N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana
Università
di Sassari
Note in tema di organizzazione e attività dei venaliciarii
Sommario: 1. L’“azienda” venaliciaria.
– 2. Fonti
epigrafiche relative al trasferimento
di “azienda” venaliciaria: A) Tabula Herculanensis n. LXIII.
– 3. B) Le Tavolette cerate di
Cecilio Giocondo: CIL
IV. 3340 n. XLV = FIRA, Negotia,
Apocha Pompeiana, Chirographa,
n. 130 a). – 4. Il servus venaliciarius.
A) Servus institor preposto alla
vendita di schiavi e animali e responsabilità per vizi. – 5. B) Servus venaliciarius con peculio e responsabilità per vizi.
Nelle fonti giuridiche romane manca una precisa definizione di azienda
venaliciaria e, soprattutto, non si
trovano passi in cui sia utilizzata l’espressione taberna instructa[1]
(locuzione che si ritiene possa corrispondere al significato del termine moderno
azienda[2])
in riferimento all’attività commerciale esercitata dai venaliciarii.
L’unico testo, in cui il termine taberna[3]
viene riferito all’attività dei mercanti di schiavi, è rappresentato da un
passo di Seneca[4]:
De const. sap. 2.13.4: Num moleste feram, si mihi non reddiderit nomen aliquis ex his
qui ad Castoris negotiantur, nequam mancipia ementes vendentesque, quorum
tabernae pessimorum servorum turba refertae sunt? Non, ut puto.
La testimonianza di Seneca è di grande interesse. Il filosofo
tratta, infatti, di coloro qui ad
Castoris negotiantur, per poi specificare quale tipo di negotiatio veniva da loro condotta (nequam[5]
mancipia ementes vendentesque); in
fine, fa un cenno anche alle tabernae
di questi individui: tabernae in cui,
per lo più, si vendevano schiavi di pessima qualità.
Dalla lettura del testo traspare immediatamente la scarsa
considerazione, e forse anche il disprezzo, nutriti dall’autore nei confronti
dei mercanti di schiavi; ma questo non è un elemento nuovo: è nota la pessima
reputazione di cui godevano coloro che esercitavano questo tipo di commercio
(considerato il ramo peggiore dell’attività mercantili) presso gli autori
antichi, i quali non perdevano mai l’occasione per manifestare la loro
riprovazione nei confronti dei “venditori di uomini”[6].
Quanto poi al termine taberna,
mi pare evidente che esso indichi il luogo presso il tempio di Castore dove i
mercanti di schiavi ammassavano le mercanzie (pessimorum servorum), oggetto delle loro negotiationes. Il tempio di castore
viene comunemente indicato nelle fonti letterarie[7]
come uno dei tanti siti di Roma, in cui era possibile trovare i trafficanti di
schiavi intenti a smerciare grandi quantità di mancipia. Era cioè il luogo in cui avveniva il maggior numero di
contrattazioni. probabilmente nei
pressi del tempio di castore vi
era un mercato di schiavi, per cui, di conseguenza, nelle sue vicinanze vi
erano anche numerose tabernae di venaliciarii.
Si può supporre che la taberna
non fungesse solo da deposito di schiavi pronti per essere immessi nel mercato;
ma che fosse, piuttosto, anche il luogo dove avveniva la vendita al minuto dei mancipia, previa trattativa privata. La taberna diveniva, in questo caso, sede
di negotiationes[8].
Tutti questi elementi consentono di affermare che l’attività
svolta dai venaliciarii fosse di tipo
imprenditoriale: la caratteristica di tale attività era quella di essere
collegata all’esercizio di una professione abituale (venaliciariam vitam exercere[9]),
a fine di lucro (non si possono negare gli ingenti guadagni provenienti da
questa attività) e che, senza dubbio, presupponeva anche una organizzazione
stabile di beni e di uomini finalizzata all’esercizio delle negotiationes[10].
Voglio soffermarmi con più
attenzione su questo ultimo
aspetto. Come abbiamo appreso dalla testimonianza di Seneca, il mercante di
schiavi disponeva di edifici che potevano essere adibiti alla custodia della
preziosa mercanzia (o anche utilizzati per lo svolgimento delle
contrattazioni). Ma questi non erano i soli beni che potevano far parte della
azienda venaliciaria.
Una grossa impresa venaliciaria
doveva disporre anche di mezzi di trasporto di vario tipo, navi comprese. il fatto che le navi fossero
comunemente annoverate tra i vehicula
dell’imprenditore agricolo è un dato sicuro, attestato nel passo di ulpiano[11],
dove si tratta dei beni che facevano parte dell’instrumentum fundi[12]:
iumenta et vehicula et naves et cuppae
et culei[13].
l’uso delle navi per il trasporto
di schiavi doveva essere abituale anche tra i commercianti di homines come lascia intendere la
testimonianza di Petronio:
Sat. 76.3-7: Ne multis
vos morer, quinque naves aedificavi, oneravi vinum – et tunc erat contra aurum
– misi Romam. Putares me hoc iussisse: omnes naves naufragarunt. Factum, non
fabula. Uno die Neptunus trecenties sestertium devoravit. ... Alteras feci
maiores et meliores et feliciores, ut
nemo non me virum fortem diceret.
Scis, magna navis magnam fortitudinem habet. Oneravi rursus vinum, lardum,
fabam, seplasium, mancipia.
Durante la cena Trimalcione narra ai commensali l’origine della
sua fortuna. Trimalcione racconta che nel momento in cui iniziò a dedicarsi
alle attività commerciali, decise di costruire navi grandi e robuste; navi che
decise poi di riempire di merci di vario tipo e di mancipia.
Questo passo del Satyricon induce, dunque, a pensare che
anche i venaliciarii avessero navi di
loro proprietà e che le adoperassero per il trasporto di schiavi provenienti da
regioni lontane.
Potevano poi far parte della azienda venaliciaria anche altre attrezzature: quelle cioè che
l’Arangio-Ruiz[14]
definisce come «attrezzature per l’infame commercio» (si pensi a catene o a
strumenti aventi la funzione di impedire la fuga degli schiavi).
Oltre ai beni, l’azienda venaliciaria
comprendeva anche un apparato di uomini i cui compiti potevano essere di vario
genere e avere diversa importanza: dalle mansioni di sorveglianza e custodia
della “merce umana” (gli schiavi messi in vendita potevano tentare la fuga, si
veda l’episodio del venaliciarius socius
ferito al mercato dagli schiavi in fuga[15]);
a quelle più complesse svolte da incaricati dei venaliciarii, che
agivano in loro assenza tramite mandato[16].
L’attività imprenditoriale dei venaliciarii, quindi, ruotava attorno ad una stabile organizzazione
di cose e di uomini. a questo
punto non si può fare a meno di ripensare al passo di ulpiano D. 50.16.185 ed alla definizione di taberna instructa ivi contenuta:
D. 50.16.185 (Ulp. 28 ad ed.): ‘Instructam’ autem tabernam sic
accipiemus, quae et rebus et hominibus ad negotiationem paratis constat[17].
Il testo è di notevole rilevanza. Il giurista fa riferimento a
“cose e uomini” ad negotiationes paratis. Sembra che le parole
di ulpiano ben si adattino anche
alla struttura organizzativa dei venaliciarii.
Sebbene le fonti non parlino mai espressamente di “taberna instructa venaliciaria”, non è possibile negare l’esistenza
di una organizzazione di cose e uomini al fine di esercitare negotiationes il cui scopo fosse quello
di “mancipia emere vendereque”.
Vediamo ora in che modo poteva avvenire il trasferimento della
azienda venaliciaria e, soprattutto,
se i documenti[18]
epigrafici a noi pervenuti riguardino tale tipo di trasferimento.
A questo proposito, mi propongo di esaminare due fonti
particolarmente significative: si tratta di una delle Tabulae Herculanenses
(precisamente la tab. n. lxiii) e di una delle Tavolette cerate
di Cecilio giocondo (cioè quella
riportata in CIL
IV.3340 n. xlv = fira, III, apocha pompeiana, Chirographa, n.
Le tavolette sono state ritrovate nelle città di Ercolano e di
Pompei ed entrambe risalgono allo stesso periodo storico, gli anni precedenti
al 79 d.C., data dell’eruzione del Vesuvio che distrusse le due città campane.
Analizziamo ora la prima.
Tabella I di un trittico di incerta provenienza[19].
--- He]rennia Tertia emit
HS [---.
[seruos uen]alic[i]os (vacat)
[em]ptio
facta [es]t uti adsolet et rem su[---
[----]i[n]q. ancillis et aedium et aedi[ficiorum
---
cia a*
et aedium et aedificiorum, uiri M[--- et ?
[m]ulieris Troes et mulieris Anniae et mulier[is ---
[.]* [et] puellae Arescu[sae] (vacat)[20].
La tavoletta fu pubblicata in edizione provvisoria nel 1951 da
Matteo Della Corte[21],
il quale ne dava la seguente valutazione: «scrittura chiara, ma testo di
difficile intendimento»[22].
risale invece al 1954 l’edizione
definitiva curata dall’Arangio-ruiz
e dal Pugliese Carratelli, a cui si riferiscono le linee citate in questo
lavoro.
Il testo non è completo, né d’altra parte è possibile stabilire
una data certa del documento, anche se si può ritenere che risalga agli anni
compresi tra il 50 d.C. e il 79 d.C.[23]
Sarà bene a questo punto procedere ad un esame puntuale del
contenuto della tavoletta, che probabilmente – come sostiene l’Arangio-Ruiz[24]
– era semplicemente un index. Vi si
riferisce di un acquisto fatto da Herennia
Tertia, la quale aveva comprato servos venalicios e altri beni (aedes, aedificia, ancillae, viri) per una somma di sesterzi, che
risulta indeterminata dato lo stato lacunoso del documento. Nonostante un certo
numero di passi di difficile interpretazione, in sede di commento, l’Arangio-ruiz e il Pugliese Carratelli hanno
ritenuto di poter interpretare il testo in questo modo:
a) si tratterebbe di un acquisto in blocco di azienda venaliciaria;
b) nella vendita, con tutta l’attrezzatura
necessaria per questo tipo di commercio, sarebbero stati ricompresi anche degli
schiavi;
c) non si tratta di una vendita all’incanto, ma di un acquisto a
trattativa privata (tanto è vero che viene chiamata “emptio” e non “auctio”);
d) le parole “facta [es]t uti adsolet” dimostrerebbero che il
trasferimento non fu posto in essere con la forma in uso per l’ordinario
trasferimento di immobili e schiavi (mancipatio).
l’interpretazione
del documento proposta dai due illustri studiosi mi pare convincente; il testo
ricostruito riguarda un trasferimento inter
vivos di azienda venaliciaria,
cioè di un insieme di beni e uomini, organizzati da mercanti di schiavi per
l’esercizio della loro attività.
Che non si tratti di una comune vendita di un gruppo di schiavi,
come da altri[25]
sostenuto, risulta da una serie di elementi.
Il documento non attesta nessuna delle dichiarazioni previste
dall’editto degli edili curuli per la vendita dei mancipia, indispensabili nel caso di una emptio venditio di servi,
come testimoniano le altre tavolette di Ercolano[26];
la cui tab. n. LX contiene, per usare
le parole dell’Arangio-Ruiz, «una vera gemma per i romanisti»[27],
in quanto menziona testualmente l’editto annuale degli edili curuli, con una
citazione assai importante per la terminologia giuridica non derivata «certo
dalla povera inventiva di un qualunque scriba ercolanese, ma risalente senza
dubbio a schemi preparati dalla più autorevole giurisprudenza cautelare»[28].
La mancata dichiarazione dei vizi degli schiavi ricompresi in
questo atto di trasferimento inter vivos
trova giustificazione anche nel fatto che, quando l’oggetto di una vendita (o
di un altro atto di trasferimento) è costituito da un insieme di beni di
diversa natura (cose e schiavi) come l’instrumentum,
il peculium o l’hereditas, non si applicavano le norme contenute nell’editto degli
edili curuli nei confronti delle compravendite di schiavi, come attestano ulpiano e Pomponio[29]
in D. 21.1.33 pr.[30]
Quanto poi all’espressione servos
venalicios, che si legge nel documento, essa può assumere significati
diversi a seconda che si consideri il termine venalicius[31]
come aggettivo o come sostantivo. Nel primo caso, considerando cioè venalicius in forma attributiva,
l’espressione si tradurrebbe in «schiavi da vendere», vendibilis come afferma il Forcellini. quindi Herennia tertia
compra «schiavi da vendere» più altri beni (cose, edifici, ancillae, viri):
l’azienda venaliciaria.
Se invece volessimo considerare il termine venalicius come sostantivo, cambierebbe la valutazione giuridica
dell’operazione commerciale, in quanto Herennia
Tertia avrebbe così comprato schiavi
“mercanti di schiavi” più altri beni (cose, edifici, ancillae, viri): non
sarebbe più un trasferimento di azienda, ma si tratterebbe del trasferimento di
una impresa venaliciaria gestita da servi venaliciarii. Per quanto quest’ultima interpretazione risulti più
improbabile, non mi sentirei di scartarla del tutto.
In un caso o nell’altro, comunque, il testo della tab. LXIII fa pensare ad un
trasferimento, mediante compravendita, di un complesso di beni organizzati
funzionalmente per l’esercizio di una attività venaliciaria.
il
secondo testo relativo al trasferimento di azienda venaliciaria è quello contenuto in una delle tavolette riportate
nel volume IV del CIL al n. xlv:
Scriptura interior:
pag.II A ….o ……o L. Iunio cos./Vi k. Septembres
P. Alfe/nus Varus
trecena/rius Augussti scripsi/ me
accepisse ab L. Cae/cilio Iuqundo (sestertios) uigin/ti
quinque (milia) quadrin/gentos triginta
noue(m) /
nummo[s]
ex auctione ue/naliciaria P. Alfeni /Pollion«n»is
pag.III
de(curionis) N. Epri /Niciae // pro parte eius <pecu-
niae> quam / stipulatus est ex / delegatu
eorum . /
Acctum Iulianis Cos. / sta/[t]i[on]e
Nucherina.
Nomina
signatorum:
pag.IV P. Alfeni Va[ri] trecenari Augus[ti].
P. Alfeni Pollionis
T. Trausi A[….].
[P.]
Alfeni Vari / trecenari Aug(usti).
P. Alfeni Pollionis
il
documento risale all’anno del consolato di L.
Iunius Gallio, la cui data non è conosciuta, ma il degrassi[32]
ritiene che possa essere individuata in uno dei seguenti anni: 53, 54 o 55 d.C.
Dall’analisi del testo emergono i seguenti dati[33]:
1) Poiché il documento si riferisce ad una auctio venaliciaria, se
ne deduce che si tratta di un trasferimento inter
vivos attuato attraverso una vendita all’asta privata.
2) Vengono menzionati diversi soggetti: P. Alfenus Varus che è il rappresentante dei venditori, L. Caecilius Iucundus che è il coactor argentarius e, in fine, P. Alfenus Pollio e N. Eprius Nicia che sono i venditori.
3) Il documento è costituito da una dichiarazione in forma
soggettiva del creditore (chirographum)
P. Alfenus Varus, rappresentante dei
venditori (proprietari dei beni venduti all’incanto).
4) P. Alfenus Varus
rilascia una sorta di ricevuta al coactor
argentarius, L. Caecilius Iucundus, nella quale dichiara
di aver ricevuto dal banchiere il ricavato dell’auctio venaliciaria di P. Alfenus Pollio e N. Eprius Nicia.
5) Nel documento non vi è alcuna menzione del compratore o, per
meglio dire, dell’aggiudicatario.
6) Si afferma inoltre che la somma ricevuta è stata oggetto di
una precedente stipulatio, nella
quale il soggetto attivo era l’argentarius
(L. Caecilius Iucundus) ed il soggetto passivo, mai specificato, era
evidentemente l’aggiudicatario.
7) Infine, la somma versata da L. Caecilius Iucundus a P. Alfenus Varus risulta ingente:
ammontava infatti a ben 25.439 sesterzi.
Tra i personaggi menzionati nel testo il più famoso era senza
dubbio Cecilio Giocondo[34],
banchiere di Pompei vissuto all’epoca dell’imperatore Nerone. Tra le tante
attività da lui esercitate vi era anche quella di intermediario nelle vendite
all’asta (coactor argentarius).
l’intermediazione
del coactor argentarius nelle vendite
all’asta assolveva a funzioni ben precise:
- sostituirsi al dominus
nella riscossione del prezzo della cosa venduta;
- concedere, eventualmente, credito al compratore.
In questa situazione il coactor
rispondeva alla necessità di trovare un intermediario economico fra il
venditore, che non era disposto a fare credito, e il compratore che voleva
dilazionare il pagamento del prezzo[35].
A tale scopo il coactor
faceva promettere all’aggiudicatario (compratore), tramite una stipulatio argentaria, il pagamento del
prezzo per poi novare il credito del dominus,
che rimaneva così escluso da ogni pretesa verso l’acquirente.
A questo punto bisogna stabilire che cosa si intendesse per ‘auctio venaliciaria’ e, soprattutto, quale fosse l’oggetto dell’ auctio.
L’espressione ‘auctio venaliciaria’ viene interpretata
dall’Arangio-Ruiz e dal pugliese
Carratelli[36]
come trasferimento di azienda venaliciaria
mediante vendita all’incanto; l’ingente somma versata dal banchiere cecilio Giocondo ad Alfeno varo fa loro supporre che nella vendita
all’asta siano stati compresi parecchi schiavi e con essi tutta l’attrezzatura
necessaria per lo svolgimento dell’attività dei venaliciarii. I due insigni studiosi ricollegano il contenuto dell’auctio venaliciaria a quello della vendita di azienda venaliciaria descritto nella T.H.
n. lxiii. inoltre, l’Arangio-Ruiz[37]
considera i beni venduti all’incanto parte della disciolta societas venaliciaria, i cui soci erano P. Alfenus Pollio e N. Eprius
Nicia. In pratica, dopo aver sciolto la società, i due ex-soci avevano dato
l’incarico di vendere all’asta quel complesso di beni e di uomini da loro
organizzato per l’esercizio della attività venaliciaria.
L’interpretazione dell’Arangio-Ruiz è stata aspramente criticata
dall’Andreau[38],
il quale, nella sua monografia dedicata agli affari del bachiere Cecilio
Giocondo, sostiene che l’espressione ‘auctio
venaliciaria’ deve essere
interpretata come «vendita di schiavi comprati al mercato venalicium»: «l’expression désigne une vente d’esclaves achetés au
marché, le venalicium»[39].
Lo studioso francese ipotizza, inoltre, che si trattasse di una
compravendita di schiavi novicii in
quanto, basandosi su di un passo di Venuleio[40],
ritiene che nel venalicium fossero oggetto
di vendita solo schiavi ‘novizi’; distingue poi due tipologie di servi: gli schiavi venaliciaria (che per lui sono i novizi venduti nel venalicium) e quelli già in servitù
messi in vendita dai loro padroni (non si capisce però in quale luogo si commerciassero
tali tipi di schiavi)[41].
L’interpretazione dell’Andreau non mi pare convincente, in quanto
si ha l’impressione di una certa confusione a livello terminologico. Anche
perché la distinzione tra lo schiavo novicius
e il servus veterator viene enunciata da Ulpiano in D. 21.1.37[42],
quando il giurista da notizia della clausola ne veterator pro novicio veneat e riferisce dell’abitudine dei venaliciarii di “interpolare” i mancipia veterana al fine di mischiarli
tra i novizi, per venderli ad un prezzo superiore rispetto al loro valore di
mercato[43].
A me sembra di capire che sia il novicius e sia il veterator
venissero venduti allo stesso mercato e che al momento della vendita si dovesse
specificare se il mancipium
appartenesse all’una o all’altra categoria.
è pur
vero che in età tardo-repubblicana il mercato degli schiavi inizia ad apparire
come edificio autonomo, specializzato e indipendente rispetto ai mercati
generici. Tra il I sec. a.C. e l’inizio dell’età imperiale compare, infatti,
nelle fonti anche il termine per designarlo: venalicium[44].
Per quanto nelle poche fonti[45]
in cui si fa menzione di questo termine, non si specifica mai che si tratta di
un mercato specializzato nella vendita di novicii.
Inoltre, nelle fonti non compare mai l’attributo “venaliciarius” per qualificare servi novicii. Semmai tale attribuzione
risulta utilizzata per meglio qualificare un altro termine che riguardasse
l’attività svolta dai venaliciarii.
In fine, nel passo di Venuleio si discute dell’acquisto di servi novicii nel venalicium,
ma non si afferma che tale mercato fosse specializzato nella vendita esclusiva
di questo tipo di schiavi. Il giurista si occupa del caso in cui un servus considerato novicius, in quanto appena acquistato al mercato, possa ritenersi veterator se alicui ministerio praepositus sit.
Alla luce di quanto detto, mi convinco sempre di più che
l’interpretazione da seguire sia quella proposta dall’Arangio-ruiz.
Prenderò ora in considerazione i casi in cui l’attività venaliciaria venisse svolta da un servus institor praepositus alla vendita
di schiavi (“modello” di impresa a responsabilità illimitata[46]
del dominus), oppure da un servus venaliciarius con peculio
(“modello” di impresa a responsabilità limitata del dominus).
Consideriamo il primo dei due casi.
Il punto di partenza è senza alcun dubbio un passo di paolo[47]:
D. 14.3.17 pr. (Paul. 30 ad
ed.): Si quis mancipiis vel iumentis pecoribusve emendis vendendisque
praepositus sit, non solum institoria competit adversus eum qui praepositus,
sed etiam redhibitoria vel ex stipulatu duplae simplaeve in solidum actio danda
est[48].
Nella prima parte del frammento, Paolo descrive l’ambito della
fattispecie: “se qualcuno sia preposto all’acquisto e alla vendita di schiavi o
di giumenti o bestiame”. Si tratta, chiaramente, di una praepositio institoria finalizzata allo svolgimento di un
particolare tipo di negotiatio: mancipiis vel iumentis pecoribusve emendis
vendendisque. La fattispecie delineata da paolo
si riferisce, quindi, ad un servus
che esercita, in seguito alla praepositio
del dominus, anche l’attività
imprenditoriale di compravendita di schiavi[49].
Il fatto che il giurista consideri nello stesso passo sia
l’incarico di vendere e comprare schiavi, sia quelli di acquistare e vendere
giumenti o bestiame, trova la sua giustificazione nelle norme create dagli
edili curuli, i quali nel loro editto avevano stabilito l’applicabilità delle
azioni redhibitoria e quanti minoris alle sole compravendite che avessero per oggetto mancipia, iumenti pecusve.
La praepositio dell’institor poteva riguardare sia
l’esercizio di una attività svolta nell’ambito di una azienda commerciale
terrestre, sia quello inerente ad un ramo di attività commerciale non
necessariamente con sede fissa[50].
Mi pare che l’attività esercitata da questi servi institores venaliciarii possa rientrare nel “modello” di
impresa a responsabilità illimitata. In questo “modello” «il servus, perno dell’organizzazione,
svolge, come institor, la sua
attività manageriale entro l’ambito fissato dal dominus con la praepositio.
Il patrimonio impiegato dal dominus
nella negotiatio non è giuridicamente
separato dal suo patrimonio personale. La responsabilità del dominus è, appunto, illimitata»[51].
Nella seconda parte del testo, Paolo discute i problemi relativi
alla tutela dei terzi contraenti con il praepositus,
o per meglio dire con il servus institor.
Il giurista ribadisce la regola generale, introdotta dall’editto de institoria actione, della
responsabilità illimitata del preponente verso i terzi per i negozi da loro
conclusi con l’institor. Inoltre, nel
frammento, viene introdotto un nuovo principio secondo cui il preponente poteva
anche essere convenuto in solidum non solo per l’actio institoria, ma anche per la redhibitoria.
Adesso il quadro è finalmente completo; infatti il dominus che avesse preposto un servus allo svolgimento dell’attività venaliciaria era responsabile in solidum
anche per la redhibitoria. Di
conseguenza, il dominus preponente
era responsabile per l’intero, con tutto il suo patrimonio, se fosse stato
convenuto in giudizio de redhibitoria
actione. Ciò accadeva nel caso in cui il compratore avesse scoperto la
presenza di un vizio nel mancipium
acquistato; ovviamente doveva trattarsi di un vizio occulto non dichiarato al
momento della vendita dal servus institor
venditore di schiavi.
il dominus preponente rispondeva perciò, senza
alcun limite, per la mancata dichiarazione dei vizi occulti da parte del suo servus institor venaliciarius. Era
tenuto pertanto alla restituzione dell’intero prezzo pagato dal compratore per
l’acquisto dello schiavo affetto da vizio.
È risaputo che uno degli elementi portanti di questo “modello”
organizzativo è costituito dal peculio[52]
che veniva concesso dal dominus al servus.
Il peculio si configurava come «patrimonio separato»[53]
dalla restante parte del patrimonio del dominus,
che nelle fonti viene abitualmente indicata con l’espressione res domini. pur continuando ad essere di proprietà del dominus, il peculio costituiva anche il
limite patrimoniale della sua responsabilità nei confronti dei terzi creditori ex causa peculiaris[54].
L’altro elemento rilevante di questo “modello” organizzativo può
essere identificato nel servus, il
quale, come afferma A. di Porto,
«rappresenta l’organo vitale»[55]
del peculio. «Il peculium vive giuridicamente
ed economicamente attraverso l’attività di amministrazione dello schiavo, che
può concretarsi nello svolgimento di qualsiasi attività economica, non solo di
impresa»[56].
Peculio e servus
rappresentano quindi un binomio indispensabile e inscindibile per il “modello”
imprenditoriale a responsabilità limitata.
Per inquadrare l’impresa venaliciaria, organizzata secondo il
“tipo” della responsabilità limitata, che si realizzava attraverso l’esercizio
dell’attività venaliciaria da parte
di un servus cum peculio, conviene
partire dal noto passo di Ulpiano:
D. 14.4.1.1 (Ulp. 29 ad ed.): Licet mercis appellatio angustior sit, ut
neque ad servos fullones vel sarcinatores vel textores vel venaliciarios
pertineat, tamen Pedius libro quinto decimo scribit ad omnes negotiationes
porrigendum edictum[57].
Il testo, tratto dal commentario di Ulpiano al libro 29
dell’editto del pretore, riguarda una questione assai dibattuta in dottrina. in questo frammento il problema più
spinoso, che ha fatto tanto discutere gli studiosi, è quello relativo al
concetto di merx e conseguentemente
all’applicabilità dell’editto de
tributoria actione ad un numero più o meno ampio di negotiationes.
non
voglio entrare nel merito di questo dibattito, tuttora vivo nella dottrina romanistica.
Per l’impostazione del problema e le soluzioni giuridiche individuate, rinvio
allo studio condotto da A. Di Porto[58]
nella sua monografia dedicata allo “schiavo manager”,
nonché al recente lavoro di T.J. Chiusi[59],
dai quali emergono i diversi orientamenti dottrinari sull’interpretazione del
passo di Ulpiano.
Il dato per me rilevante, in questo contesto, è che nel frammento
di ulpiano si faccia esplicito
riferimento agli schiavi venaliciarii.
Mi sembra chiaro che si tratti di servi
dotati di peculio, dato che il testo, oltre ad essere inserito nel titolo IV
del Digesto De tributoria actione,
riguarda in particolare l’applicabilità dell’actio tributoria ad
attività negoziali che si dubita possano essere ricomprese nel concetto di merx peculiaris. Questi schiavi “venaliciariam vitam exerceba(n)t”[60],
esercitavano quindi quella attività professionale che consisteva nel “mancipia emere vendereque”[61]:
attività, a mio parere, intrapresa in maniera imprenditoriale. I servi venaliciarii infatti utilizzavano
il peculio, anzi la merx peculiaris,
per compiere negotiationes.
Dal testo emerge con chiarezza il dibattito giurisprudenziale
relativo all’estensione dell’editto de
tributoria actione a tutte le negotiationes
o all’esclusione di quelle che, per diversi motivi, non potevano essere incluse
nel concetto di merx. La nozione di merx riferita da Ulpiano non comprende
l’attività svolta dai servi venaliciarii, in quanto il giurista
severiano sembrerebbe concordare con il parere di Africano[62]:
D.
50.16.207 (Afr. 3 quaest.): Mercis appellatione homines non contineri
Mela ait: et ob eam rem mangones non mercatores, sed venaliciarios appellari
ait, et recte[63].
nel
significato di merce non possono essere ricompresi gli uomini, tanto è vero che
i mangones non sono considerati mercatores ma venaliciarii. Da ciò consegue che non solo i mangones, ma anche i venaliciarii
non appartenevano alla categoria dei mercatores.
Ma costoro potevano essere considerati negotiatores? Mi pare che tali li considerassero Mela e Africano;
dato che la categoria dei mercatores
si distingueva nettamente[64]
«almeno fino alla seconda metà del I sec. d.C.»[65]
da quella dei negotiatores; solo «in
età imperiale, i due termini, prima distinti, tendono a confondersi e a
diventare sinonimi»[66].
Per ritornare al problema dei servi
venaliciarii, possiamo quindi dire
che sicuramente costoro svolgevano una attività di tipo imprenditoriale, negotiatio. Ciò viene ulteriormente
confermato nella parte finale del frammento di Ulpiano, dove il giurista
afferma che Sesto Pedio riteneva l’editto de
tributoria actione applicabile a tutte le negotiationes, anche a quelle esercitate da servi fullones, servi
sarcinatores, servi textores e,
in fine, servi venaliciarii.
Non è questa la sede per stabilire se l’editto de tributoria actione venisse applicato
a tutte le negotiationes, o se invece
si dovesse escludere per quelle che rientrassero nel concetto angustior di merx menzionate da Ulpiano, a titolo esemplificativo o tassativo (a
seconda che si accolga la teoria della Chiusi[67]
o quella del Di porto[68]);
ma è certo che l’attività svolta dai servi
venaliciarii viene considerata negotiatio
da Pedio[69]
e da Ulpiano.
Si delinea quindi una realtà assai complessa nell’ambito della impresa
dei servi venaliciarii cum peculio. dall’esame di questo testo emerge
quanto segue:
1) è certa l’esistenza di imprese venaliciarie gestite da servi cum peculio (o addirittura imprese
venaliciarie che operano mediante l’uso della merx peculiaris o, per meglio dire, imprese che coincidono con la
stessa merx peculiaris);
2) l’attività svolta da questi schiavi è di tipo imprenditoriale
dove la gestione del peculio o della merx
peculiaris è finalizzata alle negotiationes;
3) l’organizzazione di questa attività rientra (per l’uso del
peculio o della merx peculiaris) nel
modello di impresa a responsabilità limitata.
Per tanto, possiamo ipotizzare che nel caso in cui il servus venaliciarius venda servi affetti da vizi, senza dichiararne
l’esistenza al compratore, il dominus
potrà essere convenuto de redhibitoria
actione, in virtù anche di quella regola enunciata da paolo in D. 14.3.17 pr. (Paul. 30 ad ed.)
(in tema di responsabilità del dominus
per i vizi degli schiavi venduti dal servus
institor venaliciarius), che ho
già analizzato in precedenza. Va da sé che il dominus sarà responsabile non in
solidum, come capitava per il caso del servus
institor venditore di schiavi, ma entro i limiti quantitativi del peculio.
Questo mio argomentare è ulteriormente confermato da altri due
passi, strettamente legati fra loro, nei quali si tratta di compravendite di servi, con venditore schiavo (o filius), con peculio.
D. 21.1.23.4 (Ulp. 1 ad ed.
aed. cur.): Si servus sit qui vendidit
vel filius familias in dominum vel patrem de peculio aedilicia actio competit:
quamvis enim poenales videantur actiones,
tamen quoniam ex contractu veniunt, dicendum est eorum quoque nomine qui in
aliena potestate sunt competere. proinde
et si filia familias vel ancilla distraxit, aeque dicendum est actiones
aedilicias locum habere[70].
D. 21.1.57.1 (Paul. 5 quaest.): Quod si servus vel filius vendiderit, redhibitoria in peculio competit.
in peculio autem et causa redhibitionis continebitur: nec nos moveat, quod
antequam reddatur servus non est in peculio (non enim potest esse in peculio servus, qui adhuc emptoris est): sed causa ipsius redhibitionis in peculio
computatur: igitur si servus decem
milibus emptus quinque milibus sit, haec quoque in peculio esse dicemus. hoc ita, si nihil domino debeat aut ademptum
peculium non est: quod si plus domino debeat, eveniet, ut hominem praestet et
nihil consequatur[71].
I due testi enunciano alcune importanti regole in merito alla
responsabilità del dominus per la
mancata dichiarazione dei vizi da parte dello schiavo con peculio venditore:
potevano, infatti, essere applicate tanto nel caso in cui ad operare fosse un servus (o un filius) con peculio preposto a svolgere l’attività venaliciaria,
tanto nel caso in cui il servo avesse ricevuto l’incarico di vendere un solo mancipium del dominus. Come risulta dalla lettura del frammento, in D. 21.1.23.4
Ulpiano evidenzia la responsabilità del dominus/pater:
«in dominum vel patrem de peculio
aedilicia actio competit». Anche nel passo di Paolo viene enunciata la
stessa regola in tema di responsabilità del dominus/pater: «redhibitoria
in peculio competit».
La fattispecie considerata da Paolo riguarda il caso in cui un servus (o un filius) con peculio abbia venduto un solo schiavo. Dopo l’acquisto,
il compratore scopre la presenza di un vizio occulto (ovviamente non dichiarato
dal servus/filius venditore al
momento della conclusione del contratto), per il quale era possibile intentare
l’actio redhibitoria[72].
il giurista conclude che il dominus/pater dovrà essere ritenuto
responsabile nei confronti dell’acquirente e quindi convenuto de peculio: «redhibitoria in peculio
competit»[73].
La responsabilità del dominus/pater-convenuto,
dal punto di vista quantitativo, non potrà essere limitata al solo ammontare
del peculio: paolo ritiene,
infatti, che nel peculio dello schiavo (o figlio) venditore debba essere
computata anche la causa redhibitionis,
cioè il servus redhibitus[74].
il
giurista, inoltre, esamina anche il caso di un dominus/pater creditore del sottoposto. Per Paolo, è indubbio che
il dominus/pater-convenuto dovrà
detrarre dal peculio l’ammontare del suo credito (secondo i principi generali
dell’actio de peculio) prima di soddisfare la pretesa dell’attore. Di conseguenza,
poteva anche determinarsi una situazione in cui il valore del credito
risultasse uguale o addirittura superiore a quello del “peculio + la causa redhibitionis”; con l’effetto per
il compratore di non riavere il prezzo versato per l’acquisto dello schiavo
affetto da vizio[75].
Analoga situazione poteva determinarsi nell’ademptio
peculii, quando il dominus avesse revocato il peculio.
Il passo si presta ad una ulteriore considerazione. Qualora la
fattispecie concreta fosse coincisa con quella astrattamente concepita da paolo nella parte finale del frammento,
ne sarebbe derivato un grande danno per il compratore, il quale sarebbe così
risultato frodato per ben due volte: una per l’acquisto di uno schiavo affetto
da vizio; la seconda per la mancata restituzione del prezzo d’acquisto a causa
del venir meno del peculio.
Per concludere, mi sembra di poter affermare che i due frammenti
attestano in maniera inequivocabile l’esistenza di una disciplina giuridica
assai complessa: si conciliavano in tal modo le regole riguardanti la
responsabilità limitata con la disciplina elaborata e fatta propria dagli edili
curuli per la dichiarazione dei vizi nella vendita degli schiavi.
[1] Per una definizione di taberna
instructa vedi il frammento di Ulpiano, D. 50.16.185 (Ulp. 28 ad ed.): ‘Instructam’ autem tabernam sic accipiemus, quae et rebus et hominibus
ad negotiationem paratis constat. Sul concetto di taberna instructa e sulle
attività imprenditoriali nell’antica roma,
rinvio ai fondamentali lavori di A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo “manager” in Roma antica.
(II a.C.-II d.C.), Milano 1984; Id.,
Filius, servus, e libertus.
Strumenti dell’imprenditore romano, in Imprenditorialità
e diritto nell’esperienza storica, (Erice 22-25 novembre 1988), a cura di
M. Marrone, Palermo 1992, pp. 231 ss.; Id.,
Il diritto commerciale romano. Una
“zona d’ombra” nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, in Nozione formazione e interpretazione del
diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof.
Filippo Gallo, III, Napoli 1997, pp. 413 ss.; F. Serrao, Impresa e
responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa 1989. Vedi anche A. Petrucci, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana, Napoli 1991;
ma soprattutto il recentissimo contributo di M.A. Ligios, “Taberna”,
“negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione
giurisprudenziale classica, in «Antecessori
oblata». Cinque studi dedicati ad Aldo Dell’Oro (con, in appendice, un inedito
di Arnaldo Biscardi), Padova 2001, pp. 23 ss.
[2] È ormai consolidata in dottrina l’opinione secondo cui la
nozione di taberna instructa,
espressa da Ulpiano in D. 50.16.185 (Ulp. 28 ad ed.), corrisponda al moderno concetto giuridico di azienda. A
tal proposito, sono assai significative le parole di A. Di Porto, Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella
storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei
commercialisti, cit., p. 442: «Per quanto riguarda taberna instructa (e instrumentum
negotiationis), è impressionante l’analogia con il moderno concetto di
azienda. Direi financo l’assonanza con l’articolo 2555 del nostro codice
civile. Vale la pena di rileggere le due nozioni, l’una sovrapposta all’altra, come
in una sorta di fotomontaggio: “Instructam
autem tabernam sic accipiemus”, “L’azienda è”, “quae et rebus et hominibus … constat”, “il complesso dei beni”, “ad negotiationem
paratis”, “organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Le
parole del codice civile suonano come una traduzione della nozione romana». Ma
vedi anche F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., pp. 21 ss., il quale aveva già evidenziato che: «Se noi andiamo
a vedere l’art. 2555 del nostro Codice Civile, troviamo definita l’azienda come
“il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa”. L’unica, peraltro ovvia, differenza rispetto alla definizione
romana è la mancanza degli homines;
nella nostra azienda c’è, o comunque ci può essere, un fascio di rapporti di
lavoro, nell’azienda romana ci sono gli schiavi».
[3] La definizione di taberna
viene elaborata da Ulpiano in D. 50.16.183 (Ulp. 28 ad ed.): ‘Tabernae’
appellatio declarat omne utile ad habitandum aedificium, non ex eo quod tabulis
cluditur. Sulla nozione di taberna
nelle fonti giurisprudenziali e letterarie rinvio a M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna
instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica, cit., pp. 27 ss.,
la quale dalla «lettura parallela di D. 50.16.183 e di D. 50.16.185» rileva
come «in questi due passi la taberna
sia considerata in due prospettive del tutto diverse: la prima definizione, non
tecnica e generica, allude semplicemente a un ambito spaziale suscettibile di
essere abitato dall’uomo, a prescindere dalla menzione di ulteriori usi che
questi può farne, mentre la seconda, tecnica e specifica, fa riferimento a un
luogo deputato all’esercizio di una negotiatio
e dotato di un complesso di beni organizzato a tal fine».
[4] Per la biografia e le opere del grande filosofo rinvio a M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, München 1927 (rist. 1966),
pp. 679 ss.; C. Marchesi, Seneca, Milano 1942; I. Lana, L. Anneo Seneca, Torino 1965; P. Grimal,
Seneca, trad. it., Milano 1992. Sul
pensiero giuridico di Seneca vedi F. Stella
Maranca, Seneca giureconsulto,
Lanciano 1926; R. Düll, Seneca iureconsultus, in ANRW II.15, Berlin-New York 1976, pp.
364 ss. (sul quale vedi le considerazioni critiche di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR 80, 1977, pp. 195 ss.); A. Mantello,
‘Beneficium’ servile - ‘debitum’
naturale. Sen., de ben. 3.18.1 ss. - D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex
post. Lab.), Milano 1979; M. Brutti, Il potere, il suicidio, la virtù. Appunti sulla ‘Consolatio ad Marciam’
e sulla formazione intellettuale di Seneca, in Seminari di storia e di diritto, a cura di A. Calore, Milano 1995,
pp. 65 ss.
[5] Per quanto attiene al significato di ‘nequam’, vedi Gellio, Noct.
Att. 6.11.1-5, nel quale lo scrittore
sottolinea l’evoluzione del significato dei termini ‘levitas’ e ‘nequitia’.
Gellio, riferisce il significato originario di ‘nequam’ tramandato dai veterum
hominum: ... et ‘nequam’ hominem
nihili rei neque frugis bonae, quod genus Graeci fere ˙¥swton vel ¢kÒlaston dicunt. Quindi, viene considerato ‘nequam’
l’uomo ‘da nulla’, l’uomo ‘non dabbene’. Al tempo di Gellio, però, il termine
ha mutato il suo significato e l’autore delle Notti Attiche riferisce che ‘nequitiam’ si usa con l’accezione di ‘sollertia astutiaque’: abilità e
astuzia. Sulle diverse accezioni del termine ‘nequitia’ e dell’aggettivo ‘nequam’
si vedano le rispettive voci redatte da E. Forcellini,
Lexicon totius Latinitatis4,
III, Bononiae-Patavii 1864-1926, (rist. an. 1965), pp. 360 ss.
[6] Nelle fonti giuridiche è possibile rinvenire numerose
attestazioni riguardanti l’operato fraudolento dei venditori di schiavi. A tale
proposito, vedi D. 21.1.1.2 (Ulp. 1 ad
ed. aed. cur.): Causa huius edicti
proponendi est, ut occurratur fallaciis vendentium et emptoribus succurratur;
D. 21.1.37 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.):
Praecipiunt aediles, ne veterator pro
novicio veneat. et hoc edictum fallaciis venditorum occurrit: ubique enim
curant aediles, ne emptores a venditoribus circumveniantur; D. 21.1.44
pr.-1 (Paul. 2 ad ed. aed.
cur.): Iustissime aediles noluerunt hominem ei rei quae minoris esset
accedere, ne qua fraus aut edicto aut iure civili fieret ... nam id genus hominum ad lucrum potius vel
turpiter faciendum pronius est, in cui si fa esplicito riferimento alle
frodi perpetrate dai commercianti di servi,
al fine di evitare l’applicazione delle sanzioni previste nell’editto degli
edili curuli.
Rinvio anche alla lettura di alcuni testi letterari, dai quali
emerge, chiaramente, una connotazione negativa del ruolo sociale e della vita
dei venditori di mancipia; tra questi
vedi soprattutto: Plauto, Capt.
98-101: nunc hic occepit quaestum hunc
fili gratia/ inhonestum et maxime alienum ingenio suo:/ homines captivos
commercatur, si queat/ aliquem invenire, suom qui mutet filium; Cicerone, de
off. 3.17.71: Nec vero in praediis
solum ius civile ductum a natura malitiam fraudemque vindicat, sed etiam in mancipiorum
venditione venditoris fraus omnis excluditur. Qui enim scire debuit de
sanitate, de fuga, de furtis, praestat edicto aedilium; Seneca, Ep. 80.9: Equum empturus solvi iubes stratum, detrahis vestimenta venalibus, ne
qua vitia corporis lateant: hominem involutum aestimas? mangones quicquid est,
quod displiceat, aliquo lenocinio abscondunt, itaque ementibus ornamenta ipsa
suspecta sunt: sive crus alligatum sive brachium aspiceres, nudari iuberes et
ipsum tibi corpus ostendi.
[7] Vedi anche Plauto, Curcul.
4.1.481. Cfr. E. De Ruggiero, v. “Aedilis”, in DE 1, (rist. anastatica) Roma 1961, p. 234; F. Coarelli, Guida archeologica di Roma, Milano 1974, pp. 82 s.; F. Serrao, Impresa, mercato, diritto. Riflessioni minime, in Mercati permanenti e mercati periodici nel
mondo romano. Atti degli incontri capresi di storia dell’economia antica (Capri
13-15 ottobre 1997), a cura di E. Lo Cascio, Bari 2000, p. 35 n. 12, il
quale rileva che: «proprio nel tempio di Castore, quindi vicino al mercato
degli schiavi, oltre ad alcuni negozi di banchieri, vi fosse un ufficio
certamente controllato dagli edili, quale l’ufficio dei pesi e misure».
[8] Sulla taberna come
sede di negotiationes vedi A.D. Manfredini, Costantino la ‘tabernaria’ il vino, in Atti del VII convegno internazionale dell’Accademia Romanistica
Costantiniana (Spello-Perugia-Norcia, 16-19 ottobre 1985), Napoli 1988, p.
328, il quale afferma: «Il termine taberna
… comunemente indica l’edificio in cui si svolge una qualsivoglia negotiatio … Il nome della negotiatio, unito a taberna, specifica i diversi tipi di bottega: t. purpuraria, casiaria, ferraria, lanionis». Ma soprattutto rinvio (anche
per la ricostruzione del dibattito della dottrina sul tema e la bibliografia
ivi citata) al fondamentale lavoro di M.A. Ligios,
“Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum
instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica,
cit., pp. 42 ss., la quale, dopo aver analizzato le fonti letterarie e
giurisprudenziali sull’argomento in questione, ritiene che: «nella taberna si esercita il commercio o si
svolgono determinate attività artigianali e professionali». Inoltre,
[9] L’espressione venaliciariam
vitam exercere viene utilizzata, efficacemente, dal giurista Ulpiano per
qualificare l’attività lavorativa dei commercianti di schiavi in D. 32.73.4
(Ulp. 20 ad Sab.): Eum, qui venaliciariam vitam exercebat, puto
suorum numero non facile contineri velle eiusmodi mancipia, [nisi evidens voluntas
fuit etiam de his sentientis]: nam quos quis ideo comparavit, ut ilico
distraheret, mercis magis loco quam suorum habuisse credendus est.
[10] Sulla nozione di negotiator
e di negotiatio, utilizzo gli
elementi qualificativi (adattandoli al caso specifico della attività dei venaliciarii) individuati da A. Di Porto,
Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e nelle riflessioni
storico-comparative dei commercialisti, cit., p. 442: «Iniziamo da negotiator (exercitor) e negotiatio.
Sembrano essere caratterizzate dai seguenti elementi: - dalla continuità
dell’esercizio …; - dall’esistenza di una certa organizzazione, di uomini e
cose, finalizzata all’esercizio della negotiatio;
- dal fine di lucro, dal quaestus».
Sul significato dei sostantivi negotiator
e negotiatio nel linguaggio dei
giuristi romani vedi anche F. Serrao,
Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., pp. 21 ss.; M.A. Ligios,
“Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum
instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica,
cit., pp. 50 ss., la quale è fermamente convinta che il concetto di ‘negotiatio’ non riguardi il settore
della produzione (in part. vedi 53 ss.). Al riguardo mette conto sottolineare
che M.A. Ligios non condivide
quanto sostenuto da A. Di Porto, op. ult. cit., p.
[11] Il giureconsulto severiano è stato oggetto di innumerevoli studi
da parte della dottrina romanistica. Si fa per tanto rinvio, per contenuti e bibliografia
ivi citata, a G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del
giurista, in ANRW II.15,
Berlin-New York 1976, pp. 708 ss. (su cui vedi le considerazioni critiche di M.
Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, cit., pp. 236-249); T. Honoré, Ulpian, Oxford 1982. Più recente: V. Marotta, Ulpiano e
l’impero, I, Napoli 2000. Sulla formazione stoica del giurista vedi: U. Manthe, Beiträge zur Entwicklung des antiken gerechtigkeitsbegriffes
II: Stoische Würdigkeit und iuris praecepta Ulpians, in ZSS 114, 1997, pp. 1 ss. Sul pensiero di
Ulpiano in tema di schiavitù vedi A. Schiavone,
Legge di natura o convenzione sociale? Aristotele, Cicerone, Ulpiano
sulla schiavitù-merce, in Schiavi e
dipendenti nell’ambito dell’«oikos» e della «familia». Atti del XXII Colloquio GIREA, Pontignano
19-20 novembre
[12] Per quanto riguarda l’instrumentum
fundi e sistemi organizzativi
dell’impresa agricola si veda la recente monografia di M.A. Ligios, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’“instrumentum fundi”
tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C., Napoli 1996 (ivi anche bibliografia
precedente).
[13] D. 33.7.12.1 (Ulp. 20 ad
Sab.): Conservandi fructus causa,
veluti granaria, quia in his fructus custodiuntur, urceos capsellas, in quibus
fructus componuntur: sed et ea, quae expordandorum fructuum causa parantur,
instrumenti esse constat, veluti iumenta et vehicula et naves et cuppae et
culei.
[14] v. Arangio-ruiz- G.
Pugliese Carratelli, Tabulae
Herculanenses. IV, in
[15] Vedi l’episodio descritto in D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.): socius cum resisteret
communibus servis venalibus ad fugam erumpentibus, vulneratus est: impensam,
quam in curando se fecerit, non consecuturum pro socio actione labeo ait, quia id non in societatem,
quamvis propter societatem inpensum sit, sicuti si propter societatem eum
heredem quis instituere desisset aut legatum praetermisisset aut patrimonium
suum neglegentius administrasset: nam nec compendium, quod propter societatem
ei contigisset, veniret in medium, veluti si propter societatem heres fuisset
institutus aut quid ei donatum esset.
[16] Di grande interesse, al riguardo, il frammento di Papiniano D.
17.1.57 (Pap. 10 resp.): Mandatum distrahendorum servorum defuncto
qui mandatum suscepit intercidisse constitit. quoniam tamen heredes eius errore
lapsi non animo furandi sed exsequendi, quod defunctus suae curae fecerat,
servos vendiderant, eos ab emptoribus usucaptos videri placuit. sed
venaliciarium ex provincia reversum Publiciana actione non inutiliter acturum,
cum exceptio iusti dominii causa cognita detur neque oporteat eum, qui certi
hominis fidem elegit, ob errorem aut imperitiam heredum adfici damno.
[17] Cfr. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae
1889, fr. 827, col. 590. Sul
frammento di Ulpiano vedi, tra tutti, A. Di
Porto, Impresa collettiva e schiavo “manager”
in Roma antica, cit., p. 64 n. 1; Id.,
Il diritto commerciale romano. Una
“zona d’ombra” nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 442 s.;
F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, cit., pp. 21
s.; M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum
instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica,
cit., pp. 107 ss.
[18] per la nozione di
‘documento’ si fa rinvio a M. Talamanca,
v. “Documento e documentazione
(diritto romano)”, in ED 13,
1964, pp. 548 ss.; L. Bove, v. “documento
(storia del diritto)”, in Digesto
delle discipline privatistiche (sez. civile) 7, 1991, pp. 13 ss.
[19] Sulla struttura dei documenti di epoca classica e la
bibliografia sull’argomento, vedi M. Talamanca,
v. “Documento e documentazione
(diritto romano)”, cit., pp. 548 ss.; L. Bove,
v. “documento
(storia del diritto)”, cit., pp. 18 s.
[20] v. Arangio-ruiz - G.
Pugliese Carratelli, Tabulae
Herculanenses. IV, cit., p. 57.
[21] M. Della Corte, Tabelle cerate ercolanesi,
in
[22] M. Della Corte, Tabelle cerate ercolanesi, cit., p. 229. Per quanto riguarda la
ricostruzione della L. 2 ipotizza: «‘[in foro ven]alicio’».
[23] Cfr. v.
Arangio-ruiz, Les tablettes d’Herculanum, in Revue
Internationale des Droits de l’Antiquité 1, 1948, pp. 9 ss.
[24] v.
Arangio-ruiz- G. Pugliese Carratelli, Tabulae Herculanenses. IV, cit.,
p. 63.
[25] J. Andreau,
Les affaires de monsieur jucundus, Roma 1974, pp. 107 s.
[26] Come nel caso della vendita di una puella riportata nella tavoletta n. LX in
cui si legge: [———] L. Canini Taurisci\[———]*i
Myronis (vacat)\[eam pu]ellam q. s. s. est sanam
es[se],\[furtis]noxaque solutam, fugiti[vam]\[erronem] non esse praest[ari,
vel quan]\[ta]m pecuniam ex [i]mp[e]rio aedi\[liu]m curulium ita uti adsolet\[h]oc anno de mancipi emundis
\[vendu]ndis cauta conprehensaque\[est] dari, haec sic recte dar[i]\[fieri]que
stipulata est Calatoria\[Themi]s, spopondit C. Iulius Phoebus. Dalla lettura del testo appare evidente che nel documento
venivano riportate tutte le dichiarazioni previste dall’editto degli edili
curuli per la vendita degli schiavi: “sanam
esse, furtis noxaque solutam, fugitivam erronem non esse praestari”. Si
vedano anche le t.h. n. LXI e n. LXII.
[27] v. Arangio-ruiz-G.
Pugliese Carratelli, Tabulae Herculanenses.
IV, cit., p. 59.
[28] v. Arangio-ruiz-G.
Pugliese Carratelli, Tabulae
Herculanenses. IV, cit., p. 59.
[29] Sul giurista Pomponio si rinvia agli studi di D. Nörr, Pomponius oder “Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen”,
in ANRW II.15, Berlin-New York 1976,
pp. 497 ss. (vedi anche le considerazioni critiche di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, cit., pp. 261 ss.); M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani2, Napoli 1982, pp. 209
ss.; F. Casavola, Giuristi adrianei, (con Note di prosopografia e bibliografia su
giuristi del II secolo d.C., a cura di G. De Cristofaro), Napoli 1980, pp.
71 s., 130 ss., 314 ss. (ivi accurata bibliografia precedente); R.A. Bauman, Lawyers and politics in the
early Roman Empire, München 1989, pp. 287 ss. I frammenti delle opere di Pomponio sono ordinati e raccolti da o. lenel,
Palingenesia iuris civilis, II, cit.,
coll. 15 ss.
[30] D. 21.1.33 pr. (Ulp. l
ad ed. aed. cur.): Proinde Pomponius ait iustam causam esse, ut quod in venditione
accessurum esse dictum est tam integrum praestetur, quam illud praestari debuit
quod principaliter veniit: nam iure civili, ut integra sint quae accessura
dictum fuerit, ex empto actio est, veluti si dolia accessura fundo dicta
fuerint. sed hoc ita, si certum corpus accessurum fuerit dictum: nam si servus
cum peculio venierit, ea mancipia quae in peculio fuerint sana esse praestare
venditor non debet, quia non dixit certum corpus accessurum, sed peculium tale
praestare oportere, et quemadmodum certam quantitatem peculii praestare non
debet, ita nec hoc. eandem rationem facere Pomponius ait, ut etiam, si
hereditas aut peculium servi venierit, locus edicto aedilium non sit circa ea
corpora, quae sunt in hereditate aut in peculio. idem probat et si fundus cum
instrumento venierit et in instrumento mancipia sint. puto hanc sententiam
veram, nisi si aliud specialiter actum esse proponatur.
[31] E. Forcellini, s.v.
“Venalicius”, in Lexicon totius Latinitatis, cit., p. 560.
[32] A. Degrassi, I fasti consolari dell’impero romano,
[33] Sull’interpretazione del testo epigrafico vedi soprattutto M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico,
in Atti della Accademia Nazionale dei
Lincei, Memorie, serie VIII, 6,
Roma 1954, pp. 110 ss.
[34] Su Cecilio Giocondo rinvio soprattutto alla monografia di J. Andreau, Les affaires de monsieur jucundus, cit. supra in n. 25. Vedi anche M. Talamanca,
Contributi allo studio delle vendite all’asta
nel mondo classico, cit., pp. 110 ss.
[35] Cfr. M. Talamanca,
Contributi allo studio delle vendite
all’asta nel mondo classico, cit., pp. 110 ss.
[36] v. Arangio-ruiz- G.
Pugliese Carratelli, Tabulae
Herculanenses. IV, cit., p. 63.
[37] v. Arangio-ruiz, La società in diritto romano, Napoli
1950, p. 142 n. 1.
[38] J. Andreau,
Les affaires de monsieur jucundus, cit., p. 108 n. 1.
[39] J. Andreau,
Les affaires de monsieur jucundus, cit., p. 108: «L’expression
désigne une vente d’esclaves achetés au marché, le venalicium. Elle indique de manière indubitable que ces esclaves ne
sont pas des vernae».
[40] D. 21.1.65.2 (Ven. 5 act.): servus tam veterator quam novicius dici
potest. sed veteratorem non spatio serviendi, sed genere et causa aestimandum
Caelius ait: nam quicumque ex venalicio noviciorum emptus alicui ministerio
praepositus sit, statim eum veteratorum numero esse: novicium autem non
tirocinio animi, sed condicione servitutis intellegi. nec ad rem pertinere,
Latine sciat nec ne: nam ob id veteratorem esse, si liberalibus studiis eruditus sit.
[41] J. Andreau,
Les affaires de monsieur jucundus, cit., p. 108 n. 2.
[42] D. 21.1.37 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.): Praecipiunt
aediles, ne veterator pro novicio veneat. et hoc edictum fallaciis venditorum
occurrit: ubique enim curant aediles, ne emptores a venditoribus
circumveniantur. ut ecce plerique solent mancipia, quae novicia non sunt, quasi
novicia distrahere ad hoc, ut pluris vendant: praesumptum est enim ea mancipia,
quae rudia sunt, simpliciora esse et ad ministeria aptiora et dociliora et ad
omne ministerium habilia: trita vero mancipia et veterana difficile est
reformare et ad suos mores formare. quia igitur venaliciarii sciunt facile
decurri ad noviciorum emptionem, idcirco interpolant veteratores et pro
noviciis vendunt. quod ne fiat, hoc edicto aediles denuntiant: et ideo si quid
ignorante emptore ita venierit, redhibebitur.
[43] Cfr. F. Serrao, Impresa, mercato, diritto. Riflessioni
minime, cit., p. 46.
[44] I termini latini usati per indicare i mercati di schiavi sono venalicium e statarium:
- venalicium compare
sia nelle fonti giuridiche, D. 21.1.65.2 (Ven. 5 act.), sia in quelle
letterarie ed epigrafiche, Petronio, Sat.
29.3; CIL VI. 396-399;
- statarium è il
corrispondente latino della parola greca ‘statarion’.
il termine ‘statarion’/statarium è noto solo dalla documentazione epigrafica
proveniente dall’Asia Minore. L’uso del vocabolo statarium viene attestato in un’unica epigrafe dell’età tiberiana,
rinvenuta ad Efeso (pubblicata in Forschungen
in Ephesos, III, 25-26, Wien 1923, p. 114).
Sicuramente il termine
venalicium era maggiormente adoperato nel mondo romano, mentre il
sostantivo statarium doveva essere
più frequente nelle regioni dell’oriente mediterraneo,
dove esistevano numerosi ‘centri di smistamento’ di schiavi.
A Roma i principali mercati di schiavi erano situati nel Campo di
Marte (Marziale 9.60; 2.14) e nei pressi del tempio di Castore (Plauto, Curc. 4.1.481; Seneca, Const. sap. 2.13.14). Esistevano però
anche mercati specializzati nella vendita di particolari tipi di mancipia, come quelli in cui venivano
vendute solo le donne (nella via Sacra e nei pressi del tempio di Venere:
Plauto, Curc. 4.1.481; Marziale
2.63).
Per quanto concerne i mercati di schiavi nel mondo romano si
vedano M. Cocco, Sulla funzione dell’“Agorà degli Italiani”
di Delo, in
[45] Petronio, Sat. 29.3: Erat autem venalicium <cum> titulis
pictis, et ipse Trimalchio capillatus caduceum tenebat Minervamque ducente
Romam intrabat. Si veda anche D. 21.1.65.2 (Ven. lib. 5 act.). venalicium
nelle fonti epigrafiche: CIL VI. 396, 397, 398, 399.
[46] Per quanto attiene alle attività imprenditoriali organizzate
secondo il modello a responsabilità illimitata vedi, tra tutti, i lavori di A.
Di Porto, Impresa
collettiva e schiavo “manager” in Roma antica,
cit., pp. 63 ss.; Id., Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e nelle riflessioni
storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 413 ss.
[47] Sulla figura del giurista paolo
si rinvia a C.A. Maschi, La conclusione della giurisprudenza classica
all’età dei Severi. Iulius Paulus, in ANRW
II.15, Berlin-New York 1976, pp. 667 ss., da leggere con la recensione di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, cit., pp. 221 ss. Del
giurista si occupa anche il saggio di A. Mantello,
Il sogno, la parola, il diritto. Appunti
sulle concezioni giuridiche di Paolo,
in BIDR 94-95, 1991-1992, pp. 349 ss.
[48] Cfr. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae
1889, fr. 457, col. 1024. Sul passo rinvio alla più recente analisi di F. Serrao, Impresa, mercato, diritto. Riflessioni minime, cit., pp. 53 ss.
[49] Vedi F. Serrao, Impresa, mercato, diritto. Riflessioni
minime, cit., p. 54, il quale afferma: «la figura più diffusa perché più
funzionale giuridicamente era quella del servus
praepositus, ma ormai al tempo di Paolo spesso avveniva che lo schiavo
manomesso continuasse da liberto, ad esercitare le funzioni manageriali già
svolte in servitù».
[50] Vedi D. 14.3.3 (Ulp. 28 ad
ed.): Institor appellatus est ex eo,
quod negotio gerendo instet: nec multum facit, tabernae sit praepositus an
cuilibet alii negotiationi; e D. 14.3.18 (Paul. lib. sing. de var. lect.): Institor
est, qui tabernae locove ad emendum vendemdumve praeponitur quique sine loco ad
eundem actum praeponitur.
[51] A. Di Porto, Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella
storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei
commercialisti, cit., pp. 423 s.
[52] Sull’origine del peculio e il suo impiego a fini imprenditoriali
vedi F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella
storia di Roma, I, Napoli 1984, p. 298; Id.,
Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., pp. 27 ss.; A. Di
Porto, Impresa collettiva e schiavo “manager” in Roma antica, cit., pp. 42
ss.; Id., v. “Peculio”, in Enciclopedia Virgiliana IV, Roma 1998, pp. 2 ss.; Id., Il
diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 424 ss.
[53] Riporto l’espressione di A. Di
Porto, Impresa collettiva e schiavo “manager” in Roma antica, cit., p. 54:
«Il peculium è un patrimonio separato
del dominus, separato dal restante
suo patrimonio, la res domini, e che
costituisce un autonomo centro di imputazione giuridica».
[54] Cfr. F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., p. 18, il quale inoltre afferma che: «la formazione di
grandi patrimoni e l’espansione delle attività economiche da una parte,
l’enorme diffusione della schiavitù dall’altro fecero sì che, onde dare una
certa protezione ai terzi che avevano concluso affari e negozi col filius o col servus, cui il pater o il
dominus aveva affidato la gestione di
una parte (piccola o grande non conta) del proprio patrimonio, il peculium, appunto separata dall’altra
rimasta nella sua gestione diretta, ossia dalla res domini (o patris), il
pretore creasse l’actio de peculio et de
in rem verso, con la quale il terzo contraente col filius o col servus
poteva convenire il pater o il dominus nei limiti del peculio e/o di
ciò che dal sottoposto era stato conseguito ex
causa peculiari ed era stato versato nel patrimonio (res) personale del pater
o del dominus». Vedi anche A. Di Porto,
Impresa collettiva e schiavo “manager” in Roma antica, cit., p. 57,
il quale ricostruisce efficacemente il quadro complesso dei fenomeni, che danno
origine alle creazioni edittali relative all’actio de peculio et de in rem
verso ed all’actio tributoria, «caratterizzato da una concezione giuridica di
fondo: la separazione fra i patrimoni di uno stesso titolare, il dominus, realizzata - ecco l’originalità
della concezione stessa - mediante l’impiego degli schiavi come “organi” dei
patrimoni medesimi»; Id., Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e nelle riflessioni
storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 424 ss.
[55] Rinvio ai fondamentali lavori di A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo “manager” in Roma antica, cit., p. 54,
il quale utilizza il termine ‘organo’ per indicare lo schiavo, non in senso
generale, ma riferito in maniera specifica al peculio: «Il peculium è un patrimonio separato del dominus [...] di tale patrimonio il servus rappresenta, si può dire, l’organo vitale. E da ciò deriva
l’assoluta originalità di tale fenomeno giuridico romano»; Id., Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella
storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei
commercialisti, cit., p. 424, il quale, inoltre, afferma: «Ma, se il servus è l’organo del peculio e se, in definitiva,
è essenzialmente “nelle sue mani” l’andamento positivo (peculium crescit) o negativo (peculium
decrescit) del peculio, il dominus
è e rimane il proprietario del peculio. E, come tale, ben può, in qualsiasi
momento, por fine all’attività del sottoposto “revocando” il peculio mediante
l’ademptio peculii, o vendere il servus, includendo o meno nella vendita
il peculio; o, ancora, liberare, mediante manumissio,
il servus, dandogli o meno, a sua
scelta, il peculio, e così via».
Sull’utilizzazione del termine ‘organo’ per individuare il servus in generale vedi B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, p. 141.
[56] A. Di Porto, Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella
storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei
commercialisti, cit., pp. 424.
[57] Cfr. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit.,
fr. 836, col. 591. Sul passo di Ulpiano vedi A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo “manager” in Roma antica, cit., pp. 219
ss.; Id., Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella
storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei
commercialisti, cit., pp. 434 ss.; T.J. Chiusi,
Contributo allo studio dell’editto
“de tributoria actione”, in “Memorie
Acc. Lincei”, serie IX, III, fasc. 4, Roma 1993, pp. 277 ss. (da leggersi
con rec. di M. Talamanca, in BIDR 96-97, 1993-1994, pp. 698 ss.);
M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna
instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica, cit., pp. 59 ss.
[58] A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo
“manager” in Roma antica, cit., pp. 225 ss.
[59] T. J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de
tributoria actione”, cit., pp. 277 ss.
[60] Riporto l’espressione utilizzata da Ulpiano in D. 32.73.4 (Ulp.
20 ad Sab.) per qualificare la
professione dei venditori di mancipia.
[61] Seneca, De const. sap.
2.13.4.
[62] Sul giurista Sesto Cecilio Africano vedi W. Kalb, Roms Juristen. Nach ihrer Sprache Dargestellt, Leipzig 1890, pp. 66
ss. Rinvio comunque ai più recenti contributi di A. Wacke, Dig. 19, 2, 33:
Afrikans Verhältnis zu Julian und die Haftung für höhere Gewalt, in ANRW II.15, Berlin-New York 1976, pp.
455 ss.; e di F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel secondo
secolo d.C.: il senso del passato, in ANRW
II.15, cit., pp. 131 ss. [ora in Id.,
Giuristi adrianei, cit., pp. 8 ss.] da leggersi con le
recensioni di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana,
cit., pp. 277 ss. Da ultimo vedi F. Casavola,
Gellio, Favorino, Sesto Cecilio,
in Giuristi adrianei, cit., pp. 75
ss., 324 ss., al quale si rinvia anche per l’ampia bibliografia ivi citata.
Per i frammenti superstiti del giurista Africano vedi o. lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
coll. 1 ss., frr. 1 - 122; ph. Huschke -
e. Seckel - b. Kübler, iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae6, I, Lipsiae 1908, pp. 97 ss.
[63] Cfr. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., fr.
23, col. 6.
[64] Al riguardo, si veda Cicerone, Verr. II.2.188: Postulo ut
mihi respondeat qui sit is Verrucius, mercator an negotiator an arator an
pecuarius, in Sicilia sit an iam decesserit. clamare omnes ex conventu neminem
umquam in Sicilia fuisse Verrucium; Planc.
64: Frumenti in summa caritate maximum
numerum miseram; negotiatiribus comis, mercatoribus iustus, mancipibus
liberalis, sociis abstinens omnibus eram visus in omni officio diligentissimus;
excogitati quidam erant a Siculis honores in me inauditi. Dalla lettura dei
due passi appare evidente che nel pensiero del grande oratore i concetti di mercator e negotiator fossero nettamente distinti.
[65] T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de
tributoria actione”, cit., p. 317. Sul punto vedi anche W.E. Boese, A Study of the Slave trade and the Sources of Slaves in the early Roman
Empire, Washington 1973; P. Baldacci,
Negotiatores e mercatores
frumentarii nel periodo imperiale, in Ist. lomb. Sc. e Lett. 161,
1967, pp. 273 ss.; J. Andreau, Les Affaires de Monsieur Jucundus, cit.,
pp. 223 ss.; S. Treggiari, Urban labour in Roma: mercenarii and
tabernarii, in Non Slave Labour in
the Greco-Roman World, Cambridge 1980, pp. 48 ss.; A. Bürge, Fiktion und Wirklichkeit: Soziale und rechtliche Strukturen des
römischen Bankwesen, in SZ 104,
1987, pp. 488 ss.; E. Jakab, Praedicere und cavere
beim Marktkauf, München 1997, pp. 16 ss.
[66] T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de
tributoria actione”, cit., p. 317 n. 112.
[67] T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de
tributoria actione”, cit., p. 317.
[68] A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo
“manager” in Roma antica, cit., pp. 225 ss.
[69] Sul giurista Sesto Pedio vedi: C. Ferrini, Sesto Pedio,
in Opere, II, Milano 1929, pp. 39
ss.; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, cit., p. 766; A. Berger, v. “Pedius”, in PW 19,
Stuttgart 1937, coll. 41 s.; G.
Per i frammenti rinvio a o.
lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., coll. 1 ss.; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae,
II, ii, Lipsiae 1901, pp. 79 ss.;
ph. Huschke - e. Seckel - b. Kübler,
iurisprudentiae,
I, cit., pp. 89 ss.
[71] Cfr. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., fr.
1329, coll. 119 s.
[72] Sull’actio redhibitoria
vedi in particolar modo W.W. Buckland,
The Roman law of slavery, Cambridge
1908, pp. 59 ss.; R. Monier, La garantie contre les vices, Paris 1930, pp. 59 ss.; A. Pezzana, D. 21, 1, 45. Contributi alla dottrina romana dell’actio redhibitoria, in risg, serie III, 5, 1951, pp. 275 ss.;
F. Pringsheim, The decisive moment for Aedilician liability, in Rida 5, 1952, pp. 545 ss.; v. Arangio-ruiz,
La compravendita in diritto romano,
Napoli 1954, pp. 369 ss.; G. Impallomeni,
L’editto degli edili curuli, Padova
1955, pp. 137 ss.; A.M. Honoré, The history of the Aedilitian actions from
Roman-dutch law, in Studi De Zulueta, Oxford 1959, pp. 132
ss.; D. Pugsley, The Aedilician Edict, in A. Watson (a
cura di), Daube Noster, Edinburgh -
London 1974, pp. 253 ss.; A. Watson,
Sellers’ Liability for Defects:
Aedilician Edict and Pretorian law, in Iura
38, 1987, pp. 167 ss.; L. Manna,
“Actio redhibitoria” e responsabilità per
vizi nell’editto “de mancipiis vendundis”, Milano 1994, pp. 173 ss.; R. Zimmermann,
The Law of Obligations. Roman
Foundations of the Civilian Tradition, Oxford 1992 (rist. 1996), pp. 317
ss.; N. Donadio, Sull’“actio redhibitoria”, in
Index 25, 1997, pp. 649 ss.;
L. Garofalo, “Redhibitoria actio duplicem habet condemnationem” (a proposito di Gai. ad ed. aed. cur. D. 21,1,45), in Atti del Convegno sulla Problematica contrattuale in diritto romano,
Milano 11-12 maggio
[73] D. 21.1.57.1 (Paul. 5 quaest.).
[74] Sul punto cfr. G. Impallomeni,
L’editto degli edili curuli, cit., pp. 151 s.
[75] Vedi G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., p. 152, il quale afferma: «Ne
potrà risultare la strana ipotesi che l’attore redibisca il servus (che viene così a far parte del
peculio) e non ottenga in compenso nulla, se il convenuto pater (o dominus) vanti
verso il sottoposto un credito uguale o maggiore al valore del peculio».