Università di Roma “La Sapienza”
Qualche riflessione sul
plebiscito del tribuno della plebe Villio del 180 a.C. (la cd. lex Villia annalis)*
SOMMARIO: 1. Le fonti. – 2.
La dottrina. – 3. Il
contesto. – 4. Il
conflitto nobilitas–homines novi.
La lex Cornelia Baebia de ambitu ed
il rigore aristocratico del 181 a.C. – 5. Lotta
politica ed attività legislativa delle assemblee popolari dal 200 al 181
a.C. – 6. I
valori della cd. lex Villia annalis. – Abstract.
Solo
da Livio abbiamo notizia di una proposta di plebiscito avanzata nel 180 a.C. da
un tribuno della plebe di nome L. Villio e qualificata, circa i contenuti, con
il termine annalis. Si tratta della prima legge ‘annalis’, la cui approvazione
può essere desunta dall’attribuzione dell’apposito cognomen ‘Annalis’ alla famiglia cui apparteneva Villio:
eo anno rogatio primum lata est ab L. Villio tribuno plebis, quot
annos nati quemque magistratum peterent caperentque. Inde cognomen familiae
inditum ut Annales appellarentur (Liv. 40,44,1)[1].
Le
altre fonti che fanno riferimento a leges
annales o, più in generale, a leggi disciplinanti il cursus honorum e l’accesso alle
magistrature, non menzionano mai esplicitamente il plebiscito di Villio. Ma non
si può escludere che in alcuni casi esse si riferiscano proprio a questa
legge.
In
particolare, la definizione che Festo dà di lex annaria richiama da vicino quanto scritto da Livio a proposito
del contenuto della prima lex annalis:
annaria lex dicebatur ad antiquis ea, qua
finiuntur anni magistratus capiendi (de
verb. signif., v. Annaria, 27 ed. Müller)[2].
Chiaro,
mi sembra, il riferimento al plebiscito di Villio fatto da Cicerone nella
quinta Philippica. L’Arpinate,
parlando di un tempo lontano in cui non esistevano leges annales, menziona i più recenti casi, risalenti ad
anni immediatamente precedenti il 180 a.C., di elezione al consolato di adulescentes - Scipione Africano e T.
Quinzio Flaminino -, deplorando quindi l’epoca successiva, caratterizzata
invece dalla necessità di emanare leggi di questo tipo[3].
Più
complessa è la vicenda illustrata in un passo tratto dal primo libro
sulle guerre civili di Appiano; in questo brano si mette in luce
l’attività legislativa di Silla con riferimento ad una legge
diretta ad imporre l’obbligo di osservare un certus ordo magistratuum nelle candidature alle magistrature[4],
e quindi si rammenta il caso di Q. Lucrezio Ofella che, presentatosi al
consolato senza aver prima ricoperto la questura e la pretura, fu fatto
uccidere dallo stesso Silla[5].
Orbene Appiano, in questo contesto, scrive di un palaiÕn œqoj che
avrebbe disciplinato la materia prima della riforma sillana.
Ora,
con il termine œqoj non si intende una legge pubblica, ma un ‘uso’, da
rendere in lingua latina con la parola mos[6];
un uso, forse, affermatosi in base ad una o più leggi[7]
(v. infra, par. 2).
Un
richiamo implicito al plebiscito di Villio è anche in quegli autori che
narrano dell’elezione al consolato di Scipione Emiliano nell’anno
147 a.C.: Livio (o meglio l’epitome), Appiano e Plutarco. In concreto,
l’epitome del cinquantesimo libro degli Annali di Livio mette in luce il
fatto che l’Emiliano, concorrendo all’edilità, venne dal
popolo eletto console benché non potesse ancora ambire a questa carica a
causa dell’età[8].
Appiano ribadisce sostanzialmente quanto narrato nell’epitome liviana,
con qualche dettaglio in più[9].
Plutarco cita l’episodio dell’Emiliano come un caso di deroga alle
leggi sull’elezione al consolato[10].
Vi
è poi un altro caso di violazione delle norme disciplinanti il cursus honorum nel periodo compreso tra
il plebiscito del 180 a.C. e l’attività riformatrice di Silla.
Esso è ricordato da Cicerone e si riferisce a Cesare Vopisco che
nell’88 a.C. tentò di raggiungere il consolato senza essere
transitato per la pretura[11].
L’Arpinate, non facendo espressa menzione del primo plebiscito annalis e dei suoi contenuti, insiste
però sul fatto che la candidatura di Vopisco andava palesemente contra legem[12].
Dall’analisi
delle succitate fonti, dunque, si può osservare che solo Livio, come
già detto, scrive espressamente di un plebiscito annalis del tribuno Villio. Gli altri autori esaminati, il
più antico dei quali è Cicerone, non considerando la
“glossa catoniana” in Festo, richiamano genericamente disposizioni
di leges (annales) o di un antico ‘uso’, che avrebbero
disciplinato l’accesso alle magistrature imponendo limiti di età o
regolando il cursus honorum.
Tutto
ciò mi porta a pensare, come prima conclusione, che tra il plebiscito
del 180 a.C. e le sicure riforme di
Silla non siano intervenute altre leges
annales[13].
A
fronte delle poche e non chiare notizie fornite dalle fonti, numerose sono
invece le teorie elaborate dalla dottrina circa i contenuti di quella che
comunemente è chiamata lex Villia
annalis. Molte di queste teorie, andando al di là della definizione
di legge annalis data da Livio, e
sostanzialmente confermata dal passo di Festo, enucleano certi aspetti del
plebiscito di Villio, desunti dai dati emergenti nei Fasti dei magistrati
curuli.
In
concreto, questi aspetti individuati dalla dottrina concernono:
a) l’età
minima necessaria per ricoprire le varie magistrature;
b) l’intervallo
di tempo tra una magistratura e l’altra;
c) i
cosiddetti decem stipendia;
d) il certus ordo magistratuum.
Dal
primo aspetto dipende, per definizione, la peculiarità delle leges annales, di cui il plebiscito di
Villio costituisce il primo caso. Infatti, come sopra si è avuto modo di
vedere, Livio e Festo forniscono definizioni del termine annalis o annaria,
sostanzialmente coincidenti:
…quot annos nati quemque magistratum peterent caperentque
(Liv. 40,44,1);
…qua finiuntur anni magistratus capiendi (Fest., de verb. signif., v. Annaria, 27 ed. Müller).
La lex annalis, quindi, stando ai passi sopra riportati, richiedeva
determinati requisiti d’età per accedere alle magistrature. Ci
sono, tuttavia, differenze di interpretazione.
Nipperdey, seguito da altri
autori, affermava che un requisito d’età fosse richiesto per
accedere ad ogni magistratura[14],
Mommsen invece, e dopo di lui altri, riteneva che il raggiungimento di una
determinata età fosse necessario solo per ambire alla questura,
considerata la prima carica del cursus
honorum[15].
La
teoria di Mommsen, accusata di scarsa adesione alla lettera delle fonti,
seguiva però un innegabile filo logico. Lo studioso tedesco sosteneva
infatti che la lex Villia avesse
imposto ai candidati l’osservanza di un certo intervallo per accedere a
ciascuna magistratura dell’ordo; appariva, così, inutile
fissare l’età minima per ogni carica quando la candidatura alle
successive poteva avvenire solo dopo che fosse trascorso un determinato lasso
di tempo prestabilito (biennium): era
infatti sufficiente indicare quale dovesse essere l’età minima per
accedere alla carica più bassa dell’ordine.
De
Martino, criticando Mommsen, sosteneva che la prescrizione circa
l’osservanza del cosiddetto biennium
fosse di natura consuetudinaria e non imposta dalla legge di Villio; lo
studioso italiano si basava essenzialmente sul fatto che solo una fonte faceva
esplicita menzione dell’intervallo biennale, definendolo tempus quasi legitimum[16],
alla stregua di un uso così radicato da essere osservato come una vera
disposizione di legge[17].
Connessa
agli aspetti dell’età minima richiesta per rivestire magistrature
e del biennio di intervallo, è la questione relativa all’obbligo
dei cosiddetti decem stipendia.
L’obbligo
dei decem stipendia consisteva nella
necessità che ogni cittadino romano prestasse servizio militare per
almeno dieci anni, onde poter poi aspirare alle magistrature. Esso è attestato
da un passo tratto dalle Storie di Polibio: politik¾n d labe‹n ¢rc¾n
oÙk œxestin oÙdenˆ prÒteron, ™¦n
m¾ dška strate…aj ™niaus…ouj Ï
tetelekèj (Pol. 6,19,4-5).
Mommsen,
sulla base di questo testo, riteneva che anche l’obbligo dei decem stipendia fosse richiesto dalla
stessa legge Villia, la quale, come già ho esposto, stabilendo
automaticamente quale dovesse essere l’età minima necessaria per
accedere alla prima magistratura dell’ordo,
solo indirettamente avrebbe fissato l’età minima che ogni cittadino
avrebbe dovuto raggiungere per ambire alle altre cariche, facendo ricorso al
criterio del biennium di intervallo.
A
questa teoria si contrapponeva Fraccaro, il quale sosteneva che la lex Villia e l’obbligo dei decem stipendia dovessero essere intesi come
indipendenti; l’autore, infatti, riteneva che le disposizioni concernenti
l’obbligo di un decennale servizio militare appartenessero ad
un’epoca più antica rispetto a quella di approvazione del
plebiscito di Villio. Fraccaro giungeva così alla conclusione che la
legge Villia e l’obbligo del servizio decennale, pur distinti,
interagissero tra loro, nel senso che se le norme relative ai decem stipendia fissavano
l’età minima per iniziare la carriera politica, cioè per
aspirare alla questura, la legge Villia stabiliva quale dovesse essere
l’età minima per accedere alle altre magistrature dell’ordo[18].
Per
quanto concerne, infine, il certus ordo
magistratuum, De Martino, in disaccordo con la maggior parte della
dottrina, propensa ad attribuire alla lex
Villia la creazione, o quanto meno la fissazione definitiva di un ordine
nella scala delle magistrature, trovava giustamente sorprendente che siffatta
opinione si fosse formata senza che una sola fonte avesse attribuito in maniera
esplicita e certa tale contenuto al plebiscito del tribuno Villio[19].
De Martino concludeva che il concetto di certus
ordo, formatosi in modo consuetudinario, fosse preesistente alle
disposizioni della lex Villia[20].
Le
ricostruzioni della dottrina, come ho già anticipato, sono spesso accompagnate
da elaborati calcoli tesi a stabilire l’età minima richiesta per
accedere ad ogni magistratura; così, se per alcuni autori sarebbero
stati necessari ventotto anni per aspirare alla questura e trentaquattro per
raggiungere il consolato, per altri studiosi invece già
l’età di venticinque anni sarebbe apparsa sufficiente per la
questura, mentre trentasei anni sarebbero stati pochi per ottenere la carica di
console[21].
La
situazione appare ancora più confusa a causa della lex Cornelia de magistratibus, fatta approvare da Silla
nell’81 a.C., la quale, secondo l’opinione comune, avrebbe in
qualche modo riformato il regime imposto dalla legge Villia, aumentando forse i
limiti d’età ed abrogando l’obbligo dei decem stipendia[22].
In queste condizioni,
ritengo che alla comprensione della ratio
e dei contenuti del plebiscito di Villio giovi più l’analisi del
contesto in cui esso fu approvato piuttosto che i calcoli diretti a stabilire
l’età necessaria per accedere alla questura o al consolato.
La
più recente dottrina, come sostanzialmente anche quella meno recente[23],
attribuisce alla lex Villia le
connotazioni tipiche dell’ambiente aristocratico, teso ad impedire
l’emersione di singole e forti personalità e soprattutto ad
arginare le spinte intrusive degli homines
novi[24].
Scullard
aveva dapprima individuato nella lex
Villia la volontà da parte dell’aristocrazia di frenare le
ambizioni dei giovani e di perseguire una politica livellatrice al suo interno[25];
successivamente, aveva sostenuto che questa legge avesse indirettamente
favorito gli interessi degli homines novi[26];
infine – suprema sintesi – era giunto alla conclusione che questo
provvedimento potesse essere inserito in un più vasto disegno politico,
espressione della volontà senatoria di arginare le spinte egemoniche
provenienti dal suo interno e di frenare nel contempo l’ascesa dei novi[27].
Del
resto, già Rögler aveva attribuito la responsabilità
dell’emanazione della nostra legge alla nobilitas vicina alle posizioni dell’ordine senatorio, tutta
tesa ad una «umfassende Regelung»
delle carriere magistratuali[28].
Analoga
impostazione in Bernardi e, sostanzialmente, in Feig Vishnia, i quali
riconoscono nella legge Villia l’obiettivo, di stampo aristocratico, di
impedire l’affermazione di qualche ambizioso beniamino delle assemblee
popolari[29].
Anche
Di Salvo presenta la parte più tradizionalista della nobilitas come l’ispiratrice del
nostro plebiscito, spinta dall’esigenza di ricacciare indietro le
ambizioni degli adulescentes[30].
Per
Billows questa legge è immediatamente diretta ad assicurare a tutti i
membri della classe di governo pari opportunità di accesso alle
più alte cariche[31].
In modo analogo possono essere letti Evans e Kleijwegt, i quali individuano la
causa del plebiscito Villio non tanto nella temerarietà degli adulescentes, quanto piuttosto nelle
ambizioni degli uomini politici di quella che essi chiamano «middle-age», attribuendone
l’ispirazione alle idealità proprie della nobilitas e ravvisando una stretta connessione tra la nostra lex annalis e la lex Baebia del 181 a.C.[32].
Improntato
a maggiore cautela appare infine l’esame svolto da Poma, che esprime
sostanziale incertezza circa la matrice politica del provvedimento in questione[33].
Riassumendo,
la legge Villia, attraverso l’imposizione di un’età minima
per accedere alle magistrature e forse anche di un certus ordo, sarebbe stata diretta ad impedire il compimento di
carriere politiche troppo rapide sia dei giovani rampolli
dell’aristocrazia sia delle più arrembanti famiglie di novi. Perseguendo il primo obiettivo
sarebbe stata difesa la compattezza del gruppo sociale e politico
dall’indebolimento del senso di appartenenza; perseguendo il secondo,
sarebbe stata evitata la ‘contaminazione’ della nobilitas, dovuta alla possibile
intrusione di nuove famiglie e quindi di potenziali od effettivi elementi
destabilizzanti.
Circa
il primo obiettivo, occorre fare qualche riflessione.
Innanzitutto,
è bene mettere in chiaro come, perlomeno fino al 180 a.C., non si possa
parlare di interpretazione del potere in chiave personalistica da parte dei
componenti la nobilitas. Infatti, dal
215-214 a.C., per più di cento anni, non si verifica alcun caso di
assunzione del consolato per due anni consecutivi[34].
Dalla fine della guerra annibalica fino al 180 a.C. vi sono solo due persone
che ricoprono la carica consolare per due volte, osservando però un
intervallo di ben undici anni[35].
Per di più, è solo nel 156 a.C. che si verifica un caso di
acquisizione di un consolato dopo meno di dieci anni dal precedente[36].
Inoltre, dei quarantatre consoli che si succedono nella carica nei ventuno anni
che vanno dal 200 al 180 a.C.[37],
solo sei non avrebbero ricoperto la pretura[38];
ma di questi, due avevano già avuto il consolato in anni precedenti[39].
In proposito, occorre osservare che l’ultimo di questi casi si verifica
ben quattordici anni prima dell’approvazione della lex Villia, trattandosi però di una delle due occasioni di
iterazione del consolato menzionati sopra.
Degli
ultimi casi citati, solo uno sembra essere clamoroso e degno di memoria per le
fonti. Si tratta dell’elezione al consolato direttamente dalla questura
del patrizio Tito Quinzio Flaminino, la quale non è affatto osteggiata
dall’ordine senatorio che, anzi, la difende di fronte agli attacchi dei
tribuni della plebe[40],
ed avviene ben diciotto anni prima che il tribuno Villio presenti la sua legge
all’approvazione della plebe.
Del
resto, i dati desumibili dalle fonti non conducono alla dimostrazione che
alcune tra le famiglie nobili più illustri tendano a costituire dei
centri di potere al di sopra della nobilitas,
accedendo troppo velocemente alle massime cariche. Infatti, dei quarantatre
consoli degli anni 200-180 a.C., solamente sei ricoprono il consolato solo due
anni dopo aver rivestito la pretura, e di questi, ben quattro sono concentrati
nei sei anni che vanno dal 200 al 194, mentre gli altri due risalgono al
biennio 186-185 a.C.[41].
Gli altri trentasette consoli, poi, occupano il consolato dopo un intervallo
dalla pretura che oscilla da un minimo di tre anni ad un massimo di diciassette[42].
Non mi
sembra vi siano argomenti per dimostrare la fondatezza delle presunte
preoccupazioni senatorie di impedire l’emersione di alcune famiglie,
orientate verso un’interpretazione personalistica della gestione del
potere attraverso le massime magistrature cittadine. Anzi, la classe dirigente
romana appare in grado di controllare efficacemente le eventuali tendenze
‘individualiste’ che possano affacciarsi al suo interno, riuscendo
ancora perfettamente ad assorbirle. D’altronde, l’oligarchia
senatoria si dimostra capace di controllare la situazione anche di fronte ad un
progressivo aumento dei poteri promagistratuali nelle province, che sono ancora
ben lungi da costituire un reale pericolo di frattura degli equilibri politici.
Per
quanto concerne il secondo obiettivo che sarebbe stato perseguito con la legge
Villia, cioè quello di impedire la carriera politica agli homines novi, anche in questo caso
occorre fare alcune riflessioni.
Da uno studio sugli elenchi
dei magistrati romani[43],
nei settantasette anni che separano il 340 dal 264 a.C., data di conclusione
della prima guerra punica, tra le ventinove famiglie plebee che ricoprono il
consolato, se ne possono contare ventiquattro che vi accedono per la prima
volta. Di contro, nei sessantatre anni che vanno dal 263 al 201 a.C., data di
conclusione della guerra annibalica, delle quaranta famiglie consolari, solo
undici appaiono per la prima volta[44].
Infine, in ventuno anni, dal 200 al 180 a.C., anno di approvazione della lex Villia, tra le sedici famiglie
plebee e le dieci famiglie patrizie che si dividono i quarantatre consolati, si
possono rinvenire solo due nomi nuovi[45].
Tutto
ciò non solo conferma la tendenza della nobilitas ad impedire l’accesso al consolato di nuove
famiglie, ma dimostra anche che questa nobiltà patrizio-plebea è
perfettamente in grado di controllare le spinte degli homines novi facendo ricorso ai consueti ed ampiamente sperimentati
strumenti di lotta politica, tra cui si annoverano il privilegio della nascita
e le vaste clientele[46].
Riassumendo, infatti, dal 263 al 216 sono ben undici le famiglie che giungono
per la prima volta al consolato, con una media di una famiglia ogni quattro
anni e mezzo; dal 215 al 180 sono solo due le famiglie nuove che accedono al
consolato, con una media di una famiglia ogni diciotto anni; successivamente
alla emanazione del plebiscito di Villio, dal 179 al 146 a.C. sono ancora due
le famiglie di novi che pervengono al
consolato, con una media di una famiglia ogni diciassette anni.
Dunque,
la legge Villia non appare diretta ad arginare le aspirazioni dei giovani
nobili né a contrastare le supposte spinte egemoniche di alcuni forti
personalità, e neppure sembra essere espressione di una volontà
politica diretta a colpire gli interessi dei novi ad accedere alle più alte cariche magistratuali. La
tendenza ad una diminuzione degli ingressi di nuove famiglie al consolato
appare chiara già molto tempo prima dell’approvazione di questa
legge, ed ulteriormente confermata, finanche nelle proporzioni, negli anni
successivi[47].
Se,
come ritengo di aver dimostrato, la lex
Villia annalis non è diretta a frenare genericamente le giovanili
ambizioni di rapide carriere o a controllare in qualche modo l’emersione
e l’affermazione di forti personalità nobiliari, ovvero, e
soprattutto, ad impedire a nuove famiglie di accedere alle più alte
cariche magistratuali, riesce difficile individuare nell’oligarchia
senatoria il centro ispiratore della manovra politica che dà vita alla
legge Villia.
Come
ho già accennato, l’aristocrazia è in grado di controllare
le ambizioni degli homines novi
facendo ricorso a sperimentati strumenti di lotta politica che nulla hanno in
comune con la lex annalis. Tra questi
strumenti, voglio fare specifico riferimento alle leges de ambitu, sia per le loro particolari caratteristiche, sia
perché una di esse è approvata nel 181 a.C., appena un anno prima
rispetto alla legge Villia.
Risale
al 358 a.C. la lex Poetelia de ambitu
che Livio descrive come un provvedimento tum
primum ad populum latum est (Liv. 7,15,12-13); essa è quindi la prima
di una serie di leggi dirette a colpire l’ambitus[48],
o meglio per mezzo di questa i nobiles
novorum maxime hominum ambitionem, qui
nundinas et conciliabula obire soliti erant, compressam credebant (Liv. 7,15,13). Per Livio è chiara la
matrice politica di questi provvedimenti ed i loro veri obiettivi: si intende
impedire agli homines novi di
accedere alle magistrature. È sintomatico, inoltre, il fatto che questa
prima lex de ambitu è
presentata al popolo all’indomani della creazione di due nuove
tribù, la Pomptina e la Publilia, come sembra avvertire anche
Livio, il quale riferisce i due fatti mettendoli in relazione tra loro (Liv.
7,15,12). Infatti, il divieto di recarsi nei territori delle tribù
rustiche per creare proseliti da conquistare ai fini della propria elezione
alle più alte cariche, blocca le ambizioni di coloro che non possono
contare sui vantaggi di numerose clientele familiari né su influenti
amicizie nobiliari.
E le leges de ambitu sono reiterate nel
tempo: nel 181 a.C. viene appunto approvata la lex Cornelia Baebia de ambitu.
Circa
quest’ultima legge, le notizie pervenute dalle fonti si riducono ad uno
stringato riferimento di Livio: et legem
de ambitu consules ex auctoritate senatus ad populum tulerunt (Liv.
40,19,11). Non c'è quindi alcun accenno ai contenuti del provvedimento
né alle pene da esso eventualmente previste. Ciononostante, occorre
rilevare che questa norma viene approvata per iniziativa dei consoli, e
già questo dato fornisce indizi sulla sua matrice politica; per di
più, la legge trova impulso nell’attività del Senato,
inequivocabilmente favorevole alla sua emanazione. Tutto ciò non
può che confermare la tradizione tipicamente nobiliare della
legislazione de ambitu in generale e
la connotazione aristocratica della lex
Cornelia Baebia in particolare: in queste condizioni, è fuori luogo
anche solo pensare che questa legge sia diretta ad osteggiare gli interessi
della nobilitas[49].
Alla
stessa matrice appartiene anche il provvedimento che riduce a quattro il numero
dei pretori, anche se ad anni alterni, che Livio dice essere stato applicato
nelle elezioni tenutesi nell’anno di approvazione della lex Villia: praetores quattor post multos annos lege Baebia creati, quae alternis
quaternos iubebat creari (Liv. 40,44,2). Sia che si voglia accettare la
risalenza di questa norma al decennio successivo alla fine della guerra
annibalica[50],
sia che invece, e probabilmente meglio, la si voglia più direttamente
far coincidere con la lex Cornelia Baebia
de ambitu[51], le motivazioni che spingono
l’aristocrazia ad attuare questo provvedimento sono analoghe a quelle che
alimentano la legislazione de ambitu:
arginare le ambizioni degli homines novi
e controllare più da vicino il pericolo dell’insorgenza e
dell’ampliamento, attraverso le più alte cariche della res publica, di nuove idealità e
di elementi disgregatori della classe di governo. In tal senso, la diminuzione
del numero dei pretori eleggibili, seppure ad anni alterni, può essere
vista come una precisa volontà politica di ridurre ulteriormente le possibilità
di accedere alle cariche più elevate, e da queste al consolato, da parte
di coloro che in ciò non godono di alcuna facilitazione o diritto
derivante dalla nascita.
Infatti,
nei diciotto anni che vanno dal 197, anno in cui compaiono per la prima volta
sei pretori (Liv. 32,27,6), al 180 a.C., si possono contare settantuno pretori
plebei, appartenenti a quarantaquattro genti; di questi pretori, in quegli anni
raggiungono il consolato in ventidue, appartenenti a diciassette genti,
cioè il 39% delle genti plebee che accedono alla pretura, e di queste
diciassette genti solo due ricoprono per più di una volta la suprema
magistratura[52].
Considerato l’elevato numero di genti plebee che dalla pretura possono
aspirare al consolato e che uno solo è però il posto ad esse
riservato ogni anno, questa proporzione appare tutt’altro che bassa, anzi
tanto elevata da giustificare l’intervento dell’oligarchia
senatoria diretto ad evitare e non a ritardare un irreparabile aumento di genti
plebee, e quindi anche di homines novi,
aspiranti al consolato. Per di più, di queste quarantaquattro genti
plebee che dal 197 al 180 a.C. ricoprono la pretura, ben ventisette non
appaiono tra i gentilizi consolari nei centotre anni precedenti; inoltre, di
queste ventisette genti, solo sette accedono alla suprema magistratura negli
anni successivi[53].
***
Un
altro sintomo della svolta oligarchica, nel senso di una più accesa
opposizione alle istanze ed ai tentativi delle famiglie nuove, è
costituito dalla lex Orchia de coenis,
approvata anch’essa nel 181 a.C. e diretta, come lex sumptuaria, a limitare il numero dei partecipanti ai banchetti.
Stando alle notizie fornite da Macrobio, anche questa legge viene presentata
(alla plebe) per volontà del Senato, chiaro indice di una espressa
volontà politica: prima autem
omnium de cenis lex ad populum Orchia pervenit, quam tulit C. Orchius tribunus
plebi de Senatus sententia (Macrob., Sat.,
3,17,2). A parte il fatto che le leges
sumptuariae non appaiono scaturire tanto dalla volontà dei plebei di
controllare i costumi dei patrizi[54],
quanto dallo scopo degli stessi aristocratici di difendere e preservare
l’ordine costituito[55],
l’approvazione della legge Orchia non solo è dovuta
all’oligarchia senatoria, ma la sua contestualità con la legge de ambitu e con l’eventuale lex Baebia de praetoribus appare troppo
sospetta per non ipotizzare l’esistenza di una relazione tra esse. Si
potrebbe così pensare che la lex
Orchia, imponendo un limite al numero degli invitati ai banchetti, tenda
direttamente a colpire gli interessi elettorali di quei candidati che si vedono
costretti ad allestire ricche ed affollate cene per procacciarsi elettori, non
potendo affidare le proprie speranze di elezione ad un nome illustre o ai
privilegi della nascita[56].
In tal modo, anche questa legge potrebbe essere inserita in un più vasto
disegno politico, segno di una decisa azione aristocratica nell’anno 181
a.C. diretta ad infliggere un duro colpo alle istanze popolari di apertura
della nobilitas e di allargamento
delle basi della gestione del potere.
***
Questa
decisa svolta aristocratica è ulteriormente attestata da un fatto
avvenuto anch’esso nel 181 a.C., di cui ci riferisce Livio:
eodem anno in agro L. Petilii scribae sub Ianiculo, dum cultores
altius moliuntur terram, duae lapidae arcae (…) inventae sunt (…).
In altera duo fasces candelis involuti septenos habuere libros, non integros
modo sed recentissima specie. Septem Latini de iure pontificum erant, septem
Greci de disciplina sapientiae, quae illius aetatis esse potuit. (…) Q. Petilius praetor urbanus
studiosus legendi libros eos a L. Petilio sumpsit (…). Lectis rerum
summis cum animadvertisset pleraque dissolvendarum religionum esse, L. Petilio
dixit sese libros eos in ignem coniecturum esse (…). Scriba tribunos plebis
adit, ab tribunis ad senatum res est reiecta. Praetor se iusiurandum dare
paratum esse aiebat, libros eos legi servarique non oportere. Senatus censuit
satis habendum quod praetor iusiurandum polliceretur; libros primo quoque
tempore in comitio cremandos esse (…). Libri in comitio igne a
victimariis facto in conspectu populi cremati sunt (Liv. 40,29).
Questo
episodio, che non costituisce solo un fatto di costume, si presta ad una
lettura politica, come politica appare la provocazione scaturente dalla
falsificazione dei libri di Numa Pompilio ritrovati nel terreno di uno scriba,
amico del pretore urbano Q. Petilio, console nel 176 a.C.[57].
La
preoccupazione del pretore per la minaccia ai principi religiosi sui quali si
fonda la città, la fretta del Senato di porre fine alla vicenda senza
eccessivo clamore e soprattutto senza divulgare il contenuto dei libri di Numa,
testimoniano l’ansia dell’aristocrazia di difendere le basi stesse
del suo potere, colpendo ogni elemento di novità, visto come una
minaccia di disgregazione. Se poi si accetta la teoria che vuole accostare i
libri di Numa alla divinizzazione degli eroi[58],
il quadro si presenta ricco di ulteriori elementi: il timore dell’uso
politico di tali libri da parte di movimenti anti-aristocratici così
come il loro stesso rinvenimento, anch’esso politicamente orchestrato,
sono i sintomi della presenza di una lotta politica a Roma nei primi decenni
del II secolo a.C., tendente da una parte a minare i fondamenti del potere
nobiliare, dall’altra a ribadire fermamente i principi nobiliari contro
ogni elemento innovatore.
La
volontà di reprimere tutti i tentativi di attaccare le basi politiche e
religiose sulle quali poggia il sistema, appare animata dallo stesso spirito
che avrebbe dato vita, qualche anno più tardi e cioè intorno al
158 a.C. e nel 145 a.C., rispettivamente alle due leges Aelia et Fufia de modo legum ferendarum, ed alla decisiva
resistenza alla rogatio Licinia de
sacerdotiis.
Le due
leggi sono sanctissimae e la loro
abrogazione equivarrebbe a dissacrare i medesimi auspicia sotto l’egida dei quali trova fondamento lo stesso
ordine politico: qui primum eam rem
publicam quae auspiciis sublatis conarere pervertere, deinde sanctissimas
leges, Aeliam et Fufiam dico, quae in Gracchorum ferocitate… vixerunt
(Cic., in Vat., 9,23). La proposta del
tribuno Licinio, se approvata, avrebbe comportato lo spostamento della
competenza nella scelta dei sacerdoti organizzati in collegi dagli stessi collegia al populus, con probabile abrogazione della cooptatio: ...meministis, Q. Maximo fratre Scipionis et L. Mancino consulibus quam
popularis lex de sacerdotiis C. Licini Crassi uidebatur! Cooptatio
enim collegiorum ad populi beneficium transferebatur; atque is primus instituit in forum uersus agere cum populo. Tamen illius
uendibilem orationem religio deorum immortalium, nobis defendentibus, facile
uincebat (Cic., Laelius. De amicitia, 25,96)[59].
Benché
nei decenni successivi alla fine della guerra annibalica il potere
dell’aristocrazia si presenti molto forte, non è corretto pensare
ad un completo affossamento dei movimenti popolari e ad una loro totale
incapacità di proposta politica. Infatti, come si è detto, i
primi decenni del II secolo a.C. appaiono contrassegnati da una certa azione
politica di opposte tendenze, la quale si riflette soprattutto
sull’attività legislativa delle assemblee popolari.
È,
quindi, fondamentale un appropriato studio sull’attività
legislativa delle assemblee popolari, perché in grado di fornire una
precisa rappresentazione delle tematiche e delle aspirazioni poste alla base
delle iniziative politiche a Roma nella prima parte del II secolo a.C. I
provvedimenti normativi, di cui si è conservata notizia, assurgono
allora al ruolo di massimi indicatori dei principali filoni politici che
animano la vita della res publica nel
periodo in questione.
Innanzitutto,
occorre procedere dalla critica della teoria che attribuisce l’innegabile
preponderanza dei plebiscita rispetto
alle leges solo a fattori di natura
pratica, come l’assenza forzata dei consoli dalla città a causa
delle frequenti campagne militari, e non piuttosto a motivazioni più
prettamente politiche[60].
Infatti, nel ventennio compreso tra gli anni 200 e 181 a.C., cioè in un
periodo fortemente caratterizzato dall’impegno di Roma in numerose
campagne militari[61],
è concentrata più della metà delle leges emanate
dai comitia dal 200 al 161 a.C., a
testimonianza del fatto che le leges non
subiscono nei confronti dei plebiscita
quel tracollo che, stando alla tesi di Rotondi, si sarebbe potuto immaginare.
Effettivamente,
in questa parte del II secolo a.C. Roma appare seriamente assorbita in numerose
vicende guerresche, e questa situazione si riflette anche sul piano
legislativo, dove troviamo ben otto disposizioni attinenti materie come le
dichiarazioni di guerra (leges de bello
indicendo), la stipulazione di trattati (leges de foedere) e la regolazione di vari rapporti con le province[62].
In termini percentuali è interessante notare come tali disposizioni
costituiscono circa il 28% dei ventinove provvedimenti legislativi emanati
negli stessi anni, cioè dal 200 al 181 a.C., e come altresì le
cinque leges approvate dal comizio
centuriato e concernenti queste materie, costituiscono più della
metà di tutte le leges emanate
nello stesso periodo.
Nel
ventennio che va dal 200 al 181 a.C., sono approvate ventinove leggi, di cui
nove sono leges in senso stretto,
sedici sono plebiscita e quattro sono
disposizioni di cui non si sa per certo se si tratti di plebisciti. Di questi
ventinove provvedimenti, nove (primo gruppo) appaiono essere chiara espressione
di tendenze politiche e quattordici (secondo gruppo) costituiscono invece dei
casi in cui non riesce facile cogliere un chiaro orientamento politico, mentre
i rimanenti sei (terzo gruppo) concernono materie che non si prestano ad una
visione politica costante[63].
Ebbene, delle leggi comprese nel primo gruppo, ben otto sembrano provenire da
parte popolare ed una sola da parte aristocratica[64],
mentre nel secondo gruppo solo due possono essere ricondotte ai populares e sei alla fazione di segno
opposto[65],
per un totale di dieci leggi attribuibili al movimento democratico - tutti
plebisciti - e sette a quello oligarchico - di cui cinque plebisciti; delle
rimanenti dodici, sei non sono attribuibili con la necessaria chiarezza
all’una o all’altra fazione[66]
e le altre sei appartengono al terzo gruppo di leggi, cioè quello che
non si presta ad una visione politica costante.
Alla
luce di questi dati, appare chiara la presenza di un movimento democratico a
Roma negli anni successivi alla guerra annibalica, come chiara appare anche
l’attività politica di campo opposto, segno di un sostanziale
equilibrio di fondo, alterato solo da provvisori mutamenti dei rapporti di
forza, con sensibile vantaggio della parte aristocratica. In questo contesto,
quindi, l’azione politica dei movimenti populares non appare altamente incisiva, a cagione
dell’equilibrio scaturente dalla volontà delle opposte fazioni di
stabilire nella società un determinato assetto conforme alle proprie
esigenze. Questa situazione, infatti, non danneggia l’oligarchia
nobiliare che, anzi, sembra sempre in grado di difendersi, come dimostra
l’attività politica svolta nell’anno 181 a.C.
In
questo controverso quadro politico si inserisce, allora, anche la lex Villia annalis che, pur individuando
nella chiusura della nobilitas uno
dei cardini del sistema oligarchico, affronta la situazione con soluzioni
troppo blande per riuscire ad aprire una decisiva breccia nell’ordine
nobiliare e garantire così un ampliamento della classe di governo.
Non
è, quindi, in ossequio all’aristocrazia senatoria che il tribuno
della plebe Villio fa approvare dal concilio della plebe nel 180 a.C. la prima
legge annalis.
Se
fosse provato, come invece non è, che con la legge Villia si sia voluto
disciplinare anche l’ordo
magistratuum[67],
nulla comunque può condurre alla dimostrazione che obiettivo della legge
sarebbe stato ostacolare la scalata agli onori da parte dei giovani nobili e
degli homines novi. Infatti, un certus ordo era sicuramente seguito
già molti anni prima dell’approvazione della lex Villia[68];
in più, l’unico caso di deroga al certus ordo, sicuramente attestato per il ventennio antecedente il
180 a.C., è nettamente favorito dalla stessa oligarchia senatoria[69].
Appare
molto interessante quanto afferma Cicerone circa la questione delle motivazioni
poste alla base dell’emanazione delle leges
annales:
legibus enim annalibus cum grandiorem aetatem ad consulatum
constituebant, adulescentiae temeritatem verebantur: C. Caesar ineunte aetate
docuit ab excellenti eximiaque virtute progressum aetatis exspectari non
oportere. Itaque maiores nostri illi admodum antiqui
leges annalis non habebant, quas multis post annis attulit ambitio, ut gradus
essent petitionis inter aequalis. Ita saepe magna indoles virtutis, prius quam
rei publicae prodesse potuisset, exstincta est. At vero apud antiquos Rulli,
Decii, Corvini multique alii, recentiore autem memoria superior Africanus, T.
Flamininus admodum adulescentes consules facti tantas res gesserunt ut populi
Romani imperium auxerint, nomen ornarint (Cic., Philip., 5,17,47-48).
Come
già accennato in precedenza[70],
Cicerone non menziona espressamente la lex
Villia, ma parla di leges annales
in generale. Inoltre accenna ad un gradus
petitionis, dopo aver affermato a chiare lettere che la funzione centrale
delle leges annales era quella di grandiorem aetatem ad consulatum constituere[71].
Peraltro, Cicerone mette in relazione gradus
petitionis con inter aequalis, e
questo mi fa pensare che abbia voluto riferirsi ad un medesimo livello minimo
di età per le candidature alle varie cariche magistratuali, piuttosto
che ad un certus ordo magistratuum.
Sarebbe
così escluso dai contenuti delle leges
annales e, a maggior ragione, della prima - appunto la lex Villia - la fissazione di un ordine nelle magistrature,
peraltro mai attestata con precisione dalle fonti se non nel caso della
legislazione sillana, come già ho avuto modo di accennare (v. App., Bel. Civ., 1,100,466).
Circa
le motivazioni che avrebbero dato vita alle leges
annales in generale e, quindi, alla legge Villia in particolare, Cicerone
ne individua due. Da una parte la adulescentiae
temeritas (legibus annalibus…
adulescentiae temeritatem verebantus), dall’altra l’ambitio (leges annalis… quas multis post annis attulit ambitio).
Circa
la adulescentiae temeritas,
l’Arpinate sembra cadere in contraddizione. Infatti, dopo aver
individuato nel timore della sconsideratezza propria dei giovani una delle
ragioni che aveva spinto i maiores ad
emanare leges annales, volge un
nostalgico pensiero ai tempi più antichi, nei quali era stato possibile
accedere al consolato in età molto giovanile; e tutto ciò senza
alcun nocumento per la res publica.
Insomma, Cicerone pensa con rammarico a coloro che, a causa dei meccanismi
delle leggi annales, morirono prima
di raggiungere l’età consolare[72];
e questo mi porta a pensare che per Cicerone l’adulescentiae temeritas fosse in verità un artificio
retorico.
Ed
ecco l’altra motivazione delle leggi annales,
anzi, e meglio, della prima lex annalis:
maiores nostri illi admodum antiqui leges
annalis non habebant, quas multis post annis attulit ambitio (Cic., Philip., 5,17,47). Ma come deve essere
inteso il riferimento all’ambitio
fatto dall’Arpinate?
Da
un’analisi delle fonti risulta una certa assonanza tra i termini ambitio ed ambitus[73].
Indubbiamente ambitus possiede un significato
più prettamente tecnico, indicando infatti il crimine di corruzione
elettorale o, più genericamente, di broglio; anche ambitio, però, assume spesso una connotazione peggiorativa
rispetto al consueto significato. Esemplarmente, lo stesso Cicerone, in un
passo delle Verrine[74],
fa riferimento ad una ‘briga elettorale’, ai confini
dell’illecito. In ogni caso, il concetto espresso con la parola ambitio viene da Cicerone quasi sempre
accostato alla honorum petitio,
cioè, comunque, alla competizione elettorale per accedere alle
magistrature. In tal senso va letto anche il brano tratto dalla quinta Philippica, nel quale si riversa la
causa dell’emanazione delle leges
annales sull’ambitio,
intesa come bramosia di ricoprire le più alte magistrature, spinta quindi
fino al limite del broglio e della corruzione[75].
Ora,
si è già visto come la legislazione tendente a reprimere l’ambitus sia di chiara matrice
aristocratica e miri, tra l’altro, a comprimere gli interessi degli homines novi; si è visto,
altresì, come la prima lex annalis
non sia diretta a ribadire le finalità proprie delle leges de ambitu, una delle quali viene
appunto approvata appena un anno prima della lex Villia. Però, per Cicerone, ambitio-ambitus e lex annalis
sono riconducibili alla stessa area politica, nell’ambito
dell’aristocrazia senatoria; insomma, la legge Cornelia Baebia de ambitu del 181 ed il plebiscito Villio del 180
a.C. avrebbero avuto la stessa matrice. Ma l’Arpinate, come cade in
contraddizione attribuendo alla necessità di ostacolare la temeritas adulescentiae parte della
responsabilità dell’emanazione delle leggi annales, allo stesso modo si dimostra poco sincero, per dir
così, quando richiama l’ambitio
quale causa delle stesse leges annales.
La lex Villia, come prima legge annalis, non è approvata per
ostacolare genericamente le ambizioni elettorali (soprattutto degli homines novi), e neppure per arginare
l’ambitiosa feneratio di
sconsiderati adulescentes; essa,
infatti, non proviene da ambienti aristocratici attenti a preservare la
coesione della nobilitas,
bensì dai movimenti populares
per dare una risposta alla rigida chiusura della classe nobiliare.
Così,
la legge Villia si inserisce nella dialettica politica degli anni successivi al
secondo conflitto punico, caratterizzata da iniziative tendenti ad imporre alla
società in rapido sviluppo le proprie esigenze. In questa prospettiva va
vista la prima legge annalis, la cui
approvazione deve essere intesa come una precisa reazione dei movimenti
democratici ad un rigoroso pronunciamento da parte dell’oligarchia
senatoria nell’anno 181 a.C.
Questa
legge, infatti, imponendo l’osservanza di un limite minimo
d’età per l’accesso alle magistrature, favorisce, almeno in
linea di principio, un frequente avvicendamento nelle cariche, lasciando
così spazio anche a chi, in condizioni normali, avrebbe incontrato molte
difficoltà nell’elezione ad una magistratura, soprattutto se
maggiore.
Successivamente
alla legge Villia, nei tredici anni che vanno dal 178 al 166 a.C.[76],
accedono alla pretura trentotto genti plebee, di cui diciassette appaiono nei
Fasti consolari nello spazio di tempo che va dal 300 al 160 a.C. Le rimanenti
ventuno genti non appaiono tra i consoli, almeno nei centoquaranta anni che
precedono il 160; di queste ventuno, solo tre compaiono tra i gentilizi pretori
degli anni 197-180 a.C. In termini percentuali, si può rilevare che
queste ventuno genti costituiscono il 55% circa del totale delle genti plebee
che ricoprono la pretura dal 178 al 166 a.C. Per fare un confronto con
l’epoca precedente, è interessante osservare che delle
quarantaquattro genti plebee che accedono alla pretura dal 197 al 180 a.C.[77],
solo diciannove non appaiono tra i gentilizi consolari nei centoquarantuno anni
che vanno dal 300 al 160 a.C., con una percentuale del 43%.
Alla
luce di questi dati, appare chiaro come più elevato sia il numero delle
genti plebee nuove che accede alla pretura rispetto alla situazione che si
presentava negli anni precedenti il plebiscito del tribuno Villio. È
evidente che questa legge, imponendo un’età minima per accedere
alle magistrature, crea una situazione tale da costringere numerosi nobili ad
attendere l’età prescritta, ampliando così le
possibilità elettorali di un numero maggiore di genti.
Un
discorso analogo può essere fatto anche per il consolato. Infatti, nel
ventennio che va dal 199 al 180 a.C. sono quindici le famiglie plebee che si
dividono ventuno consolati[78],
mentre nei venti anni che intercorrono tra il 179 ed il 160 a.C. sono diciotto
le famiglie plebee che si spartiscono ben ventisei consolati[79].
Riguardo, invece, i consoli patrizi, si può osservare solo una
piccolissima differenza per quanto concerne il numero delle genti che accedono
a questa carica - nove nel primo ventennio e dieci nel secondo - mentre
più rilevante appare la differenza circa i consolati ricoperti: venti
negli anni 199-180 a.C. e solo quindici, a cui però possono essere
aggiunti due consules suffecti[80],
negli anni 179-160 a.C.
Da
questi dati si nota, innanzitutto, una compressione del patriziato che,
presente nei consolati dei due ventenni con quasi tutti gli stessi gentilizi,
vede grandemente diminuito il numero dei posti consolari riservatigli; se a
ciò si aggiunge il fatto che dei quindici consoli patrizi, due
già avevano ricoperto questa carica negli anni precedenti, il quadro
è completo. Il patriziato, che può contare su un numero minore di
gentes rispetto alla plebe e che
quindi è presente nei Fasti dei magistrati con gli stessi gentilizi,
paga per primo il rigore delle disposizioni della lex Villia. Certamente, il fatto che nel ventennio successivo alla
approvazione di questo plebiscito ben cinque coppie consolari sono composte
esclusivamente da plebei è favorito dal plebiscito del tribuno Villio.
Tornando
ai consoli plebei, è interessante rilevare come delle diciotto genti
plebee che accedono al consolato dal 179 al 160 a.C., otto non compaiono tra i
gentilizi consolari dei centoventuno anni precedenti, mentre delle quindici
genti plebee che rivestono il consolato dal 199 al 180 a.C., sei non compaiono
nei Fasti del secolo precedente. Il maggior numero di posti consolari occupati
dai plebei nel ventennio 179-160 a.C. non viene ripartito solo tra quelle genti
che solitamente ricoprono con maggior frequenza quest’alta carica, ma
anche tra le genti non aduse, almeno da molti anni, alla gestione del potere.
Questa situazione, indubbiamente favorita dai meccanismi della lex Villia, risponde alle esigenze
democratiche di un maggior avvicendamento ai vertici della res publica.
Tuttavia,
la legge Villia si dimostra insufficiente per aprire un varco nel sistema
aristocratico, poiché la classe nobiliare si dimostra, almeno per il
momento, in grado di fare fronte alla situazione. Infatti, se nel ventennio
precedente l’approvazione del plebiscito del tribuno Villio si segnala
l’ingresso di due homines novi
nel consolato[81],
nel ventennio successivo è uno solo l’homo novus che accede
alla massima carica[82],
ed occorre attendere l’anno 146 a.C. perché un altro novus ricopra il consolato[83].
È
proprio in questo che la lex Villia
mostra tutti i suoi limiti. Fatta approvare da un tribuno della plebe per
controbilanciare i rigorosi provvedimenti presi dall’oligarchia senatoria
nel 181 a.C. e, pertanto, favorire l’ingresso di nuove famiglie alle
più alte magistrature, questa legge propone però soluzioni troppo
blande per riuscire a scavalcare i centri nobiliari di potere. Il fatto di
avere favorito una provvisoria compressione degli avversari di un tempo, i
patrizi, nulla toglie alle caratteristiche peculiari della nobilitas, la quale, chiusa in se stessa e gelosa delle proprie
prerogative, assorbe in sé le distinzione tra patrizi e plebei[84].
Anche se un buon numero di genti plebee che accedono al consolato nel ventennio
successivo alla emanazione di questo provvedimento non compare nei Fasti
consolari almeno per i centoventuno anni precedenti, tuttavia solo un homo veramente novus riesce ad essere eletto console in quel periodo; gli altri
rimangono bloccati alla pretura e alle magistrature minori.
Che
tutto ciò sia vero è dimostrato dall’appropriazione, da
parte aristocratica, della legislazione annalis;
questa, infatti, sorta dall’esigenza di favorire l’ascesa di nuove
famiglie ai centri di potere, perde gradualmente di vista quelle che sono le
idealità poste alla sua base, per acquisirne altre, conformi al mutato
quadro politico. La preoccupazione suscitata dall’interpretazione
personale della gestione del potere, ancora molto blanda nel 180 a.C., diviene
successivamente la ragione principale delle leges
annales, come ormai viene colta da Cicerone (Phil., 5,17,47-48), il quale ha sotto gli occhi la legislazione
sillana e la disgregazione del sistema repubblicano, sotto i colpi delle forti
personalità emergenti.
In
conclusione, il plebiscito del tribuno Villio deve essere inserito nel filone
delle lotte politiche dei populares,
i quali si sforzano, nei primi decenni del II secolo a.C., di riconquistare il
terreno perduto durante la guerra annibalica, fronteggiando l’oligarchia
senatoria e cercando di rompere l’unità della nobilitas, che ribadisce la sua chiusura. In questo senso, le
esigenze dei movimenti populares e le
aspirazioni degli homines novi
vengono a coincidere, conducendo nel 180 a.C. all’approvazione del
plebiscito del tribuno Villio, lungo una linea di azione politica tracciata da
un altro tribuno della plebe, Quinto Bebio Erennio, trentasei anni prima:
id foedus inter omnes nobiles ictum, nec finem ante belli
habituros quam consulem vere plebeium, id est hominem novum, fecissent. Nam
plebeios nobiles iam eisdem initiatos esse sacris et contemnere plebem, ex quo
contemni a patribus desierint coepisse (Liv. 22,34,7-8).
La première loi annalis, proposée en 180 avant J.-C. par le tribun Villius
afin d'équilibrer les mesures rigoureuses prises par l'oligarchie
sénatoriale en 181 et, par conséquent, faciliter l'entrée
de nouvelles familles aux plus hautes magistratures, avait proposé,
cependant, des solutions qui n’ont pas remplacé les centres
aristocratiques du pouvoir. La compression temporaire des adversaires du
passé, les patriciens, ne fait pas oublier les caractéristiques
uniques de la nobilitas. Bien qu'un
bon nombre de personnes qui accèdent au consulat dans les vingt
années qui ont suivi la promulgation du plébiscite de Villius
n'apparaît pas dans les Fastes pour cent vingt ans plus tôt,
cependant, seul un homo novus est
élu consul à ce
moment-là. Tous les autres restent collés à la praetura ou aux magistratures mineures.
Les lois annales qui ont suivi avaient
en partie différentes caractéristiques que celles du
plébiscite de Villius.
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
*
Licenzio questo breve studio - nei giorni in cui tradizionalmente i tribuni
della plebe entravano in carica - nel ricordo del Professor Feliciano Serrao,
Maestro indimenticato, che ebbe a leggerlo con quello spirito critico e
creativo che sapeva donare agli allievi. Mi emoziona il pensiero che esso
è destinato alla Rivista Diritto@Storia,
diretta da Francesco Sini, nella quale il Professor Serrao pubblicò la
sua ultima opera (Secessione e giuramento
della plebe al Monte Sacro, in Diritto@Storia
7, 2008).
[1]
Nell’epitome dello stesso libro quarantesimo il nome del proponente il
plebiscito appare essere L. Livius e
non L. Villius: L. Livius trib. pl. quot [annos nati quemque magistratum pete]rent,
rogavit. Annalis dictus est.
[2] La
voce ‘annaria lex’ nel De verb. signif. viene considerata da
alcuni autori una «glossa catoniana», cioè
un’espressione nominale tratta dal lessico di Catone, contemporaneo del
tribuno Villio. Sulle glosse catoniane, vedasi F. BONA, Contributo allo studio della composizione del De verborum significatu di Verrio Flacco, Milano 1964, 15 ss.
[3] Itaque
maiores nostri veteres illi admodum antiqui leges annalis non habebant, quas
multis post annis attulit ambitio (…). At vero apud antiquos Rulli,
Decii, Corvini multique alii, recentiore autem memoria superior Africanus, T.
Flamininus admodum adulescentes consules facti (Cic., Philip., 5,47-48). In
questo passo Cicerone sembra voler individuare un termine a quo per quanto concerne l’emanazione delle leges annales, identificandolo con
l’elezione al consolato di P. Cornelio Scipione Africano e di T. Quinzio
Flaminino, avvenute rispettivamente nel 205 e nel 198 a.C. Per
l’Arpinate, infatti, questi sono i casi più recenti di elezione al
consolato di adulescentes (recentiore memoria); da quel momento,
sembra dire Cicerone, non fu più possibile il legittimo verificarsi di
vicende analoghe, a causa delle disposizioni delle leges annales.
[4] NÒmouj te
™xšlue kaˆ ˜tšrouj ™t…qeto: kaˆ
strathge‹n ¢pe‹pe, prˆn tamieàsai, kaˆ
ØpateÚein, prˆn strathgÁsai, kaˆ t¾n
¢rc¾n t¾n aÙt¾n aâqij ¥rcein
™kèluse, prˆn œth dška diagenšsqai (App.,
Bella civilia, 1,100,466).
[5] KÒinton
Loukr»tion 'Ofšllan ... ØpateÚein œti
ƒppša Ônta, prˆn tamieàsai kaˆ
strathgÁsai, di¦ tÕ mšgeqoj tîn
e„rgasmšnwn kat¦ palaiÕn œqoj
¢xioànta kaˆ tîn politîn deÒmenon,
™peˆ kwlÚwn kaˆ ¢natiqšmenoj oÙ
metšpeiqen, ™n ¢gor´ mšsV kte‹nai (App.,
Bella civilia, 1,101,471).
[6]
L’espressione latina ex more
è generalmente tradotta in greco con di’œqoj o ™x œqoj. Il
riferimento è tratto dal dizionario della lingua greca di H.G. Liddell e R. Scott. Il citato lemma greco non è presente nella raccolta
di D. MAGIE, De Romanorum iuris publici
sacrique vocabulis sollemnibus in Graecum sermonem conversis, Leipzig 1905,
né in quella di H.J. MASON, Greek
Terms for Roman Institutions, Toronto 1974. In quest’ultima opera,
anzi, la parola mores (quindi al
plurale) è resa in greco con trÒpoi.
[7] A tal
proposito, vedasi E. GABBA, Note Appianee,
in Athenaeum XXXIII, 1955, 228 ss.
Sul punto vedasi infra, par. 2 ed in
particolare nt. 19.
[8] P. Scipio Aemilianus cum aedilitatem
peteret, consul a populo dictus. Quoniam per annos consuli fieri non licebat,
cum magno certamine suffragantis plebis et repugnantibus ei aliquamdiu
patribus, legibus solutus et consul creatus (Liv., Epit., 50).
[9] 'Eneist»kei
d'¢rcairšsia, kaˆ Ð Skip…wn (oÙ g£r pw
di'¹lik…an aÙtù sunecèroun
ØpateÚein oƒ nÒmoi) ¢goranom…an
metÇei, kaˆ Ð dÁmoj aÙtÕn Üpaton
Åre‹to. ParanÒmou d'Ôntoj kaˆ tîn
Øp£twn proferÒntwn aÙto‹j tÕn
nÒmon, ™lip£roun kaˆ ™nškeinto, kaˆ
™kekr£gesan ™k tîn Tull…ou kaˆ
`RwmÚlou nÒmwn tÕn dÁmon enai kÚrion tîn ¢rcairesiîn, kaˆ
tîn perˆ aÙtîn nÒmwn ¢kuroàn
À kuroàn Ön ™qšloien. Tšloj d tîn dhm£rcwn tij œfh toÝj
Øp£touj ¢fair»sesqai t¾n ceiroton…an,
e„ m¾ sÚnqointo tù d»mJ. Kaˆ ¹
boul¾ to‹j dhm£rcoij ™pe…qeto làsai
tÕn nÒmon tÒnde kaˆ met¦ œtoj Ÿn
aâqij ¢nagr£yai (App., Punica, 17, 112).
[10] ``Hgoànto g¦r
oÜte nàn prîton e‡xein tù sumfšronti
tÕn nÒmon, oÜt'¢logwtšran enai t¾n paroàsan a„t…an
™ke…nhj di'Àn tÕn Skip…wna par¦
toÝj nÒmouj Ûpaton ¢pšdeixan, oÙ
foboÚmenoi t¾n ˜autîn ¢pobale‹n,
¢ll¦ t¾n Karchdon…wn ™piqumoàntej
¢nele‹n (Plut., Marius, 12,
2). Plutarco rammenta il caso di Scipione Emiliano per metterlo in relazione
con quello di Gaio Mario, eletto per la seconda volta al consolato nel
[12] Contra C. Juli illam consulatus petitionem
extraordinariam (Cic., Brutus,
63,226); C. Julio consulatum contra legem
petenti (Cic., De har. resp.,
20,43). A ben guardare, però, Cicerone si limita a richiamare
l’illegalità della petitio
di Vopisco, senza metterne in luce i motivi; comunque, la sua candidatura al
consolato subito dopo aver ricoperto l’edilità potrebbe essere
intesa anche in contrasto con le norme che imponevano l’osservanza di un
limite minimo di età per aspirare alle cariche magistratuali. A.
AFZELIUS, Lex Annalis, in Classica et Mediaevalia 8, 1946, 268 ss., sostenne che, circa
l’episodio di Vopisco, Cicerone sarebbe caduto in un anacronismo, spinto
a ciò dallo specifico contesto dei suoi riferimenti.
[13] Nelle
fonti è serbata memoria di una rogatio
Pinaria annalis, la cui collocazione nel tempo è però
incerta: ut olim Rusca, quem legem ferret
annalem, dissuasor M. Servilius: “Dic mihi, inquit, M. Pinari: num, si
contra te dixero, mihi male dicturus es, ut ceteris fecisti? – Ut
sementem feceris, ita metes”, inquit (Cic., De orat., 2,65,261). TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, I, Leipzig 1887, 529 nt. 1 (= Le droit public romain, II, Paris 1892,
183 nt. 2), ritenendo che il proponente la rogatio
facesse parte di un ramo plebeo dei Pinarii, sostenne che questa proposta fosse
stata presentata al popolo dallo stesso M. Pinario Rusca che Livio (40,18,2)
annoverava tra i pretori dell’anno 181 a.C., quando questi era pretore o,
ancor prima, tribuno; secondo Mommsen, questa proposta, comunque precedente la lex Villia, non fu approvata. K.
NIPPERDEY, Die leges annales der
römischen Republik, Leipzig 1865, 6, aveva sostenuto, invece, che la rogatio Pinaria fosse stata approvata
dal popolo successivamente alla legge Villia.
[15] TH. MOMMSEN, Römisches
Staatsrecht, I, cit., 524 ss. (= Le droit public romain, II, cit., 177 ss.).
[16] Quod
eo facilius nobis est quod non est annus hic tibi destinatus, ut, si aedilis
fuisses, post biennium tuus annus esset. Nunc nihil praetermittere videbere usitati et quasi legitimi
temporis ad petendum (Cic., Epist.,
10,25,2).
[17] F. DE
MARTINO, Storia della costituzione
romana, II, Napoli 1973, 414 ss., con ricca bibliografia; l’autore
riteneva possibile che l’osservanza dell’intervallo tra le
magistrature, stabilito in modo consuetudinario, fosse rimessa alla discrezione
del magistrato che presiedeva i comizi.
[18] P.
FRACCARO, I decem stipendia e le leges
annales repubblicane, in Studi per il
XIV Centenario della Compilazione giustinianea, Pavia 1934, 473 ss.;
l’autore riteneva che le norme relative ai decem stipendia fossero di poco posteriori alla guerra annibalica
ma, come già visto, anteriori rispetto alla lex Villia.
[19]
L’autore citava casi di uomini giunti alle magistrature maggiori senza
aver percorso le minori, come quello di Scipione Emiliano, eletto al consolato
senza essere transitato per la pretura (vedasi supra, nntt. 8, 9, 10, 11 e 12). Inoltre, De Martino osservava che
se Cicerone faceva riferimento ad un certus
ordo (Ne in iis quidem magistratibus,
quorum certus ordo est; Cic., de lege
agraria, 2,9,24) per un’età precedente rispetto a quella delle
riforme di Silla, tuttavia Appiano proprio a Silla attribuiva
l’imposizione dell’obbligo di osservare la gerarchia delle cariche
(App., Bella civilia, 1,100,466). Sul
passo di Appiano, vedasi TH. MOMMSEN, Römisches
Staatsrecht, I, cit., 539 nt. 1 (= Le
droit public romain, II, cit., 195 nt. 1), il quale riteneva che il termine
palaiÕn
œqoj usato da Appiano indicasse l’uso di chiedere una speciale
dispensa dall’osservanza delle leggi, come nel caso dell’elezione
al consolato di Scipione Emiliano per il 147 a.C. Invece E. GABBA, Note Appianee, cit., 230, sosteneva che palaiÕn œqoj
sottolineasse l’esistenza di differenti criteri in uso
nell’età precedente le riforme sillane.
[21]
L’età minima per accedere alla questura appare in stretta
correlazione con l’obbligo dei decem
stipendia; se, infatti, si ammette che gli anni di servizio militare
precedenti il compimento del diciottesimo anno d'età sono computabili ai
fini dell’inizio della carriera politica, non occorre attendere il
ventottesimo anno per aspirare alla questura da parte dei cittadini che abbiano
cominciato il servizio militare dopo i quindici, ma prima dei diciotto anni. Il
caso di Tiberio Gracco, candidato alla questura nel 138 a.C.
all’età di ventisei anni, appare indicativo. Per quanto, invece,
concerne l’età minima richiesta per ambire al consolato, il caso
di Scipione Emiliano, il quale si presenta alle elezioni all’età
di circa trentasette anni, sembra deporre in favore dell’insufficienza,
già nel 148 a.C., di tale età per accedere a questa magistratura.
Per scavalcare questo problema, G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, IV, rist. Firenze 1969, 511, sosteneva che gli
intervalli previsti dalla lex Villia
fossero stati ampliati prima del 148 a.C.
[22]
Riguardo alla legge di Silla, premesso che essa non è oggetto di questa
trattazione, si veda soprattutto A. AFZELIUS, Lex Annalis, cit., 263 ss.
[23] Si
veda, esemplarmente, P. FRACCARO, I decem
stipendia e le leges annales repubblicane, cit., 486, il quale aveva
sostenuto che l’obiettivo primario della lex Villia era di assicurare la maturità politica dei
magistrati.
[24]
Indicativa è l’analisi svolta da J.A. TOYNBEE, L’eredità di Annibale, II,
Torino 1983, 598 ss. (tit. orig. Hannibal’s
Legacy, II, London 1965), il quale metteva bene in luce i contrasti sociali
e politici tra la nobilitas e gli homines novi, rimarcando la chiusura
dell’ordine aristocratico e puntualizzando sinteticamente gli strumenti
di lotta cui questo ricorreva per bloccare le aspirazioni di partecipazione
alla gestione del potere da parte dei non nobili.
[25] M.
CARY-H.H. SCULLARD, Storia di Roma, I, Bologna 1981, 429 s. (tit. orig. A
History of Rome, London 1973).
[27] H.H.
SCULLARD, Storia del mondo romano, I,
Milano 1983, 396 s. (tit. orig. A History of the Roman World 753-146 B.C., London
1980).
[28] G. RÖGLER, Die Lex Villia annalis. Eine Untersuchung
zur Verfassungsgeschichte der römischen Republik, in Klio 40, 1962, 76 ss.; l’autore
riteneva che la lex Baebia del 181
a.C. e la lex Villia avessero alla
loro radice le medesime esigenze e perseguissero i medesimi scopi di
regolamentazione dell’accesso alle magistrature.
[29] A. BERNARDI, Storia d'Italia, I, Novara 1979, 224; R. FEIG VISHNIA, State, Society and Popular Leaders in
Mid-Republican Rome 241-167 BC,
London and New York 1996, 200. Quest’ultima
autrice puntualizza il presunto contrasto tra i limiti imposti dalla lex Villia ed il principio della sovranità popolare,
capace di garantire l’elezione prematura di «ambitious
and popular individuals» contro
la consuetudine.
[30] S. DI
SALVO, Lex Laetoria. Minore età e
crisi sociale tra il III ed il II secolo a.C., Napoli 1979, 93 ss.;
l’autore considera la lex Villia come
il “pendant” della lex Laetoria de circumscriptione adulescentium, poiché la
prima legge nel diritto pubblico e la seconda in quello privato erano tese ad
individuare un’età legale in cui i giovani potessero intraprendere
senza rischi l’attività politica e gli affari privati. Di Salvo
perviene a questa conclusione sulla base di una considerazione di ordine pratico:
dal momento che la guerra annibalica aveva cagionato la morte di un gran numero
di cives in età pubere e che
quindi erano molti i giovani liberi dalla patria
potestas, si avvertiva l’esigenza, tra gli ultimi anni del III secolo
a.C. ed i primi del II, di porre un freno alle ambizioni ed alle
attività negoziali di questa grande massa di adolescenti. Mi sembra,
però, che questa tesi non tenga nella dovuta considerazione la mancata
corrispondenza cronologica tra i due provvedimenti legislativi. Se la lex Laetoria, emanata con ogni probabilità
negli anni immediatamente successivi la fine del secondo conflitto punico,
trova una giustificazione nell’elevato numero di adulescentes liberi dalla potestas
del pater, riesce difficile
attribuire la stessa motivazione alla lex
Villia, approvata più di venti anni dopo la fine della guerra
annibalica, e quindi svincolata da quella pressante contingenza che aveva
invece caratterizzato l’altro provvedimento.
[31] R. BILLOWS, Legal fiction and political reform at Rome in the early second century
B.C., in Phoenix 43, 1989, 187.
[32] R.J. EVANS-M. KLEIJWEGT, Did the romans like young men? A study of
the lex Villia annalis: causes and effects, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphic 92, 1992, 187.
[33] G.
POMA, Il plebiscito ne quis duos magistratus uno anno gereret (Liv., 7,42,2),
in Rivista storica dell’antichità 24, 1994, 49 ss., ed in particolare 58 ss.; l’autrice
afferma che non è possibile stabilire con certezza l’esistenza di
un rapporto causa-effetto tra la candidatura dell’aedilis designatus
Q. Fulvio Flacco alla pretura per l’anno 184 a.C. (Liv. 39, 39, 4) e
l’approvazione, quattro anni dopo, della lex Villia annalis. In
questi termini, mi sembra che la studiosa voglia mantenere cautela
nell’attribuire agli ispiratori del plebiscito Villio la volontà
di reagire alle istanze prodotte da Fulvio Flacco e relative al predominio
della sovranità popolare sull’osservanza formale del dettato delle
leggi. La stessa prudenza mi sembra dimostrare M. FRUNZIO GIANCOLI, La
“lex Atinia de rebus subreptis”: un’ipotesi sulla datazione,
in Labeo, 43,
1997, 258 ss., considerata la mancanza di una presa di posizione circa il
problema dei contenuti e della matrice politica della lex Villia.
[34] Dai
consolati di Quinto Fabio Massimo per gli anni 215-214 a.C., bisogna attendere
centodieci anni per trovare nuovamente un caso di assunzione della suprema
carica in anni consecutivi, con Gaio Mario che ricopre il consolato
ininterrottamente per cinque anni dal 104 al 100 a.C.
[35]
È questo il caso dei patrizi Publio Sulpicio Galba, eletto console nel
211 e poi nel 200 a.C. (Liv. 31,4,4), e Publio Cornelio Scipione Africano, che
ricopre il primo consolato nel 205 ed il secondo nel 194 a.C. (Liv. 34,42,3).
[36] Si
tratta del plebeo Gaio Marcio Figulo che, dopo aver rivestito la carica
consolare nel 162 a.C., è eletto nuovamente console solo sei anni dopo,
nel 156.
[37] I
consoli sono quarantatre e non quarantadue per il fatto che nel 180 a.C.
è attestata dalle fonti la nomina di un consul suffectus (Liv. 40,37,6-7).
[38] Si
tratta dei patrizi: Publio Sulpicio Galba console nel 200 (Liv. 31,4,4), Lucio
Cornelio Lentulo console nel 199 (Liv. 31,49,12), Tito Quinzio Flaminino
console nel 198 e già questore nel 199 (Liv. 32,7,12), Gaio Cornelio
Cetego console nel 197 e già edile nel 199 (Liv. 32,27,5), Publio
Cornelio Scipione Africano console nel 194 (Liv. 34,42,3), e del plebeo Sesto
Elio Peto console nel 198 e già edile nel 200 (Liv. 32,7,12).
[40] (Comitia) quae ipsa per M. Fulvium et Manlium
Curium tribunos plebis impediebantur, quod T. Quinctium Flamininum consulatum
ex quaestura petere non patiebantur (…). Patres censuerunt qui honorem
quem sibi capere per leges liceret peteret, in eo populo creandi quem velit
potestatem fieri aequum esse (Liv. 32,7).
[41] Si
tratta dei plebei: Gaio Aurelio Cotta console nel 200 e già pretore nel
202 (Liv. 31,4,4), Marco Claudio Marcello console nel 196 e già pretore
nel 198 (Liv. 33,24,1), Tiberio Sempronio Longo console nel 194 e già
pretore nel 196 (Liv. 34,42,3), Gneo Domizio Enobarbo console nel 192 e
già pretore nel 194 (Liv. 35,10,10), Quinto Marcio Filippo console nel
186 e già pretore nel 188 (Liv. 39,6,1), e del patrizio Appio Claudio
Pulcro console nel 185 e già pretore nel 187 (Liv. 39,23,2). Al
riguardo, sembra indicativo il fatto che Quinto Marcio Filippo ottiene
addirittura un altro consolato nel 169 a.C. (Liv. 43,11,6).
[42] Sono
sei i consoli che ottengono questa carica dopo un intervallo di tre anni dalla pretura
(plebei: Quinto Minucio Rufo console nel 197, Marco Porcio Catone nel 195,
Quinto Minucio Termo nel 193, Gaio Livio Salinatore nel 188, ma era già
stato pretore nel 202; patrizi: Publio Cornelio Scipione Nasica nel 191, Publio
Cornelio Scipione Asiatico nel 190, Spurio Postumio Albino nel 186); otto
consoli dopo quattro anni dalla pretura (plebei: Publio Villio Tappulo nel 199,
Marco Fulvio Nobiliore nel 189, Marco Sempronio Tuditano nel 185; patrizi:
Lucio Furio Purpurione nel 196, Lucio Valerio Flacco nel 195, Marco Emilio
Lepido nel 187, Publio Claudio Pulcro nel 184, Publio Cornelio Cetego nel 181);
cinque consoli dopo cinque anni dalla pretura (plebei: Manlio Acilio Glabrione
nel 191, Marco Claudio Marcello nel 183; patrizi: Lucio Cornelio Merula nel
193, Marco Valerio Messala nel 188, Aulo Postumio Albino nel 180); cinque
consoli dopo sei anni dalla pretura (plebei: Gaio Lelio nel 190, Gaio Flaminio
nel 187, Gaio Calpurnio Pisone nel 180; patrizi: Gneo Manlio Volsone nel 189,
Quinto Fabio Labeone nel 183); un console dopo sette anni dalla pretura (il
patrizio Lucio Quinzio Flaminino nel 192); tre consoli dopo nove anni dalla
pretura (plebei: Lucio Porcio Licinio nel 184, Marco Bebio Tamfilo nel 181;
patrizi: Lucio Emilio Paolo nel 182); infine, un console dopo diciassette anni
dalla pretura (il plebeo Gneo Bebio Tamfilo nel 182).
[43] A tal
proposito si vedano i preziosi elenchi di T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, I,
Atlanta 1986 (prima edizione pubblicata a New York nel 1951), 135 ss.
[44] Queste
sono le famiglie degli Otacilii (che sono registrati per la prima volta nel
263), degli Aquilii (nel 259), degli Aurelii (nel 252), dei Fundanii (nel 243),
dei Lutatii (nel 242), dei Pomponii (nel 233), dei Mucii (nel 220), infine dei Terentii
(nel 216).
[45] Si
tratta di Marco Porcio Catone, console nel 195 (Liv. 33,42,7), e di Manlio
Acilio Glabrione, console nel 191 a.C. (Liv. 35,24,5).
[46]
Sarà qui appena il caso di ricordare le difficoltà incontrate,
ancora alla fine del II secolo a.C. ed alla metà del secolo successivo,
da due homines novi come Gaio Mario e
Marco Tullio Cicerone, nella elezione al consolato. Nel primo caso, Sallustio
fa dire a Mario: non possum fidei causa
imagines neque triumphos aut consulatus maiorum meorum ostentare; at…
hastas, vexillum, phaleras, alia militaria dona, praeterea cicatrices advorso
corpore. Hae sunt meae imagines, haec nobilitas, non hereditate relicta, ut
illa illis (riferito ai nobiles),
sed quae egomet meis plurumis laboribus
et periculis quaesivi (Bel. Iug.,
85,29-30). Nel secondo caso, Sallustio riferisce che ea res in primis studia hominum accendit ad consulatum mandatum M.
Tullio Ciceroni. Namque antea pleraque nobilitas invidis aestuabat, et quasi
pollui consulatum credebant, si eum, quamvis egregius, homo novus adeptus foret
(de Cat. coniur., 23,5-6).
[47] Nei
trentaquattro anni successivi alla lex
Villia, come appunto nei venti precedenti, si registrano solo due ingressi
di homines novi nel consolato: Gneo
Ottavio nel 165 a.C. e Lucio Mummio nel 146.
[48] Livio
(4,25,13), per l’anno 432 a.C., parla già di una lex de ambitu che avrebbe proibito ai
candidati alle elezioni magistratuali di album
in vestimento addere petitionis causa; tuttavia, E. PAIS. Storia di Roma, I, Torino 1899, 45,
riteneva che si trattasse di una anticipazione della legge del 358. Anche L.
FASCIONE, Crimen e quaestio ambitus
nell’età repubblicana, Milano 1984, 20 ss., nega che quella
del 432 possa in verità essere considerata una vera e propria legge.
[50] Il
provvedimento potrebbe essere stato attuato soltanto dopo molti anni dalla sua
emanazione. Considerato che è solo nel 197 a.C. che troviamo sei pretori
anziché quattro (Liv. 32,27,6), questa norma potrebbe essere fatta
risalire al 192, anno in cui esercita la pretura Marco Bebio Tamfilo (Liv.
35,10,11), console nel 181 (Liv. 40,18,1).
[51] Al
riguardo, la frase di Livio potrebbe essere letta nel senso che dopo molti anni
che sono eletti sei pretori, una legge Bebia ne riduce il numero per le
elezioni del 180 a.C. È questa la tesi di TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, II, cit.,
198 (= Le droit public romain, III,
cit., 227), il quale scavalcava anche le difficoltà di rinvenire un
Bebio rogator di questa legge nel 180
a.C., immaginando che essa trovasse applicazione solo in quest’anno per
non ostacolare i candidati dell’anno in corso, essendo stata invece
emanata l’anno precedente.
[52] I
patrizi che accedono invece alla pretura dal 197 al 180 a.C. sono quarantatre,
appartenenti a dodici genti; di questi quarantatre, in quegli anni ne divengono
consoli diciotto, appartenenti a sette genti, cioè il 58% di dodici, e
di queste sette genti ben cinque rivestono tale carica per più di una
volta. Tuttavia, questo elevato rapporto non deve essere inteso in senso
assoluto, ma visto in relazione al fatto che le poche genti patrizie che
ricoprono la pretura, ogni anno possono concorrere ad un posto di console.
[53] Delle
dodici genti patrizie che dal 197 al 180 a.C. ricoprono la pretura, solo due
non appaiono tra i gentilizi consolari dei centotre anni precedenti; inoltre,
ambedue queste genti non accedono alla suprema magistratura negli anni
successivi.
[54] E.
PAIS, Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, I, Roma 1915, 452 ss., aveva
maturato questa convinzione dal fatto che erano pressoché sempre tribuni
della plebe o consoli plebei a proporre tali leggi.
[55] F.
SERRAO, Classi partiti e legge nella Repubblica romana, Pisa 1982, 191 s., affermava che la
legislazione de sumptu era ispirata da uomini della stessa classe
dominante e che, nonostante la lex Antia del 70 a.C. e la lex Iulia
del 46 a.C., non rientrava mai nel programma democratico.
[56] A.
BOTTIGLIERI, La legislazione sul lusso
nella Roma repubblicana, Napoli 2002, 132 ss., in riferimento alla lex Orchia, afferma che «è
possibile congetturare che essa fosse diretta contro l’ambitus». L’autrice
sostiene, difformemente da Rotondi
(Leges publicae populi Romani, Milano
1912, 276) che il plebiscito sia stato approvato nel 182 a.C.
[57] Che si
tratti di falsi libri filosofico-religiosi, confezionati a bella posta ed
appositamente fatti rinvenire nel terreno di una persona vicina al pretore urbano, sembra
essere intuito dallo stesso Livio, il quale, senza peraltro negare apertamente
l’autenticità di questi libri, pone più volte
l’attenzione su fatti tali da metterne in dubbio la genuinità: eas
arcas cum ex amicorum sententia dominus aperuisset, quae titulum sepulti regis
habuerat, inanis inventa, sine vestigio ullo corporis umani aut ullius rei
(…). In altera duo fasces candelis involuti septenos habuere libros, non
integros modo sed recentissima specie (…). Adicit Antias Valerius
Pythagoricos fuisse, vulgatae opinioni, qua creditur Pythagorae auditorem
fuisse Numam, mendacio probabili accomodata fide (Liv. 40,29).
[58] È questa la teoria di A. DELATTE, Les
doctrines pythagoriciennes des livres de Numa, in Bulletin de la classe des lettres et des sciences
morales et politiques. Académie royale de Belgique XXII, 1936, 19 ss. In proposito,
vedasi anche A. SCHIAVONE, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, Bari 1987, 97 ss., il quale
interpreta l’episodio come un sintomo della volontà nobiliare di
difendere i simulacra di una religione politica. Sul pitagorismo a Roma
inteso quale movimento intellettuale e religioso, si vedano altresì L.
FERRERO, Storia del pitagorismo nel mondo romano, Torino 1955, 5 ss., e P. GRIMAL, Il secolo degli Scipioni, Brescia 1981, 210 ss. (tit. orig. Le
siècle des Scipions,
Paris 1975). Anche G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica,
Milano 1977 (tit. orig. La religion romaine archaïque, Paris 1974),
447 ss., interpretava l’episodio come esempio della lotta della
tradizione contro le innovazioni, anche se non negava la possibilità che
la falsificazione dei libri fosse una macchinazione ordita dallo scriba
L. Petilio per ricavare del denaro; infatti, l’elemento veramente
importante dell’intera vicenda, secondo Dumézil, sarebbe stato
proprio la volontà del senato di distruggere in fretta questi testi,
autentici o falsi non importa, in quanto comunque pericolosi per la
salvaguardia della tradizione.
[59] Sulla rogatio Licinia mi permetto di rinviare
a F. VALLOCCHIA, Collegi sacerdotali ed
assemblee popolari nella repubblica romana, Torino 2008, 123 ss.
[60]
È questo il pensiero di G. ROTONDI, Osservazioni sulla legislazione
comiziale romana di diritto privato,
in Scritti giuridici, I,
Milano 1922, 15.
[61] Si
segnalano la guerra Macedonica del 200-197 a.C., quella Siriaca del 192-188
a.C. e le repressioni di varie rivolte di popoli sottomessi alla potenza
romana, come esemplarmente quelle della Spagna, della Sardegna, della Corsica,
dei Galli e dei Liguri.
[62] Queste
osservazioni si basano su un’analisi degli elenchi di leggi contenuti nel
prezioso lavoro, tuttora insuperato, di G. ROTONDI, Leges publicae populi
Romani, cit., 189 ss.: lex
de bello Philippo Macedonum regi indicendo del 200 a.C. (Liv. 31,6); plebiscitum
de imperio in Hispania del 200 (Liv. 31,50,10); lex de foedere cum
Achaeis faciendo del 198 (Liv. 32,23,2); plebiscitum Marcium Atinium de
pace cum Philippo facienda del 195 (Liv. 33,25,6); plebiscitum de
permutatione provinciarum del 192 (Liv. 35,20,9); lex de bello Antiocho
indicendo del 191 (Liv. 36,1,4); lex de pace cum Antiocho del 189
(Liv. 37,45); lex de pace cum Aetolis facienda del 189 (Pol. 22,13-15).
A proposito delle leges de bello
indicendo, v. L. MAROCCO, Le leges de
bello indicendo. Criteri e metodologie per una ricerca, in RIDA 55, 2008, 303 ss., il quale
propugna una nuova raccolta di queste leges,
in quanto quelle precedenti gli appaiono incomplete.
[63] La
divisione delle leggi romane in tre gruppi, in base alla loro valenza politica,
costituisce una delle conclusioni più importanti dello studio dei
movimenti politici romani di F. SERRAO, Classi partiti e legge nella
Repubblica romana, cit.,
183 ss.
[64] Sono
attribuibili ai populares le seguenti norme: plebiscitum Atinium de
coloniis quinque deducendis del 194 a.C. (Liv. 32,29,3); plebiscitum
Baebium de coloniis deducendis del 194 (Liv. 34,45); plebiscitum Aelium
de coloniis duabus Latinis deducendis del 194 (Liv. 34,53,1); plebiscitum
Terentium de libertinorum liberis del 189 (Plut., Flamininus, 18,1); plebiscitum Valerium de
civitate cum suffragio Formianis et Arpinatibus danda del 188 (Liv.
38,23,7); tres leges Porciae de provocatione di età indefinita,
ma con buone probabilità collocabili nel primo ventennio del II secolo
a.C. (Cic., de rep.,
1,40,63). È invece attribuibile all’aristocrazia, con qualche
riserva, il plebiscitum Sempronium de pecunia credita del 193 a.C. (Liv.
35,7,2).
[65] Norme
riconducibili ai populares: plebiscitum Licinium de triumviris
epulonibus creandis del 196 a.C. (Liv. 33,42,1); plebiscitum Valerium
Fundanium de lege Oppia sumptuaria abrogando del 195 (Liv. 34,8).
All’aristocrazia: plebiscitum de iureiurando C. Valerii Flacci del
200 a.C. (Liv. 31,50,7-9); plebiscitum de permutatione provinciarum del
192 (Liv. 35,20,9); plebiscitum de P. Aebutio et de Fecennia Hispala del
186 (Liv. 39,19,3); plebiscitum Orchium de coenis del 181 (Macrobio, Sat., 3,16,2); lex Cornelia Baebia de
ambitu del 181 (Liv. 40,19,11); lex Baebia de praetoribus del 181
(Liv. 40,44,2).
[66] Plebiscitum
de imperio in Hispania del 200 a.C. (Liv. 31,50,10); lex de creandis
praetoribus sex del 198 (Liv. 32,27,6); plebiscitum Laetorium de
circumscriptione adolescentium del 192 (Cic., de off., 3,15,61); lex
Acilia de intercalatione del 191 (Macrob., Sat., 1,13,21); plebiscitum
Petillium de pecunia regis Antiochi del 187 (Liv. 38,54); plebiscitum
(?) Atilium de tutore dando del 186 (Gai. 1.185).
[68]
Infatti, nei ventuno anni precedenti l’emanazione della legge Villia,
solo sei personaggi accedono al consolato senza che vi siano notizie circa una
loro precedente pretura. Di questi, uno è T. Quinzio Flaminino, altri
due sono P. Sulpicio Galba e P. Cornelio Scipione Africano, i quali assumono il
consolato rispettivamente nel 200 e nel 194 a.C. dopo averlo ricoperto
già un’altra volta nel 211 l’uno e nel 205 l’altro.
Degli altri quattro, l’ultimo in ordine di tempo si presenta nel 197
a.C., ben diciassette anni prima del plebiscito Villio.
[71] TH.
MOMMSEN, Römisches Staatsrecht,
I, cit., 537 nt. 1 (= Le droit public
romain, II, cit., 193 nt. 4), riteneva che con gradus petitionis
Cicerone avesse voluto indicare la fissazione del cursus honorum da
parte della legge Villia. Già precedentemente K. NIPPERDEY, Die leges annales der römischen
Republik, cit., 7, aveva seguito un analogo ordine di idee, come posso
arguire dal fatto che il verbo essent della frase ut gradus essent
petitionis inter aequalis dovesse essere, secondo lo studioso, corretto in esset.
[72] Ita
saepe magna indoles virtutis, prius quam rei publicae prodesse potuisset,
exstincta est (Cic., Philip.,
5,17,47).
[73]
Sull’uso di questi termini da parte delle fonti, vedasi Thesaurus
linguae Latinae, I, s.vv.
Ambitio, Ambitiosus, Ambitus,
coll. 1851 ss.
[75] Circa
il concetto di ambitio, è interessante osservare quanto afferma
Sallustio, contemporaneo di Cicerone, in un famoso brano tratto dalla sua opera
sulla congiura di Catilina: sed primo magis ambitio quam avaritia animos
hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat. Nam gloriam honorem
imperium bonus et ignavos aeque sibi exoptant; sed ille vera via nititur, huic
quia bonae artes desunt, dolis atque fallaciis contendit (de Cat.
coniur., 11,1-2). In
questo passo è chiaro il riferimento ad una ambitio che porta
all’uso di mezzi illeciti, spesso puniti, come si evince da un altro
brano tratto dallo stesso testo: ambitio multos mortalis falsos fieri
subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere (…).
Haec (…) interdum vindicari (Sallustio, de Cat. coniur., 10,5-6).
[76]
L’anno a quo è il 178 a.C. perché nell’anno precedente
i pretori sono solo quattro; l’anno ad quem è il 166 a.C.
perché da quel momento in poi, coincidente con il quarantacinquesimo
libro degli Annali di Livio, gli elenchi dei pretori sono incompleti.
[78] I
consolati sono ventuno anziché venti, perché nell’anno 180
a.C. è nominato consul suffectus Quinto Fulvio Flacco (Liv.
40,37,6-7).
[79]
Occorre considerare che in questo ventennio si segnalano cinque coppie consolari
interamente plebee, negli anni 172, 171, 170, 167 e 163 a.C., ed un consul
suffectus plebeo, Gneo Domizio Enobarbo, per l’anno 162 a.C.
[81] Si
tratta di Marco Porcio Catone, nel 195 a.C. (Liv. 33,42,7), e di Manlio Acilio
Glabrione, nel 191 (Liv. 35,24,5).
[84]
Infatti Livio, nel ricordare che i consoli dell’anno 172 a.C. sono per la
prima volta ambedue plebei, non dà alcun risalto alla notizia,
limitandosi a riferire i nomi dei due magistrati: alter consul Postumius
consumpta aestate in recognoscendis agris, ne visa quidem provincia sua,
comitiorum causa Romam rediit. Consules C. Popilium Laenatem, P. Aemilium
Ligurem creavit (Liv. 42,9,7-8).