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image002Franco Vallocchia

Università di Roma “La Sapienza”

 

Aqua publica e ‘aqua profluens*

 

 

 

 

SOMMARIO: 1. Aqua publica. – 2. Aqua publica tra usus publicus e patrimonium populi. – 2.1. A) L’età repubblicana. – 2.2. B) L’età imperiale. – 3. La tutela giudiziaria dell’aqua publica. – 3.1. A) Integrità dell’acqua e degli impianti di conduzione. – 3.2. B) Uso pubblico dell’acqua. – 3.3. C) Uso esclusivo dell’acqua da parte dei concessionari. 4. Aqua profluens. Abstract.

 

 

1. – Aqua publica

 

L’acquedotto si compone di due elementi, concettualmente distinti: uno naturale, l’acqua, ed uno artificiale, gli impianti di conduzione.

Dall’esame delle fonti si ricava che, per indicare l’acquedotto pubblico, era usata soprattutto l’espressione aqua publica, che identificava, quindi, acqua e strutture di condotta[1]. Con tale espressione si voleva mettere in chiaro che acqua ed impianti erano strettamente connessi sotto il profilo giuridico, in quanto entrambi avevano natura di res publica; si evitava così il rischio che la distinzione concettuale tra gli elementi che compongono l’acquedotto si riflettesse sulla natura giuridica dello stesso.

Il carattere pubblico dell’acquedotto era basato sul titolo del suolo ove insistevano gli impianti di captazione e conduzione dell’acqua[2]. Dalla fonte fino ai serbatoi di distribuzione ed alle vasche delle fontane[3], tutte le strutture dovevano essere allocate sul suolo pubblico[4].

Si tratta, in buona sostanza, degli stessi schemi che alle origini della servitù prediale d’acquedotto richiedevano che il pater familias acquistasse il dominium del fons e della parte di fondo altrui, necessaria al passaggio degli impianti di conduzione dell’acqua fino al fondo proprio[5].

 

 

2. – Aqua publica tra usus publicus e patrimonium populi

 

          L’acqua condotta dai pubblici acquedotti era res in usu publico, in quanto tutti ne potevano fruire tramite le strutture pubbliche di distribuzione[6]. Una quota della stessa acqua era concessa a singoli privati dietro pagamento di un vectigal; e ciò è caratteristico delle res in patrimonio populi[7].

          La destinazione dell’acqua pubblica e la distinzione tra uso pubblico e uso dei privati presentano caratteristiche differenti tra età repubblicana ed età imperiale.

 

2.1. – A) L’età repubblicana

 

Dalle fonti si ricava che in età repubblicana l’acqua di ogni acquedotto veniva erogata secondo il principio della esclusività degli usi pubblici; anche quella (poca) concessa onerosamente ai privati[8], destinata altrimenti alla dispersione al suolo (aqua caduca), era diretta a servire usi pubblici[9]:

 

apud antiquos omnis aqua in usos publicos erogabatur et ita cautum fuit: “ne quis privatus aliam ducat quam quae ex lacu humum accidit” (…), id est quae ex lacu abundavit; eam nos caducam vocamus. Et haec ipsa non in alium usum quam balnearum aut fullonicarum dabatur, eratque vectigalis statuta mercede quae in publicum penderetur. Ex quo manifestum est quanto potior cura maioribus communium utilitatium quam privatarum voluptatium fuerit, eum etiam ea quae privati ducebant ad usum publicum pertineret (Front., de aquaed., 94,3-5).

 

Da questo testo osservo inoltre che con il termine “privati” si dovevano intendere solo i gestori di lavanderie e di bagni[10].

 

2.2. – B) L’età imperiale

 

Già all’inizio dell’età imperiale, ai privati non si attribuì più l’aqua caduca che debordava dalle vasche delle fontane pubbliche[11], in quanto ad essi fu riconosciuto il diritto, previa autorizzazione imperiale, di prelevare acqua corrente direttamente ex castellis, cioè da strutture edificate appositamente per distribuire l’acqua[12]. Inoltre, le concessioni idriche ai privati furono notevolmente e rapidamente incrementate rispetto all’età repubblicana[13]. Tale incremento faceva venire meno il loro carattere eccezionale, minacciando, quindi, l’esclusività del principio dell’uso pubblico. Tuttavia, le due diverse destinazioni dell’acqua pubblica non influivano sull’assetto unitario della loro gestione da parte dei magistrati[14]. Fu, piuttosto, nell’ambito degli strumenti di tutela giudiziaria che trovò un riflesso la distinzione tra l’uso pubblico e l’uso da parte dei privati della stessa acqua.

 

 

3. – La tutela giudiziaria dell’aqua publica

 

3.1. – A) Integrità dell’acqua e degli impianti di conduzione

 

L’inquinamento dell’acqua condotta dagli acquedotti, come pure il danneggiamento delle strutture e l’abusiva occupazione degli spazi destinati ad ospitare gli impianti, erano puniti con l’irrogazione di multe, sulla base di un’actio popularis:

 

in iisdem legibus adiectum est ita: “ne quis aquam oletato dolo malo, ubi publice saliet. Si quis oletarit, sestertiorum decem milium multa esto” (Front., de aquaed., 97,5-6)[15];

 

quicumque post hanc legem rogatam rivos, specus, fornices, fistulas, tubulos, castella, lacus aquarum publicarum, quae ad urbem ducuntur, sciens dolo malo foraverit, ruperit, foranda rumpendave curaverit peiorave fecerit, quo minus eae aquae earumve quae pars in urbem Romam ire, cadere, fluere, pervenire, duci possit, quove minus in urbe Roma et in eis locis, aedificiis, quae loca, aedificia urbi continentia sunt, erunt, in eis hortis, praediis, locis, quorum hortorum, praediorum, locorum dominis possessoribusve aqua data vel adtributa est vel erit, saliat, distribuatur, dividatur, in castella, lacus immittatur, is populo Romano HS centum milia dare damnas esto. Et quidquid eorum ita fecerit, id omne sarcire, reficere, restituere, aedificare, ponere et celere demolire damnas esto sine dolo malo (Frontino, de aquaeductibus, 129,4-5)[16].

 

3.2. – B) Uso pubblico dell’acqua

 

          L’uso pubblico dell’acqua da parte delle persone, nel senso di uso comune, libero e normale, era probabilmente tutelato con l’actio iniuriarum[17].

          Ulpiano spiegava che l’esercizio dell’actio iniuriarum era riservato al singolo cui fosse stato impedito l’uso individuale, ma non esclusivo, della res publica:

 

si quis in mari piscari aut navigare prohibeatur, non habebit interdictum, quemadmodum nec is, qui in campo publico ludere vel in publico balineo lavare aut in theatro spectare arceatur: sed in omnibus his casibus iniuriarum actione utendum est (Ulpiano in D. 43.8.2.9).

 

          È di tutta evidenza che i casi menzionati dal giurista severiano non erano esaustivi[18]. L’uso dell’acqua dei bagni pubblici per lavare, uno degli esempi citati da Ulpiano, non era certamente meno rilevante della fruizione d’acqua dalle pubbliche fontane per soddisfare i bisogni vitali.

 

3.3. – C) Uso esclusivo dell’acqua da parte dei concessionari

 

a- Lex Quinctia

 

          Nella lex Quinctia del 9 a.C., la difesa degli interessi dei concessionari era attuata attraverso la punizione (sulla base di un’azione popolare) per il danneggiamento degli impianti dell’acquedotto, tale da impedire il programmato flusso dell’acqua. Il ristoro del danno subito dai concessionari era nel ripristino dello stato precedente al fatto illecito[19].

 

b- Interdictum quo ex castello

 

          Solo dopo la lex Quinctia, nel corso del I secolo d.C., in seguito allo sviluppo del regime delle concessioni imperiali, fu introdotta una forma di tutela, diretta e specifica, degli interessi dei privati concessionari: l’interdictum quo ex castello, proibitorio ed azionabile solo dai diretti interessati:

 

ait praetor: 'quo ex castello illi aquam ducere ab eo, cui eius rei ius fuit, permissum est, quo minus ita uti permissum est ducat, vim fieri veto' (Ulpiano in D. 43.20.1.38)[20].

 

          È con l’elaborazione di questo interdetto, che si realizzò la distinzione tra la difesa dell’interesse pubblico alla integrità del sistema di erogazione dell’acqua e la difesa dell’interesse del concessionario al godimento dell’acqua attribuita.

 

 

4. – Aqua profluens

 

Le res communes omnium erano state elevate a categoria dal giurista Marciano nell’età dei Severi; tale categoria fu poi inserita da Giustiniano nelle Istituzioni. Ne facevano parte l’aria, l’aqua profluens, il mare e i lidi:

 

naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris (Marciano in D. 1.8.2).

 

Vi è discussione tra gli studiosi circa l’identificazione dell’aqua profluens ed il valore da attribuire alle res communes omnium[21]. La dottrina dominante ritiene che quest’acqua non fosse quella condotta artificialmente, ma quella che scorreva naturalmente “all’aperto”[22] e che tale classificazione, di origine filosofica, non avesse un valore giuridico[23].

Che lo scorrimento dell’acqua avvenga all’aperto è nelle caratteristiche stesse dell’aqua profluens, in quanto res communis omnium; se così non fosse, infatti, l’acqua non sarebbe accessibile a tutti. Diversa, invece, è la questione se si trattasse di scorrimento naturale o indotto dall’uomo.

Indubbiamente ‘profluo’ (come anche ‘fluo’) è un verbo ampiamente utilizzato dalle fonti in riferimento a corsi d’acqua naturali[24]. Tuttavia, l’uso di questo verbo (e pure di ‘fluo’) è attestato anche per le acque artificialmente condotte[25]:

 

(conductor balinei) aquam … in labrum … profluentem recte praestare debeto (Lex metalli Vipascensis, in F.I.R.A., I, 502 ss.);

 

          si manifeste doceri possit ius aquae ex vetere more atque observatione per certa loca profluentis utilitatem certis fundis inrigandi causa exhibere, procurator noster, ne quid contra veterem formam atque sollemnem morem innovetur, providebit (C. 3.34.7 di Diocleziano e Massimiano nell’anno 286).

 

Peraltro, dalla Paraphrasis Institutionum di Teofilo e dai Basilicorum libri, in particolare dagli Scholia, emerge che aqua profluens era considerata l’acqua che scorre sempre, senza riferimenti alle caratteristiche dell’alveo (naturale o artificiale)[26].

          Dalle fonti, quindi, emerge che profluens indicava tanto lo scorrimento naturale quanto quello indotto; e questo mi porta a pensare che non si è riflettuto abbastanza sul significato che Marciano[27] voleva dare alla qualificazione profluens dell’aqua[28]. Parimenti, ritengo che sia necessario ragionare con maggiore attenzione anche sulle cause che spinsero lo stesso giurista ad integrare l’elenco delle res communes omnium, aggiungendovi l’aqua profluens[29].

          Orbene, dal momento che queste res sono essenziali alla vita degli uomini, è evidente che alla base della loro individuazione e della loro elevazione a categoria[30], vi fosse la preoccupazione di garantire a tutti gli esseri umani la soddisfazione dei bisogni primari. Gli uomini dovevano avere la libera disponibilità di un minimo che avrebbe permesso loro di vivere: l’aria, che nessuno avrebbe mai potuto negare; la pesca, libera nei mari, dalle spiagge e nei porti[31]; l’aqua profluens, cioè l’acqua che scorre sempre[32]. E l’acqua corrente delle pubbliche fontane era spesso la sola risorsa idrica per moltissime persone che popolavano le città. Oltretutto, gli acquedotti captavano le acque non solo dei fontes, ma anche dei fiumi[33].

          Inoltre, la presenza tra le res communes di acqua corrente, mare e lidi non impediva, allo stesso Marciano e, poi, a Giustiniano nelle Istituzioni, di considerare res publicae fiumi e porti, e di definire pubblico l’uso di mare e lidi[34]. Non v’è allora impedimento a riconoscere che Marciano possa aver considerato communis omnium, poiché profluens, anche l’acqua delle fontane dei pubblici acquedotti, non chiusa e condotta in tubazioni, ma corrente all’aperto e, quindi, fruibile da tutti. Peraltro, l’uso pubblico dell’acqua era da sempre inteso nel senso di uso comune e la sua tutela era già rimessa all’actio iniuriarum, quando si trattava di difenderne l’uso normale[35], ed ai mezzi processuali popolari, quando invece occorreva reprimere gli abusi che minacciavano l’integrità stessa dell’erogazione pubblica[36].

          Del resto, la costanza dello scorrimento dell’acqua dalle fontane pubbliche era da sempre l’obiettivo principale dell’amministrazione degli acquedotti[37]. Nonostante ciò, in età imperiale gli usi pubblici non avevano più le caratteristiche della esclusività rispetto agli usi privati e le concessioni per gli usi dei privati crescevano in modo importante, supportate dalla migliore tecnica di distribuzione attraverso i castella aquarum (v. supra, § 2 lett. B). Frontino tramanda che intorno al 100 d.C. gli acquedotti pubblici di Roma davano ai privati il 38,64% della loro portata ed all’uso pubblico il 44,21% (Front., de aquaed., 78,3). È quindi un fatto incontestabile che alla fine del I secolo d.C. gli usus publici e le voluptates privatorum quasi si equivalevano sul piano della politica di distribuzione idrica.

          Non sappiamo cosa sia avvenuto poi, fino a Marciano; ma è ragionevole pensare che la tendenza registrata alla fine del I secolo d.C. sia stata quanto meno confermata[38]. È probabile, quindi, che nel secolo di Marciano la maggior parte degli abitanti di Roma (e non solo)[39] avesse a disposizione, per le necessità vitali, quasi la stessa quota di acqua corrente attribuita in forma esclusiva alla minor parte per le necessità varie.

          La categoria delle res communes omnium fu, dunque, una risposta, da una prospettiva giuridica[40], all’affermata politica di concessioni di res publicae, ed in particolare di aqua publica. Questa categoria non si ergeva a negazione di tale politica, ma si poneva come una limitazione, in quanto vi sono res che non possono essere sottratte all’uso di tutti gli uomini[41]. Per questo, Marciano ritenne di teorizzare la classificazione delle res communes che Giustiniano, seguendo una linea di cui emergono tracce in alcune costituzioni del Codice[42] e secondo la sua concezione di Impero universale[43], volle accogliere nelle Istituzioni e nel primo libro del Digesto.

 

Abstract

 

 

L'eau conduite par les aqueducs publics était res in usu publico; tout le monde pouvait bénéficier de l’eau grâce à la distribution publique. Une partie de cette eau était accordée à des particuliers après le paiement d'un vectigal, et cela est caractéristique des res in patrimonio populi. La destination de l'eau publique et la distinction entre l'usage public et l’usage privé ont des caractéristiques différentes à l'âge républicaine et impériale. La distinction entre l'usage public et l'utilisation par des individus de la même eau est reflétée dans le cadre des instruments juridiques. La catégorie des res communes omnium était une réponse, sur le plan juridique, à la politique de concessions des res publicae, et en particulier de l'aqua publica, adoptée par les empereurs jusqu'au IIIe siècle. Et, enfin, l’empereur Justinien a utilisé la catégorie des res communes pour renforcer le concept de l'empire universel.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

* Si tratta della ricostruzione del testo della comunicazione da me tenuta nel Convegno internazionale “Il Diritto romano privato e la cultura del diritto in Europa”, svoltosi a San Pietroburgo nei giorni 27-29 maggio 2010, organizzato dall’Accademia Giuridica Russa, dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di San Pietroburgo e dal Centro degli Studi di Diritto Romano di Mosca.

 

[1] Aqua publica, nel senso di elemento acqua tratto da acquedotto pubblico, si rinviene in tutte le fonti giuridiche e letterarie, dalla fine del I secolo a.C. all’inizio del VI secolo d.C. Aqua publica, nel senso di impianto edificato per condurre e distribuire pubblicamente l’acqua, è già attestato nel linguaggio legislativo della seconda metà del I secolo a.C. (lex Ursonensis, 99: quae aquae publicae in oppido colon(iae) Gen(etivae) adducentur, IIvir, qui tum erunt, ad decuriones, cum duae partes aderunt, referto, per quos agros aquam ducere liceat). L’espressione ‘aquam adducere’ presente nella lex Ursonensis indica l’attività di edificazione di un acquedotto (cfr. Plin., Nat. hist., 36,121: novam aquam a nomine suo appellatam cuniculis per montes actis intra praeturae suae tempus adduxit). L’espressione ‘aquaeductus publicus’ si ritrova in fonti tarde (una costituzione degli imperatori Valentiniano, Teodosio ed Arcadio in C. 11.43.2, due costituzioni dell’imperatore Zenone in C. 11.43.10.3 e in C. 12.3.3.1, una costituzione dell’imperatore Anastasio in C. 11.43.11). Le fonti giuridiche, del resto, con la parola aquaeductus indicavano di regola la servitù prediale.

 

[2] La dottrina contemporanea ha enucleato le modalità con cui l’acquedotto veniva, per dir così, introdotto tra le res publicae; pertanto, è riconosciuto un ruolo specifico alla occupatio, all’acquisto del fons e dei terreni necessari al passaggio delle condutture, alla vetustas, alla publicatio.

Il ruolo della occupatio è stato messo particolarmente in luce da E. DE RUGGIERO, s.v. Aqua – aquae ductus, in Dizionario epigrafico di antichità romane, I, Roma 1895, 539; secondo l’autore era utilizzato per l’acqua lo stesso atto originario usato per la creazione dell’ager publicus.

Circa il fons e la sua natura, vedasi G. LONGO, Il regime romano delle acque pubbliche, in Rivista italiana per le Scienze Giuridiche, 3, fasc. 2-3, 1928, 4 ss.; secondo l’autore erano pubblici i fontes scaturenti in terreni montani, assoggettati quindi al regime dell’ager publicus, ovvero in fondi acquistati o “espropriati” dallo “Stato”. Secondo F.M. DE ROBERTIS, La espropriazione per pubblica utilità nel Diritto Romano, Bari 1936, 44 ss. e 69 ss., fino alla fine del III secolo a.C. il magistrato avrebbe provveduto all’acquisto dai privati dei beni occorrenti per edificare un’opera pubblica; per l’autore questa procedura sarebbe stata seguita anche nei secoli successivi, provvedendo però i magistrati incaricati dell’esecuzione dell’opera, almeno fino ad Augusto, ad una sorta di compravendita forzosa nei confronti del privato.

Circa la vetustas, sembra riconoscerle valore generale S. CASTAN PEREZ-GOMEZ, Regimen juridico de las concesiones administrativas en el derecho romano, Madrid 1996, 53 s.; in verità, nelle fonti la vetustas appare quale giustificazione delle derivazioni private da corsi di acqua pubblica.

La publicatio costituiva l’atto con cui il magistrato qualificava una res come publica (vedasi A. FERNÁNDEZ DE BUJÁN, Derecho Público Romano y recepción del Derecho Romano en Europa, Madrid 2000, 216). Secondo F.M. DE ROBERTIS, La espropriazione per pubblica utilità nel Diritto Romano, cit., 173 ss., il termine publicatio sarebbe apparso nelle fonti dopo il 120 d.C. per indicare gli effetti della confisca e della espropriazione di beni per fini di pubblica utilità. Per una precisazione dogmatica della publicatio, vedasi G. SCHERILLO, Lezioni di diritto romano. Le cose, I, Milano 1945, 104 ss., il quale metteva in evidenza la duplice funzione della publicatio, costitutiva o dichiarativa, e la sua natura perpetua, nel senso che non poteva essere subordinata ad un termine; l’autore evidenziava inoltre che talvolta, per esempio nel caso delle viae, con la publicatio si poteva definire anche l’uso della res, oltre che la sua natura. Per una recente analisi della dottrina contemporanea sulla publicatio, vedasi V. PONTE, Régimen jurídico de las vías públicas en Derecho Romano, Madrid 2007, 258 ss.

 

[3] Per avere un quadro della complessità delle strutture che costituivano un impianto di acquedotto, si veda il testo della lex Quinctia, riprodotto in Front., de aquaed., 129,4: rivos, specus, fornices, fistulas, tubulos, castella, lacus aquarum publicarum quae ad urbem ducuntur.

 

[4] È nota la discussione sorta in dottrina sulle presunte origini romane della espropriazione per fini di pubblica utilità; per una sintesi aggiornata delle opinioni espresse dagli studiosi, vedasi D. DE LAPUERTA MONTOYA, El fondamento de la potestad expropriatoria, in Estudios de Derecho romano en memoria de Benito M. Reimundo Yanes, I, Burgos 2000, 483 ss., che in parte ricalca quanto già scritto da L. SOLIDORO MARUOTTI, Recensione di M. PENNITZ (Der Enteignungsfall im römischen Recht der Republik und des Prinzipats. Eine funktional-rechtsvergleichende Problemstellung, Wien-Köln-Weimar 1991), in Index, 23, 1995, 522 ss. A parte il già citato F.M. DE ROBERTIS, La espropriazione per pubblica utilità nel Diritto Romano, cit., 28 ss., e con maggiore convinzione il più recente E. LOZANO CORBÍ, La expropiación forzosa por causa de utilidad pública y en interés del bien común en el derecho romano, Zaragoza 1994, 164 ss., considerevole parte degli autori contemporanei nega che l’espropriazione abbia trovato una qualche forma di applicazione sistematizzata nel diritto romano (v. per esempio U. NICOLINI, La proprietà, il principe e l’espropriazione per pubblica utilità, Milano 1940, 263 ss., sulla riconducibilità all’età medievale delle costruzioni dogmatiche intorno alla figura dell’espropriazione). Esemplarmente, in uno dei più utilizzati manuali di Diritto romano (M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 405) si legge che «… va l’assenza, nell’esperienza romana, dell’espropriazione per pubblica utilità» e che «gli acquisti necessari per scopi pubblici erano generalmente ottenuti in via di pressione politica»; un atteggiamento coercitivo, talvolta necessario, sarebbe stato garantito dall’emptio ab invito, la quale avrebbe permesso al magistrato di perseguire l’obiettivo senza procedere ad una spoliazione del privato (cfr. anche M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, Palermo 1994, 307). Sulla base di questi presupposti, M. PENNITZ, Der Enteignungsfall im römischen Recht der Republik und des Prinzipats. Eine funktional-rechtsvergleichende Problemstellung, cit., 199 ss., ha sostenuto che i magistrati romani si servissero di una emptio di diritto pubblico, accompagnata da una aestimatio con la consultazione di arbitri; nello stesso senso, con maggiore sinteticità e minor grado di approfondimento, mi sembra di poter leggere R. RODRÍGUEZ LÓPEZ, Las obligaciones indemnizatorias en el Derecho Público Romano, Almería 1996, 251 ss. Comunque, ritengo che per ciò che concerne almeno l’edificazione degli acquedotti pubblici le fonti, già a partire dalla fine del I secolo a.C., attestano la pratica realizzazione di procedure che vanno al di là di un atteggiamento improntato al rispetto della sfera negoziale del proprietario, quale invece appare essere osservato nell’età repubblicana (v. Front., de aquaed., 128,1).

 

[5] Nelle ricerche della romanistica contemporanea in materia di captazione e conduzione delle acque, ha assunto fondamentale rilievo lo studio di M. VOIGT, Ueber den Bestand und die historische Entwicklung der Servituten und Servitutenklagen während der römischen Republik, in BSGW, 26, 1874, 159 ss., volto a dimostrare la primitiva configurazione della servitus aquaeductus in termini di appartenenza del fons e del rivus al proprietario del fondo cui l’acqua serve. Con questa tesi si sono confrontati molti autori che, da varie prospettive, hanno studiato le origini e la struttura delle servitù prediali. Le conclusioni cui questi autori sono pervenuti possono essere sintetizzate in tre punti: a- originariamente l’acquedotto, compreso il fons, sarebbe appartenuto al proprietario del fondo cui esso serviva, forse in una sorta di comproprietà tra il proprietario del fondo da servire ed il proprietario del fondo ove l’acquedotto correva (cfr. M. BRETONE, La nozione romana di usufrutto, I, Napoli 1962, 34 ss., e G. GROSSO, Le servitù prediali nel diritto romano, Torino 1969, 30 ss.); b- in un secondo momento, sarebbe stata scissa la natura del fons da quella del rivus (cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Ricerche sulla struttura delle servitù d’acqua in diritto romano, Milano 1966, 70 ss.); c- infine, si sarebbe giunti ad una qualificazione unitaria dell’aquaeductus quale ius in re aliena e le ricostruzioni più attendibili collocano la conclusione di questo processo tra il II (cfr. A. CORBINO, Ricerche sulla configurazione originaria delle servitù, I, Milano 1981, 105 ss.) ed il I secolo a.C. (cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Ricerche sulla struttura delle servitù d’acqua in diritto romano, cit., 103 ss. e 183 ss., e A. D’ORS, Las fórmulas procesales del Bronce de Contrebia, in AHDE, 50, 1980, 1 ss.).

 

[6] Si pensi ai lacus ed ai salientes di cui tutti gli acquedotti di Roma erano forniti per garantire la fruizione pubblica dell’acqua. Sulle strutture adibite alla distribuzione pubblica dell’acqua, vedasi A. MALISSARD, Les Romains et l’eau, Paris 1994, 22 ss.

 

[7] Sulla distinzione ed i rapporti tra res in usu publico e res in patrimonio populi, si vedano P. BONFANTE, Corso di diritto romano, II, 1, La proprietà, rist. Milano 1968, 70 («quanto al godimento delle cose destinate all’uso pubblico certo esso in linea di principio non ha carattere economico, patrimoniale, né per i singoli, né per lo Stato: ma in via eventuale e accidentale, se uno sfruttamento economico è possibile, niente vieta che lo Stato ne profitti e la cosa assuma l’aspetto di un bene patrimoniale») e G. GROSSO, Lezioni di diritto romano. Le cose, Modena 1931, 89 s. («si deve qui solo osservare che il distacco tra le due categorie di res publicae non è così netto come potrebbe a tutta prima apparire; non è escluso cioè (…) che lo Stato tragga reddito dalle cose in pubblico uso, di modo che si scorge il facile passaggio dall’una all’altra categoria»). Sulla linea tracciata dalla dottrina della prima metà del ‘900, anche gli autori più recenti, tra cui segnalo A. PETRUCCI, “Fistulae aquariae” di Roma e dell’“ager Viennensis”, in Labeo, XLII, 1996, 169 ss., e G.M. ZOZ, Riflessioni in tema di res publicae, Torino 1999, 145 s.

 

[8] Il vectigal publicum al quale erano sottoposti balneatores e fullones era strettamente connesso all’utilizzazione dell’aqua caduca. Anche altre res in usu publico venivano gravate del pagamento di una somma di denaro da parte di chi le usava, pur trattandosi di un impiego avente tutti i connotati dell’usus publicus. A tacere del cloacarium e della forma aquae, di cui troppo poco sappiamo (cfr. D. 7.1.27.3, D. 19.1.41 e D. 30.39.5), si veda il c.d. portorium, ovvero il vectigal quod in itinere praestari solet, che venivano imposti in occasione del passaggio di persone e cose nei porti (Alfeno in D. 50.16.203), attraverso i ponti (Giavoleno-Labeone in D. 19.2.60.8) e lungo le strade (Ulpiano in D. 24.1.21pr.). Non mi sembra che queste esazioni, collegate con l’uso normale e pubblico della res in usu publico, data anche la loro natura tributaria, possano di per sé cagionare la ‘confusione’ con le res in patrimonio populi.

 

[9] Le fonti giuridiche, infatti, ed in particolar modo i giuristi, non forniscono una catalogazione esaustiva degli usi delle res in usu publico, anzi i pochi e brevi accenni alle modalità di ordinaria utilizzazione di queste res publicae appaiono posti come formulazioni esemplificative di attività più vaste, la cui individuazione è rimessa al comune sentire ed allo sviluppo sociale ed economico. In questo senso si veda Ulpiano in D. 50.16.17pr., il quale scriveva di publica quae publicis usibus destinata sunt. Si veda ancora il noto passo di Ulpiano in D. 43.8.2.2 (loca publica utique privatorum usibus deserviunt, iure scilicet civitatis, non quasi propria cuiusque), nel quale il giurista severiano inquadrava dogmaticamente gli usus publici: l’uso pubblico della res è giustificato nell’ambito dello ius civitatis, in opposizione alla proprietà sulla res del singolo dominus; in questo senso l’uso pubblico della res, positivamente connotato grazie all’esercizio dello ius civitatis, trova come limite negativo, anch’esso posto come principio generale, la protezione dall’incommodum publicum, come si può evincere dallo stesso Ulpiano in D. 39.2.24pr. (fluminum publicorum communis est usus, sicuti viarum publicarum et litorum. In his igitur publice licet cuilibet aedificare et destruere, dum tamen hoc sine incommodo cuiusquam fiat) e da Paolo in D. 8.1.14.2 (ut per viam publicam aquam ducere sine incommodo publico liceat). Allora, come detto, i rari casi in cui sono menzionati specifici usi pubblici della res devono essere intesi quali esemplificazioni; così deve essere interpretata l’elencazione estrapolata da Ulpiano in D. 43.8.2.9 (in campo publico ludere vel in publico balineo lavare aut in theatro spectare). Sul concetto di utilitas publica e la sua fondamentale coincidenza, almeno per l’età repubblicana e per la prima età imperiale, con utilitas communis, nel senso dell’interesse dei cives in contrapposizione ai commoda privatorum, si vedano J. GAUDEMET, Utilitas publica, in Revue historique de droit français et étranger, 29, 1951, 465 ss., e G. LONGO, Utilitas publica, in Labeo, XVIII 1972, 7 ss.

 

[10] Del tutto diverse sono le caratteristiche proprie dell’altro caso di conduzione di acqua pubblica da parte di privati in età repubblicana, descritto da Front., de aquaed., 94,6 (aliquid et in domos principum civitatis dabatur concedentibus reliquis), nel quale l’attività concessoria non era determinata dalla discrezionalità del magistrato incaricato delle acque, ma da un procedimento complesso che vedeva l’intervento necessario dei (cives) reliqui. L’attività dei reliqui era volta a contrarre il carattere pubblico dell’usus dell’acqua, al fine di permettere ai principes civitatis di condurla per usi esclusivamente privati; ciò che sarebbe stato irrealizzabile altrimenti.

 

[11] Front., de aquaed., 111,1-2, ha tramandato il testo del mandatum imperiale relativo ai nuovi usi dell’aqua caduca: caducam neminem volo ducere nisi qui meo beneficio aut priorum principum habent. Nam necesse est ex castellis aliquam partem aquae effluere, cum hoc pertineat non solum ad urbis nostrae salubritatem sed etiam ad utilitatem cloacarum abluendarum. È interessante notare che al tempo di Frontino aqua caduca era quella che aut ex castellis aut ex manationibus fistularum effluunt (Front., de aquaed., 110,1).

 

[12] Vedasi il testo del senatusconsultum dell’11 a.C. relativo alle concessioni ex castellis, in Front., de aquaed., 106,1; vedasi anche la nota definizione di castellum tratta da D. 43.20.1.39. L’obbligatorietà del prelievo dell’acqua dai castella fu ribadita in una costituzione di Valentiniano, Teodosio ed Arcadio del 389 (C. 11.43.3pr.); in questa norma, però, oltre ai castella erano indicate anche le formae come luogo di prelievo dell’acqua. Le prescrizioni di questa costituzione erano comunque più restrittive rispetto alle regole esposte in D. 43.20.1.41, ove era scritto che permittitur autem aquam ex castello vel ex rivo vel ex quo alio loco publico ducere.

 

            [13] Frontino ci ragguaglia sulla quantità di acqua erogata da ciascun acquedotto per i vari usi. Limitando il confronto ad usi pubblici e privati, si ricava che al tempo nel nostro curator aquarum:

- l’aqua Appia attribuiva il 27,75 % della sua portata globale ai privati ed il 50,64 % agli usi pubblici (Front., de aquaed., 79,2);

- l’Anio vetus distribuiva il 32,49 % ai privati ed il 36,60 % al pubblico (Front., de aquaed., 80,2);

- l’aqua Marcia attribuiva il 36,89 % ai privati ed il 55,23 % al pubblico (Front., de aquaed., 81,2);

- l’aqua Tepula erogava il 71,60 % ai privati ed il 15,10 % al pubblico (Front., de aquaed., 82,2);

- l’aqua Iulia distribuiva il 26,82 % ai privati ed il 69,89 % al pubblico (Front., de aquaed., 83,2);

- l’aqua Virgo attribuiva il 14,67 % ai privati ed il 63,24 % al pubblico (Front., de aquaed., 84,2);

- l’Anio novus e la Claudia erogavano il 44,80 % ai privati ed il 31,88 % al pubblico (Front., de aquaed., 86,3).

L’aqua Alsietina è esclusa dal computo perché la sua acqua era interamente consumata fuori della città (Front., de aquaed., 85,2). Sui vari usi dell’acqua pubblica, v. D.P. KEHOE, Economics and the law of water rights in the Roman Empire, 243 ss., e C.P. RODGERS, “Ex rei publicae utilitate”: legal issues concerning maintenance of the aqueducts at Rome, 265 ss., entrambi in AA.VV., Vers une gestion intégrée de l’eau dans l’Empire romain (a cura di E. HERMON), Roma 2008.

Riporto in termini percentuali i dati espressi da Frontino, dal momento che quelli assoluti sono riprodotti dall’antico autore secondo un’unità di misura a noi non ancora del tutto chiara; su questa misura, chiamata quinaria, vedasi A. MALISSARD, Les Romains et l’eau, cit., 195.

 

[14] Sull’attività in materia di acque dei censori e degli edili in età repubblicana, si veda Front., de aquaed., 96; sulla nomina dei curatores aquarum e sulle competenze imperiali circa le concessioni, si veda Front., de aquaed., 100,1 e 105,1. Per ciò che concerne le due familiae che si occupavano della manutenzione degli acquedotti, quella publica e quella Caesaris, esse non avevano competenze divergenti, che potessero in qualche modo essere basate sulla diversità degli usi dell’acqua. Per convincersene, basta leggere le pagine dedicate da Frontino alle attività delle due familiae: Front., de aquaed., 116 e 117. Diverse erano, tuttavia, le fonti del loro finanziamento: aerarium per la familia publica, fiscus per la familia Caesaris (Front., de aquaed., 118,1 e 118,4). Circa le entrate derivanti dalla gestione degli acquedotti, esse convergevano nell’aerarium, per essere assorbite dal fiscus solo in età Severiana (vedasi F. VASSALLI, Sul rapporto tra le res publicae e le res fiscales in diritto romano, in Studi Senesi nel circolo giuridico della Reale Università, 25, 1908, 236 ss.). Front., de aquaed., 118,3, spiega che l’imperatore Domiziano aveva stornato verso il fiscus le rendite degli acquedotti, ma che Nerva, il suo successore, aveva ripristinato la situazione originaria.

 

[15] Si tratta di una norma di età repubblicana. È molto probabile che a seguito della irrogazione della multa per l’inquinamento delle acque degli acquedotti, fosse avviata la procedura di reciperatio; non è però possibile stabilire con certezza a chi spettasse il giudizio. Nel proseguimento del passo vi è un cenno agli edili curuli ed al loro dovere di incaricare, per ciascun vico, due persone che si occupassero della erogazione in pubblico dell’acqua. Pur ammettendo un certo rapporto tra la multa e l’arbitratus dei due incaricati, è troppo poco per poter affermare con certezza la competenza edilizia nei citati giudizi per multa.

 

[16] Si tratta della lex Quinctia de aquis del 9 a.C. Dal caso del materiale danneggiamento delle strutture, tale da impedire all’acqua di scorrere regolarmente e di pervenire ai siti di erogazione pubblica ed ai concessionari, al caso dell’abusiva occupazione degli spazi destinati ad ospitare gli impianti, la illecita ingerenza dei privati era repressa con l’irrogazione di una multa, alla quale faceva probabilmente seguito il consueto procedimento recuperatorio secondo le forme del processo formulare, sulla base di un’azione popolare. La tutela popolare è attestata da Front., de aquaed., 97,5-6; 127,2; 129,4. Sulla tutela delle res in usu publico e sul ruolo del civis in questa difesa, si veda A. DI PORTO, Interdetti popolari e tutela delle “res in usu publico”. Linee di una indagine, in Diritto e processo nella esperienza romana. Atti del seminario torinese (4-5/12/1991) in memoria di G. Provera, Napoli 1994, 483 ss.; l’autore individua due modelli, quello repubblicano e quello imperiale, la cui differenza è vista essenzialmente nella larghezza di poteri assunti dai magistrati in età imperiale.

 

[17] Va detto che nelle fonti non vi sono riferimenti specifici alla possibilità di esperire l’actio iniuriarum per tutelare l’uso normale dell’acqua condotta. Sui presupposti dell’actio iniuriarum a difesa dell’uso della res publica da parte dei singoli, si vedano P. BONFANTE, Corso di diritto romano, II, 1, La proprietà, cit., 85 ss.; V. SCIALOJA, Teoria della proprietà nel diritto romano, I, Roma 1928, 224 s.; G. VECTING, Domaine public et res extra commercium, Paris 1947, 62 ss. G. ASTUTI, Acque. Introduzione storica generale, in ED, I, Milano 1958, 349, a proposito di esperibilità di actio iniuriarum e di interdicta in materia di res publicae, scriveva che «la disciplina degli interdetti mira appunto a reprimere gli eventuali abusi, mentre l’uso normale è tutelato con l’actio iniuriarum, o con speciali interdetti».

 

[18] Vedasi esemplarmente D. 47.10.13.7: et ita Pomponius et plerique esse huic similem eum, qui in publicum lavare vel in cavea publica sedere vel in quo alio loco agere sedere conversari non patiatur, aut si quis re mea uti me non permittat: nam et hic iniuriarum conveniri potest.

 

[19] Front., de aquaed., 129,4-5. L. SOLIDORO MARUOTTI, La tutela dell’ambiente nella sua evoluzione storica, Torino 2009, 67, legge le disposizioni della lex Quinctia come destinate a contrastare fenomeni di inquinamento: «siamo così risaliti alle remote radici storiche di uno dei principi-chiave della nuova figura giuridica dello ‘sviluppo sostenibile’: ‘Chi inquina paga’». Esatta la conclusione cui perviene l’autrice: «se la pena pecuniaria, anziché cumularsi con l’obbligo della riduzione in pristino, avesse costituito l’unica sanzione a carico degli autori di danneggiamenti dolosi, le successive opere di ripristino e di bonifica sarebbero state certamente meno immediate».

 

[20] Il nome dell’interdetto deriva dalla formula riportata da Ulpiano; per la letteratura vedasi A. PETRUCCI, “Fistulae aquariae” di Roma e dell’“ager Viennensis”, cit., 174 nt. 27. O. LENEL, Das Edictum Perpetuum, Leipzig 1907, 461 s., inseriva l’interdictum quo ex castello nel titolo 43 dell’editto, sotto la rubrica dedicata all’aqua cottidiana et aestiva. Nell’ambito della sistematica gaiana relativa agli interdicta (Gai., 4.143), F. ZUCCOTTI, Il locus servitutis e la sua tutela interdittale, in SDHI, LX, 1994, 246 nt. 398, include l’interdetto in questione tra gli interdicta adipiscendae possessionis.

 

[21] Dubbi sono stati avanzati dalla romanistica contemporanea circa la genuinità del passo di Marciano, in relazione agli elementi che avrebbero composto la categoria delle res communes omnium; sulla inclusione dell’aqua profluens, però, la dottrina ha raggiunto una posizione pressoché unitaria decretandone la riconducibilità a Marciano (vedasi G. LOMBARDI, Ricerche in tema di “ius gentium”, Milano 1946, 98 ss.). La romanistica contemporanea si è interessata alla possibilità di configurare autonomamente, sotto il profilo giuridico, l’acqua corrente rispetto al fiume che la comprende. Così V. SCIALOJA, Teoria della proprietà nel diritto romano, I, cit., 125 ss., che sostenne la possibilità di scindere l’acqua del fiume dal suo alveo, poiché il fiume nel suo complesso sarebbe stata una res publica, mentre la sua acqua sarebbe stata una res communis omnium (contra, v. P. BONFANTE, Corso di diritto romano, II, 1, La proprietà, cit., 42 ss. e 52 s., il quale, riconducendo ai commissari giustinianei la categoria delle res communes omnium, solo ipotizzata da Marciano in chiave filosofica e senza risvolti pratico-giuridici, sostenne la vanità della distinzione tra alveo del fiume ed aqua profluens, dal momento che l’acqua avrebbe seguito la condizione dell’alveo, in quanto portio fundi). Sostanzialmente in linea con Scialoja era G. GROSSO, Lezioni di diritto romano. Le cose, cit., 95 ss., il quale rilevava che la tesi di Marciano non aveva avuto seguito tra i giuristi. In parte diversa la posizione di A. DELL’ORO, Le res communes omnium dell’elenco di Marciano e il problema del loro fondamento giuridico, in Studi Urbinati. Scienze giuridiche ed economiche, 31, 1962-1963, 239 ss.; questi, premesso che l’aqua profluens era da identificare con l’«acqua che scorre nei fiumi o meglio ancora all’aperto», negato che prima di Marciano, o al più di Ulpiano, fosse emersa la categoria delle res communes omnium e riconosciuto che nessun giurista, compresi i compilatori giustinianei, fosse giunto al punto di estromettere i fiumi dalle res publicae, affermava che Marciano avesse voluto dare configurazione autonoma di bene all’energia materiale della corrente d’acqua, sfruttata principalmente per i mulini e per il trasporto di legname (su questa conclusione, v. la fondata critica di L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Ricerche sulla struttura delle servitù d’acqua in diritto romano, cit., 58 ss.). Da ultimo, vedasi M. FIORENTINI, Fiumi e mari nell’esperienza giuridica romana, Milano 2003, 73 ss. (sull’acqua dei fiumi) e 427 ss. (su mare e litus). Per una trattazione sintetica, ma efficace dei problemi interpretativi suscitati dal passo di Marciano e delle Istituzioni di Giustiniano a proposito di res communes omnium, vedasi F. SINI, Persone e cose: res communes omnium, in Diritto@Storia, 7, 2008.

 

[22] V. SCIALOJA, Teoria della proprietà nel diritto romano, I, cit., 126, scrisse: «ma qual è l’acqua in movimento che si può dire comune? Tale è, secondo l’opinione più seguita, l’acqua corrente (aqua fluens). Le fonti però dicono sempre profluens: il che io credo voglia significare ‘acqua corrente all’aperto’ e non chiusa artificialmente in tubi». L’interpretazione di Scialoja è tuttora generalmente seguita dalla romanistica. Vedasi, esemplarmente, L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Ricerche sulla struttura delle servitù d’acqua in diritto romano, cit., 59 nt. 112, il quale giunge a sostenere che Marciano non avesse potuto considerare «profluens, e quindi res communis omnium, anche l’acqua derivata in una condotta artificiale ma aperta»; in verità, Capogrossi parla delle derivazioni di acqua fatte ad opera di privati. Vedasi, però, anche G. ASTUTI, Acque, cit., 347, il quale ha scritto dell’aqua profluens che essa «fluisce o scorre per gravità, entro un alveo naturale o artificiale». Per una sintetica rassegna delle interpretazioni della romanistica contemporanea, vedasi N. DE MARCO, I loci publici dal I al III secolo, Napoli 2004, 24 nt. 75.

 

[23] Vedasi, esemplarmente, E. VOLTERRA, Istituzioni di diritto privato romano, Roma 1961, 277 ss., il quale evidenziava la natura economica e filosofica, piuttosto che giuridica, delle considerazioni che avrebbero prodotto la categoria delle res communes omnium.

 

[24] Si vedano le voci Fluo e Profluo in Thesaurus linguae Latinae (rispettivamente VI, 1 e X, 2).

 

[25] Vedasi il testo della lex Quinctia (Front., de aquaed., 129,2), con riferimento a fluo: quicumque post hanc legem rogatam rivos, specus, fornices, fistulas, tubulos, castella, lacus aquarum publicarum, quae ad urbem ducuntur, sciens dolo malo foraverit… quo minus eae aquae earumve quae pars in urbem Romam ire, cadere, fluere, pervenire, duci possit. Per ciò che concerne profluo, esso è usato nella lex metalli Vipascensis (F.I.R.A., I, 502 ss.) ed in una costituzione del 286 (C. 3.34.7) (vedasi supra, nel testo). Anche in C. 3.34.6 (dell’anno 269) è riportato “ex fonte profluere”, ma non è certo si tratti di acqua condotta. Cfr. altresì quanto scritto da Vitr., De arch., 8,1,1, a proposito della differenza tra acque profluentes ed acque sub terra: ea autem erit facilior, si erunt fontes aperti et fluentes. Sin autem non profluent, quaerenda sub terra sunt capita et colligenda. È evidente che aqua profluens indica solo l’acqua che scorre all’aperto, indipendentemente dal fatto che sia naturalmente corrente o raccolta e condotta dall’uomo.

 

[26] Negli Scholia (ed. Schel.) a Bas. 46.3.2 (ed. Heimb.), è spiegato con Ûdwr ¢šnnaon il senso di ∙šon Ûdwr. Aqua profluens è quindi aqua perennis, nel senso esposto da Ulpiano in D. 43.12.1.2: perenne est quod semper fluat, ¢šnnaoj (v. infatti la traduzione che nell’ed. Heimbach è data di Ûdwr ¢šnnaon). La lezione dei Basilicorum libri è ripresa dal Tipucitus, 46.3.2 (ed. Hoermann-Seidl).

 

[27] Il raro impiego di profluo da parte dei giuristi, a fronte del largo uso di fluo, depone per una diffidenza di fondo nei confronti del termine, forse perché si prestava ad una confusa sinonimia; oltre a Marciano, il solo Ulpiano usa profluo, con riferimento alla esperibilità dell’actio aquae pluviae arcendae (D. 39.3.1.20; D. 39.3.1.22).

 

[28] Vedasi la puntualizzazione di G. LOBRANO, Uso dell’acqua e diritto nel Mediterraneo, in Diritto@Storia, 3, 2004, 14, sul concetto di naturale scorrimento dell’acqua: «l'acqua che fluisce, l’acqua che (con il suo moto circolare dalla terra al mare e dal mare alla terra, attraverso l'aqua pluvia) assicura la continuità della vita».

 

[29] V. quanto scrive Vitr., De arch., 8,praef.,2-3, sulla necessità vitale di aria, acqua e cibo per gli animalia. Già prima di Marciano i giuristi si erano occupati di enucleare res il cui uso fosse comune di tutti gli uomini. Si vedano: Nerazio, con riferimento ai frutti della pesca (D. 41.1.14pr.: nec dissimilis condicio eorum est atque piscium et ferarum, quae simul atque adprehensae sunt, sine dubio eius, in cuius potestatem pervenerunt, dominii fiunt), Celso, a proposito di mare ed aria (D. 43.8.3.1: maris communem usum omnibus hominibus, ut aeris) ed Ulpiano, su mare lidi aria e frutti della pesca (D. 47.10.13.7: mare commune omnium est et litora, sicuti aer, et est saepissime rescriptum non posse quem piscari prohiberi). A quanto ne sappiamo, è stato Marciano ad aggiungere l’aqua profluens; e questo evidenzia tre aspetti: la non tassatività dell’elencazione delle res communes; la originalità di Marciano e la sua sensibilità di fronte alle esigenze vitali degli uomini.

 

[30] F. SINI, Persone e cose: res communes omnium, cit., afferma che Marciano «non ha elaborato la base concettuale delle res communes; il suo apporto è stato forse quello di aver fatto di esse una vera e propria categoria di cose, distinte dalle pubbliche». La distinzione, quindi, avrebbe caratterizzato il rapporto tra res publicae e res communes omnium, non la separazione o l’isolamento.

 

[31] Ulpiano in D. 47.10.13.7: est saepissime rescriptum non posse quem piscari prohiberi. Marciano in D. 1.8.4pr.: nemo ad litus maris accedere prohibetur piscandi causa. I. 2.1.1: nemo ad litus maris accedere prohibetur. I. 2.1.2: ius piscandi omnibus commune est in portibus fluminibusque.

 

[32] Vitr., De arch., 8,1,1: (aqua) est enim maxime necessaria et ad vitam et ad delectationes et ad usum cotidianum.

 

[33] Uno degli acquedotti di Roma, quello detto Anio Novus edificato nel 38 d.C., attingeva l’acqua del fiume Aniene (Front., de aquaed., 15,1-2). Molto probabilmente anche l’acquedotto Anio Vetus, edificato nel 272 a.C., captava l’acqua dell’Aniene (Front., de aquaed., 6,5; 90,1).

 

[34] Si vedano, infatti, lo stesso Marciano in D. 1.8.4.1 e le Istituzioni imperiali: I. 2.1.2 e I. 2.1.5. Da qui la pretesa incongruenza, sul piano della logica giuridica, del testo di Marciano. Le incertezze nella configurazione di alcune res, quali communes e quali publicae, ha convinto la romanistica contemporanea a ritenere, quanto meno, priva di contenuto giuridico la categoria delle res communes omnium elaborata da Marciano. Tra gli autori più recenti, vedasi esemplarmente A. GUARINO, Diritto privato romano, Napoli 2001, 326 nt. 19.9.3: «è difficilmente negabile il carattere alquanto infelice dell’inserzione nel catalogo marcianeo quanto meno dell’aqua profluens (letteralmente: acqua che scorre, forse acqua piovana)». Occorre evidenziare la difficoltà dimostrata, meno di due anni dopo la pubblicazione delle Istituzioni, nel distinguere tra res communes e res publicae, dovuta certamente alla volontà di andare oltre la categoria delle res publicae; vedasi infatti Nov. 7.2.1 del 535, nella versione dell’Authenticum: utique cum nec multo differant ab alterutro sacerdotium et imperium, et sacrae res a communibus et publicis. Sulla puntualizzazione della distinzione tra res communes e res publicae, vedasi G. LOBRANO, Uso dell’acqua e diritto nel Mediterraneo, cit., 13.

 

[35] Circa la tutela delle res communes omnium attraverso l’actio iniuriarum, v. F. SINI, Persone e cose: res communes omnium, cit.: «la turbativa del singolo nel godimento delle res communes omnium si configurava come turbativa personale ed era repressa con l’actio iniuriarum». La base testuale di questa ricostruzione è in un passo di Ulpiano in D. 47.10.13.7: si quis me prohibeat in mari piscari vel everriculum ducere, an iniuriarum iudicio possim eum convenire? Sunt qui putent iniuriarum me posse agere: et ita Pomponius et plerique esse huic similem eum, qui in publicum lavare vel in cavea publica sedere vel in quo alio loco agere sedere conversari non patiatur, aut si quis re mea uti me non permittat: nam et hic iniuriarum conveniri potest. Conductori autem veteres interdictum dederunt, si forte publice hoc conduxit: nam vis ei prohibenda est, quo minus conductione sua fruatur. Si quem tamen ante aedes meas vel ante praetorium meum piscari prohibeam, quid dicendum est? Me iniuriarum iudicio teneri an non? Et quidem mare commune omnium est et litora, sicuti aer, et est saepissime rescriptum non posse quem piscari prohiberi.

 

[36] Vedasi G. LOBRANO, Uso dell’acqua e diritto nel Mediterraneo, cit., 14 ss., il quale sostiene che la tutela dell’uso comune del mare e dell’aqua fluens era rimessa agli interdetti popolari, sulla base di D. 43.12.1.17 (si in mari aliquid fiat, Labeo competere tale interdictum: "ne quid in mari inve litore" quo portus, statio iterve navigio deterius fiat") e D. 43.13.1pr. (ait praetor: "in flumine publico inve ripa eius facere aut in id flumen ripamve eius immittere, quo aliter aqua fluat, quam priore aestate fluxit, veto").

 

[37] Vedasi, esemplarmente, il rigore del testo di uno dei senatoconsulti dell’11 a.C.: uti salientes publici quam adsiduissime interdiu et noctu aquam in usum populi funderent (Front., de aquaed., 104). Notevole è anche il commento di Frontino (de aquaed., 103) a questa norma: in utroque autem magna cura multiplici opponenda fraudi est: sollicite subinde ductus extra urbem circumeundi ad recognoscenda beneficia; idem in castellis et salientibus publicis faciendum, ut sine intermissione diebus noctibusque aqua fluat.

 

[38] Peraltro, Frontino già si lamentava di questa tendenza (Front., de aquaed., 94,5): manifestum est quanto potior cura maioribus communium utilitatium quam privatarum voluptatium fuerit, eum etiam ea quae privati ducebant ad usum publicum pertineret. Cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Ricerche sulla struttura delle servitù d’acqua in diritto romano, cit., 61 s., con riferimento specifico all’acqua dei fiumi: «per quanto riguarda i fiumi pubblici si deve altresì rilevare come, fin dalla prima epoca classica, un’ampia gamma di utilizzazioni di tali corsi era garantita a tutti liberamente: e semmai, proprio all’epoca di Marciano, doveva cominciare ad affermarsi una tendenza opposta. La tendenza cioè a limitare la libertà di utilizzazione delle acque dei fiumi pubblici da parte dei privati e ad introdurre un regime di concessioni».

 

[39] Occorre ricordare che l’opera di Marciano si colloca dopo l’emanazione, nel 212, della costituzione di Caracalla sulla concessione della cittadinanza agli abitanti dell’impero.

 

[40] L. DE GIOVANNI, Giuristi severiani. Elio Marciano, Napoli 1989, 36, scrive a proposito delle motivazioni che sostenevano Marciano: «Marciano non in ossequio ad astratte concezioni filosofiche ma a bisogni pratici relativi, in ultima analisi, alla necessità di fare del diritto romano uno strumento sempre più vivo e concreto utilizzabile dalla stragrande maggioranza dei sudditi dell’impero».

 

[41] L. SOLIDORO MARUOTTI, La tutela dell’ambiente nella sua evoluzione storica, cit., 106 ss., sottolinea l’esistenza di due nozioni di bene, secondo lo ius naturale e secondo lo ius civile: «l’una, più ampia, dettata su base naturalistica e agganciata al concetto di utilità o giovamento, l’altra inclusiva dei soli beni appropriabili dai privati e suscettibili di valutazione patrimoniale». Su questo presupposto, l’autrice conclude che la categoria delle res communes omnium era «in nuce configurata come categoria di beni idonei a soddisfare bisogni della comunità e preposti ad una funzione di fruizione collettiva». G. LOBRANO, Uso dell’acqua e diritto nel Mediterraneo, cit., 8 ss., mette in luce gli elementi di crisi dell’ordinamento giuridico odierno, dovuti alla «ri-comparsa del Diritto romano di Giustiniano», caratterizzato, tra l’altro, «da una concezione non riduttivamente privatistico/economica ma decisamente più ampia e articolata delle ‘cose’».

 

[42] Dalla lettura di alcune costituzioni collocate nel titolo 43 del libro XI del Codice di Giustiniano, da collocare in uno spazio temporale tra il 389 ed il 518, emerge una rinnovata linea di rigore verso le concessioni idriche ai privati e di recupero della priorità degli usi pubblici dell’acqua degli acquedotti. Nello specifico, in C. 11.43.11 (si tratta di una costituzione di Anastasio, tra il 491 ed il 518) è ribadito il potere dell’imperatore di rilasciare concessioni, mentre in C. 11.43.3pr. (una costituzione di Valentiniano, Teodosio ed Arcadio del 389) sono indicate tassativamente le modalità attraverso le quali i privati possono derivare acqua pubblica dagli acquedotti. In C. 11.43.5 (degli imperatori Teodosio e Valentiniano tra il 440 ed il 441), la destinazione a privati dell’acqua degli acquedotti pubblici è subordinata al principio “pro abundantia civium”, la cui soddisfazione permette di concedere ai privati quantità della sola “aqua superflua”. Infine, in C. 11.43.9 (di Zenone tra il 474 ed il 491) sono espressi due principi: irreversibilità della destinazione pubblica dell’acqua (quod publicum fuerit aliquando, minime sit privatum) e priorità (o esclusività?) degli “usus communes” dell’acqua pubblica (ad communes usus recurrat). Dalle costituzioni del Codex di Giustiniano, mi sembra evidente che dopo Marciano gli imperatori abbiano avvertito la necessità di recuperare e salvaguardare gli usus communes dell’aqua profluens contro gli usi (concessi) dei singoli privati.

 

[43] Sul concetto giustinianeo di Impero universale e sulla influenza delle opere di Marciano nella elaborazione di questo concetto, v. P. CATALANO, ’Ius Romanum’. Note sulla formazione del concetto, in AA.VV., La nozione di ‘Romano’ tra cittadinanza e universalità (Da Roma alla Terza Roma, Studi 2), Napoli 1984, 531 ss., e P. CATALANO, Giustiniano, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, 759 ss.