, la differenza tra dolo e colpa sta nel fatto che al primo inerisce il propositum delinquendi, mentre alla
seconda l’imprudentia: anche la
colpa si reputa generata dalla voluntas,
nel senso che chi è “avvolto” (irretitur) dalla colpa “in
se habet agendi principium”[53].
Più avanti si dirà che sia il dolo che la colpa inficiano la
“rettitudine dell’azione”, ma per il dolo ciò avviene
per un “vizio immediato della volontà”, mentre per la colpa
la causa immediata sta in un “vizio vincibile
dell’intelletto”. Vi è dolo quando si sia voluto
l’evento come effetto necessario degli atti intrapresi; colpa quando
l’evento «si reputi voluto come un effetto possibile
dell’azione deliberata»[54].
L’ignoranza (alla quale viene parificato l’errore) esclude ogni
responsabilità solo quando sia essenziale, involontaria e invincibile:
altrimenti l’agente è in colpa e risponde del fatto compiuto. Culpa è invece sempre presente in
coloro «qui in re illicita operam
dantes ignoranter delinquunt»: essi pertanto non sono scusati per i
delitti che si verifichino per caso (forte).
L’ignoranza di chi versi in tale situazione è da ritenere sempre
“accidentale” (= non essenziale), giacché basta «in rem criminosam in genere consensisse»[55].
Ormai
superata la vecchia distinzione tra dolus
bonus e dolus malus, non viene
accettata neanche la distinzione tra dolo
personale e dolo reale. Il dolo
infatti – come chiarirà ancora soprattutto Pellegrino Rossi[56]
– è solo “personale”, nel senso che si ritrova
nell’animo di chi delinque e non nel fatto materiale, come invece
riteneva chi in passato aveva riferito il frammento del Digesto in cui viene
citato il dolus in re ipsa a un
ambito estraneo a quello suo originario, strettamente privatistico (proprio del
settore delle obbligazioni). Ciò non esclude che vi possano essere
azioni che, per le modalità del loro compimento, consentano di inferire
con maggiore facilità il dolo[57].
Un’altra distinzione in tema di dolo concernente il profilo probatorio
era quella, mantenuta ancora da Tiberio Deciani, tra dolus verus e dolus
praesumptus, secondo la quale cioè l’intensità del dolo
si misurerebbe in base al grado di accertabilità processuale: più
è semplice la prova del dolo, maggiore sarebbe la responsabilità
e dunque la pena. Questa distinzione
viene contestata, da Renazzi, perché possibile fonte di confusione e
perché rischia di scomporre l’unitaria categoria del dolo. Egli
chiarisce che la divisione in vero e presunto non incide sulla sostanza comune
del dolus – a cui attribuisce
il significato di “animum
delinquendi, propositumque, quo homines delinquunt” – ma serve
per distinguere le specie di argomenti probatori: il tipo di comportamento
doloso penalmente rilevante è uno solo, è l’actio interna che si cela
nell’animo di chi delinque e che sfugge alla vista dell’uomo, e
dunque il dolo è semper
praesumptus poiché può essere inferito unicamente da indicia et argumenta che rivelano
esternamente la voluntas[58].
Renazzi
propone a sua volta una distinzione per il giudice in sede di commisurazione
della pena, affiancando i motivi al dolo. Egli distingue a seconda che l’animus dell’agente sia mosso da nequitia o da impetus adfectuum. In entrambi i casi c’è il consilium delinquendi e dunque il dolo:
«sed in primo casu consilium
delinquendi considerate, et plena voluntate initum est, in altero autem casu
animo vi adfectuum commuto, atque impulso id consilii est susceptum»[59].
Il giudizio è più severo quando non sono gli affetti (ira, amore,
ubriachezza) a eccitare a delinquere, ma è la improbitas che porta a cercare le occasioni per delinquere[60].
E nel giudizio sui motivi si cela dunque una valutazione della persona
dell’autore.
La
posizione di Renazzi si inserisce nella comune preoccupazione dei giuristi di
non lasciare impuniti ma di considerare investiti da una forma minore di dolo i
fatti commessi sotto l’impeto di violente passioni; sempre che queste
“passioni” non siano eticamente riprovevoli[61].
Nella cultura giuridica del tempo è profondamente radicata l’idea
che l’imputabilità sia un presupposto imprescindibile del dolo e
dunque il giudizio sulla volontarietà dell’azione è
direttamente collegato alla maturità, allo stato psichico, fisico ed
emotivo del soggetto agente[62].
Anche la stessa disciplina dell’ignoranza e dell’errore (di fatto e
di diritto) si trova affiancata a quelle che oggi definiamo propriamente cause
di esclusione dell’imputabilità (minore età, vizio di
mente, ubriachezza, ecc.) perché il difetto cognitivo che ignoranza ed
errore cagionano si riflette a sua volta sulla volontarietà
dell’azione. E tra le cause che escludono questa volontarietà
rientrano non solo fatti interni ma anche circostanze esterne come la violenza
fisica e quella morale e la forza maggiore[63].
Suitas, imputabilità e dolo
sono elementi di quella che alcuni chiamano “parte interna”, altri
“forza morale” dell’atto e altri ancora, più
comunemente, “imputabilità”, e che in definitiva, come
detto, corrisponde alla nostra colpevolezza.
Con il
termine “imputabilità”
dunque si intende «la qualità o sia l’attributo di un’azione
riguardata nelle essenziali sue relazioni alla legge ed alla persona
dell’agente»[64].
E “imputazione” a sua
volta è «il giudizio pel quale un’azione si attribuisce
all’agente come causa morale degli effetti che derivando
dall’azione stessa manifestano la violazione della legge». E questa
“causa morale” è
proprio il “dolo in senso criminale”,
cioè «la volontà di commettere l’atto proibito o di
omettere il comandato».
Infine,
quando dall’azione direttamente voluta sia derivato un ulteriore effetto
non voluto si prospettano – secondo Nani – tre casi[65]:
a) La
prima ipotesi è quella che l’azione direttamente voluta sia di per
sé un delitto e l’effetto verificatosi abbia una connessione tanto
immediata con l’azione medesima che venga in certo qual modo a formare
“unità d’azione” con essa. In questo caso –
secondo Nani – «la imputabilità che n’emerge è
quella del delitto voluto con deliberazione», una intensità del
dolo dunque massima.
b)
Può accadere poi che ugualmente l’azione direttamente voluta sia
un delitto ma l’effetto non voluto sia conseguenza solo possibile di
questa azione, senza cioè che si abbia quella immediata connessione di
cui al caso precedente. In questa ipotesi la sanzione deve essere quella inferiore
del “delitto semplicemente volontario”.
c)
Quando invece l’azione-base non abbia natura di delitto, ma
l’effetto avvenuto si doveva prevedere come una possibile conseguenza
della propria azione, tale effetto è da ritenere colposo.
Alberto
De Simoni (1740-1822) rappresenta una figura di primo piano della cultura
giuridica penale (e non solo) della fine del XVIII secolo ed è
l’unico autore in quel periodo di uno studio monografico
sull’elemento soggettivo [66].
Nelle sue opere si ravvisano i tratti di un sentire comune in tema di
colpevolezza dolosa: ne approfondiremo i concetti essenziali anche nel loro
successivo svolgimento critico.
De
Simoni chiarisce nell’introduzione dell’opera “Dei delitti di mero affetto”
(1783) l’oggetto del suo studio: come per gli altri giuristi del suo
tempo, rimangono fuori dalla competenza del diritto penale «gli atti
nella sola intrinseca loro natura criminosi come concepiti dal solo, e nudo
pensiero», e sono invece oggetto di interesse «gli atti interni, in
quanto influiscono negli esterni»[67].
Se
è vero dunque che cogitationis
poenam nemo patitur, è d’altro canto indiscutibile che il mero
fatto delittuoso non è certo in grado di esprimere l’essenza della
responsabilità penale. Criticando
i giuristi del passato, e in particolare Carpzov «che colle sue opinioni
ha pur troppo fin’ora regolata la vita, e la fortuna degli uomini presso
quasi tutti i tribunali», De Simoni sostiene che l’essenza dei
delitti va cercata nella “moralità delle azioni”,
cioè nell’elemento psicologico. Innanzitutto, contro il possibile
arbitrio del legislatore, egli contesta che la natura del delitto vada
rapportata solo alla violazione di una legge che non tenga nel dovuto conto gli
“intrinsechi rapporti di moralità dell’azione
criminosa”[68].
Senza citare espressamente Beccaria, ma con forte tono critico (e forzandone
gli assunti), ne rifiuta fermamente l’idea secondo la quale la
“misura” del delitto sia segnata dal “danno derivato alla
società”, ponendo in rilievo gli effetti assurdi di una tale
impostazione, che potrebbe portare a punire in virtù del “danno
alla società” anche “fanciulli” o
“mentecatti” o chi cagioni un effetto per puro accidente “pur
agendo con la più retta intenzione”: «e così le
azioni criminose nel solo loro effetto materiale, verrebbero nella loro solo
materiale influenza, e non nel loro morale principio punite»[69].
In realtà, come abbiamo visto, a Beccaria non sfuggiva affatto la
distinzione tra il fondamento del diritto di punire, il danno sociale, e il
grado della pena, nella cui commisurazione ben rientrava la considerazione del
diverso atteggiamento psicologico. Dichiarando di approvare invece quanto
sostiene sempre in quel periodo Antonio Genovesi (nel De jure et officiis del 1765), che cioè non solo la lesione
del diritto ma anche la prava voluntas è
misura dei delitti, per De Simoni «le azioni esteriori sono come un
composto dell’atto esteriore del corpo, e dell’interiore movimento
dell’animo, e atto della volontà dell’agente; il primo come
materia visibile della forma del secondo per se invisibile, e che non
può cadere sotto i sensi». E tutto ciò in relazione con la
natura stessa delle leggi, che indirizzano i loro precetti alla volontà
degli uomini. Secondo l’impostazione dell’epoca, l’imputabilità, cioè
“la qualità intrinseca dell’azione rispetto al principio o
causa che l’ha prodotta”, dà causa all’imputazione, “la qual non è
che un atto del legislatore, o giudice, o di ogn’altro, che mette
attualmente a conto altrui l’effetto di un’azione, la quale di sua
natura è tale che può essere imputata”[70].
L’impostazione
volontaristica, accanto a esigenze di prevenzione generale, e ferma
l’univocità degli atti, rendono poi necessaria la punizione dei
“delitti arrestati nel mero affetto”: «la sola rea
volontà, e intenzione ancorché non abbia per qualche accidente
ottenuto il premeditato effetto, per se stessa diviene criminosa, e degna della
persecuzione delle leggi, che vegliano intorno la pubblica, e privata
sicurezza, e tranquillità tosto che esteriormente ha dato non equivoche
prove di se stessa». La società se da un canto non può
permettersi di aspettare gli effetti di una “rea volontà”,
d’altro canto deve ricorrere a «pene proporzionate, e calcolate ai
gradi di forza politica, che più, o meno si accostavano
all’effetto», e dunque il tentativo va punito con pena inferiore[71].
Dunque una impostazione mista del
tentativo, che fa leva sì sulla manifestazione di volontà
contraria alle leggi, ma che differenzia comunque il trattamento sanzionatorio
del delitto tentato rispetto a quello consumato proprio per la mancanza
dell’effetto.
Sia
l’affetto che l’effetto costituiscono misura dei delitti: «quegli stessi
interni rapporti di moralità vengono calcolati dalla considerazione
dell’effetto civile dei delitti medesimi, o realmente seguito, o
ragionevolmente temuto». La ragione del peso attribuito all’effetto
nella misura del delitto sta anche – per De Simoni – nella
difficoltà di accertamento dell’elemento interiore: «qualche
volta riesce difficile, e fors’anche impossibile discernere, e calcolare
esattamente le interne moralità, ossia l’interno morale principio,
che ha fatto agire colui, che è trascorso a qualche criminoso eccesso
per stabilire con preciso calcolo, se avvi più d’imprudenza, o
più di trasporto, o più di doloso disegno». Così, in
ossequio al romano “delinquitur aut
proposito, aut impetu, aut casu”, sono segnati anche i gradi della
“imputabilità”, ma quando non vi sia certezza della
sussistenza del dolo, cioè «dove ha luogo il dubbio la ragion
vuole che si presuma l’effetto cagionato piuttosto dall’imprudenza,
che dal trasporto, e da questo piuttosto, che da un vero premeditato
disegno»[72].
La forma pura di dolo – come vedremo – è solo quello di
proposito: per risolvere i casi di dubbio non si allarga il concetto di dolo o
si ricorre a presunzioni di dolo ma piuttosto si preferisce presumere un grado
inferiore di colpevolezza quale la colpa. La colpa (imprudenza) dunque viene punita
non quale forma propria di colpevolezza ma come sospetto di dolo e il richiamo
alla volontarietà ha lo scopo di assimilazione
della colpa al dolo.
De
Simoni inizia la sua analisi dedicata specificamente al dolo (Capo IX)
criticando la confusione sempre esistita tra dolus bonus e dolus malus
e dunque l’identificazione del dolo con la frode: per gli stessi Romani
il dolo altro non è che intenzione[73].
Oggetto
di critica è poi la distinzione tra il dolo vero e manifesto e il dolo
presunto, usata in realtà con diverse accezioni. Alcuni per
“dolo vero” intendevano il dolo chiaramente risultante dal delitto
commesso e per “presunto” quello che non si può dedurre che
da indizi e congetture; altri chiamavano “dolo vero” quello
riguardante le “commissioni criminose” e “dolo
presunto” quello delle “omissioni”; taluni infine ritenevano
altro il dolo vero presuntivamente
provato e altro il dolo presunto
veramente provato. Respingendo la dimensione solo processuale del dolo, De
Simoni giudica “frivole, inette, e vane” queste classificazioni,
giacché «o il dolo si considera nel suo senso astratto, o in
concreto; nel primo egli è sempre vero perché formato dal
proponimento dell’animo, e dal concorso della volontà, e dell’intenzione;
nel secondo o è stato ritualmente con que’ argomenti, de’
quali è capace la sfera dell’umana cognizione provato il dolo, e allora sarà sempre un dolo vero, e manifesto, o non è stato con sufficienti argomenti provato,
e allora si deve attribuire un fatto piutosto o alla sola colpa, o al caso».
Il dolo data la sua natura di “interno principio” non si può
accertare che tramite indizi e congetture tratte dal fatto esterno (le massime
di esperienza del linguaggio odierno), e dunque è in un certo senso
sempre vero e presunto insieme: «vero in astratto, cioè nei
caratteri morali che lo costituiscono, e presunto nella maniera, con cui giusta
l’umana certezza possibile è stato dedotto, e provato»[74].
Superate
queste classificazioni, e affermata la natura sostanziale del concetto, De
Simoni definisce il dolo «un
affetto dell’animo, che porta l’uomo, o attualmente, o abitualmente
ad un atto, o ad un’azione opposta alle leggi, e pregiudizievole alla società nel suo oggetto e nel suo affetto»,
e ancora poco più avanti «il dolo adunque che è quel dato
punto di moralità civile, su cui è appoggiata la ragione
imputabile, è la forma morale di ogni delitto in quanto è
necessario che vi concorra la volontà, e l’intenzione
dell’agente, senza cui sarebbe ogni delitto effetto accidentale del solo
caso, e della fortuna, a cui, come dice Platone, non può il legislatore
prescrivere leggi, e limiti»[75].
Come
gli altri penalisti del suo periodo, anche De Simoni si sofferma
particolarmente sull’influenza che le passioni possono avere sulla
responsabilità e sul dolo. Egli afferma recisamente da un canto che
«il dolo non è, non
può essere, che una piena perfetta e compiuta malizia», e
pensa al furto, al latrocinio, all’assassinio, al veneficio,
all’omicidio premeditato, «delitti che non si commettono, che dopo
avere maturato il disegno concepito nello spirito, e formato nel cuore, onde
non possono essere per verun conto conseguenza di quegli impetuosi affetti, de
quali è suscettibile la natura sensitiva dell’uomo»[76].
D’altro canto De Simoni di questi “impetuosi affetti” tiene
conto e affida al «prudente accorgimento, e discernimento di un
illuminato Giudice» i gradi di dolo da inferire dalle circostanze
antecedenti, concomitanti e susseguenti all’azione, invitando però
a tenere conto del tipo di passioni che muovono l’agente: definisce
“affettato” quell’“affetto” non fondato sui
“principi morali, e fisici della natura nostra sensitiva, che causa esser
possa di trasporto”; “affettato”, e dunque non scusabile,
è per esempio il trasporto prodotto dall’ubriachezza o
«cagionato da una sfrenata libidine senza un oggetto particolare di
amore». “A motivo di maggior chiarezza” egli conclude il capo
dedicato al dolo ordinando, a fini sanzionatori, il dolo criminoso in “vizioso eccesso” e in “piena malizia”[77],
una sorta di distinzione – diremmo oggi – tra dolo d’impeto e
dolo di premeditazione. Il vizioso
eccesso comprende «quegli atti che sono conseguenza di un moto
tumultuoso di affetti, che potevasi scansare, e prevedere» e che sono
fonte di responsabilità «avvegnacchè se non sono in se
stessi, sono però sempre nella loro causa liberi, e derivati dalla
nostra volontà»; malizia
piena è «quel Dolo
con cui si commettono i delitti con disegno premeditato, in quanto vi concorre
una dolosa sagacità per pensare, riflettere ai mezzi, e poi commettere di
proposito un delitto».
Il
terzo grado di dolo è dato dalla colpa grave (lata), che è sì imprudenza ma partecipa della natura
del dolo, «in quanto, o v’interviene di fatto qualche vizio della
volontà, o la ragion civile ha motivo di presumerlo». Questo tipo
di colpa caratterizzata dal vizio della volontà esiste in senso “affermativo” «in chi
si presta a un’opera illecita o per se stessa, o perché proibita,
ma ancora dove si trova in un senso negativo,
vi può essere concorso, e vi può concorrere in parte almeno il
vizio della volontà nel non aver saputo o voluto prevedere ciò
che doveva, e poteva e sapere, e prevedere, come avviene di fatto nelle gravi
omissioni, e nei casi di una dannosa imperizia imputabile, e di una troppo
crassa ignoranza per se vincibile»[78].
D’altronde quando però “si da opera scientemente a una cosa per se illecita”, «quanto egli
ha commesso con tutte le sue conseguenze non è più effetto di
mera colpa, ma si deve attribuire a un vero dolo»[79].
La
ragione di questa classificazione della grave imprudenza come dolo sta, oltre
che nel partecipare essa in qualche modo della volontà, nel sollecitare
i cittadini all’uso maggiore possibile della loro attenzione, in esigenze
di prevenzione generale (“prevenire il mal esempio”), e in
motivazioni pratiche legate alla necessità di vincere “i pretesti,
e li sutterfuggj, onde paliare, e mascherare un’azione opposta alle
leggi, e al ben pubblico, e supplire alla difficoltà, in cui spesso si
trova di scandagliare il grado di malizia, e di nequizia intervenuta
nell’azione, o omissione di alcuno»[80],
e dunque in definitiva in un dolo non pienamente provato ma solo sospettato.
Invece, gli altri due gradi di colpa, “leggiera” e
“leggierissima”, non possono essere oggetto delle leggi criminali[81].
La
colpa, in questa veste vagamente volontaria, rimarrà a lungo priva di un
ruolo autonomo rispetto al dolo: e del resto ancora oggi è frequente il
ricorso alla categoria delle Auffangtatbestände, fattispecie (di
“compensazione”) sulle quali appunto si “ripiega”
quando, nella valutazione di una fattispecie più grave, permangono dubbi
sulla sussistenza dei suoi elementi costitutivi: si applica cioè la
fattispecie meno grave, quella colposa, non perché essa davvero sia
realmente integrata ma solo in quanto non lo è appieno quella più
grave, cioè perché non si è riusciti a dimostrare fino in
fondo il dolo[82].
Nello
svolgimento storico, ancora con Carmignani la colpa rappresenta il grado minimo
della imputazione soggettiva, impersonata dalla intenzione. Alla moralità delle azioni non basta la mera
volontà, ma è necessario che questa si specifichi nell’intenzione, che secondo Carmignani,
richiamandosi a Pufendorf, «è propriamente un tendere della
volontà, la quale si dirige a un fine lontano, che a tutto potere si
sforza di conseguire». Questa intenzione è più o meno
intensa a seconda di come e quanto l’intelletto guida, e la
libertà accompagna, la volontà. Così, «quando la
volontà è pienamente illuminata dall’intelletto, ed
accompagnata dalla libertà», l’intenzione si dice perfetta; è invece imperfetta «quando dalla violenza
delle passioni o l’intelletto è offuscato o la libertà
è diminuita». Inoltre l’intenzione è diretta «quando la volontà tende
a un fine necessario»; indiretta,
«quando a un fine meramente possibile». L’intenzione indiretta può poi
essere positiva, «quando
l’intelletto prevede la possibilità dell’effetto»; negativa, «quando, potendosi
calcolare la possibilità degli effetti, per negligenza non si
prevedono»[83]. L’intenzione in tutte queste sue
forme, esclusa una, è dolo:
l’intenzione negativamente
indiretta rappresenta infatti la colpa,
la quale però a sua volta viene punita non per sé stessa ma in
forza di un sospetto di dolo[84].
Nella Teoria delle leggi della sicurezza sociale
Carmignani si sofferma ancora sul confine tra dolo e colpa. Il “principio
politico” (quello cioè del Legislatore) parte da un dato comune:
«la connessione non necessaria, ma meramente possibile che esisteva tra
l’atto dall’agente assunto, allorchè imprese ad agire, e il
delitto». Quando poi si passa da questo dato oggettivo «a
congetturare il modo col quale all’interno dell’animo
dell’agente può essere stato appreso, due ipotesi possono farsi. O
l’agente calcolò la connessione possibile dell’atto da lui
assunto col delitto o omise di calcolarla». E ancora prosegue: «Nel
primo caso vi è dolo, ma non della tempra, e del pericolo per la
sicurezza sociale di quello, che si spiega, assumendo un atto di necessaria inevitabile
conessione con il delitto: la intenzione in questo caso è diretta
all’offesa, ma si va per vie tortuose, nè è certo, che ella
la produrrà onde meritare il nome d’intenzione indiretta
positivamente. Nel secondo caso vi è colpa a norma della comune
sentenza: ma non si sa comprendere come allo stato dell’animo in questo
possibile caso si dia il nome di intenzione indiretta. Quando essa è
senza alcun dubbio diretta a lecito fine, ed onesto, né
un’intenzione, il cui nome spiega la tensione dell’animo a un fine
lontano, può essere di sua natura indiretta, vale a dire non rivolta al
suo fine»[85].
Proprio questa incerta natura della colpa porta Carmignani a spiegare che la ratio applicativa si sostanzia in un
sospetto della presenza del dolo.
In
più occasioni Carmignani, seguendo De Simoni, fornisce ulteriori
chiarimenti sul fondamento della “politica imputabilità”
della colpa, sul motivo cioè per cui il legislatore la rende
perseguibile. Lo scopo è “allontanare il pericolo, che i fatti
dolosi possano essere palliati sotto pretesto d’imprudenza”.
Cioè la legge, in presenza di una intenzione
indiretta, sospetta il dolo; ma dato che il sospetto non può mai parificarsi alla certezza, la colpa è punita meno del dolo. Ne deriva
altresì che la sola colpa lata ammette
la “criminale imputazione”, seppur di “infimo grado”,
perché il sospetto «nasce dalle circostanze del fatto, che rendon
probabile il fatto; e … siffatta probabilità non può
esistere che nella colpa lata»[86].
L’assunto
della colpa come sospetto di dolo perderà vigore solo con Francesco
Carrara. Secondo quello che dichiara ai suoi “scolari” essere il
suo intento – “raccogliere non creare” – Carrara in
molti punti riproduce formalmente le classificazioni del suo maestro Carmignani
e degli altri esponenti della scuola classica, ma le arricchisce di contenuti e
dà spesso un senso compiuto alle categorie. Così, per la colpa,
Carrara mantiene la tradizionale impronta volontaristica (la definisce al
§ 80 come «volontaria omissione di diligenza nel calcolare le conseguenze
possibili e prevedibili del proprio fatto») ma ora essa diviene oggetto
di rimprovero di per sé stessa e non quale sospetto di dolo, secondo
invece una tradizione risalente a De Simoni e che ancora Carmignani –
come visto – conferma:
secondo Carrara «è un inutile errore l’insinuare che il
fondamento della politica imputabilità della colpa sia il sospetto del
dolo. Non può la giustizia imputare per un sospetto» (§ 125)[87].
Con Carrara la prevedibilità, in passato in vario modo afferente al dolo
e strumento del suo processo di oggettivizzazione, passa definitivamente a
contrassegnare la colpa: al dolo inerisce invece la previsione effettiva. La
possibilità della verificazione dell’evento non appartiene, in
virtù della sua sola oggettività, né al dolo né
alla colpa: dipenderà dall’atteggiamento psichico
dell’agente, e dunque se di questa possibilità vi è almeno
previsione si ha dolo, se nemmeno previsione (e dunque solo
prevedibilità) si ha colpa.
Ma De
Simoni è ricordato nella storia del dolo per un assunto la cui
contestazione porterà poi Francesco Carrara a porre un punto fermo
ancora oggi in tema di dolo intenzionale, cioè che l’intenzione
è compatibile con la previsione dell’evento in termini non di
certezza ma di possibilità.
Il
caso pratico da cui muove l’analisi di De Simoni nel capo XIII (“Del delitto considerato nella sua Causa
sebbene dolosa, semplicemente però occasionale rispetto all’effetto”)
è quello di «un marito, che volendosi sbrigare di una moglie che
gli era di peso e di noia studiossi di ottenere l’intento senza comparire
egli il diretto omicida»[88].
Ben sapendo della particolare ghiottoneria della moglie, che non si
accontentava del cibo portato a casa dal marito ma era addirittura solita
uscire (“di soppiatto”) durante il giorno in cerca di cibo, egli
nasconde un pezzo di polenta, avanzato dal pasto, mischiato con un potente
veleno in un nascondiglio dentro casa, fingendo dunque «di averlo
sottratto alla ghiottoneria della moglie nella speranza però che essa lo
ritrovasse, e se lo mangiasse». Cosa che puntualmente avviene: la moglie
mangia l’avanzo, “ormai muffito”, e muore atrocemente.
Avendo
dovuto trattare della commisurazione della pena per questo caso, De Simoni
giunge alla conclusione che il marito non meriti l’ordinaria pena del
veneficio giacché «non si può dire che costui sia stato la
causa immediata della morte della moglie, ma la causa soltanto rimota sebbene
criminosa per il reo affetto, e la dolosa intenzione con cui egli si condusse
in questo fatto», essendo causa veramente prossima della morte della
moglie “l’intemperante sua ghiottoneria” e non prestando il
marito che “la dolosa causa occasionale”. Il marito è soggettivamente
responsabile in modo indiretto di quella morte, la quale, benché
“per una rimota probabilità potesse prevedersi” non poteva
però “per una assoluta e intrinseca necessità dal solo
fatto criminoso del marito provenire”. I gradi di quella che lui, come
gli altri autori del suo periodo, chiama “imputabilità” (e
che altro non è che la colpevolezza), variano a seconda
dell’influenza morale diretta o indiretta, immediata o mediata, prossima
o remota, intrinseca o estrinseca, sull’effetto. E il fatto del marito
non può essere – secondo il giurista lombardo – che causa
indiretta, remota o mediata[89].
Il
criterio per graduare la colpevolezza è infatti il seguente: «Li
gradi adunque di certezza, e probabilità di questa precedente cognizione
rispetto alle conseguenze che si potevano, o dovevano prevedere, sono i gradi
dell’imputazione medesima delle conseguenze buone, o ree di
un’azione rispetto all’agente». L’imputazione
cioè «sempre diminuisce della sua civile forza in proporzione
della distanza morale della volontà del delinquente dall’effetto
dell’azione criminosa commessa»[90].
Nel
caso in questione saremmo dunque in presenza di un “delitto di mero affetto”, «perché
l’effetto non ha un’assoluta, e necessaria relazione, e dipendenza
col fatto benché criminoso, e doloso del marito». Ma questo
“affetto” è soggetto a pena per “l’influenza
… che ebbe nella casuale causa di questo”, essendo stato dal marito
“ragionevolmente preveduto come facilmente possibile”
l’effetto poi verificatosi[91].
Insomma
nel pensiero di De Simoni la forma compiuta di responsabilità dolosa, si
ha solo quando vi sia rapporto assoluto, immediato e necessario tra affetto ed
effetto: il che peraltro non esclude che «che vi possa essere qualche
accidentale distanza materiale trà la detta opera e precedente causa, e
trà l’effetto indi seguito», rimanendo fermo che
l’effetto deve essere “scopo primario del reo suo affetto” e
che l’azione deve porsi come causa di per sé sola prossima ed
efficace in vista della realizzazione dell’evento. Quando l’azione commessa
non abbia di per sé questo rapporto diretto,
quando cioè manchi il controllo dell’autore sugli avvenimenti
successivi (sulla causazione dell’effetto), vi è ancora dolo ma di
livello inferiore, perché in definitiva il rimprovero è volto al
tipo di affetto dell’agente e non all’effetto, il cui verificarsi
è indirettamente condizionato
dall’intervento di una causa mediata, ma prevista come probabile o
possibile (e non certa). Si esterna cioè una “rea
volontà”, ma questa è “civilmente imperfetta”,
giacché «la distanza in questo caso dall’affetto
all’effetto è propriamente di alcuni gradi di circonferenza di
moralità civile»[92].
Questa
differenza – oltre a incidere sotto il profilo sanzionatorio –
comporta infine una conseguenza di non poco conto: il fatto doloso del marito,
se non fosse seguito l’evento mortale, non sarebbe stato punibile nemmeno
a titolo di “attentato”, dato che – secondo De Simoni –
può darsi tentativo solo «dove direttamente abbia nel suo doloso
principio di fatto una stretta, necessaria, e immediata analogia, e relazione
morale coll’effetto premeditato; cioè a dire se non quando per
parte dell’agente sian stati adoprati i mezzi direttamente, e
immediatamente efficaci per se stessi al criminoso intento concepito»[93].
Sempre
nell’ottica di contrassegnare le diverse forme di dolo in base allo
“stato dell’animo” del soggetto e non a profili meramente
oggettivi, quasi un secolo dopo Francesco Carrara prende spunto – per
porre un assunto che rimarrà fermo nella teoria del dolo – da
questo caso pratico proposto quasi un secolo prima, e che evidentemente era
diventato una sorta di caso di scuola per
discutere del dolo. Ebbene, Carrara contesta a De Simoni di confondere la forza
fisica con la forza morale, il rapporto ontologico
col rapporto ideologico del mezzo al
fine. Così testualmente: «Se l’agente previde e volle il fine, ma si servì di mezzi, il risultato dei quali
era meramente possibile, calcolando
ne conseguisse l’effetto che realmente ne conseguì, la intenzione non è indiretta ma veramente diretta. Indiretti sono i mezzi, non la intenzione; e male si confonde dal De Simoni la indirezione degli
uni con la indirezione dell’altra»[94].
Insomma con queste parole Carrara chiarisce una volta per tutte che il dolo
intenzionale è ben compatibile con la previsione dell’evento come
meramente possibile[95].
Ciò che decide della forma del dolo è lo “stato di
animo” (come lo chiama Carrara) dell’agente: se il suo
“affetto” (come invece lo chiamava De Simoni) è indirizzato
all’”effetto” non conta che questo sia solo possibile
anziché certo. Il marito descritto da De Simoni era dunque, secondo
Carrara – “a disegno riuscito” – responsabile di
“veneficio con premeditazione”:
«il dolo di costui, che freddamente e deliberatamente maturò quel
piano che a lui parve più opportuno e meno rischioso per giungere al
doppio fine di uccidere e restare impunito, sarà sempre dolo di primo
grado ad onta della eventuale fallacia dei mezzi … fallacia che rimase
meramente ipotetica»[96].
E infine: «La intenzione che prevede e vuole un fine pravo, è
sempre in sé diretta,
quantunque si serva di mezzi
indiretti; la via scelta per il viaggio nulla altera la direzione
dell’animo del viaggiatore»[97].
E oggi diciamo che il dolo intenzionale è caratterizzato dal ruolo
dominante della volontà, che raggiunge in questa forma di dolo
l’intensità massima, bastando alla previsione la mera
possibilità del risultato perseguito[98].
Abbiamo
visto, infine, che dalla sua distinzione tra (chiamiamoli così) dolo
“diretto” e dolo “indiretto”, De Simoni faceva scaturire
non solo una diversa sanzione ma la base per porre il principio che non tutte
le forme di dolo sono compatibili col tentativo. Mentre però in De
Simoni ciò derivava da una sovrapposizione del piano oggettivo a quello
soggettivo, Carrara arriva allo stesso principio ragionando sul piano meramente
soggettivo.
Durante
il lungo periodo storico del diritto comune aveva predominato in Europa
l’idea che – essendo vietata la prova per indizi –
l’unica prova valida, non solo per determinare il dolo ma l’intero
fatto, fosse la confessione dell’accusato, da estorcere eventualmente con
la tortura[99].
Le difficoltà di provare il dolo si manifestarono in tutta evidenza dopo
l’abolizione della tortura[100],
e la conseguente decadenza della confessione come “regina delle
prove”[101].
Per ridurre le difficoltà probatorie e per reazione alla progressiva
liberalizzazione delle regole probatorie, in dottrina si diffusero presunzioni
di dolo, sia di carattere generale (praesumtio
doli generalis) sia con riferimento a particolari fattispecie (praesumtio doli specialis )[102].
Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX sec., tali presunzioni iniziarono a
proliferare nei testi legislativi europei.
Alla
presunzione generale di dolo venne assegnato un fondamento filosofico prima da
Grolmann, il quale riteneva che, data la natura volontaria delle azioni umane,
le condotte delittuose debbano essere supposte come dolose[103],
e poi da Feuerbach, dove la allgemeine
Vorsatzvermutung trovò la propria espressione classica nel Lehrbuch[104].
La regola generale di presunzione del dolo venne poi codificata nell’art.
43 del codice penale bavarese del 1813, il cui progetto risale appunto a
Feuerbach: «quando si deve dimostrare contro una persona un fatto
antigiuridico, viene legalmente ammesso che lo stesso ha agito con dolo
antigiuridico, a meno che da particolari circostanze non risulti la certezza o
la probabilità del contrario»[105].
Fortemente critica nella letteratura del tempo, l’idea della presunzione
generale di dolo venne poi abbandonata da Feuerbach nel 1826 nella nona
edizione del suo manuale e l’istituto scomparirà anche, nel 1848,
dal codice penale bavarese[106].
Il
corso della dottrina penalistica italiana di fine settecento è – come già accennato
– differente. Il problema della prova del dolo non viene affrontato
allargandone il concetto (come invece nella dottrina tedesca faranno
Böhmer, Gläntzer e Leyser profilando la variante del dolo eventuale)
o fornendo del dolo, come appena visto, presunzioni processuali, quanto
piuttosto sviluppando una teoria degli indizi, e più in generale della
stessa struttura del sistema probatorio. Con chiarezza e decisione De Simoni
rifiuta generali presunzioni di dolo derivanti dalla natura stessa di delitti,
perché si tradurrebbero in inaccettabili inversioni dell’onere
della prova: «la qual cosa ripugna a tutti i principj della ragione
sì naturale che civile»[107].
La
prova del dolo è naturalmente più difficile nei delitti di mero affetto, che abbiamo visto essere
non solo il tentativo e alcuni gravi delitti ma in generale tutti i delitti
dolosi dove l’effetto non sia causa certa, diretta e immediata
dell’azione criminosa[108],
e dunque anche le ipotesi che oggi diremmo contrassegnate da dolo eventuale. De Simoni riconosce la
difficoltà di arrivare a conoscere il “principio morale di
un’azione” e dà una definizione di questo procedimento:
«La cognizione della vera moralità di un’azione non si
acquista che quando il nostro spirito agendo sopra se stesso nelle circostanze
abituali dell’azione sù cui si pone a riflettere per via di un
naturale raziocinio combinato da antecedenti cognizioni di fatto, e di diritto
viene a formare il suo giudizio sopra il principio morale di quell’azione
medesima». Dato il tipo di accertamento si tratterà sempre di
risultati non matematici ma di una certezza
morale differente da quella fisica[109].
Per arrivare a questa certezza morale è necessario “il prudente arbitrio del Giudice”[110],
che opererà tramite indizi; e agli indizi, alla loro classificazione e
al loro peso, dedica l’ultima parte di questo suo lavoro.
Gli
“indizi” vengono divisi da De Simoni in cinque classi. Alla prima
classe appartengono tutti quegli indizi che in vario modo attengono alla persona: l’età, il sesso,
la fama, le cattive frequentazioni, l’abitudine a commettere delitti, il
passaggio improvviso dalla povertà alla ricchezza, le sembianze o la
voce segnalate da testimoni. La seconda classe comprende gli indizi
ricollegabili in definitiva alla causale:
odio, inimicizia, amore, collera, timore ecc. La terza classe annovera poi le
circostanze precedenti, concomitanti e susseguenti alla condotta. Nella quarta assume il valore di indizio la facilità con la quale il delitto
è stato commesso. Infine alla quinta classe appartengono gli indizi che
si traggono dal fatto che l’accusato era tenuto a una determinata condotta e ha omesso o dimenticato di tenerla.
Al di
là dell’affidabilità di alcuni di questi criteri, De
Simoni, come gli altri penalisti del suo tempo, già prospetta quella
distinzione tra indicatori del dolo attinenti alla persona e indicatori
riguardanti invece la condotta, che sarà affinata da Carrara e che si
imporrà definitivamente con Finzi e Bricola[111].
E proprio da ciò discende un insegnamento della dottrina penalistica
italiana di fine settecento: porre al centro del dolo la volontà e
rifiutarne al contempo – nonostante questa caratterizzazione psicologica
– ogni presunzione, valorizzando il momento dell’accertamento.
The latter half of the eighteenth century represents a
fundamental step in the historical development of intention’s concept. By
that time the traditional objectivist approach, linked to the original Doctrina Bartoli and culminating in the
Carpzov’s dolus indirectus,
loses force. Then an effective psychological dimension, in particular a
volitive one, tends to emerge (to get established). In this historical phase
the Italian criminal law doctrine plays an important role. Inter alia, Alberto
De Simoni enhances the intention as content of mens rea, also proposing the
assumption (overcome only by Carrara) for which the intention is consistent
with the prediction of the event in terms of certainty and not of chance. De
Simoni, then not only deepens the psychological content of intention, but also
proposes a modern theory of evidence to ascertain it.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
[1] DEZZA,
Tommaso Nani e la dottrina
dell’indizio nell’età dei lumi, Milano 1992, p. VI della
nota introduttiva.
[2] Sulla matrice
filosofica della moderna scienza del diritto penale, BARATTA, Filosofia e diritto penale. Note su alcuni
aspetti del pensiero penalistico in Italia da Beccaria ai nostri giorni, in
Riv. int. fil. dir., 1972, pp. 31
ss., per il quale nel primo periodo di sviluppo del pensiero penalistico
italiano si assiste «a un processo che va da una filosofia del diritto
penale ad una fondazione filosofica della scienza del diritto penale:
cioè da una concezione filosofica ad una concezione giuridica, ma
filosoficamente fondata, dei concetti di reato, di responsabilità
penale, di pena».
[3] Per
una illustrazione in particolare del contributo in tema di dolo da parte di
Gaetano Filangieri, Gian Domenico Romagnosi e Mario Pagano, sia consentito il
rinvio a DEMURO, Il dolo. I. Svolgimento
storico del concetto, Milano 2007, pp. 202 ss.
[4]
MARINUCCI - DOLCINI, Corso di diritto
penale, 1, 3ª ed., Milano
2001, pp. 15 ss. Vedi in generale, M.A. CATTANEO, I principi dell’illuminismo giuridico-penale, in I codici preunitari e il codice Zanardelli,
studi coordinati da S. Vinciguerra, Padova 1999, pp. 3 ss.
[5] M.
ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I (art.
1-84), 3ª ed., Milano 2004, p.
13.
[6] Lo
scritto nel quale Paul Johann Anselm von FEUERBACH afferma la propria
impostazione psicologica è “Betrachtung
über dolus und culpa überhaupt und den dolus indirectus insbesondere”,
in Bibliothek des peinlichen Rechts der
peinlichen Gesetzgebung und Gesetzkunde, II, 1804 (neu Ausdruck 1985), pp.
234 ss., dove afferma tra l’altro che «il diritto penale, come si
sa, è intimamente connesso con la psicologia» e che
«certamente, senza la conoscenza dell’uomo, senza lo studio della
natura umana, è impossibile una dottrina del diritto penale».
L’impostazione originaria si trova nel maggiore lavoro penalistico di
Feuerbach la Revision der Grundsätze
und Grundbegriffe des positiven peinlichen Rechts (1799-1800), opera per
RADBRUCH, Paul Johann Anselm Feuerbach.
Ein Juristenleben, 3. Aufl., Göttingen 1969, p. 44, «für die Strafrechtsgeschichte epochal».
Secondo
la teoria della coazione psicologica di Feuerbach la legge penale influisce
sulla facoltà di desiderare del potenziale colpevole agendo in senso
contrario alla spinta criminosa, attraverso la rappresentazione di un male
maggiore della soddisfazione che potrebbe derivare dalla realizzazione del
delitto. La sua concezione di colpevolezza dunque comprende: a) la conoscenza
della legge penale; b) la sussunzione del fatto sotto la legge; c) il
fondamento del fatto nella volontà del soggetto. Si tratta di una
colpevolezza di tipo psicologico fondata sulla volontà (Willensschuld). Pertanto se si vuole
fare rientrare (così come fa Feuerbach) anche la colpa nella
colpevolezza essa deve consistere in un Willensfehler,
difetto della volontà che consiste anzitutto nella violazione della obligatio ad diligentiam di rendersi
edotti delle leggi dello Stato in cui si vive, per non violarle a causa della
propria ignoranza. Invece è dolo
«die Bestimmung des Willens
(Begehrungsvermögen) zu einer Rechtsverletzung als Zweck mit dem
Bewusstseins der Gesetzwidrigkeit des Begehrens». Ad
avviso di LÖFFLER, Die Schuldformen
des Strafrechts. In vergleichend-historischer und dogmatische Darstellung,
Leipzig 1895, p. 214, Feuerbach avrebbe così voluto dire che la mera
previsione non basta più al dolo, richiedendosi piuttosto che
l’evento sia voluto, nel senso che risieda nell’intenzione del
soggetto. Che sia semplicemente questo il senso della definizione di Feuerbach
non è da tutti condiviso. Egli invero sembra dire qualcosa in
più: questa volontà coincide con la facoltà di desiderare,
per cui la spinta al crimine ha la sua fonte psicologica nel sentimento (Sinnlichkeit) dell’uomo. Così von BUBNOFF, Die Entwicklung des strafrechtlichen Handlungsbegriffes von Feuerbach
bis Liszt unter besonderer Berücksichtigung der Hegelschule,
Heidelberg 1966, p. 25.
[7]
SPIRITO, Storia del diritto penale
italiano. Da Cesare Beccaria ai nostri giorni, 3ª ed., Firenze 1974, passim. Secondo l’Autore,
utilitarismo, razionalismo astratto e antistoricismo sono i caratteri
principali delle concezioni giuridiche dell’illuminismo e a essi sono
informate le teorie di diritto penale che prendono le mosse dal movimento
illuministico. Le conseguenze principali sono naturalmente quelle che
riguardano il fine della pena, che per le teorie contrattualistiche è la
difesa del contratto sociale, mentre per le teorie giusnaturalistiche è
la difesa di una giustizia astratta di valore trascendente. Per
l’indeterminatezza però del pensiero illuministico, e per il suo
scarso rigore speculativo, anche nel campo del diritto penale le esigenze del
contrattualismo e del giusnaturalismo, e dunque utilitarismo e moralismo
ideologico, si mescolano continuamente e danno vita – sostiene Spirito
– a un ibrido eclettismo. Però proprio uno dei caratteri
principali dell’illuminismo, l’antistoricismo, trova immediata
smentita nel costante collegamento col diritto penale romano da parte di alcuni
degli autori principali. Critico verso questa accusa di eclettismo rivolta ai
giuristi riformatori della seconda metà del settecento, PALOMBI, Mario Pagano alle origini della scienza
penalistica del secolo XIX, Napoli 1979, pp. 30 ss.
[8]
BECCARIA, Dei delitti e delle pene,
5ª ed., Harlem 1766, riprodotta a cura di F. Venturi, Milano 1991 e Torino
2007, § VII. L’intenzione degli uomini è un dato troppo vago
e variabile per farne derivare dei precetti generali: dovrebbe conseguirne
«una nuova legge ad ogni delitto».
Peraltro questa impronta oggettivistica non impedisce a Beccaria di sostenere
la punibilità del tentativo: «Perché
le leggi non puniscono l’intenzione, non è però che un
delitto che cominci con qualche azione che ne manifesti la volontà di
eseguirlo non meriti una pena, benché minore all’esecuzione medesima
del delitto»; e anche tutto ciò per motivi di prevenzione:
«L’importanza di prevenire un
attentato autorizza una pena».
[10]
BECCARIA, Dei delitti e delle pene,
§ I. Nel § VI si precisa cosa muove le condotte umane: «…
il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili».
[11]
MARINUCCI, Beccaria penalista, nostro
contemporaneo, in Diritti
dell’uomo e sistema penale, I, a cura di S. Moccia, Napoli 2002, p.
19. Sul significato di Cesare Beccaria per la storia del diritto penale,
DELITALA, Cesare Beccaria e il problema
penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964,
pp. 965 ss., il quale più precisamente ritiene merito di Beccaria
«quello di aver reso consapevole il pensiero moderno dell’esigenza
di una vera scienza del diritto penale intesa come costruzione sistematica
derivante da un superiore principio direttivo». Sul contributo di
Beccaria all’affermazione degli ideali illuministici, dal punto di vista
della dottrina tedesca, Eb. SCHMIDT, Einführung,
cit., pp. 218-219.
[13]
BECCARIA, Dei delitti e delle pene,
§ XXXIV. Sul rapporto tra Beccaria e i criminalisti del suo tempo,
MARONGIU, Muratori, Beccaria, Pietro
Verri e la scienza del diritto, in Riv.
it. dir. proc. pen., 1975, pp. 758 ss., e per le critiche alla sua
(ritenuta) impostazione “oggettivistica”, CAVANNA, La codificazione penale in Italia. Le
origini lombarde, Milano 1975, pp. 139-140.
Sarà poi in particolare
Gaetano Filangieri a sviluppare il concetto di proporzione: per l’Autore
della Scienza della Legislazione il
delitto si misura secondo la sua qualità e secondo il suo grado: la qualità è data dal patto
che si viola (diversa è la violazione del patto sociale che esprimono
per esempio l’omicidio e il furto); il grado dalla quantità di dolo o di colpa con la quale si
commette l’azione.
[14]
BECCARIA, Dei delitti e delle pene,
§ XII: «Quelle pene dunque e
quel metodo d’infliggerle deve essere prescelto che, serbata la
proporzione, farà un’impressione più efficace e più
durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo».
[15]
CALISSE, Svolgimento storico del diritto penale
in Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII, in Enciclopedia del Diritto Penale Italiano,
a cura di Pessina, II, Milano 1906, p. 249. Per un quadro complessivo, PESSINA,
Il diritto penale in Italia da Cesare
Beccaria sino alla promulgazione del codice penale vigente (1764-1890), in Enciclopedia del diritto penale italiano,
II, Milano 1906, pp. 541-548. Vedi riferimenti anche in PALOMBI, Mario Pagano alle origini della scienza
penalistica del secolo XIX, cit., p. 56.
[16]
CALISSE, Svolgimento storico del diritto
penale, cit., p. 249. In generale sul bisogno di unificazione e di certezza
connesso alla tendenza verso la codificazione, VASSALLI, voce Codice penale, in Enc. dir., VII, Milano 1960, pp. 261-262.
[18]
Sull’opera di Anton Matthes, CORDERO, Criminalia.
Nascita dei sistemi penali, Roma – Bari 1986, pp. 502 ss.; e in
particolare sul ruolo svolto dal De
criminibus come manifesto del nascente movimento dottrinale volto al
superamento del diritto penale di Ancien
Régime, DEZZA, Accusa e inquisizione dal diritto comune ai codici moderni, I,
Milano 1989, pp. 106 ss.
[19] Spesso
accomunando, peraltro, la volontà
come «principio dell’azione
in generale», che nel pensiero aristotelico rientra nel concetto di έκούσιον,
e la volontà come «scelta»,
cioè «principio razionale
dell’azione», che Aristotele definisce προαίρεσις.
Sulla concezione
“psicologica” della colpevolezza, che sarebbe stata elaborata dalla
dottrina illuministica, PADOVANI, Appunti
sull’evoluzione del concetto di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, pp. 559 ss.
[21]
PALOMBI, Mario Pagano alle origini della
scienza penalistica del secolo XIX, cit., p. 62, il quale afferma che la
dottrina ottocentesca per mantenersi ferma all’idea della
responsabilità penale fondata sulla cattiva intenzione, era costretta ad
annoverare la coscienza dell’antigiuridicità tra i requisiti
indefettibili del dolo, andando a urtare contro il radicato principio di
inescusabilità dell’errore sul divieto. Vedi anche SANTAMARIA, Interpretazione e dommatica nella dottrina
del dolo, Napoli 1961, p. 35.
[23]
SANTAMARIA, Interpretazione e dommatica
nella dottrina del dolo, cit., p. 36: «Il fondamento di questo
sistema di valutazioni era dato dall’etica d’intenzione che Kant
aveva teorizzato. L’uomo è libero di fronte alla sua coscienza e
il giudizio morale deve essere commisurato alla intenzione con cui egli agisce.
Quello che decide della moralità della sua azione è la buona o
cattiva intenzione».
[24]
Secondo PIFFERI, Generalia delictorum. Il
Tractatus criminalis di Tiberio Deciani e la “parte generale“ di
diritto penale, Milano 2006,, p. 285, è difficile e improprio,
nell’esperienza medievale (sembra almeno fino a Deciani), cercare di
tracciare linee di confine tra violazione dell’obbligo giuridico e
trasgressione del precetto religioso. Vi è infatti una sovrapposizione
di comportamenti e di norme da cui si forma l’immagine unitaria e
inscindibile del cives-peregrinus, e
che dà luogo a una continua e reciproca contaminazione semantica e
disciplinare in cui sfumano le distinzioni tra l’”Homme criminel” e il “pécheur”: così,
sulla coincidenza nel pensiero
tomistico tra responsabilità
morale derivante dal peccato e responsabilità
penale derivante da delitto, PRADEL, Histoire
des doctrines pènales, Paris 1989, pp. 12-15.
[26] Oggi
la c.d. teoria della colpevolezza (Schuldtheorie)
assume la coscienza dell’antigiuridicità come elemento a sé
stante della colpevolezza, cosicché vi può essere dolo (in quanto
altro elemento a sé stante della colpevolezza) anche se manca tale
coscienza, in caso di ignoranza o errore evitabile sul divieto. Alla c.d.
teoria della colpevolezza si contrappone la c.d. teoria del dolo (Vorsatztheorie), secondo la quale la
coscienza dell’antigiuridicità si pone invece accanto alla
rappresentazione e volizione quale elemento fondamentale del dolo.
[27] Su
tale codice, STILE, Il codice penale del
1819 per lo Regno delle due Sicilie, in I
codici preunitari e il codice Zanardelli, cit., pp. 183 ss.
[28] G.A.
DE FRANCESCO, La forza della ragione e la
ragione della storia. Il seducente eclettismo della codificazione penale
napoletana, in Le leggi penali di
Giuseppe Bonaparte per il Regno di Napoli (1808), Padova 1998, pp. CCXXVIII
ss. Cfr., con riferimento alle codificazioni tedesche preunitarie, DOLCINI, L’imputazione dell’evento
aggravante. Un contributo di diritto comparato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1979, pp. 766 ss. e RADBRUCH, Erfolghaftung, in Vergleichende Darstellung des deutschen und ausländischen
Strafrechts, A.T., 2 Bd., Berlin
1908, p. 231: nelle diverse scelte legislative si scorge per lo più una
presunzione (assoluta) di colpa, che, al di là delle etichette formali,
si sostanzia, così come per la presunzione di dolo, in una vera e propria responsabilità oggettiva.
[29]
PADOVANI, Il crepuscolo della
legalità nel processo penale. Riflessioni antistoriche sulle dimensioni
processuali della legalità penale, in Indice pen., 1999, p. 535.
[30] Su
tale crisi, tra gli altri, NOBILI, Principio
di legalità, processo, diritto sostanziale, in ID., Scenari e trasformazioni del processo penale,
Padova 1998, pp. 195 ss.; PADOVANI, La disintegrazione
attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema
della comminatoria edittale, in Riv.
it. dir. proc. pen., 1992, pp. 431 ss. e ID., Il crepuscolo della legalità nel processo penale, cit., pp.
527 ss.
[32]
SBRICCOLI, Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e
diritto, a cura di M. Fioravanti, Roma-Bari 2002, p. 168 nt. 1.
[35] Dal
punto di vista processuale le practicae sono
– afferma SBRICCOLI, Giustizia
criminale, cit., p. 176 –
in realtà, e paradossalmente, povere. Poco curandosi dei diritti degli
accusati, i giuristi autori delle practicae
costruiscono una dottrina processuale ridotta, quasi interamente assorbita
nella questione dei limiti da porre al giudice («iudex debet, potest, an debet, an possit, non debet, nequit»,
cioè “il giudice deve, può, ci si chiede se debba, ci si
domanda se possa, non deve, non può”).
[36]
PIFFERI, Generalia delictorum, cit.,
p. 97. Sulla incapacità dei postglossatori di riunire in sistema singoli
elementi concettuali, come per esempio il dolo, già SCHAFFSTEIN, Die Allgemeinen Lehren vom Verbrechen. In ihrer
Entwicklung durch die Wissenschaft des gemeinen Strafrechts –
Beiträge zur Strafrechtsentwicklung von der Carolina zur Carpzov, Darmstadt 1973, Neudruck der Ausgaben 1930-1932, p. 27.
Cfr. anche PIANO MORTARI, voce Codice (storia), in Enc.
dir., VII, Milano 1960, pp. 229 ss.
[37] Del
resto, anche oggi molte teorie sul dolo, che sembrano (o vogliono) avere un
contenuto concettuale, rappresentano in realtà criteri di accertamento:
si pensi in tema di dolo eventuale alla teoria della operosa volontà di
evitare, dove la predisposizione o meno di misure volte a ostacolare
l’evento può fungere da orientamento in sede di accertamento, e
soprattutto alle c.d. formule di Frank
(FRANK, Das Strafgesetzbuch für das
deutsche Reich, 18 Aufl.,Tübingen 1931, pp. 190-191).
[38]
PIFFERI, Generalia delictorum, cit.,
p. 98. Secondo l’Autore, il modello tardo medievale, di tipo casistico,
segnato dal sodalizio (se non dall’identità) tra iudex e doctor iuris nell’amministrazione della civitas, entra definitivamente in crisi nel XVI secolo, quando le
pretese assolutistiche ed espansionistiche, con la conseguente centralizzazione
dell’apparato giudiziario repressivo voluto dalle nuove entità
politiche che rivendicano assoluta sovranità (Principati, Signorie,
prime forme di Stato), si scontrano con l’organizzazione della giustizia
statutaria. L’avanzare della nuova idea di Stato (o comunque di potere
accentrato) comporta un’inversione di tendenza: regole imposte
dall’alto, uniformità interpretativa e chiarezza definitoria. La
legge assume i compiti prima
lasciati a giurisprudenza e dottrina e controlla la giustizia tramite strumenti
tecnici e strategie processuali. Pifferi (p. 350) osserva inoltre che «Le
norme positive stabiliscono i delitti, ma costruiscono anche una completa trama
della rilevanza penale che prevede e disciplina tanto gli elementi sostanziali
e accidentali del crimine, quanto i modi e le forme del suo accertamento
processuale. Diritto sostanziale e procedura sono i due rami della
penalità, entrambi regolati dalla legge, che diviene prevalente criterio
di comprensione e costruzione dell’esperienza giuridica, attraverso le
sistemazioni e le categorie dei doctores».
[39] Per i
meriti dell’umanesimo nella creazione di una scienza dei delitti e delle
pene, CALASSO, Medio evo del diritto,
cit., pp. 602-603, e in particolare su Andrea Alciato (1492-1550), che
sarà considerato il fondatore della scuola umanistica del diritto, p.
600.
[41] SCHAFFSTEIN, Allgemeinen
Lehren, cit., pp. 56 ss.; PIFFERI, Generalia
delictorum, cit., p. 109. Quest’ultimo Autore evidenzia (p.
188) come Tiberio Deciani, appoggiandosi a un passo di Baldo degli Ubaldi,
affermi di volere considerare i delitti prima che avvengano, non realiter e ricavando l’effetto o
il fine non dalla loro concreta realizzazione, ma in abstracto sive imaginatione: c’è la volontà
di sperimentare una via nuova, quella della speculazione teorico-filosofica
applicata al diritto penale, della logica deduttiva capace di offrire
fondamento e legittimazione al potere punitivo del Principe. La struttura del Tractatus decianeo presenta dunque un
approccio speculativo e teorico, quello che ha spinto la storiografia a
considerare Tiberio Deciani il padre del diritto penale moderno. La
modernità di Deciani risalta nella sua nota definizione di delictum in genere (Tractatus Criminalis, II, III De
diffinitione delicti, n. 2): «Delictum
est factum hominis, vel dictum aut scriptum dolo vel culpa a lege vigente sub poena
prohibitum, quod nulla iusta causa excusari potest». Oggi si afferma
(F. MANTOVANI, Diritto penale, cit.,
p. 3) che il moderno diritto penale del fatto è retto da quattro
principi fondamentali: di legalità, di materialità, di
offensività, di soggettività. Questo nullum crimen sine lege, actione, iniuria, culpa già
traspare nelle parole di Tiberio Deciani. Sarebbe impossibile – precisa
Pifferi (p. 209) – attribuire a Deciani il merito del complesso sviluppo
dogmatico che ha condotto all’affermazione di questi principi tra il XIX
e il XX secolo: gli rimane comunque il merito, attraverso il lavoro di sintesi
e lo sforzo definitorio, di avere svelato per primo alla dottrina le risorse
sistematiche e la ricchezza speculativa della teoria astratta del reato.
Consiglia prudenza nel trasporre vocaboli, cautela nel vedere
‘origini’ e ‘sviluppi’ là dove vi sono fenomeni
culturali e giuridici espressione di uno specifico e storicizzato contesto,
SBRICCOLI, Lex delictum facit. Tiberio
Deciani e la criminalistica italiana nella fase cinquecentesca del penale
egemonico, in AA.VV. Tiberio Deciani
(1509-1582). Alle origini del pensiero giuridico moderno, a cura di M.
Cavina, Udine 2004.
[42]
PIFFERI, Generalia delictorum, cit.,
p. 24. Sull’importanza dell’opera (il Tractatus criminalis) di Tiberio Deciani in tema di colpevolezza,
già il riconoscimento di ENGELMANN, Die
Schuldlehre der Postglossatoren und ihre Fortentwiklung. Eine
historisch-dogmatische Darstellung der kriminellen Schuldlehre der
italianischen Juristen des Mittelalters seit Accursius, 2. verbesserte Aufl., Aalen 1965 (1. Aufl.
Leipzig 1895), p. 21.
[43] Per un
giudizio complessivo sui maggiori criminalisti italiani operanti a cavallo tra
XVIII e XIX sec., CAVANNA, La codificazione
penale in Italia. Le origini lombarde, Milano 1975, pp. 75-76 nt. 121. Secondo Cavanna, il contenuto scientifico
delle loro opere mostra, anche sotto le motivazioni giusnaturalistiche, la non
spenta fiducia nelle categorie dogmatiche del diritto comune e il rispetto per
l’opera scientifica svolta dai grandi interpreti dei secoli XVI e XVII.
Cfr. TARELLO, Storia della cultura
giuridica moderna. I: Assolutismo e
codificazione del diritto, Bologna 1976, pp. 383 ss.; DEZZA, Accusa e inquisizione dal diritto comune ai
codici moderni, I, Milano 1989, pp. 139 ss.; DI RENZO VILLATA, Giuristi, cultura giuridica e idee di
riforma nell’età di Beccaria, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Atti del convegno di
studi per il 250º anniversario della nascita, Milano 1990, pp. 225 ss.
[44] Luigi
Cremani (1748-1838) e Filippo Maria Renazzi (1742-1808) sono considerati da
Dezza i penalisti italiani di area accademica più rappresentativi della
fine del XVIII secolo. Cremani insegnò a lungo a Pavia, Renazzi a Roma.
Il poderoso trattato di Cremani, De Iure
Criminali Libri Tres, viene pubblicato per la prima volta a Pavia tra il
1791 e il 1793. Troverà poi numerose altre edizioni. Le nostre citazioni
sono riferite al volumen unicum pubblicato
a Firenze nel 1848. Su Cremani, sulla sua figura di giurista e sulle sue opere
vedi DEZZA, Tommaso Nani, cit., pp.
31 ss. e le indicazioni bibliografiche alla nota 95 p. 31. Sulla grande
diffusione dei quattro volumi dell’opera di Filippo Maria Renazzi,
giudicato il primo a tentare una concisa storia critica della disciplina del
diritto penale, CORDERO, Criminalia,
cit., pp. 180 ss. Per le indicazioni bibliografiche su Renazzi, DEZZA, Tommaso Nani, cit., p. 31 nt. 94.
[45]
CAVANNA, La codificazione penale in
Italia, cit., pp. 140 e 262, e sulla struttura del progetto, p. 118.
Così con
riferimento all’elemento soggettivo, Cremani (che fu anche consulente
dell’imperatore Leopoldo II), confutando Beccaria e seguendo invece Risi,
individua il reato in «quicquid
sponte quis agit, aut omittit sciens a lege prohibitum, vel imperatum esse»;
e il progetto al § 2 a proposito delle «azioni od omissioni criminose» prevede che «Perché queste siano imputabili vi dee
concorrere la libera volontà, ed un fine malizioso»,
aggiungendo peraltro al § 3 che «Non
anderanno queste esenti d’imputabilità, sebbene l’autore non
avesse specialmente divisato il male che si è derivato, qualora fossero
dirette a qualch’altro reo disegno». Formula con la quale si
afferma il mantenimento del principio del versari
in re illicita, nemmeno temperato dal criterio della prevedibilità.
Nel § 4 poi si afferma: «Anche
la colpa grave non anderà esente d’imputabilità.
Sarà grave la colpa quando tale sia il fatto per cui il male soglia
facilmente accadere».
[47] Per la
sua descrizione, oggi MANTOVANI, Diritto
penale. Parte generale, 6ª ed., Padova 2009, pp. 120 ss.
[48] RISI, Animadversiones ad criminalem
jurisprudentiam pertinentes, Milano 1766, pp. 7-8 (la riproduzione
dell’opera è contenuta nella Biblioteca digitale della Sezione di
storia del diritto medievale e moderno dell’Università degli studi
di Milano: www.historia.unimi.it). In tema poi di tentativo, la scelta di fondo
oggettivistica ancora oggi propria del nostro diritto penale
(MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto
penale. Parte generale, 3ª ed., Milano 2009, pp. 374 ss.) contrassegna
chiaramente anche l’opera di Paolo Risi. Il tentativo, infatti, deve
essere punito con pena inferiore al delitto consumato (Animadversiones, p. 93): non accogliendo il principio della
parificazione della pena, dominante invece nella tradizione austriaca e
francese, Risi e gli altri giuristi italiani restano fedeli alla regola
instauratasi nella tradizione criminalistica italiana. Mentre però altri
autori come Cremani prevedono delle eccezioni quando si tratti per esempio di
attentato alla vita del sovrano, in Risi questo principio non trova eccezioni.
Quella di Paolo Risi si ritiene sia la prima trattazione veramente a cavallo,
con esemplare equilibrio, tra la tradizione scientifica romanistica e il
giusnaturalismo penale illuministico: rappresenterà un modello per molte
delle successive trattazioni dottrinali, fino a Carmignani. Fondamentali le sue
osservazioni su giudice e legge penale. Vedi CAVANNA, La codificazione penale in Italia, cit., pp. 99, 143 e 229-231.
[51] Sia consentito
ancora il richiamo a DEMURO, Il dolo. I.
Svolgimento storico del concetto, Milano 2007, pp. 9 ss.
[56] ROSSI,
Trattato di diritto penale, trad. it.
di E. Pessina, Torino 1853, pp. 337-339. A proposito della distinzione della
“reità” (dolus) in
reale (o presunta od obbiettiva) e
personale (o a dimostrarsi o subbiettiva),
al problema cioè del dolus in re
ipsa, Pellegrino Rossi fa notare come sia addirittura ovvio che il dolo che
serve da base per una condanna non può mai risiedere in una semplice
presunzione, dato che la risoluzione criminosa, essendo risultato di
intelligenza e di libertà, è sempre nell’io dell’agente e mai
nell’atto materiale: «quindi assurdo è il parlare del dolo reale od obbiettivo». La distinzione ha senso solo ove venga riferita
a quella tra le ipotesi in cui il dolo risulta prima facie dall’atto materiale e quelle invece in cui
è necessario provare altre circostanze di fatto per inferire il dolo
[57]
CREMANI, De Iure Criminali, cit., p.
34. Così NANI, Principii di
giurisprudenza criminale, cit., pp. 76-77: «Nella serie numerosa e
complicata dei delitti esistono alcune azioni le quali non possono
intraprendersi senza presupporre nella persona che le commette la
volontà di commetterle come veri delitti. Egli è perciò
che l’estrinseco carattere di queste azioni manifesta per sé solo
il dolo o sia il carattere intrinseco del delitto».
[61] CREMANI,
De Iure Criminali, cit., p. 35; NANI,
Principii di giurisprudenza criminale,
cit., p. 68.
[62]
Posizione, questa, comune anche ai giuristi filosofi napoletani. Vedi PALOMBI, Mario Pagano alle origini della scienza
penalistica del secolo XIX, cit., pp. 59-60.
[63]
Così nel § 5 del Progetto di codice penale per la Lombardia
austriaca (in CAVANNA, La codificazione
penale in Italia, cit., pp. 277-278): «Manca la libera
volontà, e conseguentemente non può imputarsi la trasgressione
della legge. Se l’autore del fatto è privo intieramente
dell’uso della ragione, e nello stato alternativo di pazzia, e di
ragione, non appaja essersi commessa l’azione sotto il lucido intervallo.
Se lo stesso autore fosse in una involontaria accidentale alienazione e
perturbazione de’ sensi, per la quale non potesse essere consapevole del
proprio fatto. Se una forza insuperabile lo spinse al violento atto. Se
intervenne errore per cui non si possa imputar colpa all’errante, con che
senza l’intervento dell’errore egli avrebbe agito lecitamente. Se
il delinquente ritrovasi nell’età immatura, cioè prima
d’aver compiuto il dodicesimo anno, a meno che dal fatto stesso, o dalle
particolari circostanze non apparisca una prematura malizia».
[66] Le
indicazioni biografiche sono curate da ANTONIELLI e contenute nel Dizionario Biografico degli Italiani, in
www.treccani.it. Alberto
De Simoni nacque a Bormio il 3 giugno 1740. Studiò a Innsbruck e
Salisburgo e affiancò da subito a quella di studioso (gli fu offerta in
seguito anche una cattedra all’Università di Pavia)
l’attività di patrocinatore di cause civili e criminali. Ricoprì
poi incarichi istituzionali e passò alla magistratura nel 1771. Il suo
interesse per il diritto criminale fu destato dalla difesa processuale di un
tale che, accusato di più furti semplici, fu condannato a morte, secondo
il dettato degli statuti locali. Il rifiuto dunque dei “barbari
eccessi” della pratica del diritto comune si accompagnò al
rinnovato interesse per le scienze criminali suscitato dall’opera di
Cesare Beccaria. Ma egli non seguì fino in fondo i postulati
illuministici. In particolare De Simoni
non rifiutò la tradizione del diritto romano e dello stesso
diritto comune, anche condizionato dalle esigenze pratiche della sua
attività di giudice che lo portarono realisticamente a respingere quelle
proposte innovative che non fossero immediatamente traducibili in strumenti
operativi: di qui, tra l’altro, il suo interesse per le teoria degli
indizi. Dopo varie esperienze istituzionali, con la proclamazione della
Repubblica Italiana fu chiamato nel 1802 alla revisione del progetto di codice
penale. Questo incarico rappresentò una sorta di riconoscimento della
sua moderazione: fu infatti ritenuto in grado di garantire «una redazione
del codice che, senza rompere con la tradizione poggiante sul diritto romano,
sapesse introdurre, con misurato compromesso, quegli elementi innovativi
mediati dal pensiero giuridico del secondo Settecento, capaci di segnare
definitivamente il passaggio dal diritto comune alla codificazione». Dal
1807 divenne giudice e consigliere della Suprema Corte di Cassazione.
Morì ad Ardenno il 30 gennaio 1822.
Su De Simoni, il quale
fu autore di un’altra opera assai conosciuta, Del furto e sua pena, pubblicata per la prima volta a Lugano nel
1776, vedi CAVANNA, La codificazione
penale in Italia, cit., pp. 75 e 231 ss., e DEZZA, Tommaso Nani, cit., p. 139 e passim.
Inoltre esiste una sua memoria autobiografica raccolta in Memorie intorno la propria vita e scritti, a cura di C. Mozzarelli,
Mantova 1991 e notizie su di lui sono contenute in PERUZZI, Progetto e vicende di un codice civile della
Repubblica Italiana (1802-1805),
Milano 1971, pp. 53 ss.
Un recente approfondito
studio – COGROSSI, Alberto De
Simoni tra Diritto comune e Illuminismo: nuove aperture ai concetti di certezza
morale e di probabilità nella formazione del giudizio, in Studi in onore di Mario Romano, IV,
Napoli 2011, pp. 2731 ss. – riconosce a De Simoni una significativa
apertura all’Illuminismo, l’abbandono delle vecchie teorie di
Diritto comune e una specifica attitudine teorico-pratica
nell’esposizione dottrinale (frutto del lungo esercizio
dell’avvocatura, e carente invece nei “philosophes” e nei teorici che godevano di maggior fama
rispetto a lui): tutto ciò ne farebbe «un autore ancora
interessante per l’attuale penalista a ritrovare nel passato le radici
del nostro presente».
[67] DE
SIMONI, Dei delitti di mero affetto,
parte prima, Como 1783, pp. 23-24. Seguirà la seconda parte, dedicata
agli attentati, parti poi riunite in
edizioni successive in unico volume.
[69] DE
SIMONI, Dei delitti di mero affetto,
cit., pp. 108-110. Egli definisce Beccaria «un moderno filosofo degno di
qualche lode, ma troppo lodato … quello stesso filosofo, che ha potuto
riscuotere applausi soltanto da chi soltanto o non seppe, o non volle
analizzare il suo sistema». E più avanti (p. 354) dirà del
saggio Dei delitti e delle pene che
«il maggiore suo credito lo deve alla sua oscurità».
L’atteggiamento critico di De Simoni nei confronti di Beccaria è
comune a molti tecnici dell’epoca; la più autorevole difesa venne
proprio da Feuerbach, che rispondendo ad alcuni critici pedanti e disattenti,
aggiungeva: «Beccaria scrive non per la scuola, me per il Mondo».
Vedi MARINUCCI, Beccaria penalista,
nostro contemporaneo, cit., p. 20. Lo stesso De Simoni però nella
sua opera Del furto e sua pena
riconosce (p. 6 dell’edizione di Milano 1825, con commenti
dell’avv. Carozzi) il “molto pregio” del Dei delitti e delle pene e rilascia tutt’altro giudizio (p.
4) su Beccaria al quale attribuisce il merito di aver «perorato da
valente avvocato la causa dell’umanità contro la superstiziosa
prevenzione che ha fatalmente affascinati gl’intelletti de’
criminalisti nostri per certe leggi o mal intese e peggio applicate, o stabilite
dalla barbarie e dal fanatismo».
[70] DE
SIMONI, Dei delitti di mero affetto,
cit., pp. 110 ss. Più avanti, dopo una lunga digressione filosofica
sulla natura degli uomini e delle leggi, e dopo aver affermato che scopo di
queste è circoscrivere “l’istinto naturale innato
dell’amor proprio dentro certi limiti», l’Autore precisa (p.
157): «era mestieri, che le leggi, come istituzioni morali fatte per
creare e riformare i costumi civili, non solo misurassero le azioni negli
esterni loro effetti e conseguenze, ma ancora, e singolarmente negli interni
loro rapporti per far argine in ispecial modo colle pene, che sono le medicine
civili, e morali, alla rea volontà eccitata dallo spirito inquieto del
corrotto amor proprio».
[71] DE
SIMONI, Dei delitti di mero affetto, cit.,
pp. 160-161. Altri casi di delitti di mero affetto oltre gli attentati sono
quelli «che la loro forma criminosa direttamente ricevono dalla sola
volontà, e intenzione rea indipendentemente dalla necessità di
alcun reale effetto, e che in questo aspetto vengono dalla Polizia civile
puniti». In questa categoria De Simoni fa rientrare (p. 210) i delitti di
religione, lo spergiuro, il sacrilegio, il consiglio altrui dato a commettere
un misfatto, l’approvazione e partecipazione dell’altrui delitto,
il mandato.
[72] DE
SIMONI, Dei delitti di mero affetto,
cit., pp. 179-180. Solo ove vi sia certezza di dolo si possono punire gli
“attentati”, cioè «allor quando il delitto è di
tal natura, che non può essere commesso, né per imprudenza,
né per trasporto, e che non può essere conseguenza, che di un
disegno premeditato come il latrocinio, l’assassinio, il veneficio, e
l’omicidio proditorio»: in questi casi «le leggi civili non
possono, che prendere per effetto, le stesse semplici intraprese de’
delitti di tal natura”. Proprio perché è necessario sia
l’affetto che l’effetto non sono poi punibili il reato putativo, la
desistenza e il recesso attivo, alla cui descrizione De Simoni dedica ampio
spazio.
[74] DE SIMONI,
Dei delitti di mero affetto, cit.,
pp. 230 ss. «Quanto poi alla distinzione del dolo vero presuntivamente provato, e del dolo presunto veramente
provato, questo è un pretto gioco vano di parole, che va a finire in
uno stesso senso, avveggnacchè il provare presuntivamente non può
essere in buona dialettica niente affatto diverso, e differente dal provare
veramente la stessa presunzione!».
[78] DE
SIMONI, Dei delitti di mero affetto,
cit., pp. 255 ss. e in particolare 259 e 261-262.
Quanto alle omissioni,
nell’ambito di una ampia trattazione (pp. 276 ss.), De Simoni indica
quattro condizioni per la loro punizione: 1) “Che supposto il dovere non
sieno mancate le forze, e i mezzi legittimi per agire”; 2) “Che
l’uso di questi mezzi non ostasse a qualunque altro dovere indispensabile
e anteriore” e non lo esponesse a “un qualche male considerevole,
cui non fosse obbligato di esporsi”; 3) “Che l’imputato di
omissione siasi ridotto allo stato di impotenza di agire per sua colpa, e
malizia”: cioè l’omissione può essere colposa o
dolosa; d) “Che l’ignoranza, onde è provenuta
l’omissione, o fosse vincibile per se, e nella sua causa, o discendesse
da un’antecedente vizio della volontà”.
In generale,
l’ignoranza e l’errore rappresentano cause di esclusione della
“imputabilità” solo quando non sono dovute a “vizio
della volontà”. Il tema è trattato da De Simoni (pp. 310
ss.) riprendendo testualmente Aristotele e ponendo così il principio:
«La ignoranza adunque o dall’intelletto, o dalla volontà
deduce la sua causa. Se essa proviene dal difetto dell’intelletto per un
antecedente vizio della volontà, è assolutamente imputabile, e se
direttamente deriva dalla volontà tanto più è un soggetto
legittimo della civile imputazione». Due secoli dopo anche la dottrina
tedesca richiamerà gli assunti di Aristotele in tema di ignoranza: cfr.
WELZEL, Naturrecht und materiale
Gerechtigkeit, 4. Aufl., Göttingen
1962, pp. 35 ss. e Arth. KAUFMANN, Die
Parallewertung in der Laiensphäre. Ein sprachphilosophischer Beitrag zur
allgemeinen Verbrechenslehre, München 1982, pp. 4-5
[82] Sul tema VEST, Zur Beweisfunktion des materielles
Strafrechts in Bereich des objektiven und subjektiven Tatbestandes, in ZStW
(103), 1991, pp. 590-591. Per JESCHECK – WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, 5.
Aufl., Berlin 1996, pp. 146 e 563, con siffatte tecniche si fraintende il principio
dell’in dubio pro reo e si
snatura l’essenza della colpa: contestare all’imputato un fatto
colposo quando non si riesce a provare se egli abbia agito con dolo o con
colpa, significa andare contro l’esatto significato della colpa come
criterio di attribuzione della responsabilità con struttura del tutto
diversa rispetto al dolo, e i cui requisiti devono essere provati per intero.
[83]
CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale,
“Traduzione italiana sulla quinta edizione di Pisa” (1833) del
Prof. Caruana Dingli, “Prima edizione milanese riveduta e annotata da
Filippo Ambrosoli”, Milano 1863, pp. 40-41. Intenzione indiretta positiva – spiega così il
pensiero di Carmignani, Ambrosoli in nota – si ha nel seguente caso:
«Se uno spara un fucile dalla finestra sulla folla prevede che taluno
rimarrà colpito»; intenzione
indiretta negativa invece «se, stando in camera, getta qualche cosa
dalla finestra senza pensare che sotto può passare qualcuno ed esserne
colpito». Secondo Ambrosoli, da altri, più semplicemente, il primo
è ritenuto un esempio di dolo
indeterminato e il secondo di colpa.
[84] La
presenza della colpa come “causa morale” dell’infrazione fa
sì che a questa si addica il nome non di delitto ma di quasi delitto. La colpa,
“infimo” grado dell’intenzione, viene così definita:
«Un abito della volontà, per
cui l’agente non fa uso del suo intelletto per conoscere tutti i
possibili effetti della sua azione, contrarj alla legge». La sua
“natura” – afferma CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale, cit., p. 43 – è
costituita dalla negligenza.
[86]
CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale,
cit., pp. 48-49 e 73-74. Sul punto GARGANI, Dolo
e colpa in Carmignani tra diritto e processo, in AA.VV., Giovanni
Carmignani, cit., pp. 248-249 e 262-263, secondo il quale la dottrina di
Carmignani sconta fatalmente la pesante eredità, da un lato del dolo
generale e del dolo indiretto, dall’altro del metodo probatorio di tipo
inquisitorio. Inoltre ai tempi di Carmignani (ma anche in quelli di Carrara) la
colpa sta ancora uscendo da una fase storica in cui a essa non era nemmeno
riconosciuta rilevanza penale. Il delitto colposo ha ora un carattere eccezionale,
data la modesta temibilità e diffusione delle aggressioni involontarie e
la conseguente limitata positivizzazione delle regole cautelari. Un ruolo
minore testimoniato anche a livello legislativo dal limitato numero di
fattispecie colpose previste dal codice toscano, e, del resto, dallo stesso
codice Zanardelli. Cfr. PADOVANI, Il
grado della colpa, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1969, pp. 846 ss.; GIUNTA, Illiceità
e colpevolezza nella responsabilità colposa, I. La fattispecie,
Padova 1993, pp. 41-42; VINCIGUERRA, Fonti
culturali ed eredità del codice penale toscano, in Codice penale pel Granducato di Toscana
(1853), Padova 1995, CLXX.
[87]
È dettato da preoccupazione garantista anziché repressiva quanto
afferma CARRARA (Programma del corso di
diritto criminale. Parte generale, I,
Del delitto, della pena, 6ª ed., 1886, riprodotta, con introduzione di
F. Bricola, Bologna 1993, § 80 nt. 1), che cioè quando si sia in
dubbio sulla presenza del dolo o della colpa si dovrà ritenere presente
questa e non quello, «per il sommo principio che ogni perplessità
deve sempre risolversi a favore dell’accusato». La “politica
imputabilità” dei fatti colposi ha il medesimo fondamento di
quelli dolosi, la presenza cioè di un danno mediato e di uno immediato
(§ 126). Vedi DELOGU, «Vivo e
morto» nell’opera di Francesco Carrara, in AA.VV., Francesco Carrara nel primo centenario della
morte, Milano 1991, pp. 100 ss., il quale osserva che se nel campo della
colpevolezza dolosa Carrara ha spesso portato avanti e sviluppato punti di vista
già presenti nella dottrina, invece a proposito della colpa si è
allontanato dalla dottrina dell’epoca e ha anzi anticipato le concezioni
oggi dominanti sul modo di essere della colpa.
[94]
CARRARA, Programma. Pt. gen., cit.,
§ 67. Su questa disputa di Carrara con De Simoni e Carmignani, già
FINZI, Il “delitto
preterintenzionale”, Torino 1925, pp. 24-25 nt. 1. Anche Carmignani
considerando l’intenzione sotto il profilo della sua direzione
distingueva a seconda della maggiore o minore connessione dei mezzi adoperati
dall’agente con il fine propostosi: vedi GARGANI, Dolo e colpa in Carmignani tra diritto e processo, in AA.VV., Giovanni Carmignani (1768-1847), Pisa
2003, p. 256.
[95] G.A.
DE FRANCESCO, La concezione del dolo in
Francesco Carrara, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1988,, p. 1357.
[96]
CARRARA, Dolo (Sunto di una lezione),
in Opuscoli di diritto criminale, I,
3ª ed., Prato 1878, p. 311. Carrara aggiunge che i mezzi usati possono
sì rappresentare un elemento utile ai fini della valutazione di
gravità del delitto, ma solo sotto il profilo materiale e non per il
profilo soggettivo. «Spesso è anzi riprova di scelleraggine e malizia
maggiore lo scegliere dei mezzi che possano assumere l’apparenza
dell’infortunio. È un calcolo ulteriore del malvagio, col quale
accortamente cambia la minore probabilità dell’evento, con la
maggiore probabilità della propria impunità».
[99] RAGUÉS i VALLÈS, El dolo y su prueba, cit., pp. 278-279. Sul
divieto della prova per indizi, VOLK, Dolus
ex re, cit., pp. 614-615.
[100] VEST, Vorsatzbeweis,
cit., pp. 23 ss. e già LÜDERSSEN, Die Strafrechtsgestaltende Kraft des Beweisrechts, in ZStW (85), 1973, p. 301.
[101] HILLENKAMP, Beweisnot
und materielles Strafrecht, in R.
Wassermann – FS, Neuwied, 1985, p. 867.
[102] HENKEL, Die
„Praesumtio Doli“ im Strafrecht, in Eb. Schmidt
- FS, Göttingen 1961, p. 581, e riguardo alla praesumtio doli specialis, pp. 584-585;
Afferma VOLK, Dolus ex re, cit., p.
618, dopo avere rimarcato il ricco significato contenutistico del dolo agli
inizi del XVIII sec.: «Era un compito arduo, quello che il diritto
sostanziale assegnava a una disciplina probatoria irrigidita e superata».
Una situazione di difficoltà simile, possiamo aggiungere, a quella che
si presentava ai commentatori italiani nel XIII secolo per la prova del dolus malus romanistico: e infatti le
presunzioni di dolo furono la prima tecnica di semplificazione probatoria.
[103] GROLMANN, Wird
dolus bey begangenen Verbrechen vermuthet?, in Bibliothek für die peinliche Rechtswissenschaft und Gesetzkunde,
1 Theil 2. Stuck, 1798, pp. 70 ss., citato tra gli altri da VEST, Vorsatzbeweis, cit., p. 23.
[104] FEUERBACH, Lehrbuch
des gemeinen in Deutschland gültigen peinlichen Rechts, 4. Aufl.,
Giessen 1808, pp. 59-60 (ma il principio era già enunciato nella prima
edizione): «Poiché nelle azioni umane, la natura dello spirito
umano può permettere la spiegazione più immediata
dell’intenzione di una persona, deve ritenersi, perciò, che la
produzione di un effetto per mezzo di un’azione volontaria, senza che
quell’effetto sia stato scopo della volontà, rappresenti solo una
particolare eccezione a una regola generale: così anche un effetto
antigiuridico prodotto attraverso un’azione volontaria deve venire
riconosciuto come scopo della volontà, a meno che non si mostrino motivi
sufficienti per una eccezione (Facta
laesione praesumitur dolus, donec probatur contrarium)»..
[105] Eb.
SCHMIDT, Die Carolina, cit., pp. 261
ss.; altri casi in LÖFFLER, Schuldformen,
cit., pp. 246 ss.
[106] VEST, Vorsatzbeweis, cit., p. 24. La dottrina
del tempo ne criticò in primo luogo il fondamento, ritenendola una
costruzione avulsa dalla realtà, giacché basata su una premessa
falsa (che i fatti dolosi siano la regola); in secondo luogo perché in
contraddizione con la presunzione di non colpevolezza, almeno nella forma della
praesumptio boni viri; infine sul
piano della legittimazione storica dato che la presunzione generale è
principio estraneo al diritto romano. Vedi
HENKEL, Praesumtio Doli, cit., nt. 10
p. 582 e poi p. 583, e HRUSCHKA, Über
Schwierigkeiten mit dem Beweis des Vorsatzes, cit., p. 198.
[108] DE
SIMONI, Dei delitti di mero affetto,
cit., pp. 367 ss. La prova dell’attentato è poi particolarmente
ardua (pp. 383-384), dato che «l’effetto ha un reale argomento su
cui ragionare, e l’attentato non ha che un imaginario, e morale
principio, onde discorrere». Dove vi è un effetto si ha una
“certezza fisica di fatto” che conduce a un ragionamento “a posteriori”; nel tentativo tutto
è “congettura” e il ragionamento ha una struttura “a priori”.
[109] Per la
descrizione del processo di formazione di questa “certezza”,
COGROSSI, Alberto De Simoni tra Diritto
comune e Illuminismo, cit., pp. 2749 ss.
[110] Sullo
scottante problema dell’arbitrio giudiziale nell’opera di De
Simoni, COGROSSI, Alberto De Simoni tra
Diritto comune e Illuminismo, cit., pp. 2742 ss. e 2756 ss.
[111]
CARRARA, Programma, cit.,
§§ 1104 e 1108; FINZI, La
intenzione di uccidere. Considerata in relazione ai varii modi coi quali
può commettersi un omicidio, Milano 1954; BRICOLA, Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di
oggetto e di accertamento del dolo, Milano 1960. Sia consentito infine il
rinvio a DEMURO, Il dolo. II.
L’accertamento, Milano 2010, pp. 435 ss., anche per i riscontri
giurisprudenziali odierni.