Università di Cagliari
Il concepito nelle XII Tavole
ABSTRACT:
Julian (D. 38.16.6: lex XII tab. eum vocat ad hereditatem, qui moriente eo, de
cuius bonis quaeritur, in rerum natura fuerit) and Ulpian (D. 38.16.3.9: ex
lege XII tab. ad legitimam hereditatem is qui in utero fuit admittitur) thinks
that lex XII tab. admitted qui in utero fuit, qui in rerum natura fuit, to the father's hereditary succession
provided that he was born within ten months after the father's death.
Gellio nelle Notti Attiche,
riportando una discussione di medici e filosofi illustri sulla durata della
gestazione umana, e riferendo l'opinione generale per cui la nascita si
verifica più raramente al settimo, mai all'ottavo, spesso al nono e
più spesso al decimo mese[1],
afferma che i decemviri scrissero che l'uomo nasce in dieci mesi, e non
undici:
Gell. N. A.
3.16.12: Praeterea ego de partu
humano, praeterquam quae scripta in libris legi, hoc quoque usu venisse Romae
comperi: feminam bonis atque honestis moribus, non ambigua pudicitia, in
undecimo mense post mariti mortem peperisse, factumque esse negotium propter
rationem temporis, quasi marito mortuo postea concepisset, quoniam decemviri in
decem mensibus gigni hominem, non in undecimo scripsissent[2].
Pur non conoscendo la disposizione
delle XII Tavole se non tramite il racconto di Gellio, è plausibile che il motivo che può aver spinto i decemviri a
stabilire che in decem mensibus gigni[3] hominem[4], e ad occuparsi, quindi, della durata massima della gravidanza[5], sia il riconoscimento dello status di figlio legittimo del
nato[6] e, pertanto, la possibilità di ammettere all'eredità il
figlio concepito ma non ancora nato al momento della morte, anche se
la dottrina prevalente, già dai secoli scorsi (Pernice[7], Schulz[8], Voci[9]) aveva ritenuto che non le XII Tavole, ma la successiva interpretatio
avrebbe stabilito il diritto del postumo alla successione legittima[10]. In tal senso, fra la dottrina più recente, anche l'Astolfi[11], per il quale la giurisprudenza attribuì al
postumo il diritto di succedere, interpretando in tal senso le norme
decemvirali, e la Lamberti[12],
la quale ritiene che la previsione decemvirale riguardasse l’attribuzione
di paternità e pertanto la legittimità della nascita: il
nascituro, si editus, sarebbe stato annoverato fra i filii del
testatore, ma, nascendo sui iuris, non sarebbe potuto essere
classificato fra i sui e l’estensione della normativa decemvirale
sarebbe proceduta proprio sulla base di un progressivo allargamento della
nozione di suus. L'interpretatio
dei pontefici avrebbe esteso il novero dei sui attraverso l'utilizzo
di una fictio[13], fingendo cioè che il postumo,
se nato vivo patre, sarebbe
ricaduto nella sua potestas[14], come risulterebbe da
Gai 3.4: Postumi quoque, qui, si vivo parente nati
essent, in potestate eius futuri forent, sui heredes sunt[15]
Tit. Ulp. 22.15: Postumi quoque liberi, id est qui in utero
sunt, si tales sunt, ut nati in potestate nostra futuri sint, suorum heredum
numero sunt.
Appare evidente, peraltro, che il postumo, se il padre non fosse
premorto, sarebbe realmente caduto nella sua potestas, e sembra
difficile, pertanto, parlare di fictio. In tal senso già il
Manfredini[16], per il quale Gaio in 3.1-4, affermando che sono sui heredes
i postumi che, se fossero nati vivo il padre sarebbero stati sotto la sua potestas,
non costruisce, come afferma la Lamberti, una fictio iuris per cui essi
sono eredi grazie al fatto che quando nascono è come se il padre fosse
in vita, ma intende escludere dalla categoria dei sui quei postumi che,
se anche fossero nati in vita del padre, non sarebbero caduti sotto la sua potestas,
ad esempio perché il padre era capite minutus al momento della
morte[17]. Anche per il Ferretti[18] non si può parlare di una finzione - in quanto i concepiti non
si fingono nati in vita del testatore - ma di una semplice constatazione,
assunta a giustificazione dell’inclusione dei concepiti fra i sui.
Osserva il Bianchi[19] che, se anche si ammettesse in linea teorica che la finalità di
Tab. IV.4 potesse essere quella della 'legittimazione'[20], il riconoscimento come figlio legittimo poneva necessariamente le
basi perché egli potesse succedere ab intestato al paterfamilias[21]. Si sarebbe, altrimenti, verificata la singolare situazione per cui il
figlio, oltre a portare il nome del pater e acquisire gli iura
gentilicia, sarebbe stato sui iuris, anzi paterfamilias, e
avrebbe potuto persino succedere come adgnatus, ove proximus, ma non avrebbe potuto essere suus del
padre; sarebbe appartenuto alla familia del padre, senza poterne essere
erede, nemmeno se fosse stato figlio unico. Non si può parlare, dunque,
ad avviso dell'Autore, di una finzione consistente nel considerare il postumo
come persona che sarebbe ricaduta in potestà del padre se questi non
fosse premorto, e quindi come suus, perché manca la
falsità che caratterizza la fictio, in quanto è
indubbiamente vero che, sopravvivendo il paterfamilias, il postumo
sarebbe caduto nella sua potestà.
Ma andiamo, allora, ad esaminare i passi nei quali le XII Tavole sono
espressamente nominate a proposito della possibilità di ammettere alla
successione legittima colui che in utero est, sempre che, evidentemente, nasca:
D. 38.16.3.9 (Ulp. 14 ad Sab.): Utique et ex lege duodecim tabularum ad
legitimam hereditatem is qui in utero fuit admittitur, si fuerit editus. inde
solet remorari insequentes sibi adgnatos, quibus praefertur, si fuerit editus:
inde et partem facit his qui pari gradu sunt, ut puta frater unus est et uterus,
vel patrui filius unus natus et qui in utero est. 10. Est autem tractatum, pro qua partem faciat,
quia ex uno utero plures nasci possunt. et placuit, si in rerum natura certum
sit hanc, quae se dicit praegnatem, praegnatem non esse, ex asse iam esse heredem
hunc, qui iam natus est, quoniam et ignorans heres fit. quare si medio tempore
decesserit, integram hereditatem ad heredem suum transmittit. 11. Post decem menses mortis natus non admittetur ad legitimam
hereditatem[22].
D. 38.16.6 (Iul. 59 dig.):
Titius exheredato filio extraneum
heredem sub condicione instituit: quaesitum est, si post mortem patris pendente
condicione filius uxorem duxisset et
filium procreasset et decessisset, deinde condicio instituti heredis
defecisset, an ad hunc postumum nepotem legitima hereditas avi pertineret.
respondit: qui post mortem avi sui concipitur, is neque legitimam hereditatem
eius tamquam suus heres neque bonorum possessionem tamquam cognatus accipere
potest, quia lex duodecim tabularum eum vocat ad hereditatem, qui moriente eo,
de cuius bonis quaeritur, in rerum natura fuerit.
Per Ulpiano, pertanto, la legge delle XII Tavole ammette
all'eredità colui che in utero fuit, si editus, per
Giuliano, colui che post mortem avi sui concipitur non può essere
suus e non può essere ammesso alla bonorum possessio come
cognatus[23], perché la legge delle XII Tavole[24] chiama
all'eredità qui in rerum natura fuerit[25].
La possibilità che Giuliano,
affermando quia lex duodecim tabularum eum vocat ad hereditatem, qui moriente
eo, de cuius bonis quaeritur, in rerum natura fuerit[26], si riferisse non solo ai figli
già nati – come ritiene la Lamberti, che segue la dottrina
tradizionale nell'interpretare l'espressione in rerum natura esse come
equivalente all'espressione in rebus humanis esse[27], considerandole
entrambe relative «all'esistenza o inesistenza materiale» del
concepito – ma anche ai figli già concepiti al momento della morte
del de cuius, sembra
avvalorata non solo dalla circostanza che il giurista aveva in precedenza
parlato, per negare loro la possibilità di essere ammessi
all'eredità, dei figli non ancora concepiti, ma anche dall'affermazione
da parte dello stesso Giuliano che a coloro qui in utero sunt, che in toto paene[28] iure civili
intelleguntur in rerum natura esse, legitimae hereditates restituuntur:
D. 1.5.26 (Iul. 69 dig.): Qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur in rerum
natura esse. Nam et legitimae hereditates his restituuntur: et si praegnas
mulier ab hostibus capta sit, id quod natum erit postliminium habet, item
patris vel matris condicionem sequitur: praeterea si ancilla praegnas subrepta
fuerit, quamvis apud bonae fidei emptorem pepererit, id quod natum erit tamquam
furtivum usu non capitur: his consequens est, ut libertus quoque, quamdiu
patroni filius nasci possit, eo iure sit, quo sunt qui patronos habent.
Il significato da attribuire nel
passo all'in
rerum natura intelleguntur esse è stato
al centro di un acceso dibattito,
in quanto per la dottrina più risalente, che segue la nota tesi del
Savigny[29], il concepito
sarebbe considerato in rerum natura solo in base ad una finzione.
Riteneva, infatti, l'illustre autore tedesco che i passi nei quali si equipara il
concepito al nato, come, a suo avviso, D. 1.5.26,
contengano una semplice fictio, mentre i testi per i quali il concepito
non è ancora uomo, non ha ancora esistenza, ma deve essere considerato
come parte del corpo materno (D. 25.4.1.1, D. 35.2.9.1)[30] esprimano
«das wahre Verhältniss der Gegenwart»[31]. Pur essendo
già stato obiettato molti anni orsono dal La Pira[32] che i giuristi
romani avrebbero considerato il nascituro in rerum natura senza mai
utilizzare il termine finzione, ritenendolo suus già al momento
della confezione del testamento, purché concepito, è stato il
Catalano[33], in tempi
più recenti, ad affermare che proprio il verbo intellegere
utilizzato da Giuliano nel nostro passo (qui in utero est, in toto paene
iure civili intelleguntur in rerum natura esse) afferma la parità
del concepito e del nato, principio che si sarebbe formato sulla base delle XII
Tavole, non in conseguenza di una finzione, cioè di una costruzione
imperativa, ma della 'constatazione di una realtà' da parte dell'interprete.
A me sembra necessario porre in evidenza, come già osservato in
precedenti scritti[34], che nei passi
nei quali si afferma che il concepito intelligitur in rerum natura
esse[35] non si equipara
il concepito al nato a certi fini in base ad una fictio, come sosteneva il Savigny, e ancor
oggi, tra la dottrina più recente, la Lamberti, non lo si
considera come se fosse in rebus humanis[36], come se fosse
già nato, ma lo si ritiene esistente in quanto tale, durante la
gravidanza, come entità autonoma, sia che traduciamo intellegere
come constatare o, come sostiene la Lamberti[37], ritenere,
intendere. La dottrina più
recente considera oggi, contrariamente alla dottrina più risalente (e tra
quella recente, il Gomez-Iglesias-Casal[38] lo Zuccotti[39] e la Lamberti[40]), non equivalenti le espressioni in
rerum natura/in rebus humanis esse, indicando l'in rerum natura l’esistenza in natura, nel mondo delle cose,
e, dunque, l'esistenza del nascituro anche durante la gravidanza, l'in rebus humanis la nascita, l’essere venuti al mondo; il concepito
potrebbe essere ritenuto in rerum natura, e dunque
esistente, pur non essendo ancora in rebus humanis, perché non
ancora nato. Sia in D. 1.5.26 sia in D. 38.16.6 Giuliano affermerebbe,
pertanto, che sono ammessi all'eredità i figli concepiti, e dunque
già in rerum natura,
al momento della morte del padre.
Osserva, invece, in un recente scritto, la Lamberti[41], ribadendo
opinioni già espresse in passato[42], che in D.
38.16.6 Giuliano usa il sintagma qui in utero est, in
toto paene iure civili in rerum natura fuerit nel senso di
«colui che fosse già presente in natura, già naturalmente
esistente», non in riferimento ai concepiti, ma ai già nati. Il
discorso di Giuliano, per la Lamberti, «doveva fermarsi in primo luogo
sui iam
nati»,
che la legge delle XII Tavole chiamava a succedere ab intestato in qualità
di sui; doveva
necessariamente proseguire toccando la situazione dei concepiti al momento
della morte del de cuius, e con ulteriori
osservazioni in tema di bonorum possessio intestati e riguardo,
infine, ai non ancora concepiti alla morte dell’ereditando: su tali
ultimi punti, secondo l'Autrice, il frammento resta in sospeso, alla luce della
formulazione attuale, e ciò sarebbe spia di un sicuro intervento
privativo ad opera dei Compilatori, intervento che sarebbe, inoltre, dimostrato
dall’aggiunta in coda al frammento giulianeo di
D.
38.16.7 (Cels. 28 dig.): vel si vivo eo conceptus est, quia conceptus quodammodo in rerum natura
esse existimatur[43].
Se letti in collegamento reciproco,
i due frammenti appaiono affermare, per la Lamberti, un’evidente
distinzione fra il già nato, qui … in rerum natura (est), e il concepito, che quodammodo in rerum natura esse
existimatur. Se Giuliano in D.
38.16.6 affermasse che la lex XII tabularum, già di per sé, chiamava alla successione intestata anche i concepiti, non
si spiegherebbe, a suo avviso, perché i Compilatori avrebbero sentito il
bisogno di aggiungere la precisazione celsina relativa al conceptus[44], che indicherebbe come non solo
Giuliano e Celso[45] avessero una concezione del
nascituro diversa da quella del iam natus, del già venuto ‘ad esistenza’, ma come
ancora nella compilazione giustinianea[46] si tenessero
distinti i due piani del nascituro e del bambino già venuto alla luce.
A me sembra che leggendo D. 38.16.6 e 7 in collegamento reciproco, come fa
il Lenel che unisce l'ultima parte di D. 38.16.6 [lex duodecim
tabularum eum vocat ad hereditatem, qui moriente eo, de cuius bonis quaeritur,
in rerum natura fuerit] a D. 38.16.7 vel si vivo eo conceptus est,
quia conceptus quodammodo in rerum natura
esse existimatur, risulti che la legge delle XII Tavole
chiama all'eredità colui che, alla morte del de cuius, era
in rerum natura, sia il vivo, il
già nato, sia il concepito, perché anche il concepito è, quodammodo,
in qualche modo[47], in rerum
natura, così come per Giuliano in toto paene iure civili
intellegitur in rerum natura esse.
Parte della dottrina ha, poi, ritenuto che proprio l'utilizzo
dell'espressione in rerum natura esse di D. 38.6.6, troppo moderna e dottrinale
perché la si possa far risalire alla legge delle XII Tavole, provi che
non siano state le XII Tavole ad occuparsi del concepito, ma la successiva
interpretatio, cui
spesso si intende, in realtà, riferirsi quando si parla delle
disposizioni decemvirali. Così il Fadda [48], per il quale nelle XII Tavole non sarebbe esistita alcuna
disposizione precisa sul concepito, e solo in seguito, con l'interpretatio
di Giuliano, esso sarebbe stato considerato come nato.
La circostanza che le XII Tavole potessero non utilizzare il sintagma rerum
natura non significa, però, che non contenessero alcuna disposizione
sul concepito, perché, come è evidente, non si può pensare
di ricostruire il testo decemvirale come fu effettivamente promulgato nel V
secolo a.C.[49], in quanto già i frammenti conservati dai giuristi e scrittori
antichi presentano forme linguistiche più moderne.
Dal momento, però, che
sappiamo da Gellio che i decemviri scrissero che in decem mensibus gigni[50] hominem, non in undecimo, principio richiamato dallo stesso Ulpiano in D. 38.16.3.11, dopo
aver fatto riferimento nei paragrafi precedenti alle XII Tavole, e dal momento che Giuliano afferma sia che lex duodecim tabularum
eum vocat ad hereditatem, qui moriente eo, de cuius bonis quaeritur, in rerum
natura fuerit, sia che qui
in utero sunt in toto paene
iure civili intelleguntur in rerum natura esse, sembra difficile sostenere che
le XII Tavole non si occupassero del concepito[51]. Quello che pare necessario chiedersi, in base ai testi esaminati,
è, piuttosto, se possiamo equiparare l'espressione qui in utero fuit
di Ulpiano a quella in rerum natura fuerit di Giuliano, ritenendo dunque
che chi in utero est sia in rerum natura, non, come ritiene la
Lamberti, in base ad una fictio, in utero esse= in rerum natura esse, ma perché già
esistente durante la gravidanza.
Ci sarebbe allora corrispondenza su quanto riferiscono Ulpiano e
Giuliano: la legge delle XII Tavole avrebbe ammesso il concepito, qui in
utero est, qui in rerum natura est, alla successione legittima del padre, purché nasca, e
purché nasca, afferma Gellio e ribadisce Ulpiano, entro i dieci mesi
dalla morte del padre.
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa,
il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
[1] Gell. N. A. 3.16.1: Et medici et philosophi inlustres de tempore humani partus quaesiverunt.
Multa opinio est eaque iam pro vero recepta, postquam mulieris uterum semen
conceperit, gigni hominem septimo rarenter, numquam octavo, saepe nono, sapius
numero decimo mense, eumque esse hominem gignendi summum finem: decem mensos
non inceptos, sed exactos.
[2] Sul passo si vedano, da ultimi, con
ampi riferimenti alla bibliografia precedente, Giunti, Consors vitae.
Matrimonio e ripudio in Roma antica,
Milano, 2004, 274 ss., Ferretti, In rerum natura esse/in rebus humanis nondum
esse. L'identità del concepito nel pensiero giurisprudenziale classico,
Milano, 2008, 109 ss.; Bianchi, Per un'indagine sul principio conceptus pro
iam nato habetur (fondamenti arcaici e classici), Milano, 2009, 42 ss.; Terreni, Me puero venter erat solarium. Studi sul concepito
nell’esperienza giuridica romana, Pisa, 2009, 224 ss., e ivi nt. 173.
[3] Gellio adopera il verbo gignere anche in N. A. 4.3.2, in cui ricorda il divorzio di Spurio Cervilio Ruga per
sterilità della moglie: Servius
quoque Sulpicius in libro quem composuit de dotibus tum primum cautiones rei
uxoriae necessarias esse visas scripsit, cum Spurius Carvilius, cui Ruga
cognomentum fuit, vir nobilis, divortium cum uxore fecit, quia liberi ex ea
corporis vitio non gignerentur, anno urbis conditae quingentesimo vicesimo
tertio M. Atilio P. Valerio consulibus.
[4] Dal momento che della durata di
dieci mesi era anche il tempus lugendi, come riferisce un'altra
antichissima norma, attribuita a Numa (Plut. Numa 12.2: sed
longissimi luctus tempus esse decem mensium), la dottrina ha stabilito una
correlazione fra il periodo massimo della gravidanza e quello del lutto, che
sarebbe previsto, anche se si tratti di un maritus quem more maiorum
lugeri non oportet, per il pericolo della turbatio sanguinis (D.
3.2.11.1). Ritiene possibile la Beltrami,
Il sangue degli antenati. Stirpe, adulterio e figli senza padre nella
cultura romana, Bari, 1998, 52 ss., che si credesse necessario un tempo di
rispetto del sangue del marito defunto, coincidente con la durata massima della
gravidanza, al fine di salvaguardare l'identità dell'eventuale erede e
la purezza della stirpe con l'evitare il contatto con un altro sangue. Sul tempus
lugendi vedi, tra la dottrina recente, Humbert,
Le remariage à Rome, Milano, 1972, 113 ss.; Giunti, Adulterio e leggi regie. Un
reato fra storia e propaganda, Milano, 1990, 104 ss., e bibliografia
riportata.
[5] Anche se
lo stesso Gellio in N. A. 3.16.6 ricorda che Varrone nel XIV libro delle
Antichità divine scrisse, sull'autorità di Aristotele, che qualche
volta l'essere umano può nascere all'undicesimo mese: quo in libro
etiam undecimo mense aliquando nasci posse hominem dicit, eiusque sententiae tam de octavo quam
de undecimo mense Aristotelem auctorem laudat, e in N. A.
3.16.12 in fine che lo stesso fu stabilito con un decreto dall'Imperatore
Adriano: sed divum Hadrianum causa cognita decrevisse
in undecimo quoque mense partum edi posse; idque ipsum eius rei decretum nos
legimus. In eo decreto Hadrianus id statuere se dicit requisitis veterum
philosophorum et medicorum sententiis.
Il Diliberto,
Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, 1, Cagliari, 1992, 205, ricorda che l'Hosius
aveva ipotizzato che Gellio ricavasse la notizia della norma decemvirale
attraverso il decreto adrianeo, ma ritiene che nulla si possa affermare
con relativa sicurezza. Della possibilità di una gravidanza di 13
mesi parla, poi, lo stesso Gellio riferendosi a Plinio (Nat. Hist.
7.5.4) in N. A. 3.16.22-23: Sed quoniam de Homerico annuo partu ac de
undecimo mense diximus quae cognoveramus, visum est non praetereundum, quod in
Plinii Secundi libro septimo naturalis historiae legimus. Id autem quia extra
fidem esse videri potest, verba ipsius Plinii posuimus: 'Masurius auctor est L.
Papirium praetorem secundo herede lege agente bonorum possessionem
contra eum dedisse, cum mater partum se tredecim mensibus tulisse diceret,
quoniam nullum certum tempus pariendi statutum ei videretur’.
[6] Si afferma comunemente che veniva considerato figlio legittimo, e dunque suus
del pater, il nato da un iustum matrimonium almeno 182 giorni
dopo l'inizio dell'unione e non oltre 300 dallo scioglimento, basandosi, per il
primo requisito, su D. 38.16.3.12 (Ulp. 14 ad Sab.):
De eo autem, qui centensimo octogensimo secundo die natus est, Hippocrates
scripsit et divus Pius pontificibus rescripsit iusto tempore videri natum, nec
videri in servitutem conceptum, cum mater ipsius ante centesimum octogensimum
secundum diem esset manumissa. Sempre
Ippocrate è citato in D. 1.5.12 (Paul. 19 resp.): Septimo
mense nasci perfectum partum iam receptum est propter auctoritatem doctissimi
viri Hippocratis: et ideo credendum est eum, qui ex iustis nuptiis septimo
mense natus est, iustum filium esse.
Vedi Lanfranchi, Ricerche
sulle azioni di stato nella filiazione in diritto romano. 1. L'agere ex
Senatoconsultis de partu agnoscendo,
Modena, 1953, 2. La c.d. presunzione di
paternità, Bologna,
1964. Osserva il Metro, Rec. a
Lanfranchi, in Iura 16,
1965, 419 ss., che considerando i mesi di trenta giorni secondo il computo
usuale per le gravidanze, il settimo mese inizierebbe nel 181 giorno, ma i
giuristi romani, interpretando con una certa larghezza le opere mediche che
richiedevano sette mesi pieni per la perfezione della gravidanza (P. S. 4.9.5: Septimo
mense natus matri prodest: ratio enim Pythagorei numeri hoc videtur admittere,
ut aut septimo pleno aut decimo mense partus maturior videatur), avrebbero
considerato legittimo il nato in qualunque giorno del settimo mese, anche
appena iniziato; D. 38.16.3.12 non avrebbe, pertanto, un valore generale, ma,
considerando anche che è un rescritto, potrebbe riferirsi ad un caso
specifico.
[7] Pernice, Labeo. Römische Privatrecht im ersten
Jahrhundert der Kaiserzeit, Halle, 1873, 1, (rist. Aalen, 1963) 198.
[9] Voci, Diritto
Ereditario Romano, 1, Milano, 1960, 378 s. e ntt. 4-5: «Il punto di
partenza è una norma delle XII tavole, secondo la quale è
legittimo il figlio nato fino a dieci mesi dopo la morte del padre. Da qui fu
facile alla interpretatio desumere il
diritto del postumo alla successione legittima del pater: in effetti, ancora gli scritti dei giuristi classici collegano
la posizione del postumo ex lege XII tab.
con la successione ab intestato».
[10] Di parere diverso Robbe, I postumi nella successione
testamentaria romana, Milano, 1937; v. Postumi, in NNDI 13,
1966, 434 ss., per il quale anche i postumi potevano essere sui heredes
e «per la legge delle XII Tavole avevano diritto alla successione ab
intestato del paterfamilias». Non si schiera né per
l'una ipotesi né per l'altra l'Albertario,
Conceptus pro iam nato habetur (Linee di una ricerca
storico-dommatica), in
Studi di diritto romano 1, Milano 1933, 3 ss., il quale ritiene che
«a partire dalle XII Tavole o da un'interpretazione giurisprudenziale
successiva» i concepiti ex iustis nuptiis sarebbero stati
considerati sui heredes.
[11] Per Astolfi, Sabino e i postumi, in Iura 50, 1999,
151 ss., già il ius sacrum dell'età predecemvirale avrebbe
elaborato il concetto di postumus, intendendolo come il figlio nato
entro dieci mesi dalla morte del padre; lo stesso ius sacrum avrebbe
stabilito il tempus lugendi in dieci mesi, «mostrando
implicitamente di conoscere la figura del postumus» come colui che
nasce entro dieci mesi dalla morte del padre. La norma elaborata dal ius
sacrum e che stabilisce in dieci mesi la durata normale della gravidanza
sarebbe stata accolta nelle XII Tavole, che probabilmente avrebbero enunciato
la regola per confermare la figura del postumus delineata dal ius
sacrum, regola poi
estesa dall'interpretatio per quanto riguarda il diritto alla
successione.
[12] Lamberti, Studi
sui postumi nell’esperienza giuridica romana, 1, Napoli, 1996; Studi sui postumi nell’esperienza
giuridica romana, 2, Profili del
regime classico, Milano, 2001.
[13]
Relativamente al concetto di fictio si vedano Garcia Garrido, Sobre los verdaderos limites de la
ficción en Derecho Romano, in AHDE 27-28, 1957/58, 305
ss.; Colacino, v. Fictio iuris,
in NNDI 7, 1968, 269 ss.; Thomas,
Fictio legis. L’empire de la fiction
romaine et ses limites médiévales, in Droits. Revue
française de théorie juridique, 21, 1995, 17 ss.; Bianchi, Fictio iuris. Ricerche
sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova, 1997; Hackl, Vom “quasi” im
römischen zum “als ob” im modernen Recht, in Rechtsgeschichte
und Privatrechtsdogmatik, herausgegeben von Zimmermann in Verbindung mit
Knüttel und Meincke, Heidelberg, 1999, 117 ss.; Giaro, Die Fiktion des eigentlichen
Eigentümers, in Au-delà des frontières.
Mélanges de droit romain offerts à W. Wołodkiewicz, 1, Warszawa, 2000, 277 ss.
[14] Lamberti,
Studi, 1, cit., 54: «La finzione
raffinata dell'in rerum natura intellegi,
verosimilmente dovuta – come ipotizzato – al genio giuridico di
Salvio Giuliano, ha forse i suoi precedenti in una fictio iuris più
antica, tesa a consentire al postumo le stesse prerogative di un suus già nato alla morte
dell'ereditando».
[15] Occorre, peraltro, ricordare che i
§§ 1 e 4 del 3° libro delle Istituzioni di Gaio sono, come
è noto, illeggibili nel manoscritto, e ricostruiti da Gai Ep. 2.8, in
cui non si fa, peraltro, cenno alle XII Tavole: Intestatorum hereditates
primum ad suos heredes pertinent.
1. Similiter posthumi, qui, si vivo patre nati fuissent, in potestate eius
futuri erant, sui heredes sunt e da I. 3.1.1: Intestatorum autem hereditates
ex lege duodecim tabularum primum ad suos heredes pertinent, e 3.1.8: Et licet post
mortem avi natus sit, tamen avo vivo conceptus, mortuo patre eius posteaque
deserto avi testamento suus heres efficitur.
[17]
Il Blanch Nougues, Rec. a Lamberti, in SDHI 65, 1999, 433 ss., in part. 436, osserva che «por un
lado, es cierto que la jurisprudencia a través del artificio, al menos
aparente, de la operación escogida (ficción) parece intentar
salvar obstáculos que le plantea la naturaleza (en concreto, la falta de
autonomía en la vida del feto); pero, por otro, no es la realidad la que
le impulsa a ello?».
[20] La Terreni, Me puero,
cit., 209 nt. 127, ritiene preferibile la soluzione che attribuisce la
disposizione alle XII Tavole.
[21] Si veda anche D. 5.4.3pr. (Paul. 17
ad Plaut.): Antiqui libero ventri ita prospexerunt, ut in tempus nascendi omnia ei
iura integra reservarent: sicut apparet in iure hereditatium, in quibus qui
post eum gradum sunt adgnationis, quo est id quod in utero est, non
admittuntur, dum incertum est, an nasci possit.
[22] Per la Lamberti, Studi, 1, cit., 57 ss., Ulpiano non
afferma che i decemviri riconobbero apertis verbis il diritto del
postumo alla successione legittima, in quanto il riferimento alle XII Tavole
può essere letto nel senso che tale diritto fu ricondotto alla legge
decemvirale in via di interpretatio, «finendo per trovare in base
ad essa il suo titolo». Nel § 9 susciterebbe, a suo avviso, sospetti
di interpolazione il periodo da inde et a utero est: l'avverbio inde, usato due
volte, avrebbe un sapore didascalico che evoca le rielaborazioni postclassiche
subite dal commentario ad Sabinum di Ulpiano; l'andamento
logico-sintattico del periodo sarebbe privo di linearità, in quanto si
passa dalla posizione successoria del postumo, che partem facit con
altri eventuali sui ad un'esemplificazione mal riuscita (ut puta);
il tratto vel patrui-est sarebbe senz'altro spurio, in
quanto parifica il figlio del fratello al postumus suus, in palese
antitesi con quanto affermato in precedenza. Lo Schulz, Sabinus-Fragmente, cit., 30 s., attribuisce a Sabino la frase iniziale del
§ 9 e dell'11. Secondo, invece, l'Astolfi,
I libri tres iuris civilis di Sabino, 2a ed., Padova, 2001, 78, non
sarebbe attribuibile a Sabino il §11, in quanto lo stesso giurista avrebbe
riconosciuto la bonorum possessio ab intestato anche ai nati nel
tredicesimo mese, come risulta dal già riportato Plinio Nat.
hist. 7.5.4 = Gell. N. A. 3.16.23. Obietta la Lamberti, Studi, 1, cit., 61 s.,
che il discorso di Ulpiano è incentrato sulla successione ab
intestato, mentre Plinio
parla di successione testamentaria.
[23] L'Albertario,
Conceptus, cit., 16 e ivi nt. 4,
aveva considerato interpolate le parole neque
bonorum possessionis tamquam cognatus, che sarebbero ispirate alla
sistematica compilatoria di accostare e fondere hereditas e bonorum possessio.
A me sembra, invece, che il riferimento alla bonorum possessio
difficilmente sarebbe stato introdotto dai giustinianei.
[24] Parla di disposizione delle XII
Tavole a proposito di D. 38.16.6 lo Zuccotti,
In rerum natura e in rebus humanis esse
aut non esse?, in RDR 8, 2008, 1
ss. Per la Terreni, Me puero, cit., 224 ss., il
riconoscimento di diritti ereditario al postumo non costituì
un'innovazione collegabile all'interpretatio
dei pontefici, ma un dato normativo già presente, per via implicita o
esplicita, nella codificazione decemvirale e che, con ogni verosimiglianza,
affondava le radici nei mores
preesistenti.
[25] Si vedano
anche C. 6.55.3 (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Frontoni): Ut intestato defuncto filius ac nepos ex alio, qui mortis eius
tempore in rebus humanis non invenitur, manentes in sacris pariter succedant,
evidenter lege duodecim tabularum cavetur. Quod et honorarii iuris observatio
sequitur. (S. XV k. Iul. AA conss.) [a.
293], C. 6.55.4 (Impp. Diocletianus et
Maximianus AA. et CC. Marcellae): Intestato defuncto postumum suum
heredem quam sororem licet consanguineam haberi potiorem ordo successionum lege
duodecim tabularum factus nimis evidenter demonstrat (S.
VI Id. Dec. AA. Conss.) [a. 293]. Non sembra, peraltro, attribuibile alle
XII Tavole, osserva la Lamberti, Studi,
1, cit., 72 nt. 53, tale successio ordinum et graduum.
[26] La Giunti, Consors vitae, cit., 274 ss., ritiene
inverosimile che lo stabilire un termine massimo di dieci mesi per la durata
della gravidanza, in un testo a rilevanza normativa quale le XII Tavole, possa
essere stata materia per una disposizione autonoma e fine a se stessa,
anziché supporto per un diverso enunciato di natura tecnico-giuridica.
Mentre, però, D. 38.16.3.9, che espressamente invoca a proprio conforto
il testo (ovvero la ratio) delle XII Tavole, si limita a ricordare la
delazione dell'eredità legittima in favore del figlio postumo, D.
38.16.3.11, che esplicita il principio dei dieci mesi quale condizione per
l'effettiva capacità successoria del postumo, non fonda l'autorevolezza
della regola sul fatto che i decemviri l'avessero sancita. Il silenzio,
anche in Gai 3.4 e D. 28.2.29pr., sulla paternità decemvirale della
regola che riservava al nato intra decem menses la chiamata all'hereditas
paterna, lascia supporre, per la Giunti, che il collegamento fra delazione
legittima in favore del postumo e la definizione di un termine massimo alla
durata della gravidanza sia un collegamento rimasto estraneo all'orizzonte
normativo dei decemviri, affondando le sue radici nell'elaborazione
della giurisprudenza postdecemvirale.
[27] Si vedano, in questo senso,
l’Albertario, Conceptus,
cit., 5 ss., per il quale si
può parlare, da un lato, di una ‘condizione fisiologica’ del
concepito, che in rerum natura
non est, dall’altro di una ‘condizione giuridica’, per
la quale il concepito, a determinati fini, sarebbe considerato come già
venuto alla luce, già esistente in rerum natura: «per quanto sotto
l’aspetto fisiologico il concepito non è in rerum natura
o in rebus humanis, nell’ordinamento giuridico ciò non
ostante è considerato come se esistesse, come se fosse in rerum
natura o in rebus humanis». Il Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli
istituti giuridici romani, Milano, 1937, 65 ss., sostiene che rerum
natura è espressione sicuramente classica utilizzata per indicare
l’esistenza o la non esistenza, allo stesso modo dell’espressione
equivalente in rebus humanis esse.
L’Arnò, Partus
nondum editus, in
Atti IV Convegno studi romani, Roma,
1938, 84, afferma che per il diritto romano, fin ab antiquo, il
feto non è uomo, non è in rerum natura, non è in
rebus humanis. Anche l’Archi,
v. Concepimento, in
EdD 8, 1961, 354 ss., osserva che l’espressione in genere adoperata
dai giureconsulti classici è quella che afferma che il concepito non
è in rerum natura o in rebus humanis. Più
di recente il Cuena Boy, La
idea de rerum natura como criterio básico de la imposibilidad
física de la prestación, in RIDA 40, 1993, 227 ss., in
part. 238; Rerum natura e imposibilidad física de la
prestación. Dos estudios breves, in Scritti Franciosi,
1, Napoli, 2007, 637 ss., e ora, Rerum natura e imposibilidad física
de la prestación en el derecho romano clásico, Santiago de Compostela,
2010, afferma che «la existencia física de personas y cosas se
expresa habitualmente en las fuentes con la frase in rerum natura (o
in rebus humanis) esse».
[28] Per il Tafaro, Rec. a Ferretti,
in Iura 57, 2008-9, 504 ss., in part.
520, l'espressione di D. 1.5.26 in toto paene iure civili intelleguntur
in rerum natura esse di Giuliano sembra rinviare a opinione di giuristi
piuttosto che a statuizioni normative di altra natura. Giuliano, procedendo
alla redazione dei Digesta, avrebbe
letto i brani dei suoi predecessori sul concepito e ne avrebbe riassunto il
contenuto, rilevando che nella maggior parte di essi il concepito era trattato
come se fosse esistente, rinviando, probabilmente, all'esame dei singoli casi e
degli specifici contesti la verifica della concreta applicazione del principio
enunciato.
[29] Savigny,
System des heutigen Römischen Rechts,
2, Berlin, 1840, 4 ss. (Sistema del
diritto romano attuale, 2, tr. Scialoja, Torino, 1888, 11 ss.).
[30] D. 25.4.1.1
(Ulp. 24 ad ed.): Ex hoc rescripto evidentissime apparet
senatus consulta de liberis agnoscendis locum non habuisse, si mulier
dissimularet se praegnatem vel etiam negaret, nec immerito: partus enim
antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum. post editum plane partum a
muliere iam potest maritus iure suo filium per interdictum desiderare aut
exhiberi sibi aut ducere permitti; D. 35.2.9.1 (Pap. 19 quaest.): In Falcidia placuit, ut fructus postea percepti, qui maturi mortis
tempore fuerunt, augeant hereditatis aestimationem fundi nomine, qui videtur
illo in tempore fuisse pretiosior. Circa ventrem ancillae
nulla temporis admissa distinctio est nec immerito, quia partus nondum editus
homo non recte fuisse dicitur.
[32] La Pira, La successione ereditaria intestata e contro il testamento in diritto
romano, Firenze, 1930; L’aborto
non è soltanto l’uccisione di un nascituro ma uno sconvolgimento
nel piano della storia, in Prospettive,
7, 1975, 43; Di fronte all’aborto,
in L’Osservatore Romano 19,
1976, 289 ss., ristampato in La Pira,
Il sentiero di Isaia, Firenze, 1978,
661 ss.
[33] Catalano, Osservazioni sulla
“persona” dei nascituri alla luce del diritto romano (da Giuliano a
Teixeira de Freitas), in Rassegna di diritto civile 1988, 1, 45 ss.,
ora in Diritto e Persone, Studi su origine e attualità del
sistema romano, 1, Torino 1990, 195 ss.; “La famiglia sorgente
della storia” secondo Giorgio La Pira, in Index 23, 1995, 25 ss.; Per una
dichiarazione dei diritti del nascituro, in Studi giuridici dell’Università di
Lecce, Milano, 1996,
131 ss.; Il nascituro tra diritto romano e diritti statali, in
AA.VV., Culture giuridiche e diritti del nascituro, a cura di Tarantino, Milano, 1997,
87 ss., Il concepito 'soggetto di diritto' secondo il sistema giuridico
romano, in Procreazione assistita: problemi e prospettive. Atti del
Convegno Roma gennaio 2005, Fasano,
2005.
[34] Sanna,
Conceptus pro iam nato habetur e nozione di frutto, in Il diritto giustinianeo
fra tradizione classica e innovazione. Atti del Convegno di Cagliari, 13-14
ottobre 2000, cur.
BOTTA, Torino, 2003, 250
ss.; La rilevanza del
concepimento nel diritto romano classico, in SDHI 75, 2009, 147 ss.,
Rec. a Terreni, Me puero
venter, in Iura 59, 2011, 403 ss.; Ancora a proposito del
concepito, in Index 40, 2012, in corso di pubblicazione.
[35] Gli autori che non concordano con
l’affermazione che il concepito sia considerato in rerum natura
già durante la gravidanza adducono, a sostegno della loro tesi, altri
passi, in cui si afferma che il concepito in rerum natura non est, come
D. 7.7.1 (Paul. 2 ad ed.): Opera in actu consistit nec ante in rerum
natura est, quam si dies venit, quo praestanda est, quemadmodum cum stipulamur
'quod ex Arethusa natum erit', D. 30.24pr. (Pomp. 5 ad Sab.):
Quod in rerum natura adhuc non sit, legari posse, veluti 'quidquid illa
ancilla peperisset', constitit: vel ita 'ex vino quod in fundo meo natum est'
vel 'fetus tantum dato', Gai
2.203 (I. 2.20.7): Ea quoque res quae in rerum natura non est, si modo
futura est, per damnationem legari potest, velut fructus qui in illo fundo nati
erunt, aut quod ex illa ancilla natum erit, Ep. Gai 2.5.3: ...Illa etiam res, quae in rerum natura non
sunt, per damnationem legato dimitti possunt, velut si ita testator in
testamento scribat: fructus, qui ex illo agro nati
fuerint, aut: id quod ex illa ancilla natum fuerit. Il Maschi, La concezione naturalistica, cit., 65 ss., aveva
sostenuto che il contrasto tra questi passi, nei quali si afferma che il
concepito in rerum natura non est e quelli nei quali si ritiene, invece,
che esso sia in rerum natura,
come D. 1.5.26, D. 38.16.6, D. 38.16.7, possa essere risolto tenendo conto
della circostanza che i testi del primo gruppo prendono in considerazione il
concepito come oggetto di diritti, in quanto nato da schiava, e dunque dal
punto di vista giuridico non ancora esistente, per cui il negozio avrebbe come
oggetto una res futura, mentre i testi del secondo gruppo esaminano
problematiche relative allo status di figli liberi come soggetti di
diritto, a fini di carattere prevalentemente non patrimoniale. Pur concordando
con le osservazioni del Maschi, osservavo già nei miei precedenti lavori
che dall’esame dei passi si può, forse, trarre qualche ulteriore
considerazione: se si afferma che per damnationem può essere
legata anche una res che non è in rerum natura, si modo futura
est, come ciò che nascerà da una schiava, i frutti che
verranno prodotti nel fondo, il vino che non è stato ancora
materialmente realizzato, non si può escludere che si stia trattando di
un figlio che non era ancora concepito quando è stato disposto il legato
e proprio per questo motivo non può dirsi in rerum natura.
In questo senso già il Fadda,
Diritto delle persone, Napoli, 1910, 23, il Fontana, Qui in utero sunt. Concetti antichi e
condizione giuridica del nascituro nella codificazione di Giustiniano, Torino, 1994, 26 s., il
quale ritiene i passi riferiti all’astratta idoneità della schiava
a generare figli, per cui essa non sarebbe ancora gravida al momento del
perfezionamento del negozio, e ora il Ferretti,
In rerum natura, cit.,
74 s. e il Bianchi, Per
un'indagine, cit., 282 ss. Esclude, invece, che si possa
parlare di res futura per una res che non abbia un
«comienzo de existencia», come il figlio di una schiava che non sia
ancora incinta, il Cuena Boy, Rerum
natura e imposibilidad física,
cit., 640.
[36] Già l'Albanese, Le Persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, 12, affermava
che il concepito, pur essendo in qualche modo in rerum natura, non è in
rebus humanis; dopo di lui non concordarono con l’opinione che
ritiene le due espressioni equivalenti il Catalano,
Osservazioni, cit., 198 e ivi nt. 3,
il Fontana, Qui in utero sunt, cit., 21 ss.
[37] Se esaminiamo i passi che secondo
la Lamberti indicherebbero l'uso della fictio, espressa con i vari pro, perinde, ac, quasi, come Gai 1.147: postumi pro iam natis habeantur, D. 1.5.7: qui in utero est, perinde ac si in rebus humanis esset custoditur,
D. 37.9.7pr.: scilicet si talis fuerit is
qui in utero est, ut si in rebus humanis esset, D. 50.16.231: quod dicimus eum, qui nasci speratur, pro
superstite esse, notiamo che sono tutti casi in cui il concepito viene
equiparato al nato, mentre con il verbo intellegere
in D. 1.5.26 Giuliano non equipara il concepito al nato, non lo considera come
se fosse nato, ma afferma che il concepito è considerato esistente in rerum natura quando non è
ancora nato, durante la gravidanza.
[38] Il Gomez-Iglesias Casal, Nasciturus. El status juridico del concebido, in SCDR IX-X, Madrid, 1997-8, 281 ss., in part. 284, per il quale è ancora accettabile la tesi centrale dell'Albertario, nonostante «la proposición de alteración» «sea un tanto exagerada» sostiene l'utilizzazione indistinta da parte dei giuristi delle espressioni in rerum natura e in rebus humanis per riferirsi tanto alle cose future quanto ai concepiti.
[40] La Lamberti
ribadisce, peraltro, nel suo ultimo scritto, Concepimento e nascita
nell'esperienza giuridica romana visuali antiche e distorsioni moderne, in Serta
Iuridica. Scritti Grelle, 1, Napoli, 2011, 303 ss., che la separazione fra in rerum natura e in rebus
humanis esse è artificiosa, e che non esiste differenza fra una
'pretesa visuale giurisprudenziale' secondo cui il concepito 'esiste' come
autonoma individualità in rerum natura e una visuale che non lo
vuole ancora presente in rebus humanis.
[43] Il Lenel, Palingenesia
iuris civilis, 1, Lipsia, 1889, 163, colloca il passo nel libro di Celso ad legem Duodecim Tabularum.
[44] Anche la Terreni, Me puero, cit., 114 ss., pone la prima parte
dell’inciso di D. 38.16.7 in diretto rapporto con la parte finale del
frammento precedente, D. 38.16.6, tratto dal l. 59 digestorum di
Giuliano: quia lex duodecim tabularum eum vocat ad hereditatem, qui moriente
eo, de cuius bonis quaeritur, in rerum natura fuerit, mentre ritiene
che la seconda si diffonda in una conferma, in sé del tutto superflua, e
addirittura gratuita, di questo fatto. L’Autrice si chiede, pertanto,
perché i Compilatori avrebbero scelto di ripetere quanto già
affermato da Giuliano e di porre il frammento di Celso fra i due di Giuliano
(D. 38.16.6, D. 38.16.8) tratti dallo stesso libro, e ritiene che la
spiegazione vada trovata nel fatto che l’incipit di D. 1.5.26 e di
D. 38.16.7 non coincidono nel contenuto, in quanto il primo si incentrerebbe
sul trattamento assegnato ai nascituri dal ius civile, prendendoli in
considerazione come individui presenti in rerum natura, dato
‘desunto per via induttiva come interno all’ordinamento’, nel
secondo balzerebbe in primo piano non l’individuo in utero ma il
concepimento. Non sarebbe, però, naturale il limitativo quodammodo
e non chiari i motivi che indussero i Compilatori ad aggiungerlo o, comunque,
ad inserire la frase di Celso fra i due frammenti di Giuliano.
[45] Per il Ferretti, In rerum natura, cit., 131 ss., Celso
afferma che i concepiti, sia pure quodammodo, sono in rerum natura, intendendo tale espressione
nello stesso senso di Giuliano, cioè quello di esistenza. Giuliano in D.
1.5.26 e Celso in D. 38.16.7 potrebbero aver pensato ai nati morti di D. 50.16.129 (Paul.
1 ad l. Iul. et Pap.): Qui mortui nascuntur neque nati neque
procreati videntur, quia numquam liberi appellari potuerunt, introducendo con il paene e
il quodammodo un limite all’assolutezza dell’essere i
concepiti in rerum natura. Per il Bianchi,
Per un’indagine, cit., 322 s., il fatto che coloro che nascono
morti neque nati neque procreati videntur, non significa che non siano in
rerum natura, giacché è indubbio che anche costoro dovettero
essere stati concepiti ed ebbero, nel periodo della gestazione, una propria
esistenza; il passo rimarcherebbe solo il criterio del computo dei liberi ai
fini della lex Iulia et Papia.
[46] Nel caso non si voglia ritenere il
passo interpolato, la Lamberti è del parere che si possa aderire
all'opinione dello Zuccotti, In rerum natura, cit., 10,
il quale aveva affermato che poteva essere stato Salvio Giuliano a richiamare
l’analogo parere di Celso, in una citazione letterale che potrebbe
spiegare agevolmente altresì la stranezza del vel: «sarebbero stati i
compilatori giustinianei ad estrapolare dal testo del primo la citazione del
secondo, facendone meccanicamente un frammento a se stante e creando quindi,
attraverso il mantenimento del vel iniziale, i conseguenti problemi di coordinamento tra i due passi».
[47] Il quodammodo
era stato ritenuto interpolato dalla dottrina più risalente; si veda ad
esempio, l’Albertario, Conceptus,
cit., 10, secondo il quale per i giuristi classici, «che fanno
risalire la capacità giuridica dei concepiti ex iustis nuptiis al
momento del concepimento», la limitazione insita nel quodammodo
non avrebbe ragione d'essere, mentre per i Bizantini, «che
riconoscono la capacità giuridica del concepito anche fuori del campo
delle iustae nuptiae», ma prendendo come base di questo
riconoscimento il criterio del commodum, il quodammodo sarebbe
necessario per mettere in rilievo il mutato stato delle cose. Per il Bianchi, Per un’indagine,
cit., 297 s., accettando il sospetto di interpolazione, l’affermazione di
Celso risulterebbe, invece, anche più incisiva.
[48] Per
il Fadda, Concetti
fondamentali del diritto ereditario romano, 1, rist. Milano, 1949, 149 ss.,
in part. 153 s., si può supporre che il diritto del concepito si sia
venuto riannodando alla disposizione che fissava a dieci mesi il periodo massimo
della gravidanza, come si può ritenere probabile che derivasse dal modo
con cui veniva disposta l'attribuzione dell'eredità per legge, oppure
che la dottrina si sia fondata sul noto si suus heres nec escit per
considerare come esistente il concepito, ma è certo, per l'Autore, che
una disposizione precisa non esisteva.
[49] Vedi Diliberto, Una
palingenesi aperta, in Le Dodici
Tavole, dai Decemviri agli Umanisti, Pavia, 2005, 217 ss.
[50] Per il Bianchi, Per un'indagine, cit., 44 e ivi nt. 108, risulta
assai probabile che i decemviri avessero impiegato il risalente verbo gignere, pur se forse in ancora più
antica forma lessicale, connesso per la sua derivazione etimologica con termini
assai rilevanti nel periodo arcaico, come gens o Genius. Si vedano
Isid. Orig. 9.2.2: gens autem appellata propter generationes
familiarum, id est a gignendo, sicut natio a nascendo, Paul. sv. Genium 84.3 L.: Genius,
inquit, est deorum filius, et parens hominum, ex quo homines gignuntur. Et propterea Genius meus nominatur,
quia me genuit.
[51] La Giunti, Consors vitae, cit., 280 ss., ritiene che dal
modo in cui Gellio restituisce il tenore del precetto decemvirale non traspaia
alcun legame intrinseco con l'evenienza di una filiazione postuma; la
correlazione fra durata fisiologica della gravidanza ed eventualità di
una nascita post mortem patris
è, per l'Autrice, correlazione che emerge non dal ricordo della clausola
decemvirale in sé ma dal particolare contesto in cui la clausola viene
invocata.