Università di Bari
L’età del fidanzamento secondo Modestino
Sommario: 1. L’età
del fidanzamento. – 2. Il
fidanzamento dalla nascita. – 3. Il significato
di intellegere.
– 4. Il settimo anno. – Abstract.
Le apparenti aporie del brano di
Modestino di D. 23.1.14[1]
hanno richiamato l'attenzione dei commentatori ed ancora oggi sollevano interrogativi
sull'esistenza di un'età minima per la validità degli sponsali.
Il testo parte
dall’affermazione generale che i fidanzamenti potevano essere contratti
fin dalla nascita degli sposi, ma sembra contraddirla, subito dopo, affermando
che, comunque, occorre che i fidanzanti siano in grado di capire l’atto
che si accingono a compiere, richiedendosi, all’uopo, che abbiano almeno
compiuto sette anni. Perciò gli interpreti[2]
si sono domandati se effettivamente l’attuale stesura, tramandataci nel
Digesto, sia quella di Modestino oppure se abbia subito modifiche.
In ogni caso restano da chiarire la
dinamica ed il senso dell’esposizione, a prima vista così
palesemente contraddittoria, sia che autore ne sia stato il giurista severiano,
sia che la si ritenga frutto di stratificazioni successive, intervenute nel
testo del giurista.
Il brano appare (e così
è stato ritenuto dagli interpreti, fin dall’inizio) centrale per
l’età degli sponsalia[3].
Ciò giustifica una
rivisitazione, che, basandosi sulle copiose e perspicue letture fornite dagli
interpreti del testo, tenti di approfondire ulteriormente il brano di D.
23.1.14, tanto nei suoi contenuti (iniziali e successivi, fino a Giustiniano)
quanto all’interno del pensiero e dell’opera di Modestino.
Punto di partenza può essere
la riflessione sul contesto nel quale Modestino proponeva la sua affermazione.
Nel punto il giurista, attraverso
l’argomentazione per differentiam, utile a cogliere la diversità o (rectius) la
specificità[4]
distintiva tra due elementi, cercava di puntualizzare la diversità tra
l’età minima richiesta per il matrimonio e quella stabilita per il
fidanzamento, pervenendo alla dichiarazione che tale differenza risiedeva nella
definitezza della prima e nella indefinitezza della seconda: in sponsalibus contrahendis aetas contrahentium definita non est ut in
matrimoniis.
Nel testo Modestino enunciava il
criterio di individuazione dell’età iniziale dei fidanzamenti,
mettendo subito in evidenza che essa, a differenza dei matrimoni, non era determinata, sicché et a primordio aetatis sponsalia efficit
possunt[5].
Poiché il testo prosegue con
affermazioni che sono un restringimento (si modo id fieri ab utraque persona
intellegatur) o addirittura una negazione (si non sint minores quam septem
annis), alcuni interpreti hanno dubitato della effettiva provenienza da
Modestino delle affermazioni che seguono a quella iniziale.
Quanto l’ipotesi di
alterazione del brano di Modestino sia fondata merita ulteriori verifiche.
Studi più recenti hanno posto in evidenza la circostanza che il
riferimento al settimo anno potrebbe giustificarsi alla luce delle nozioni
circolanti, già in età repubblicana, sui numeri[6]
e come conseguenza della convinzione emersa, durante il principato, che il
fanciullo raggiungesse la comprensione dei fatti al compimento del settimo
anno.
Malgrado
ciò, ci si può chiedere se, qualora Modestino avesse voluto dire
semplicemente che per gli sponsalia fosse richiesto il compimento del
settimo anno, non sarebbe stato per lui più congruo parlare direttamente di esso evitando le attuali
apparenti contraddizioni[7]. In ogni caso
sembrerebbe che il brano contenesse tre affermazioni progressivamente più limitanti e a
prima lettura contraddittorie. Ciò, forse, attraverso un andamento
retorico, che non pare lontano dai modelli dei
giuristi severiani[8].
Schematizzando,
il frammento ci presenta tre affermazioni in ordine successivo:
a)
il fidanzamento può essere compiuto a primordio aetatis;
b)
il fidanzamento può essere compiuto solo se entrambi gli sposi
siano in grado di comprenderne la natura (si modo id fieri ab utraque
persona intellegatur);
c)
il fidanzamento può essere compiuto da chi abbia almeno sette anni
(si non sint minores quam septem annis).
Ciascuna di queste asserzioni va
riconsiderata per verificare l’effettiva sua provenienza da Modestino.
Si è detto, che proprio il
fatto che i fidanzamenti potevano essere contratti a primordio aetatis doveva costituire la differentia rispetto
al matrimonio e parrebbe il motivo per il quale l’argomento era inserito
nei libri differentiarum.
Di conseguenza, l’affermazione
che abbiamo indicato sub. a) appare
essenziale e strutturale al tipo di opera nella quale era inserita.
Soffermiamoci su tale asserzione,
cercando di capire il significato di “a primordio aetatis”.
La dottrina recenziore ha espresso
pareri discordi. Alcuni autori intendono l’espressione nel senso di
‘fin dalla nascita’, e ritengono incongrua la successiva richiesta
della comprensione della natura dell’atto da parte dei fidanzati[9].
Altri autori, invece, ipotizzano che l’espressione a primordio
aetatis avesse voluto dire ‘sin dalla prima infanzia’ e,
pertanto, non vedono contrasto con la successiva richiesta della comprensione
dell’atto da parte dei fanciulli[10].
A ben riflettere per comprendere
quale fosse il senso dell’espressione a primordio aetatis,
occorre chiarire quale potrebbe essere stato il valore di primordium
nell’uso di Modestino. Al riguardo appare indicativo che l’uso di primordium
si riscontra soltanto in alcuni brani di età severiana. Si tratta di un
frammento di Ulpiano e due frammenti di Papiniano oltre al testo di Modestino:
in essi il termine indicava sempre un momento iniziale[11].
Lo stesso significato di
‘inizio’ o momento iniziale è documentato nelle fonti
letterarie[12].
Pertanto, riterrei che riferito
all’età non pare che possa avere segnalato altro se non
l’inizio della vita, cioè la nascita.
Cosa che appare conforme alle
molteplici e significative attestazioni, le quali riferiscono di fidanzamenti
avvenuti in età tenerissima[13].
L’irrilevanza
dell’età dei fidanzati derivava, altresì, dalla circostanza
che (come è noto), secondo un costume sicuramente ancora radicato al
tempo di Augusto, il fidanzamento non era concluso direttamente dai fidanzati,
bensì dai loro padri[14];
di modo che per la validità del fidanzamento si doveva guardare alla
capacità dei padri e, almeno per buona parte dell’età
repubblicana, risultava irrilevante la capacità dei fidanzati.
Ciò potrebbe spiegare
perché Modestino potesse affermare che non era stabilita
un’età per i fidanzamenti e che potessero essere contratti sin
dalla nascita dei fanciulli.
Evidentemente, il giurista, pur nel
3° secolo d.C., dovette tener presente che per quasi tutta
l’età repubblicana la celebrazione dei fidanzamenti era rimessa ai
soli padri e che forse non era del tutto scomparsa (ancorché avversata
dai giuristi), almeno nella pratica, l’eco dell’uso di sponsiones[15].
Se così è, non si
comprende perché Modestino, di seguito, aggiungeva che, comunque,
occorreva che i fidanzati dovessero essere in grado di capire ciò che si
stava compiendo; invero doveva apparire evidente che la comprensione della
natura dell’atto non poteva esserci né alla nascita né alla
prima infanzia.
Sotto questo aspetto il brano di
Modestino sembra contenere un’aporia, che va giustificata.
Al riguardo occorre prendere in
considerazione il fatto che nel 2° e nel 3° secolo del principato si
era progressivamente affermato un orientamento giurisprudenziale, in base al
quale la validità dei negozi giuridici era fatta dipendere dalla
capacità degli agenti di capirne il significato. Questo nuovo
orientamento comportò un cambiamento radicale, che fu applicato
specialmente nei confronti dei negozi compiuti dai fanciulli, per i quali
mentre in precedenza si chiedeva soltanto l’idoneità a pronunciare
i verba dei negotia[16], durante il principato (almeno a
datare dal II secolo) invece si chiese che i fanciulli dovessero essere in
grado di comprendere, almeno nei tratti essenziali, il significato
dell’atto che si accingevano a compiere[17]. In conseguenza della nuova interpretatio
i giuristi tesero a collegare la validità dei negozi alla
capacità dei loro autori di capirne il senso.
Potrebbe essere stato questo nuovo
orientamento a riflettersi anche sugli sponsalia, spingendo ad
affermare che i futuri fidanzati dovessero intellegere[18]
l’atto che si accingevano a compiere, perché tra la fine
della repubblica e gli inizi del principato, per la conclusione
del fidanzamento, si ritenne necessario anche il consenso dei fidanzati[19];
il quale, in ipotesi, doveva essere affiancato a quello dei patres[20].
Inoltre, si pervenne alla convinzione che gli sponsalia dovessero
dipendere solo dal consenso[21].
Di modo che il termine sponsalia, ormai lontano dal meccanismo delle
reciproche sponsiones e dei loro specifici effetti obbligatori, aveva
decisamente cambiato di significato, trasmigrando in una configurazione analoga
a quella del matrimonio. Pertanto richiedendosi che anche i fidanzati dovessero
essere in grado di manifestare un consenso, fu conseguente ritenere che i
fidanzati dovessero essere in grado di capire su cosa erano chiamati a consentire
o a dissentire.
Nacque da ciò la richiesta
del raggiungimento di un’età minima: quella che, espressa o meno
in un numero di anni, potesse far presumere che i fanciulli, futuri sposi,
fossero in grado di capire, almeno nei tratti essenziali, la natura del
fidanzamento.
Modestino, pertanto, scrivendo nel
terzo secolo, doveva far riferimento ad essa aggiornando il richiamo posto in
apertura della definitio di D. 23.1.14.
Mi sembra risiedere in questo sforzo
di completezza ed attualità il motivo per il quale nel testo del
giurista finirono per confluire proposizioni apparentemente antitetiche. In
realtà, il giurista, come si è detto e così come spesso
accadeva ai giuristi del suo tempo[22],
operava un’operazione sincretica di posizioni assai differenti, presentando
la nuova disciplina non in forma di antitesi, bensì come specificazione
di un’unica disciplina[23].
In tal modo egli tentò di conciliare la posizione dei veteres con quella dei suoi tempi.
Al nuovo quadro, così
delineato, era consentanea l’individuazione di un’età che
potesse identificare il raggiungimento della capacità di comprensione[24].
Tale età avrebbe dovuto
indicare l’uscita dalla prima infanzia e l’ingresso in un periodo
che, sebbene ancora lontano dalla pubertà (ritenuta momento della piena
idoneità negoziale dell’uomo[25]),
potesse rassicurare sul fatto che il fanciullo agente fosse stato in grado di
comprendere almeno l’essenza di cosa stava compiendo.
Questa età doveva
necessariamente essere collegata a quello che accadeva in natura o che si
ritenesse avvenire; pertanto doveva essere mutuata dalle concezioni
‘scientifiche’ circolanti intorno all’età
dell’uomo[26],
che volevano la sua vita, al pari dell’intero ‘cosmo’,
articolata in cicli scanditi da numeri e tra questi in modo nodale e prevalente
dal numero sette[27].
Di conseguenza, dovendo indicare un
termine di riferimento, a partire dal quale si potesse legittimamente ritenere
che il fanciullo avesse conseguito il minimo di capacità di capire,
idoneo a giustificare la rilevanza giuridica dei suoi atti, si stimò del
tutto persuasivo ipotizzare che questo avveniva al compimento del settimo anno.
Quell’età, al pari del tempo necessario alla gestazione e della
definizione della pubertà, doveva essere ritenuta non come una ‘presunzione’
stabilita convenzionalmente, bensì come una tappa psichico-fisica della
formazione del fanciullo[28].
Di conseguenza, si riteneva che essa costituisse un ‘fatto’ reale
che stava ad indicare l’idoneità a compiere atti consapevoli.
Per tal via, ritenendo
di far riferimento all’evoluzione effettiva dei fanciulli si introduceva
un elemento di certezza temporale per il valido compimento di alcuni atti.
Trovandoci di fronte ad un testo dell’ultimo giurista di età
severiana occorre tener presente che i giureconsulti di quel periodo cercavano
di esporre soluzioni facili e certe, poiché erano consapevoli di
scrivere per persone non familiari con il diritto romano e di dovere
«semplificare e dettagliare la regola alla quale il giudicante potesse
uniformare la propria decisione»[29].
Quanto evidenziato porta a ritenere
del tutto appropriato il fatto che Modestino indicasse l’età dei
fidanzamenti in base alla concezione più antica e subito dopo la
precisasse ulteriormente con il riferimento alla capacità di comprensione
del fidanzamento stessa, da parte di fidanzati, precisando che essa si poteva
ritenere raggiunta soltanto con il compimento del settimo anno.
Questa conclusione contrasta con le
opinioni di parte considerevole degli interpreti contemporanei[30];
i quali, come si è già rilevato, hanno denunciato
l’esistenza di un evidente contrasto tra la chiusa “id est si
non sint minores quam septem annis”
ed il resto del frammento, sottolineando che non poteva il
compimento del settimo anno essere il primordium aetatis; invece, doveva
essere stato frutto di una aggiunta posteriore introdotta nel testo di
Modestino, probabilmente dai compilatori di Giustiniano. Questo impone di
riesaminare il brano tramandatoci dal Digesto.
In realtà l’andamento
dell’esposizione di Modestino rivela che proprio la conclusione del
frammento si doveva porre come punto di arrivo di un’interpretazione che,
partita dalle lontane origini, collocava il fidanzamento in un differente punto
di evoluzione della scienza giuridica[31].
Va, infatti, osservato che l’indicazione di un’età minima nei fidanzamenti diventò necessaria nella nuova disciplina
del fidanzamento, delineata dai giuristi del principato, mentre non avrebbe
avuto senso finché rimase integra la struttura originaria degli sponsalia.
Infatti, le profonde modifiche che
segnarono l’antica promessa di matrimonio ed il corrispondente risalto
accordato al comportamento dei fanciulli portarono a richiedere anche il loro
consenso per il fidanzamento[32];
in conseguenza di questa nuova esigenza, che (come si è osservato)
dipendeva dal fatto che ormai in tutti i campi si tendeva a ritenere necessaria
la comprensione dell’atto che i fanciulli si accingevano a compiere,
divenne necessario esplicitare l’età minima per la validità
dei fidanzamenti (cioè quella al di là della quale si potesse
ritenere raggiunta la capacità di intellegere), sottraendoli
all’arbitrio dei patresfamilias.
Perciò, la spiegazione
più plausibile dell’attuale stesura del brano sembra risiedere,
come si è detto, proprio in quel cambiamento di ottica, avvenuto durante
l’età classica, che tendeva a rendere i fanciulli protagonisti
degli atti che li riguardavano. In questo contesto il riferimento di Modestino
all’età, anche in anni certi, integrava quanto da lui detto
riguardo al fatto che i futuri fidanzati dovessero intellegere, poiché
l’espressione del consenso al fidanzamento da parte del fanciullo,
inevitabilmente, presupponeva una sua possibilità di capire l’atto
posto in essere.
Mi sembra, pertanto, del tutto
verosimile che l’attuale stesura di D. 23.1.14 possa essere stata
escerpita dall’originale di Modestino. Essa rispecchiava le variazioni di
disciplina intervenute dall’età repubblicana sino alla fine
dell’età classica.
Essa, peraltro, non pare corrispondere
a esigenze post-classiche o dell’età di Giustiniano. Infatti nel
basso impero, si era diffusa la prassi del fidanzamento arrale[33], recepito, poi, nella
legislazione giustinianea[34]. In esso
l’impegno al futuro matrimonio era affidato alla consegna di denaro, di
gioielli o di altri oggetti di valore, dati a garanzia del futuro matrimonio.
Il nuovo tipo di fidanzamento, la cui struttura era ben diversa dagli sponsali
delineati nei testi dei giuristi classici, tornò ad essere
caratterizzato, soprattutto, dall’irrilevanza della volontà dei
fidanzati ed in particolare della filia[35].
Infatti le arrhae, creatrici del fidanzamento, nel caso di fanciulli,
erano prestate dai genitori, sicché il fidanzamento finì per
dipendere esclusivamente da essi, nel senso che nuovamente per la conclusione
del fidanzamento bastava il consenso dei patresfamilias[36].
Ne conseguiva l’irrilevanza dell’età dei fidanzati e
l’assenza di motivi per modificare il testo di Modestino, allo scopo di
introdurre il riferimento al settimo anno (ormai, di scarso
rilievo)[37].
Pertanto appare plausibile
l’ipotesi che il dettato di D. 23.1.14 sia stato il frutto della sintesi
delle discipline succedutesi dall’età repubblicana sino al tempo
di Modestino: il giurista le esponeva diligentemente (probabilmente utilizzando
fonti diverse risalenti ai giuristi a lui precedenti) e ne tentava
l’armonizzazione, attraverso un testo che doveva valere per il suo tempo,
conservando traccia delle decisioni succedutesi nel corso dell’esperienza
romana.
Questo modo di procedere appare
confacente alla finalità ed alle tecniche dei giuristi severiani, i
quali si sentivano impegnati a dare risposte certe ai vari popoli
dell’impero, avendo cura di evitare che qualcuno, di fronte ad
affermazioni differenti delle fonti giurisprudenziali, si trovasse in
difficoltà e non sapesse quale fosse la disciplina da applicare. La
sintesi amalgamante di Modestino tendeva proprio a questo: a far sembrare
l’ultima disciplina null’altro che l’esplicazione e la conseguenza
di ciò che poteva trovarsi affermato in opere di età precedente.
In the
famous passage of D. 23.1.14, taken from Modestino’s Differentiae, he initially affirmed that a marital engagement could
have been contracted since the birth of the couple. But he soon appears to
contradict himself by claiming that it was necessary for the engaged couple to
be able to understand the act which they were about to perform by requesting
for this purpose that the children be at least seven years old.
Generally,
interpreters have found the course of the passage at the very least, tortuous,
and, apart from a few different voices, they have suggested that the current
wording does not correspond to Modestino’s original interpretation; and
that instead, it is the result of one or more alterations, which occurred
during the post-classical age and/or age of Justinian.
The
‘readings’ of the passage have been numerous and often divergent.
This seems to justify a review, which, based on abundant and perspicuous
readings that interpreters of the text have provided, intended to further
deepen the fragment D. 23.1.14, both in its content (initial and successive,
until Justinian) as the inside
thoughts and work of Modestino.
The review
seems to make it plausible that the wording of D. 23.1.14 has been the result
of the synthesis of successive disciplines from the Republican period until the
time of Modestino. Most likely, the jurist carefully exposed those rules
(probably drawing them from different sources dating from jurists who preceded
him), trying to reach harmonization through a text that was projected on a
discipline defined during the Severan period, fused with earlier rules on the
age of engagement because he felt the need to keep track of those decisions
made during the course of the Roman experience until his time.
This way of
proceeding appeared appropriate to the aims and techniques of the Severan
jurists, who felt bound to give sure answers to the various people of the
empire, taking into account the different affirmations of sources of case law,
when they found themselves in difficulty and not knowing which rules to apply.
The well merged synthesis of Modestino precisely intended to make the last
discipline look like nothing more than the explanation and consequence of what
could have been found in works of the previous age.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione
Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].
[1] D. 23.1.14 (Mod. l. 4 diff.): In sponsalibus contrahendis aetas contrahentium definita non est ut in matrimoniis. Quapropter et a primordio aetatis sponsalia effici possunt, si modo id fieri ab utraque persona intellegatur, id est, si non sint minores quam septem annis.
[2] È opinione preponderante presso gli interpreti che il riferimento ad un’età minima ed, in particolare, al settimo anno, non apparterrebbe alla disciplina del principato e sarebbe frutto di aggiunte apposte in età postclassica e/o in età giustinianea: v. P. Voci, Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano, in IURA 31, 1980, 43 nt. 33; H.G. Knothe, Zur 7-Jahresgrenze der 'infantia' im antiken römischen Recht, in SDHI 48, 1982, 242 s. ed ivi, anche per le citazioni bibliografiche, in partic., nt. 3; A. Gomez-Iglesias Casal, Citacion y comparecencia en el procedimiento formulario romano, Universidad de Santiago de Compostela, 1984, 47 ed ivi nt. 100; M. Balestri Fumagalli, v. “Sponsali” (dir. rom.), in ED 43, 1990, 505; R. Astolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, 3a ed., Milano, 1994, 58 ss.; C. Fayer, La familia romana aspetti giuridici ed antiquari, 2a ed., Roma, 2005, 75 ntt. 219-220. Pochissimi, sono gli autori che sostengono la genuinità del brano; essenzialmente S. Tondo, Acquisto del possesso da parte del pupillo, in Stud. Betti IV, Milano, 1962, 380 ss.; G. Foti Talamanca, v. “Infans”, in NNDI 1962, 645.
[3] In tal senso il testo è stato esaminato ed utilizzato da tutti gli interpreti a partire dai bizantini (Bas. 28.1.12 e Sch. 1.IV.221). In tempi recenziori hanno fondato su di esso la loro ricostruzione degli sponsali M. Garcia Garrido, Minor annis XII nupta, in Labeo 3, 1957, 76 ss.; E. Volterra, Ricerche intorno agli sponsali in diritto romano, in BIDR 40, 1932, 87 ss. (= Scritti giuridici 1. Famiglia e successioni, Napoli, 1991, 339 ss.); Id., Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano, Roma, 1961, 360 ss.; Id., Osservazioni intorno agli antichi sponsali romani, in Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, IV, Milano, 1963, 639 ss.(= Scritti giuridici cit. 2, 491 ss.); Id., v. “Sponsali” (dir. rom.), in NNDI 18, 1971, 34 s.; Id., Quelques observations sur le mariage des filiifamilias, in RIDA 1, 1948, 213 s. (Scritti giuridici cit. 2, 97 ss.); La conception du mariage à Rome, in RIDA 3 s. 2, 1955, 365 ss. (= Scritti giuridici cit., 2, 349 ss.); Id., v. “Matrimonio” (dir. rom.), in ED 25, 1975, 729 ss. (= Scritti giuridici 3. Famiglia e successioni, Napoli, 1991, 223 ss.); M. Kaser, Das röm. Privatrecht 1, 2a ed., München, 1971, 313 ss.; J. Gaudemet, L’originalité des fiançailles romaines, in Études de droit romain, III. Vie familiale et vie sociale, Napoli, 1979, 34; Id., La conclusion des fiançailles à Rome à l’époque pré-classique, in Études cit., 13 ss.; C. Fayer, La familia romana cit., 74 ss.; M. Balestri Fumagalli, v. Sponsali (dir. rom.) cit., 505 s.; S. Di Marzo, Lezioni sul matrimonio romano, Palermo, 1919 (rist. Roma, 1972); C. Castello, Consortium omnis vitae, in La definizione essenziale giuridica del matrimonio, Roma, 1980, 57-76; H.G. Knothe, Zur 7 Jahresgrenze cit., 239-256; R. Astolfi, Il fidanzamento nel diritto romano cit., 58; Id., Il matrimonio nel diritto romano classico, Milano, 2000, 237.
[4] I libri differentiarum
potrebbero avere mutuato il modello dalla retorica. Infatti
l’argomentazione per differentiam era stata strutturata dai retori, come
può dedursi da Cicerone, il quale ci riferiva che le differentiae si
inserivano nell’articolazione dei loci, i quali, essendo
‘intrinseci’ o ‘estrinseci’, abbracciavano in questi
ultimi (nello specifico nel locus ex adfectis) la differentia, rilevabile ogni
qualvolta l’argomento era dedotto da ciò che potesse presentare
una qualsiasi affinità o relazione sostanziale con il termine in esame:
sul tema v. G. Goetz, v. Differentiarum scriptores, in PW 1903, V, 481; B.
Riposati, Studi su topica di Cicerone, Milano, MCMXLVII, 107 s. Non a caso, il
fine logico delle differentiae, secondo l’Arpinate, res inter se
diversas, non contrarias ostendit (Cic., de oratore 2.40.169). Lo scopo del
procedimento per differentiam non era quello di indicare una contrapposizione,
tra elementi che si elidevano a vicenda, bensì quello di porre in luce
una specificazione che consentisse di diversificare elementi ritenuti simili
tra loro. Cfr. G. Goetz, v. Differentiarum cit., 483, il quale, peraltro,
basandosi su un’articolata analisi delle fonti, afferma che le differenze
non sono contrapposizioni, ma diversità di accezioni della stessa parola
o diversità di parole disuguali ma che sembrano simili (ad es., metus et
timor), ovvero diversità di significati che vi sono aggiunti. Che senso
avesse la redazione di un’opera giuridica di differentiae non si
può dire con esattezza, anche se, come si diceva, qualche legame con le
differentiae della retorica può essere congetturato. Il punto
richiederebbe un maggiore approfondimento che non mi è possibile in questa
sede, ed è, comunque, difficile, perché mancano fonti adeguate,
per il fatto che, oltre quella di Modestino, non abbiamo notizie di altre opere
di differentiae redatte dai giuristi romani. D’altra parte in tutta la
filosofia greca si trovavano esempi di definitiones strutturate sulla base del
criterio della differentia differentiae (cfr. M. Talamanca, Lo schema genus-species nelle sistematiche dei
giuristi romani, in La filosofia greca ed il diritto romano. Colloquio
italo-francese - Roma, 14-17 aprile 1973, Roma, 1977, II, 31
ss.). Indicativa, in tal senso, è la circostanza che Cicerone nei topica
(par. 9) dava «come esempio di definitio una caratterizzazione del ius
civile, che può facilmente riportarsi alla definizione per genus et
differentia», da lui articolata nei successivi paragrafi 26-27, e
ulteriormente precisata nel paragrafo 39 (M. Talamanca, Lo schema genus-species nelle sistematiche dei
giuristi romani, in La filosofia greca ed il diritto romano cit., 130
ss. e 135). Sul punto cfr. S. Tafaro, Il giurista e l’ambiguità.
Ambigere ambiguitas ambiguus, Bari, 1996, 4 ss. ed ivi ntt. 2, 3, 4, 5.
[5] I Basilici spiegarono l’affermazione iniziale (aetas definita
non est) sostenendo che il giurista parlava di non definizione
dell’età del fidanzamento per il fatto che, a differenza del
matrimonio, il fidanzamento si poteva contrarre prima della pubertà. V. Sch a Bas. 28.1.12: Ἐρώτησις. Εἶπας, ὅτι
ἐπὶ τῆς μνηστείας οὐκ ἔστιν
ὡρισμένος
χρόνος τῶν
συναλλαττόντων
ἔπειτα, ὡς δεῖ
τοὺς
σὐναλλάττοντας
ἑπτὰ ἔτους
τυγχάνειν
χρόνον , τοὺτο οὐδὲν ἕτερόν
ἐστιν, ἢ
χρόνον καὶ ἑπὶ τῆς
μνηστείας ὁρίσαι. Λύσις. Οὐκ ἐναντιοῦται, μὴ
γένοιτο, ἑαυτῷ ὁ Μοδεστῖνος ὃ γὰρ θέλει εἰπεῖν,
τοῦτό
ἐστιν ὡρισμένος
μέν ἑστι
καί ἑπὶ τὴς
μνηστείας τῶν
συναλλασσόντων
ὁ χρόνος, οὐχ οὕτω
μέντοι, ὥςπερ ἐπὶ τῶν
γάμων οὔτε γὰρ
πάντως ἐφήβους εἶναι δεῖ τοὺς
μνηστευομένους,
ὥςπερ ἐφήβους
εἶναι δεῖ τοὺς
γαμοῦντας
καί γὰρ ἑπταετίας
τυγχάνοντες
χρόνου
δύνανται
μνηστείαν
συστήσασθαι. |
Interrogatio. Dixisti, in sponsalibus non esse definitam aetatem
contrahentium: deinde contrahentes aetatem septem annorum habere debere. Hoc
nihil aliud est, quam aetatem etiam in sponsalibus definire. Solutio. Non
adversatur, quod absit, sibi Modestinus: quod enim dicere vult, hoc est:
definita quidem est etiam in sponsalibus aetas contrahentium, non tamen ita,
uti in nuptiis: neque enim omnino puberes esse oportet eos, qui sponsalia
contrahunt, sicut puberes esse oportet eos, qui nuptias contrahunt: etenim
aetatem septem annorum nacti sponsalia contrahere possunt. |
[6] Sul punto rinvio a S. Tafaro, Pubes e Viripotens nella esperienza giuridica romana, Bari, 1988, il quale, tra l’altro, osserva: «Il sette diventò il simbolo della perfezione ed il multiplo intorno al quale si scandivano gli avvenimenti più importanti della vita. Perciò la Città, che aveva una posizione ed un destino particolare al centro del mondo, doveva nascere da una combinazione di sette, così come la vita dell’uomo doveva avere un ritmo settenario ... Del numero sette parlò Varrone e riferì Gellio, le cui nozioni, come è noto, riflettevano anche aspetti del ius. Del posto occupato dal numero sette nel pensiero di Platone, di Stratone Peripatetico, di Dione Caristio e, soprattutto, di Ippocrate ci hanno parlato, più di ogni altro, Galeno e Macrobio. Persino nei trattati di anatomia e di ginecologia non si poté fare a meno di configurare lo sviluppo e la struttura del corpo e della vita dell’uomo secondo partizioni connesse con il numero sette» (112 nt. 20). Anche in Roma, dunque, furono accolte le idee sulle virtù del numero sette, al quale si ancorarono sia la nascita e lo sviluppo di Roma sia le tappe della vita umana: al riguardo, v. S. Tafaro, Ius hominum causa. Un diritto a misura d’uomo, Napoli, 2009, 95 nt. 239.
[7] E’ esattamente quello che facevano i Basilici. Infatti essi volendo
soltanto introdurre il limite del settimo anno abbreviano i frammenti in questi
termini:
Μοδεστίνου.
Τό γιγνόμενον
νοῶν
καλῶς
μνηστεύεται,
τοὺτ’
ἔστιν ὁ μὴ ὢν ἥττων τῶν ἑπτὰ ἐτῶν. ὁ μὴ ὢν ἥττων
τῶν ἑπτὰ ἐτῶν]
Κυρίλλου. Οὐχ ὤςπερ
ἐπὶ τῶν γάμων οὕτω καὶ ἑπὶ τῆς μνηστείας ὡρισμένος τῶν
συναλλαττόντων
ἐστὶν ὁ χρόνος. διὰ τοῦτο
καὶ ἀνήβων
τυγχανόντων ἔτι τῶν
μνηστευομένων
μνηστεία
συνίσταται,
μόνον εἰ τῶν
μνηστευομένων
ἑκάτερος αἰσθάνεται τῶν
πραττομένων,
τουτέστιν, εἰ μὴ ἥττονες τῶν ἑπτὰ ἐτῶν
τυγχάνουσιν ὄντες. |
Modestini. Qui quod agitur, intelligit, recte
sponsalia contrahit, hoc est qui non minor est septem annis. Qui non minor est septem annis] Cyrilli. Non sicut in nuptiis, ita et in sponsalibus aetas
contrahentium definita est. Ideo etiam si impuberes adhuc sint, qui sponsalia
contrahunt, sponsalia constituuntur, si modo uterque eorum, qui despondentur,
ea, quae aguntur, intelligat, id est, si annis septem minores non sint. |
[8] Questi giuristi, infatti, non di rado partivano da affermazioni corrispondenti al diritto di età precedente, desunto dalle opere dei giureconsulti dei primi due secoli del principato. Le quali erano da loro sintetizzate ed aggiornate, avendo cura di far apparire le eventuali modifiche non tanto come correzione quanto come specificazioni delle opinioni espresse in precedenza. Appare, dunque, caratteristico dei giuristi severiani e soprattutto di Ulpiano (maestro di Modestino) costruire le proprie enunciazioni intorno ad una prima affermazione di carattere generale, corrispondente al ius dell’età più antica; la quale spesso era corretta sotto forma di semplice chiarimento, pur quando veniva totalmente sovvertita: v. le conclusioni, in tal senso, esposte da Tafaro, con escussione della letteratura pertinente, in più occasioni e particolarmente in S. Tafaro, Regulae e ius antiquum in D. 50.17.23. Ricerche sulla responsabilità contrattuale, I, Bari, 1984, 61, 222; La interpretatio ai verba ‘quanti ea res est’ nella giurisprudenza romana. L’analisi di Ulpiano, Napoli, 1980. Tale modo di procedere era radicato ed aveva connotato la tecnica argomentativa dei giuristi sin da Aristone, S. Tafaro, Considerazioni minime sul metodo di Titius Aristo, in Seminario Romanistico Gardesiano, Suppl. 3, Milano, 1976, 53.
[9] S. Solazzi, Le nozze della minorenne, in Atti Accad. Torino LI, 1926, 758 nt. 2 [= Scritti di dir. rom. II, Napoli, 1957, 155 nt. 25 n. 3]. L’opinione di Solazzi è accettata da molti e, da ultimo, da G. Knothe, Zur 7-Jahresgrenze der 'infantia' cit., 246 s.
[10] Soprattutto S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, 2a ed., Milano, 1928, 356 nt. 1; E. Volterra, Sul consenso della filia familias agli sponsali, Roma, 1929, 6 [= Scritti giuridici 1, Napoli, 1991, 295]; Id., Ricerche intorno agli sponsali in diritto romano, in BIDR 40, 1932, 101.
[11] Tali brani
anche se numericamente limitati, mostrano un utilizzo univoco di primordium:
D. 1.13.1.3 (Ulp. l.s. de off. quaest): Hodieque
optinuit indifferenter quaestores creari tam patricios quam plebeios: ingressus
est enim et quasi primordum gerendorum honorum sententiaeque in senatu dicendae;
D. 31.76.3 (Pap. 7 resp.): "Heres
meus Titio dato, quod ex testamento Sempronii debetur mihi". Cum iure
novationis, quam legatarius idemque testator ante fecerat, legatum ex
testamento non debeatur, placuit falsam demonstrationem legatario non obesse,
nec in totum falsum videri, quod veritatis primordio adiuvaretur; D.
41.3.45.1 (Pap. 10 resp.): Post mortem domini servus hereditarius
peculii nomine rem coepit tenere, usucapionis primordum erit tempus hereditatis
aditae: quemadmodum etenim usucapietur, quod ante defunctus non possederat?
[12] L’uso del termine per indicare proprio il momento ‘di inizio’ è ampiamente provato ed era quello corrente: v. TLL v. primordium, X. 2 fasc. VIII, coll. 1269-1274, dove l’uso all’ablativo del termine è riferito sempre all’inizio, al principio o all’esordio (col. 1273); E. Forcellini, Totius latinitatis lexicon, t. III, Padova, rist. anast. 1965, v. primordius; C. Lewis–C. Short, A latin dictionary, Oxford, v. primordius. Cito un solo esempio, che mi sembra significativo, per il fatto che si riferiva al sorgere della Città, la quale era ritenuta un organismo ‘vivente’: Livio nell’introduzione ai suoi libri ad Urbe condita (praef. 1) diceva di non essere in grado di risalire a primordio urbis, con chiaro riferimento alla nascita di Roma. A sua volta Quintiliano (Decl. 9.8) si riferiva alla comparsa dell’uomo, dicendo a primordio generis humani.
[13] Casi di fidanzamenti con bambine di due o tre anni è ampiamente provato sia nella famiglia imperiale sia fuori da essa. Cito alcuni esempi: Giulia, figlia di Augusto, fu fidanzata, nel 37 a.C. quando aveva solo due anni, essendo nata nel 39: Svet. Aug. 63.2; Dio Cass. 48.16.3, (sul punto cfr. A. Stein-L. Petersen, in PIR (2a ed.) 4, v. Iulia, nr. 634, 298). Anche Antonia Maggiore, nata nel 39 a.C. fu fidanzata nel 37 a.C.: Dio Cass. 48.54.4; Plut. Ant. 33.3. (cfr. E. Groag–A. Stein, in PIR (2a ed.) 1, v. Antonia, nr. 884, 171 s.). Claudio Marcello, figlio di Ottavia, sorella di Augusto, nato agli inizi del 42 a.C., fu fidanzato nel 39 a.C., ad appena 3 anni, alla figlia, ancora più giovane, di Sesto Pomponio per suggellare l’accordo di Miseno: Dio Cass. 48.38.3, 53.28.3 (cfr. A. Gaheis, in RE 3.2, v. Claudius, nr. 230, 2765). In CIL 6.28194 un fidanzato ricordava la propria fidanzata morta a 9 anni, 8 mesi e 19 gg.; in CIL 6.9534 si rimpiangeva la fidanzata morta a 6 anni (Cfr. E. Costa, Storia del diritto romano privato dalle origini alle compilazioni giustinianee, 2a ed., Torino, 1925, 53 s.).
[14] Sul punto cfr. F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma 1, Napoli, 1984, 191 s.; G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica, Torino, 1989, 150 s. Questi autori ricordano che ciò era affermato anche da Ulpiano, il quale spiegava l’origine del nome sponsalia, proprio con la circostanza di far nascere il fidanzamento dalle sponsiones: D. 23.1.2 (Ulp. l. s. de spons.): Sponsalia autem dicta sunt a spondendo: nam moris fuit veteribus stipulari et spondere sibi uxores futuras. Sul brano e sulla sua riferibilità ai patres il Franciosi (151) specifica «la domanda doveva essere rivolta dal padre del futuro sposo (o da questi, se sui iuris) al padre della donna». Cfr. anche. A. Watson, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford, 1967; R. Astolfi, Il fidanzamento nel diritto romano cit., 19 s., da ultimo M. Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, 2a ed., Torino, 2011, 207 ss.
[15] È
sorprendente che ancora nell’età severiana Paolo dovesse
sottolineare l’illiceità di stipulazioni concernenti il
fidanzamento: D. 45.1.134.pr. (Paul. l.
15 resp): Respondit ex stipulatione, quae proponeretur, cum non
secundum bonos mores interposita sit, agenti exceptionem doli mali obstaturam,
quia inhonestum visum est vinculo poenae matrimonia obstringi sive futura sive
iam contracta. Il frammento
è escerpito dai responsa i quali trattavano di quesiti sollevati
da interlocutori reali o ‘di scuola’ che dovevano avere rilevanza
al tempo del giurista rispondente, perché «derived from
practice» (F. Schulz, History
of roman legal science, Oxford, rist. 1967, 259) e per lo più
destinato alla soluzione di casi ancora attuali e sottoposti all’esame
dell’imperatore, tanto che «il legame che risulta dal testo di
taluni responsi di Paolo è di identità fra il responso del giurista
e il rescritto dell’imperatore» (P.
Frezza, ‘Responsa’ e ‘quaestiones’.
Studio e politica del diritto dagli Antonini ai Severi, in SDHI
43, 1977, 226; T. Masiello, Le
quaestiones publice tractatae di Cervidio Scevola, Bari, 2006). Da
ciò si è indotti ad ipotizzare che la persistenza della prassi di
ricorrere alle stipulazioni (con la previsione di una penale a carico
dell’inadempiente) era ancora praticata al tempo dei Severi. A tale
conclusione spinge anche il riferimento ai boni mores, poiché la
concessione dell’eccezione di dolo contro atti ritenuti contrari ai buoni
costumi fu affermata dai giuristi severiani, soprattutto in seguito ad una
costituzione del 213 emanata dall’imperatore Antonino Caracalla: C.I.
2.3.6 (Imp. Antoninus A. Iuliae Basiliae): Pacta quae contra leges
vel contra bonos mores fiunt, nullam vim habere indubitati iuris est: sul
punto ed in particolare riguardo alla probabile datazione dei richiami ai boni
mores. La costituzione usava uno stilema (indubitati iuris
est), adottato anche da Paolo, tanto da lasciare ipotizzare una possibile
stesura della stessa costituzione proprio ad opera del giurista: v. S. Tafaro, Regula e ius antiquum in
D. 50. 17. 23 cit., 70 s. ed ivi nt. 98. Quanto alla portata del
provvedimento, va detto che, poiché la costituzione di Antonino
Caracalla è dell’anno successivo a quello dell’estensione
della cittadinanza a tutti i sudditi dell’Impero, esso potrebbe
appartenere agli interventi dell’Imperatore diretti a fare chiarezza
sulle numerose questioni sollevate dalla nuova latitudine della cittadinanza
romana. In questo ámbito la richiesta della corrispondenza ai boni
mores doveva concernere questioni concrete e aperte nella nuova dimensione
spaziale del diritto romano. Queste considerazioni spingono a dedurre che al
tempo di Paolo l’invalidazione delle stipulazioni concernenti il
fidanzamento dovesse avere carattere di attualità. Sul senso della
menzione dei boni mores cfr. anche C.
Gioffredi, v. Mores, in NNDI 10, Torino, 1964, 919 s.; J.
Plescia, The Development of
the Doctrine of Boni Mores in Roman Law, in RIDA 34, 1987, 265 s. e, in particolare per i
richiami nella giurisprudenza, 280 s.; Th.
Mayer-maly,
The «boni mores» in Historical Perspective, in Tydskrif
vir Hedendaagse Romeins-Hollandse Reg. 1987, 60 s.
[16] E’
stato posto in evidenza il nesso profondo esistito tra l’idoneità
del bambino a fari e il riconoscimento di effetti giuridici
all’atto da lui compiuto: sul punto, cfr., per un ragguaglio sullo status
doctrinae e per la critica ad essa, nel senso che tuttavia il fari posse
non sarebbe rilevante ai fini della validità degli atti, per i quali,
invece, secondo l’a. sarebbe rilevante il compimento del settimo anno,
come espressione di “capacità intellettuale”: S. Tondo, Acquisto del possesso da
parte del pupillo, in Stud. Betti IV, Milano, 1962, 375 nt. 26, 399.
Va però osservato che essi il più delle volte hanno ritenuto che
il fari potesse costituire un criterio univoco di riconoscimento della
capacità negoziale del fanciullo; il che non mi pare esatto, in quanto
esso era importante ma pur sempre legato alla natura degli atti, che,
nell’età proto repubblicana e in buona parte dell’età
repubblicana e del primo principato, per la maggior parte dipendevano dalla
pronuncia di verba. Pertanto il riconoscimento di effetti in conseguenza
della capacità di parlare va storicizzato e relativizzato. Non a caso
ancora in età severiana i giuristi, i quali avevano ormai chiaro che le
conseguenze giuridiche dell’atto dipendevano dalla possibilità di
comprensione del fanciullo, ribadivano che per la stipulatio bastava il
saper parlare: D. 45.1.1.pr. (Ulp. 48 ad Sab.): Stipulatio non potest
confici nisi utroque loquente: et ideo neque mutus neque surdus neque infans
stipulationem contrahere possunt: nec absens quidem, quoniam exaudire invicem
debent. Si quis igitur ex his vult stipulari, per servum praesentem stipuletur,
et adquiret ei ex stipulatu actionem. Item si quis obligari velit, iubeat et
erit quod iussu obligatus; D.
45.1.141.2 (Gai. 2 de verb. ob.): Pupillus licet ex quo fari
coeperit, recte stipular ipotest;
D. 44.7.1.12-13 (Gai. l. 2 aur.): Furiosum, sive
stipulatur sive promittat, nihil agere natura manifestum est. Huic proximus est, qui eius aetatis est, ut nondum intellegat, quid agatur:
sed quod ad hunc benignius acceptum est: nam qui loqui potest, creditur et
stipulari et promittere recte posse.
[17] La transizione ed il capovolgimento che ne conseguì sono stati evidenziati, da ultimo, da G. Moschetta, Le verborum obligationes contratte dagli infantes, in SDHI 74, 2008, 520 ss. attraverso un esame dettagliato della letteratura (con specifica attenzione a A. Burdese, Sulla capacità intellettuale degli impuberes, in diritto classico, in AG 150, 1956; H. Ankum, Les infanti proximi dans la jurisprudence classique, in Estudios en homenaje al Professor Francisco Hernandez-Tejero, Madrid, 1993) e delle fonti. L’a. dimostra come si passò dalla rilevanza della capacità a parlare dell’infante a una disciplina uniforme consistente nella possibilità di comprensione dell’atto. In particolare egli ha posto in luce la circostanza che mentre in precedenza si riconosceva la validità degli atti compiuti dal bambino in dipendenza da motivazioni dedotte dalla natura dell’atto o se ne riconosceva l’imputabilità in base a considerazioni diverse da un giudizio di colpevolezza del fanciullo, durante il principato e soprattutto a partire dall’età degli Antonini, si cercò di far dipendere la validità degli atti e/o la responsabilità penale da un criterio generale ed uniforme, costituito dalla capacità di intellegere da parte del bambini. Quale esempio rivelatore l’a. menziona quello della sponsio per la quale anche un fanciullino era ritenuto capace di contrarre l’obbligazione, perché l’acquisita capacità di sillabare suoni articolati gli consentivano di pronunciare i verba, ritenuti bastanti per la nascita dell’obligatio (in virtù della forza ‘creatrice’ delle parole: riguardo alla quale v. R. Orestano, I fatti di formazione nell’esperienza romana arcaica, Torino, 1967, 179 ss., 195 ss., 202 ss., il quale ha evidenziato come «pronunciate determinate parole o concatenazioni di parole, racchiuse in formulari, si creavano realtà fisiche e giuridiche»). Durante il principato questa spiegazione non poteva più reggere. Altro esempio rivelatore della pregressa disciplina si ebbe riguardo alle obbligazioni alimentari, per la cui spettanza e richiesta da parte dello stesso bambino avente diritto era sufficiente il compimento di tre anni: A. Wilinski, Maior trimo Granika wieku trzech lat w praie rzymskim (La limite d’age de trois ans dans le droit romain), in Czasopismo prawno hostoryczne, 7, Zeszyt, 1, 1955, 43 ss., richiamando il su esposto formalismo verbale, identifica l’abilità di parlare del fanciullo con il compimento di soli tre anni: v. G. Moschetta, op. cit., il quale (521 nt. 21) non condivide la congettura di alcuni romanisti (per tutti v. A. Burdese, Sulla capacità intellettuale degli impuberes, op cit., 10 ss.), i quali affermano che la possibilità di stipulare personalmente, attraverso la pronuncia dei verba stipulationes, non concerneva tutti gli infantes ma solo una parte di essi: gli infanti proximi.
[18] All’uso da parte dei giuristi del termine intellegere ha dedicato una esaustiva e penetrante analisi F. Lamberti, Concepimento e nascita nell’esperienza giuridica romana visuali antiche e distorsioni moderne, in Serta Iuridica. Scritti dedicati dalla Facoltà di Giurisprudenza a Francesco Grelle, t. I, Napoli, 2011, 334 ss. L’ a., superando l’opposta opinione di alcuni romanisti (Catalano, Baccari e Lubrano) i quali sostengono che intellegere aveva il significato di “constatare”, attraverso un esame dettagliato delle fonti (in part. 334 ntt. 80-81), ritiene che l’uso giuridico del lemma corrispondeva a “conoscere intellettualmente”, “comprendere”.
[19] D. 23.1.7.1 (Paul. l. 35 ad ed.): … In sponsalibus contrahendis etiam consensus eorum exigendus est quorum in nuptiis desideratur. V., per la richiesta del consenso dei futuri fidanzati, E. Volterra, v. “Sponsali” (dir. rom.) cit., 34 s., ed ivi bibl., cui adde: J. Gaudemet, L’originalitè des fiancailles romaines cit., 34 s.; R. Astolfi, Il fidanzamento nel diritto romano cit., 71; M. Balestri Fumagalli, v. “Sponsali” cit., 500 s. ed ivi, in particolare, la nt. 8.
[20] V. D. 23.1.11 (Iul. l. 10 dig.): Sponsalia sicut nuptiae consensu contrahentium fiunt: et ideo sicut nuptiis, ita sponsalibus filiam familias consentire oportet; D. 23.1.12.pr. (Ulp. l. singul de spons.): sed quae patris voluntati non repugnat, consentire intellegitur. § 1. Tunc autem solum dissentiendi a patre licentia filiae conceditur, si indignum moribus vel turpem sponsum ei pater eligat; D. 23.1.13 (Paul. l. 5 ad ed.): Filio familias dissentiente sponsalia nomine eius fieri non possunt. Come può vedersi riguardo alla figlia il sostenitore più deciso della necessità del suo consenso è stato Salvio Giuliano, mentre Ulpiano sembra aver segnato un passo indietro, poiché riduceva la prestazione di assenso, da parte della figlia, alla mancanza di manifestazione del proprio dissenso, ammesso solo in 3 casi estremi.
[21] Lo affermava lo stesso Ulpiano, che (come si è visto) aveva collegato l’origine degli sponsali all’uso di ricorrere a sponsiones (v. sopra nt. 14): D. 23.1.4 (Ulp. l. 35 ad Sab.): Sufficit nudus consensus ad constituenda sponsalia. Ci si può domandare se tra i due brani vi fosse coincidenza o contrapposizione. Le poche notizie possedute riguardo al libro unico sul fidanzamento (affidate a due soli frammenti: il nostro di D. 23.1.2 e quello di D. 23.1.12) non consentono di datare la redazione di questo libro, se non accettando l’ipotesi di T. Honoré, Ulpian, Oxford, 1982, 159, 161, il quale suggeriva che potesse essere stato redatto tra il 217 ed il 218. Se così è, si potrebbe dedurne che la puntualizzazione trovasse spazio nella trattazione monografica e fosse anche rafforzata dal divieto, del 213, di stipulazioni prevedenti una penale per l’eventuale mancato matrimonio, di cui ho fatto menzione sopra, alla nt. 18. Sulla diffusione dei libri singulares soprattutto nei giuristi severiani v. M. Bretone, Storia del diritto romano, Bari, 1987, 280, 284, 367 nt. 32.
[23] In questa direzione si pose la introduzione, già dalla fine del I secolo d.C., di categorie come l’utilitas (v.: M. Bretone, Storia del diritto romano, Bari, 1993, 180, 191, 215, 295 ss.; V. Scarano Ussani, L’utilità e la certezza. Compiti e modelli del sapere giuridico in Salvio Giuliano, Milano, 1986; S. Tafaro, Regula e ius antiquum cit., 124 ss.; Id., La interpretatio ai verba cit., 123 ss.; M. Navarra, Ricerche sulla utilitas nel pensiero dei giuristi romani, Torino, 2002, 2 ss., 11 s., 81 ss., 90 s.) e/o la benignitas (v. M. Bretone, Storia del diritto romano cit., 237; A. Palma, Benignior interpretatio. Benignitas nella giurisprudenza e nella formazione da Adriano ai Severi, Torino, 1997), che servirono ad armonizzare discipline più aderenti alle specificità dei casi ed improntate a maggiore flessibilità con il rigore astratto di pregresse regole, evitando così soluzioni contra rationem o ultra rationem (sul punto cfr., anche per i ragguagli bibliografici, G. Moschetta, Le verborum obligationes cit., 517 nt. 9, 526 nt. 38, 534 nt. 58). D’altronde, Gaio usava una tecnica simile. Trattando dell’idoneità del pupillo a compiere determinati atti (probabilmente riconosciuta in precedenza), senza negarla, la limitava soltanto verso chi avesse comunque una qualche capacità di comprendere il significato dell’atto. Però, qualora l’atto compiuto fosse stato vantaggioso, ne ammetteva la validità, giustificando la deroga alla regola generale da lui stesso richiamata con il ricorso all’utilitas e, successivamente, alla benignitas: Gai. 3.109: Sed quod diximus de pupillo, utique de eo verum est, qui iam aliquem intellectum habet; nam infans et qui infanti proximus est non multum a furioso differt, quia huius aetatis pupilli nullum intellectum habent. Sed in his pupillis propter utilitatem benignior iuris interpretation facta est. Sul punto rinvio alle osservazioni di G. Moschetta, locc. citt.
[24] Il punto era stato colto già da S. Solazzi, Saggi di critica romanistica. L’età dell’infans, in BIDR 49-50, 1947, 354 s. e Qui infanti proximi sunt, in Labeo 1, 1955, 7 ss., l’a. ha sostenuto che dall’originario sistema di accertamento caso per caso, richiesto per la capacità di fari, doveva essersi venuta formando «una regola degli esperti e del consorzio sociale», per cui il bambino d’una certa età era ritenuto senz’altro dotato di capacità intellettuale e, pertanto, dovesse avere concluso l’infanzia. Di parere contrario, v. A. Burdese, v. Età, in ED 16, 1967, 80; Id., Sulla capacità intellettuale degli impuberes cit., 65, il quale ritiene di non condivisibile l’ipotesi della possibile determinazione di limiti fissi di età già nel principato e, comunque, prima di Giustiniano.
[26] Ne è conferma la cura posta nella individuazione delle età della vita umana da parte degli autori romani, riflessa anche nelle fonti giuridiche: emblematico, perché riassuntivo della letteratura romana classica, per noi è un passo delle Etimologie di Isidoro di Siviglia, dal quale traspare la minuziosità posta nel descrivere le tappe della vita umana: Isid. Etym. XI.2: De aetatibus hominum.: Gradus aetatis sex sunt: infantia, pueritia, adolescentia, iuventus, gravitas atque senectus. 2. Prima aetas infantia est pueri nascentis ad lucem, quae porrigitur in septem annis. 3. Secunda aetas pueritia, id est pura et necdum ad generandum apta, tendens usque ad quartumdecimum annum. 4. Tertia adolescentia ad gignendum adulta, quae porrigitur usque ad viginti octo annos. Ma già Varrone aveva espresso concetti analoghi: Serv. ad Aen. 5, v. 295: aetates omnes Varro sic dividit: infantiam, pueritiam, adulescentiam, iuventam, senectam. La corrispondenza delle terminologie e delle partizioni che si trova nei testi giuridici denota l’osmosi molto stretta esistita tra nozioni giuridiche e nozioni correnti: v., ad esempio, D. 3.1.1.3 (Ulp. l. 6 ad ed.); D. 3.1.14.1 (Ulp. l. 2 fideicom.); D. 2.15.8.10 (Ulp. l. 5 de omn. Trib.); D. 50.16.204 (Paul. l. epit. Alf.); C.Th. 2.17.1.3: v. S. Tafaro, Pubes e viripotens cit., 77 ss. Lo svolgimento della vita umana era stato oggetto di attente analisi da parte di filosofi, grammatici e scienziati e le loro nozioni furono tenute presenti dalla giurisprudenza: v. G. Pugliese, Il ciclo della vita individuale nell’esperienza giuridica romana, in Atti dei Convegni dei Lincei 61, 1984, Colloquio: Il diritto e la vita materiale, Roma, 1982, 55 ss.
[29] Sul punto cfr. S. Tafaro, La interpretatio cit., 121. In tal senso anche L. Capogrossi Colognesi, Una pluralità di soluzioni e di diritti come felice inizio, in Fine del diritto? [a cura di P. Rossi], Bologna, 2009, 16-17: «Si trattava, in sintesi, del carattere “scientifico” del modo di procedere e di argomentare dei giuristi romani. Esso si evidenzia nella loro continua attenzione alla coerenza logica delle soluzioni adottate rispetto alle premesse e nella possibilità che noi stessi abbiamo di scoprire al fondo delle soluzioni il riferimento a una “regola” astratta, anche se quasi mai espressamente enunciata».
[30] V. supra nt. 2. Qualcuno aggiunge che forse questo limite era stato già fissato prima di Giustiniano, cioè a partire dagli Antonini (S. Tondo, Acquisto del possesso cit., 380 ed ivi nt. 37) ed altri ancora, fissano la fine dell’infanzia al raggiungimento del quinto anno di età (la tesi è stata sostenuta da S. Solazzi, Saggi di critica romanistica cit., 354 s. e Qui infanti proximi sunt cit., il quale si limita a sostenere, sulla base di D. 7.7.6.1 (Paul. 2 ad. leg. Iul. et Pap.) e D. 38.1.37.1 (Ulp. 28 ad Sab.), che la prassi giuridica faceva terminare l’infantia a minor annis quinque. In realtà l’a. citava brani che trattavano dell’età alla quale lo schiavo era tenuto a lavorare per il proprio padrone, i quali concernevano una materia per la quale i giuristi romani si fecero portavoce degli interessi dei padroni.
[31] In tal senso, v. H.G. Knothe, Zur 7 Jahresgrenze cit., 241 s., il quale considera genuina l’ultima proposizione del testo di Modestino (id est-septem annis). Egli evidenzia che il compimento del settimo anno segnava la fine dell’infanzia e sostituiva la precedente facoltà di parlare, già al tempo di Ulpiano. A suo parere la scelta del settimo anno è da collegare probabilmente a un valore magico attribuito anticamente al numero sette. Dello stesso parere, seppure con argomentazioni diverse, è anche F. Lamberti, “Infantia”, capacità di “fari”/”intellegere”, e minore età nelle fonti giuridiche classiche e tardo antiche, in Iuris Antiqui Historia, an International Journal on Ancient Law 4, 2012, 48 ss. L’a. osserva «Non può escludersi che Modestino, partendo da una originaria constatazione relativa alla prassi di fidanzare fanciulli fra loro anche in tenerissima età, e dalla relativa abitudine di realizzare la deductio in domum mariti di bambine anche piccole, tentasse di fissare un limite a tale pratica sociale, richiamandosi alle discussioni relative all’aliquem intellectum del minore, e ravvisando, uniformemente a quanto avveniva per l’educazione dello stesso (46 s.), nei sette anni un limite 'minimo' a partire dal quale reputare ammissibile la realizzazione degli sponsalia. È in ogni caso un dato di fatto che, presso i giuristi severiani, si inizi a ravvisare nell’avvenuto compimento dei sette anni d’età, un limite al di sopra del quale possa riconoscersi (limitata) validità degli atti compiuti dal pupillus».
[32] E. Volterra, Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano cit., 373 ss.; Ancora sul consenso della filia familias agli sponsali cit., 312 s. Si veda, anche per ragguagli bibliografici, C. Fayer, op. cit., 37, 58 s., 64 nt. 173.
[33] V. P. Koschaker, Zur Geschichte der arrha sponsalicia, in ZSS 1912, 388 ss.; G. Cornil, Die arrha im justinianischen Recht, in ZSS 1928, 51 ss.; E. Volterra, Studio sull’arrha sponsalicia, I, in RISG 1927, 581 s.; II. L’arrha sponsalicia nella legislazione di Giustiniano, in RISG 1929, 3 ss. e III. L’origine orientale dell’arrha sponsalicia, la sua penetrazione ed applicazione nel diritto cristiano e bizantino, in RISG 1930, 155 ss. Cfr., in proposito, R. Astolfi, op. cit., 170 ss.
[36] V. supra nt. 19; cui adde G. Longo, Diritto romano: diritto di famiglia II, in Foro It. 1953, 63 ss.
[37] Si può
congetturare che il riferimento al settimo anno fu lasciato nel testo di Modestino
non tanto per esigenza dei giustinianei quanto per il rispetto
dell’antica indicazione,
influenzata dal favore riscosso dalla fissazione della fine della prima infantia
con il settimo anno, che si era consolidata ed era stata recepita nelle costituzioni
del tardo antico. Cfr: C.Th. 8.18.8: Impp. Arcadius, Honorius et Theodosius
AAA. Anthemio ppo. Certis annorum intervallis in bonorum possessione maternae
hereditatis a patre poscenda aut successione amplectenda infantis filii aetatem
nostra auctoritate praescribimus, ut sive maturius sive tardius filius fandi
sumat auspicia intra septem annos aetatis eius pater aut bonorum possessionem
imploret aut qualibet actis testatione successionem amplectatur, hac vero
aetate finita filius edicti beneficium petat vel de successione suscipienda
suam exponat voluntatem, dum tamen intra annum ad impetrandam bonorum
possessionem praescributum uterque de possessione amplectenda suum prodat
arbitrium. Cretionum autem scrupulosam sollemnitatem, sive materna filio familias
sive alia quaedam deferatur hereditas, hac lege emendari penitus amputarique
decernimus. a. 407 mart. 17. Dat. XVI kal. April. Const. Dd. Nn.
Honorio VII et Theodosio II AA. Conss.; C.I. 6.30.18.pr.: Theod. / Valent.
Si infanti, id est minori septem annis, in potestate patris vel avi vel proavi
constituto vel constitutae hereditas sit derelicta vel ab intestato delata a
matre vel linea ex qua mater descendit vel aliis quibuscumque personis, licebit
parentibus eius sub quorum potestate est adire eius nomine hereditatem vel
bonorum possessionem petere. Theodos. et Valentin. aa. ad senatum.
a. 426 d. VIII id. Nov. Ravennae Theodosio XII et Valentiniano II AA.
Conss.