N° 1 - Maggio 2002 - Tradizione
Attilio
Mastino
Università di Sassari
Persistenze preistoriche e sopravvivenze romane nel Condaghe
di San Pietro di Silki*
(*) Atti
del Convegno sulla Sardegna giudicale, Sassari 2002 (in corso di stampa).
Il Condaghe San Pietro di Silki è un
documento straordinario, che però non ha fin qui suscitato il minimo interesse
da parte degli storici dell’antichità: al tema dell’esame delle sopravvivenze
romane e delle tracce di più antiche tradizioni preistoriche che esso conserva
sarà in particolare dedicato questo intervento, che io stesso considero
assolutamente preliminare verso un esame più ampio dell’insieme della
documentazione giudicale. Con qualche titubanza mi raccomando da subito alla
benevolenza ed all’indulgenza degli specialisti, con la riserva da parte mia di
estendere e di approfondire in futuro la ricerca e la documentazione[1].
Già Francesco Cesare Casula ha osservato
che i condaghi sono espressione di una «spiccata atmosfera romanza»[2]:
in particolare nel Regno del Logudoro (durante gli anni dei giudici Barusone,
Mariane, Gosantine, Gunnari, Barusone III, Gosantine II, Mariane II)[3],
i condaghi documentano usi e tradizioni di età bizantina, di età romana o
addirittura di età preistorica, che si possono leggere in filigrana attraverso
la documentazione scritta.
Benvenuto Terracini spiegava molti
fenomeni linguistici della Sardegna con l’isolamento secolare dell’isola, che
ha determinato quella «tendenza arcaicizzante» del sardo che conferisce ai
primi documenti «un aspetto quasi esotico»[4]:
eppure egli stesso raccomandava prudenza, perché il «fallace aspetto latino»
dei primi documenti in lingua sarda talora potrebbe trarre in inganno; così
l’esame dei dati del Condaghe di San Pietro di Silki non può prescindere dalla
piena consapevolezza del rischio che alcune apparenti continuità possano in
realtà nascondere profonde trasformazioni semantiche e funzionali che le parole
hanno subito nel corso dei secoli, in particolare nel passaggio dall’età
tardo-antica a quella bizantina e medioevale. In questa sede lasceremo da parte
gli aspetti più generali, di tipo linguistico ed etnografico, che sono stati
anche di recente oggetto di studi fondamentali, che hanno potuto accertare
l'impianto sostanzialmente «romano» e bizantino della cultura sarda di età
giudicale[5];
e ciò soprattutto in un'area a ridosso della colonia di Turris Libisonis, in un
ambito geografico caratterizzato culturalmente come il più «romano» dell'isola,
che ha lasciato traccia evidente anche nella denominazione di una curatoria: il
termine Romania (oggi Romangia)
compare già pienamente documentato proprio nel Condaghe di S. Pietro di Silki,
con riferimento ad un'area circoscritta che potrebbe conservare il nucleo delle
assegnazioni terriere ai coloni di Turris Libisonis[6].
Si può partire dalle vecchie osservazioni
di Camillo Bellieni a proposito della storia lunga dell'isola e della
bipartizione della società giudicale tra liberi e servi, una realtà sociale
composita e pluristratificata, fatta di lieros
e di servos, i cui interessi sono
spesso in conflitto tra loro. E’ stato già osservato che gli stessi due gruppi,
poi, dovevano essere al loro interno meno compatti di quanto non si immagini,
aperti ad una qualche forma di mobilità sociale, esito di una lentissima
evoluzione storica. Tra i liberos/lieros compaiono
ben un centinaio di volte nel Condaghe di San Pietro di Silki i Donnos come gli Athen, i Carbia, i Gitil, i Gunale, i Lacon; famiglie
particolarmente benestanti erano anche i de
Thori, i Serra, i Kerki[7]:
alcuni dei loro nomi conservano il ricordo di città e villaggi che talora erano
già abbandonati o che presto lo sarebbero stati. E’ stato recentemente osservato che i lieros maiorales, zoccolo duro dell’oligarchia giudicale[8],
si distinguevano anche nell’onomastica dalle classi sociali inferiori: i nomi Comita, Ithoccor, Dericcor sembrano
spesso esclusivi dell’aristocrazia giudicale, portati da ricchi esponenti di
alcune famiglie come i Mularia[9],
che ricordano evidentemente un’origine locale: in questo caso dalla città
romana di Molaria, oggi Mulargia[10],
sulla via a Caralibus Turrem, tra Hafa e Ad Medias[11].
Allo stesso modo i de Caruia[12]
portano un cognome che va connesso con Carbia[13],
la stazione stradale ricordata nel III secolo d.C. sulla strada a Tibula Sulcos, lungo la costa
occidentale della Sardegna,
Più incerto è il caso del diffusissimo
cognome de Gitil, portato da nobili
personaggi che hanno il nome di Dericcor,
Furatu, Donna Bera (vigna di Ortu Donnicu),
donna Jorgia, Gosantine, Bosouekesu, Gunnari, Mabrikellu, Comita, Saltaro, ecc.[20];
così come il nome Gitilesu[21],
il cognome è certamente derivato dalla villa di Gitil nel Marghine.
Il Condaghe di San Nicola di Trullas (che
ci fa conoscere una Balle de Gitilesu[22], la villa di Gitil, un Comita de Gitil ed
altri suoi parenti[23])
ricorda la controversia che oppose Gitil,
Mulargia, Bortigali alla chiesa di S. Nicola di Trullas (Semestene) per il
possesso del salto di Sant'Antipatre sul Monte Tirare (Santu Padre di
Bortigali) [24].
Massimo Pittau localizza Gitili a
Santa Maria di Sauccu, presso il Nuraghe Idile, il cui etimo è spiegato nel
senso di «pozza d’acqua»[25]:
la localizzazione appare persuasiva ed ancora oggi le colline vicine conservano
tracce evidenti delle aree coltivate a frumento in età medioevale. Pittau
immagina vie di transumanza per il bestiame lungo la vallata del Rio Mannu di
Cuglieri, dove sono documentati i Giddilitani,
su un cippo di confine di età sillana[26].
Il collegamento di Gitil con il nome
dei Giddilitani, attestato fin dai
primi decenni del I secolo a.C. lungo il Rio Mannu tra Cuglieri e Tresnuraghes,
in realtà non è certo: sarebbe abbastanza sorprendente che dall’occlusiva
sonora Giddilitani originaria si sia
giunti all’occlusiva sorda Gitil in epoca tardo-antica.
Analoga complessità aveva il gruppo dei servos: intregos, lateratos, pedatos[27].
Per Ignazio Delogu le consuetudini giuridiche locali, espressione del diritto
romano classico, sopravvivevano fondamentalmente a tutela delle classi proprietarie, ma non
lasciavano senza difese la classe dei servos.
Ritorna il tema dei matrimoni liberi-servi e del destino del fetus di donna libera sposata con un
servo: una delicata questione giuridica, la cui regolamentazione appare
limpidamente attestata nel Condaghe. I servi possono essere prebiteros (preti come Jorgi Maiule nella scheda 47), monache, mastros; praticano i mestieri
artigiani, muratori (mastros de muru),
falegnami (mastros d’ascia), fabbri (frabos, come Ubertellu della scheda 227), pastori, contadini; posseggono case,
sono proprietari di beni mobili ed immobili, accumulano patrimoni, ben oltre il
peculium classico[28];
vengono chiamati come testimoni nelle liti; possono essere impunemente
bastonati (scheda 319). Conosciamo le procedure per l’affrancamento,
documentate da carte e documenti scritti, spesso contestati nelle liti promosse
dal convento (vedi la scheda 243). Possediamo studi di dettaglio sulla loro
condizione, sui matrimoni misti, sui delicati aspetti giuridici legati alla
nascita più o meno legittima ed alla condizione dei genitori: in questa sede
basterà aver accennato al problema[29].
Assistiamo spesso a situazioni che si
ripetono nel tempo: servos e ankillas
che debbono rinunciare alla prole (su
fetu)[30],
che con determinazione tragica e poco cristiana viene loro sottratta dalle
abadesse del convento, interessate solo al valore economico del prodotto,
decise a spartirsi i figli anche a distanza di anni dalla nascita (vd. la
scheda 340), con una pratica che già l’imperatore Costantino aveva condannato
in Sardegna[31]:
forse abbiamo la testimonianza di veri e propri abusi dei patroni e delle
stesse abadesse del convento di Silki, proprietarie di vastissimi appezzamenti
di terra, che vediamo confinare con i più disparati possessi privati. Eppure
sembrano registrati nel Condaghe solo i casi in cui il convento riusciva
vincitore nelle controversie, tanto da riprendersi i maschi e le femmine nati
anche a distanza di decenni: il Condaghe sembra registrare soprattutto le
entrate e non le uscite, dunque gli acquisti dei servi, ad esempio, e non
l'alienazione o la manomissione, che pure doveva essere possibile, secondo
procedure diverse; del resto le cause dovevano essere molto più numerose, ma
non tutte in favore del monastero. Si tratta di figli nati a seguito di unioni
irregolari (in furrithu nelle schede
92 e 373; mi la furricait, 272; et fornicaitila, 442), ma anche la vita
sessuale dei nobili e degli stessi giudici non è esente da ombre, se conosciamo
le concubine del giudice Mariane (323) oppure l’adulterio della suocera col
genero: in furrithu cun su ieneru
(344). Conosciamo numerose concubine, (concubas o concuuas)[32],
ma si veda anche il termine amante
(320); e ciò senza la minima caratterizzazione negativa, se a parlarne sono le
monache oppure i preti, che ricevono una donazione, indipendentemente dal
peccato compiuto dal donatore.
Ci sono straordinarie concentrazioni di
servi in alcune località, a Torres ad esempio, come è documentato dal Condaghe
di santu Gavini de Turres,
evidentemente in continuità con la presenza della corte giudicale o con
tradizioni locali precedenti, anche dopo la morte della città antica con le sue
istituzioni: ho già avuto modo di dimostrare che in età tardo-antica servi e peregrini del contado hanno finito per
travolgere i cittadini romani della colonia cesariana, in coincidenza con
l'inurbamento di elementi sardi, testimoniato dall'introduzione di nuove forme
di organizzazione sociale e di produzione a partire dal IV secolo d.C.: un indizio
precoce delle trasformazioni in atto verso una nuova economia di
autosufficienza[33].
C’è una categoria intermedia di
semiliberi che pare molto interessante, quella dei liberti e dei colliberti, che mi pare vadano collocati in una linea di
continuità con la tradizione classica, per quanto ci sfuggano le differenze con
i servi[34];
in qualche modo, peraltro, sembra negarsi una vera differenza, se alcuni
documenti paiono associare le categorie dei colliberti, dei servi e delle
ancelle[35].
A titolo esemplificativo si citerà la scheda 110, che contiene le seguenti
espressioni, distinguendo il liuertu dal culiuertu, entrambi però classificati
nella categoria de seruos: «ca cun liuertu suo l’ockisit su seruu uostru
seruu meu, cun Balsamu»; «su servu de
iudike, cun su seruu meu l'ockisit su culiuertu tuo Balsamu». E
ancora, nella scheda 111 (ancora intitolata de
seruos): «la levuait su seruu tuo a sa coliuerta mea». Altri colliberti sono citati
alla scheda 27 (intitolata de servos),
che riguarda la serva Elene de Funtana,
rapita dal colliberto Janne de Monte;
i figli delle coliuertas meas sono
sicuramente servi nella scheda 34; de
servos è intitolata anche la scheda 95, che tratta dell’unione
(apparentemente volontaria) di una coliuerta
di proprietà del prete Ithoccor de Fauile con un servo di Mariane de Castauar; quest’ultimo
ottiene che i due (servo e colliberta) vengano lasciati vivere insieme, a
condizione di rinunciare a tutti i figli, che in futuro saranno ceduti al
convento: la momentanea rinuncia alla colliberta si configura quasi come un
investimento a lungo termine. Una coliuerta,
Susanna Thana, porta anche il titolo di ancilla/ankilla
nella lite davanti alla corona del giudice Mariano (scheda 66); analoga è la
situazione della coliuerta mea Justa
Calfone, rivendicata dal prete Ithoccor
de Frauile, che tenta di riprendersela aiutato dai suoi culiuertos: la spedizione non ha successo, ma nella lite
il servo Gosantine Pira perde
definitivamente la sua donna, perché non riesce a dimostrare che gli era stata
data dalla abadessa (anche in questo caso il titolo dell’atto è de ansilla, scheda 98). Analoghe
attestazioni si posseggono, ad esempio, per il Condaghe di San Nicola di
Trullas[36].
Se queste informazioni si confrontano con
l'insieme della documentazione giudicale si possono forse stabilire alcuni
punti fermi: la possibilità per i colliberti di testimoniare a favore di terzi
in tribunale oppure di presenziare ad atti privati in qualità di testi (224,
317) così come i liberi e i servi (226); l'obbligo delle prestazioni e delle
corvées ereditarie a favore di un terzo, l'identità dei colivertos con i libertatos,
i liberos de paniliu, i liberos de vestare, i servos de jugale: l'esistenza di un vincolo giuridico ancora vitale
ci obbliga ad immaginare la sopravvivenza di una categoria di persone in
qualche modo tra loro solidali e consociate; in questo senso si spiegherebbe,
derivata dai munera e dai vincoli dei
collegia artigianali tardo-imperiali,
la forma arborense collegane, gollegane,
golleane[37]. La differenza tra liberti e colliberti
andrebbe forse trovata nel fatto che questi ultimi dovevano essere dei «servi
manomessi, che si distinguevano dai liberti puri e semplici appunto per la
collegialità della loro organizzazione, nella quale probabilmente si perpetuava
una comunanza di vita e di opere precedenti alla manomissione»[38].
In una condizione sociale vicina a quella
dei servi e più ancora dei colivertos si
trovavano altre categorie, come i terrales
de fittu, «liberi che avevano in affitto un possesso fondiario»: essi
potrebbero essere dei coloni o dei servi che avevano acquistato una qualche
libertà, pur restando vincolati a prestazioni obbligatorie, come il servizio in
una chita giudicale; del resto non
andrebbe escluso che essi abbiano avuto origine «da antichi coloni o servi
elevati dalla libera conduzione economica»[39].
Su un piano più generale, possiamo
constatare attraverso il Condaghe quella che Giovanni Cherubini chiama la
«lenta agonia delle grandi proprietà dell'età imperiale romana»[40],
il passaggio dei beni del patrimonium
imperiale nelle mani del demanio giudicale, di cui il giudice può disporre
liberamente se le donazioni possono avvenire a danno del saltu demaniale[41];
e poi l'impegno un poco affannoso di difendere gli insediamenti agricoli
dall'invadenza della pastorizia, come testimonierà il "Codice rurale" del giudice Mariano
IV[42]:
ma il modello appare esattamente quello tracciato dalle sentenze dei
governatori romani della prima età imperiale e testimoniate nella Tavola di
Esterzili[43].
Lo stesso insediamento rurale di età medioevale sembra in qualche modo
ricalcare e continuare, sia pure con interruzioni e nuove funzionalizzazioni,
la presenza sul territorio di ville rustiche di età imperiale e tardo-imperiale[44],
per quanto al momento non abbiamo elementi sufficienti per dimostrare che
nell'area più settentrionale il punto di partenza possa essere costituito dalle
parcelle di centuriazione assegnate ai coloni di Turris Libisonis[45].
C'è anzi chi ritiene che il Condaghe testimoni una vivace ripresa del sistema
economico più antico: si potrebbe parlare di un «rifiorimento dell'economia e
dell'arte», che sarebbe passato «attraverso il sostanziale miglioramento e
ammodernamento dell'agricoltura, conseguenza soprattutto di una conduzione più
dinamica, che potremmo definire manageriale, delle grandi proprietà terriere
dei monasteri, frutto di donazioni, in primo luogo, ma anche di una fitta trama
di acquisti e permute, tendenti a costituire aziende sottratte alla
discontinuità territoriale ed al frazionamento delle quote, riattivando il
sistema delle domus, che aveva
costituito il sistema portante dell'organizzazione fondiaria introdotta
nell'Isola dai romani»[46]. La novità dopo il Mille è certo rappresentata
dall'estensione crescente dei latifondi di proprietà ecclesiastica ed in
particolare di pertinenza dei monasteri (in modo grossolano si può calcolare
che «la superficie agro-forestale posseduta dalla Chiesa sarda e dai monasteri»
non fosse inferiore al 40% della superficie agricola isolana)[47];
per il resto, sia i latifondi del demanio giudicale che i latifondi dei
notabili del regno di Torres si pongono in una linea di continuità con le
tradizioni imperiali, vandale e bizantine. Si è tentato di definire le
continuità anche nella strumentazione degli attrezzi agricoli in Sardegna,
partendo dalle opere dello scrittore Palladio fino ad arrivare all'amplissima
donazione al Monastero di San Nicolò di Soliu datata al 1113, effettuata da
Furatu de Gitil[48],
omonimo di quello che compare nel Condaghe di San Pietro di Silki.
Un caso singolare è testimoniato da una
sentenza di Gonario II, a proposito delle
carte poco affidabili («non sun de
crederelas») esibite il 30 maggio nella corona giudicale in occasione della
festa per l’anniversario del martirio di San Gavino a Torres e che dovevano poi
essere nuovamente depositate nella corona di Sant’Elia de Monte Santo da parte
di un gruppo di alcune centinaia di servi, protagonisti di una vera e propria
rivolta legale contro il monastero (205). Per Ignazio Delogu non si tratterebbe
di carte di liberazione o di affrancamento di servi e ancelle, ma di antichi
contratti di affittanza o enfiteusi, magari non più compresi in tutta la loro
validità, risalenti a decenni o addirittura a secoli prima, che dimostravano
comunque che i convenuti chiedevano «di essere considerati lieros ispesoniarios, cioè fittavoli o enfiteuti»[49]:
documenti che, se fossero stati esibiti dopo la sentenza, veri o falsi che
fossero, non sarebbero stati considerati prove attendibili della condizione di
libertà dei servi del monastero. Di
conseguenza spesso non ci troveremmo di fronte a veri e propri servi ma quelli
che dovevano esser stati in origine dei possessori, comunque fittavoli, enfiteuti, appartenenti a famiglie
asservite nel corso del lungo e tormentato periodo di transizione dalla
dominazione bizantina alle istituzioni giudicali[50].
I Lieros
ispesoniarios sono considerati originariamente come fittavoli ed enfiteuti,
esito dell’organizzazione economica documentata nelle costituzioni di
Costantino relative all’enfiteusi impiantata in Sardegna nelle terre di
proprietà imperiale[51]:
il frazionamento del latifondo imperiale è riflesso in una costituzione di
Costantino, che documenta come al posto dei grandi affittuari ed enfiteuti di
età precedente, l’imperatore abbia sostenuto la nascita di un ceto medio di
imprenditori agricoli, domini di
terre, ma in realtà vincolati da contratti di enfiteusi: in Sardinia fundis patrimonialibus vel enfyteuticariis per diversos
nunc dominos distributis, ove nunc documenta
una recente operazione di ripartizione dei latifondi originari[52].
Con una costituzione del 325 Costantino interveniva per sanare i problemi posti
dal frazionamento delle proprietà e invitata a ricostituire le famiglie di
schiavi smembrate tra domini diversi:
dunque il provvedimento, tutto interno alla
res privata imperiale, riguarda sia i fundi
patrimoniales sia i fundi
enphyteuticarii[53].
Camillo Bellieni ha esaminato il
provvedimento imperiale in un lontanissimo lavoro pubblicato nel 1928.[54]
Si può condividere l'idea di una vasta estensione in Sardegna dei latifondi
imperiali, magari in parte lasciati in abbandono,
come agri rudes; e si può ritenere
fondata l'ipotesi di una maggiore persistenza dello schiavismo rurale nella
Sardegna tardo-antica rispetto, alla Sicilia e alla penisola, per cause che
differenziavano nettamente l'ambiente economico sardo da quello italiano. Mentre in Italia l'economia schiavistica (che
si era sostenuta in età repubblicana anche attraverso l’immissione nel mercato
urbano dei Sardi venales[55])
iniziò a vacillare a partire dall'età di Nerone, in Sardegna l'alto numero di
schiavi, il rallentamento dei processi di mobilità sociale, la limitata
consistenza del colonato, il basso indice demografico potrebbero effettivamente
aver concorso al mantenimento di un'economia schiavistica ancora nel basso
impero, soprattutto grazie alle radici ben più tenaci che lo schiavismo aveva
nell’isola. Il passaggio dei latifondi imperiali dalla conduzione diretta
attraverso conductores
all’assegnazione in enfiteusi dietro il pagamento di un canone molto contenuto
potrebbe aver avuto un impatto disastroso sulle tradizioni isolane, almeno sul
piano sociale. Gli schiavi venivano allontanati dal proprio fondo: «sparisce
quindi l'uso dell'agellus, della
sparisce anche la famiglia casa» - scrive Bellieni -. «Il villaggio, come un
formicaio scoperchiato dalla ostile curiosità di un monello, che si diverte a
frugare il terreno con una verga, per disperdere tanto fervido traffico di
minuscoli esseri, si vuota fra grande scompiglio e rimane deserto, perché
ciascun dominus tiene a portare entro
i confini stabiliti per il proprio lotto i viventi che gli sono
attribuiti». Bellieni ritiene anzi che
una traccia della particolare situazione sociale romana di età imperiale
potrebbe essersi conservata anche nel primo medioevo, allorché ci sono noti servos ed ankillas legati alle case rustiche, alle terre coltivate, alle
vigne, alle terre incolte[56].
Allo stesso modo i liberos de paniliu
potrebbero mantenere un ricordo dell'antico colonato fondato sull'affitto della
terra o più ancora la memoria degli antichi collegia[57]
Per Bellieni dopo uno spaventoso
isolamento di oltre quattrocento anni, dovuto alla situazione geografica
aggravata dall'insicurezza dei mari per le scorrerie saracene, la Sardegna
comincia a riprendere le sue relazioni con la penisola italiana solo nell'XI
secolo: «per uno strano gioco della storia, la sua organizzazione economica,
rattrappita in uno sforzo di autoconservazione, irrigidita dall'assenza di ogni
scambio, rispecchiava condizioni di cose, in altre terre superate da secoli»[58].
Più in generale le terras de rennu potrebbero essere la testimonianza e la conseguenza
dello sfaldamento del governo bizantino, che in qualche misura continua il
governo imperiale, con i vastissimi latifondi imperiali documentati in
Sardegna: dichiarati ager publicus populi
romani, col tempo furono ripartiti tra il fiscus e il patrimonium
imperiale[59].
Sappiamo ad esempio che ad Olbia le proprietà dei Domitii passarono a Nerone e
da questi furono trasferiti alla liberta Atte, per entrare poi nel patrimonio
imperiale nell’età di Vespasiano, interessato, contro le tendenze centrifughe,
al riordino delle proprietà fondiarie attraverso un rigoroso accertamento
catastale[60].
Le donazioni giudicali dell’alto medioevo e le terras de rennu sembrano testimoniare una qualche continuità: conosciamo
la pratica del giudice di attribuire una parte del patrimonio a favore
dell’erede, come per il donnikellu
Comita, che ottiene una secatura de
rennu, mentre era ancora curatore della Romania
(186); il salto de rennu confina
spesso con proprietà private, come a Villa Nova (257). Il Condaghe dimostra la
possibilità che il demanio giudicale potesse subire amputazioni in relazione a
libere donazioni del giudice, come è testimoniato dalle schede 62 e 294, con
un’operazione di scorporo di un salto dalle terre del demanio effettuata a cura
degli agrimensori.
Nel suo volume dedicato nel 1997 al
Condaghe di San Pietro di Silki, Ignazio Delogu ha rilevato la cura con la
quale gli scrivani del convento annotavano la delimitazione dei confini delle
terre donate o acquistate ed ha segnalato alcuni aspetti formali - la brevitas stilistica, il succedersi di
nuclei narrativi - che considera i primi esperimenti di una nascente prosa
romanza nella seconda metà dell’XI secolo[61].
La descrizione dei confini dei saltos avviene effettivamente con uno
stile narrativo, che sembra ripercorrere il percorso degli agrimensori lungo il
terreno, come nella scheda 4 per il salto di Coperclatas e nella scheda 10 per il salto di Bioseuin, con l'uso continuo di verbi di moto che collegano alcuni
dei confini scelti autonomamente dallo scriptor
«fra gli infiniti punti possibili» (benit,
iumpat, baricat, clonpet, collat, falat, cludet)[62]. A parte le ricerche di Virgilio Tetti[63],
non mi pare sia stato effettivamente fatto con successo il tentativo di
ritrovare sul terreno alcuni dei punti di riferimento utilizzati nel Condaghe,
in cui il punto di confine è indicato con la parola termen, esattamente il terminus
latino, che definisce il confine ma anche i segni del confine, i cippi
epigrafici che delimitano un latifondo (seguendo esattamente l'uso classico);
ed è indicato con uno scrupolo e con un'attenzione che testimonia il valore
vitale del bene oggetto della delimitazione[64]:
ben 70 delle 443 schede del Condaghe possono essere riferite alla categoria dei
termini, relativa dunque alla
fissazione di confini tra terreni diversi, alcune con l’indicazione precisa (adterminamentu, 403); solo per le
donazioni (posturas), per le liti (kertus) e per gli acquisti (compuros) abbiamo un numero maggiore di
atti[65].
Del resto l’attenzione per la delimitazione dei latifondi e dei terreni doveva
essere acutissima in età medioevale, come dimostra il numero altissimo di pietre
confinarie, spesso anepigrafi, ma che talora hanno delle lettere incise come
una N scolpita su un terminus citato nel Condaghe di San
Nicola di Trullas: sa petra lata ubi est
sa cruce et issa littera N.: se si ammette che la lettera sia stata incisa
in età medioevale, dobbiamo pensare che il termine indicasse semplicemente
l’inizio delle proprietà del (Sanctus)
N(icolaus)[66];
spesso compare una croce, ad indicare il punto di inizio della proprietà della
chiesa, come nel Condaghe di San Pietro di Silki per il salto di Bioseuin: sa petra dessu castru uu’est sa gruke de funtana de Corsos [67].
Paolo Merci ha fatto notare che termen è
utilizzato nella formula introduttiva della descrizione dei confini ed è spesso
soggetto non espresso dei verbi di moto che servono a definirli[68];
di frequente è però anche esplicitamente il terminus
classico, cioè la pietra, il cippo confinario collocato dagli agrimensori
(spesso servi, come nelle schede 309-310 - quest’ultima inserita per errore dal
traduttore - e nella scheda 410) con la volontà di segnare i confini, sia che
si tratti di confini tradizionali esistenti da generazioni, sia che si sia
provveduto ad una nuova delimitazione catastale in occasione di vendite,
acquisti, donazioni[69].
E sempre con la preoccupazione di evitare contestazioni, di anticipare la
possibilità che le delimitazioni possano essere abbattute o spostate, come
quando si sceglie un fiume, un nuraghe (come nel caso del nurake de termen a Codrongianus, 316), una roccia (p.es. nella
scheda 295), ecc.
Di straordinario interesse sono le parole
usate per indicare i cippi terminali di terreni, ma anche di popolazioni, di
villaggi, di chiese come a Bonorva (con un bellissimo confronto recente con il limes aecl(esiae) e curiae di un cippo terminale con sommità
centinata in Via Adige, presso Santa Gilla a Cagliari)[70],
ma anche di giudicato, taluni anche con iscrizione confinaria, sia che si
utilizzi il termine castru sia che si
impieghi più frequentemente il termine pedra:
conosciamo ad esempio la p. sinnata
(segnata, forse nel senso di inscritta, 257), la p. dessa gruke d’ulumos de Murtina (290), dunque segnata con una
croce presso un gruppo di olmi[71];
la p. longa de Arave (salto di Arave, scheda 5: sa via trauerssaria ki uaet a Banios et lompet assa petra longa
d’Araue, fino al guado sul rio in comune di Usini; vd. anche scheda 19), la
p. infurcata (192, 203, 256), la p. de s’asinu (206), la p. dess’ape de Lenposti (206), la p.
dess’ape de fruscos (206), dell’ape dei pungitopo, tutte nel salto di Gennor; la p. pertusita a forma di ciambella (257)[72];
la p.
maiore (257, 290); la p. dura (301);
la p. de ponte (316); la p. de frates (316); la p.
longa de campu (336); la p. lata (62), las p. nieddas, nigellas,
la p. alba (scheda 10, 202, 425); la p. betrana, nel senso di «vecchia,
antica», dal lat. veteranus (292)[73]:
infine vulbare dessa petra, cioè il
chiuso del cippo confinario (11)[74].
Molte erano sicuramente soltanto segnacoli naturali, magari enfatizzati dagli
agrimensori. A vasche per la lavorazione dell’olio di lentischio farebbero
pensare le espressioni tipo petra de
laccu (292).
L’uso è documentato sempre nella
descrizione dei confini anche nel Condaghe di San Nicola di Trullas, dove il
termine significa genericamente «pietra», ma spesso anche «cippo confinario
vero e proprio», talora anche inscritto (sa
p. lata ubi est sa cruce et issa littera N.) ma anche pietra fitta, betilo,
menhir[75].
Un quadro analogo è quello del Condaghe di San Michele di Salvennor[76]
e dal Condaghe di Barisone II[77].
Raimondo Zucca mi ha segnalato un
documento del 1206, copia del 1307, pubblicato dal Solmi nel IV volume dell’ «Archivio Storico Sardo», che cita il
confine tra il giudicato di Cagliari ed il giudicato di Arborea, fissato da
Guglielmo di Massa là dove vi est sa
pedra fita ki si clamat Pedra de miliariu[78]:
forse la più lontana testimonianza della sopravvivenza dei miliari romani lungo
le strada a Karalibus Turrem
costruita nell'età di Augusto dal prolegato
T. Pompe(i)us [P]roculus [79].
Allo stesso modo, conosciamo il confine
tra il giudicato di Arborea ed il Logudoro[80]:
mi riservo di discutere in altra sede il tema della definizione geografica dei
confini del territorio della colonia di Turris in età antica, testimoniati negli
esiti del giudicato medioevale, nelle curatorie, nel territorio delle diocesi
antiche ed in qualche misura dei comuni moderni, con riferimento al percorso
delle principali strade romane, dirette verso l'interno e lungo la costa. Più
in generale, il confine del giudicato del Logudoro (che comprendeva a sud anche
il territorio di Bosa e di Cornus) con l’Arborea cadeva presso il rio Sa Canna
di Cuglieri (a breve distanza dal rio Pischinappiu, confine tra le diocesi di
Bosa e di Oristano)[81],
là dove passava il confine storico tra Cornus e Tharros, ma anche al Castello
di Montiferru, in rapporto con il confine della diocesi di Bosa, entro la
provincia ecclesiastica del Logudoro. Sulla costa settentrionale, il confine
tra giudicato di Gallura e giudicato del Logudoro cadeva tra Tibula e Longone,
sul fiume Coghinas, presso le Aquae
calidae, le sorgenti calde di Casteldoria - sicuramente sfruttate in epoca
antica - a breve distanza dal ponte di S. Maria Maddalena a Viddalba lungo la
strada tra Anglona e Gallura[82].
Il Condaghe di San Pietro di Silki ci
conserva il ricordo anche di antiche popolazioni, come nella descrizione del
confine di un terreno, presso la funtana
de Corsos, presso Uri: la scheda 10, già ricordata, cita il termen: aue sa petra dessu castru uu’est sa
gruke de funtana de Corsos, verso
il ruscello; iumpat bia d’Ulumetu assu
castru dessa turre (cioè in direzione del nuraghe della torre) et baricat derectu assa petra alba manna
dessu riu; quando si compie il giro e si chiude il lotto: et clompet su termen assa petra dessu
castru dessa gruke de funtana de Corsos et cludet. La stessa località è
richiamata nella scheda 19.
A me sembra evidente che il documento ci
conservi il ricordo di Corsi, sia che si tratti di personaggi immigrati in
epoca medioevale in Sardegna dalla Corsica, sia che si tratti del popolo dei
Corsi, uno dei populi celeberrimi
della Sardegna romana assieme agli Ilienses ed ai Balari[83].
Del resto il cognome Corsu è
frequentementre citato nel Condaghe[84],
così come il nome Corsellu[85],
che talora è usato come cognome[86].
L’uso ambivalente (nome/cognome) non è estraneo già alla Sardegna romana, se ad
esempio nel retroterra di Olbia nel I secolo d.C. conosciamo un Perthius Cursi f(ilius) [87]
ed un Cursius Costini f(ilius).[88]
Né escluderei che altri cippi di confine
facessero riferimento a popoli, come nel caso della scheda 311, che riguarda il
confine del salto di Teclata sul quale
si trovava un mulino originariamente in possesso di un laico presso Bonuvichinu, «rriu de Bonasiias, assu nurake de Guthoppor, ass’iscala dessu labru,
assa petra de Thilomor». E' difficile comprendere cosa indichi sa petra de Thilomor, ma è probabile che
tali nomi con uscita in -or siano
degli antichi plurali, secondo
un’osservazione di Benvenuto Terracini ripresa dal Wagner, per i quali il
toponimo Gennor del Condaghe di Silki
(206), che compare più tardi nella forma Gennos,
evidenzierebbe un adattamento del morfema del plurale[89].
Altri sparsi testimoni documentano
possibili rapporti della Sardegna con le Baleari, come sembra dimostrare il
cognome di Gosantine de Maiorica
delle schede 95, 108, 126; oppure con la Sicilia, se conosciamo un Gosantine Sikule nella scheda 101 (i Siculenses sono noti nella Sardegna
sud-orientale del II secolo d.C.)[90].
A distanza di oltre mezzo secolo dalle pagine
di Raffaele Di Tucci dedicate alla sopravvivenza del diritto romano nella
Sardegna medioevale[91],
Francesco Sini, nel volume Comente
comandat sa lege. Diritto romano nella Carta de Logu d’Arborea, ha
dimostrato nel 1997[92]
come l’esperienza romanistica fosse ancora pienamente vitale nell’isola in età
giudicale: del resto già Arrigo Solmi riteneva che si siano mantenute intatte
molte forme del diritto romano, una «bella tradizione latina» ereditata da una
costituzione sociale meno complessa, rimasta per alcuni secoli quasi isolata,
ma fedele alle sue tradizioni e alla sua origine. Come la lingua sarda è figlia
della lingua latina, così anche il diritto giudicale appariva al Solmi una
filiazione diretta del diritto romano classico[93].
Per Enrico Besta le curatorie giudicali
possono essere lette come l’esito degli ambiti di giurisdizione dei curatores rei publicae cittadini di
epoca tardo-antica, magari attraverso l’organizzazione giudiziaria dei conventus, per la quale sarebbero
confluite le forme di intervento del popolo nella pubblica amministrazione,
proprie della Sardegna giudicale[94];
in realtà, è più probabile che soltanto la denominazione sia sopravvissuta,
senza alcun collegamento con una possibile ripartizione territoriale della
Sardegna nord-occidentale in ben 19 aree rurali in età giudicale.
Per Aldo Cecchini il processo provinciale
romano dell’età tardo-antica sarebbe alla base delle coronas e delle forme processuali sardo-giudicali, caratterizzate
dalla collegialità[95].
Antonio Marongiu ha sottolineato il carattere «quasi democratico
dell’organizzazione politica dei giudicati», tanto da far parlare di una sorta
di «democrazia diretta»[96];
temi che hanno stimolato la più recente storiografia di Francesco Cesare Casula[97].
Francesco Sini ha indicato alcuni precisi
riferimenti testuali della Carta de Logu
che lasciano intravedere l’evidente derivazione romanistica e ancor più
richiamano forme e contenuti del diritto romano, come a proposito della non
punibilità dell’omicidio commesso a scopo di legittima difesa. In particolare
l’espressione narat sa lege sembra
sempre riferita proprio al diritto romano, così come (con riferimento a precise
scadenze giudiziarie) la frase infra su
tempus ordinadu daessa ragione[98].
Anche in materia processuale, in relazione ai tempi ed alle modalità
dell’appello, la Carta de Logu
aderisce strettamente alla legislazione tardo-antica de appellationibus di una novella giustinianea del 536[99].
Altri rinvii impliciti al diritto romano, considerato come vigente a tutti gli
effetti, potrebbero essere individuati nelle norme a proposito della
successione ereditaria e più precisamente nei 14 modi attraverso i quali può
essere ammessa la pratica di diseredare un erede legittimo: elementi che, pur
non presenti nella Carta de Logu,
sono comunque elencati esattamente negli Statuti sassaresi[100].
Un analogo esame del Condaghe di San
Pietro di Silki è finora mancato: eppure a me sembra che anche i conflitti
documentati dal Condaghe nei kertos di
fronte alla corona del giudice o de
curatoria conservino tracce di forme giuridiche romane, cadenzati
attraverso un calendario che conserva il ricordo delle indizioni tardo-antiche[101].
Questi kertos si celebravano in date
fisse, in particolare in occasione delle feste, quando avvenivano le
convocazioni presso la corona del Giudice: le schede 72, 205, 365 indicano la
ricorrenza del martirio di San Gavino (il 30 maggio) con parole pienamente
classiche (a natale s(an)c(t)i Gauini
a Turres)[102];
altre schede testimoniano comunque lo svolgimento della corona giudicale a
Turres (79, 80, 100), in quella che sembrava essere un’occasione fissa: la
convocazione della corte giudiziaria è chiamata sa die de sinotu in Turres (nella scheda 2)[103],
cioè il giorno nel quale si riuniva la
corona, la seduta presieduta del giudice. Il termine sinotu appare esattamente conservare la parola sÚnodoj bizantina, nel senso di concentramento
di più persone, viaggio (sÚn
- ÐdÒj), traduzione evidentemente
dell’originario conventus romano (cum - venio), che designa le sessioni
giudiziarie presiedute dal proconsole o dal suo legato nella capitale Carales
oppure in sede decentrata nelle città principali. Altre corone vengono
convocate in occasione della festa di ferragosto, in s(an)c(t)a Maria d’Agustu (scheda 81), data alla quale più tardi
il giudice la riunisce nella nuova capitale di Ardara (185, 186). Altre schede
(205, 365) menzionano una corona fissata presso Siligo, sul Monte Santo, in
occasione della festa di Sant’Elia, il
20 luglio: assa festa de sce.
Elias siates in su monte, in corona mea. C’è poi la Pasqua di maggio a Nulabros, cioè meglio la Pentecoste
(scheda 394)[104]
oppure la festa di san Bartolomeo il 24 agosto (scheda 410); ancora la festa di
San Nicola di Silanos evidentemente a
Sedini il 6 dicembre (348)[105];
infine il giorno della Litania maggiore, una cerimonia che avveniva a Kitarone: sa die de letania maiore, certamente il 25 aprile in occasione
della festa di San Marco evangelista (204).[106]
Il luogo di svolgimento della corona cambia nel corso dell’anno, a seconda
degli appuntamenti e delle feste alle quali il giudice doveva partecipare, come
a Curcaso (scheda 85), a Kitarone (scheda 102, 204, 272, 348,
396), dove il giudice riuniva la corona: atteru
die de sinotu a Kitarone (348); infine a Kerki, ancora in [sa die] de
sinotu (409). La corona del curatore si riuniva in varie località: il
curatore della Nurra giudicava in sa
corte d’Ottaue, de scu. Jorgi, dunque ad Ottava presso l’attuale chiesa di
San Giorgio, ad otto miglia di distanza da Turris, cioè a dodici km. (scheda
98); qui talora si riuniva anche la corona giudicale (120, 200; vd. anche 274).
Non conosciamo esattamente
il percorso seguito lungo i porti e le strade dell’isola dal proconsole e dal
suo legato nella Sardegna romana, più tardi sostituiti dai procuratori, dai
prefetti e dai presidi (questi ultimi nel basso impero). Gli studiosi
ipotizzano l’esistenza in età imperiale romana di un conventus giudiziario autonomo per la Sardegna settentrionale con
sede a Turris Libisonis, che forse comprendeva anche la Corsica: durante la
persecuzione dioclezianea il preside
Barbarus secondo una fonte agiografica medioevale il cui valore
documentario è molto dubbio avrebbe amministrato contemporaneamente le due
isole: tam Sardiniae quam memoratae
Corsicae presidiatus actionem promeruit: quam in utrisque insulis uno tempore
ministravit [107];
egli sarebbe tornato a Turris Libisonis dalla Corsica, per procedere alla
condanna di Gavino e poi di Proto e Gianuario[108].
Pensiamo che mentre il governo provinciale affidato ai proconsoli era
concentrato a Carales, in precedenza i legati propretori (rappresentanti dei
proconsoli in periodi di amministrazione senatoria) potessero svolgere
prevalentemente la propria attività giudiziaria a Turris Libisonis, che forse
era sede di un conventus giudiziario
se nell’età di Filippo l’Arabo la basilica giudiziaria di Turris, con il tribunal e le sei colonne, veniva
restaurata dal procuratore M. Ulpius
Victor[109].
Credo che forme analoghe possano essere immaginate per la cancelleria bizantina
e la presenza a Turris di Ûpatoi
bizantini è ben documentata, come sull’epigrafe della vittoria sui Longobardi
conservata nella basilica di San Gavino[110].
Il kertu del governo giudicale
potrebbe dunque essere l’esito lontanissimo del processo provinciale romano,
trasferito ora alla competenza del giudice logudorese e da questi in parte
delegato ai curatores delle 19
curatorie[111]:
conosciamo la composizione del consilium
del proconsole che definì a Carales nel 69 d.C. la controversia tra Galillenses e Patulcenses Campani; a parte il proconsole L. Helvius Agrippa, sono elencati almeno altri tre senatori, il
legato M. Iulius Romulus, il questore
T. Atilius Sabinus, un M. Stertinius Rufus f(ilius); seguono
altri cinque personaggi, con tutta probabilità appartenenti all'ordine equestre[112].
Nulla sappiamo sui consilia operanti
successivamente nell'isola, incaricati di assistere i prefetti ed i presidi
equestri del basso impero o i governatori bizantini. Eppure la presenza in età
giudicale dei lieros de cavallu
all'interno della corona de chida de
berruda, formata da «miliziani a cavallo, che costituivano il ceto più alto
della società all'epoca della dominazione pisana della Sardegna»[113],
documenta forse una continuità che possiamo solo intravedere; sorvolerei in
questa sede sul gruppo dei kaballares,
i soldati-agricoltori di età bizantina[114].
Abbiamo qualche luce sulle modalità di
svolgimento della corona presieduta
dal giudice o dal curatore. Ad esempio, a proposito della lite fra il priore di
S. Pietro e due avversari (Gunnari de
Liios di Sorso e Gunnari de Vosove)
per il possesso di un servo, documentata nella scheda 104: sappiamo che la
causa fu risolta grazie alla testimonianza dei buiakesos de iudike, che facevano parte di una chita giudicale e più precisamente del corpo delle guardie palatine
che avevano assistito il giudice Costantino I di Lacon nel corso della corona[115].
La scheda 205, che illustra una controversia risolta dal giudice Gonario di
Lacon, ricorda tra i testimoni il maiore
de ianna Gosantine Palas et chita sua[116]:
una figura che sembra vada identificata con il maiore de buiachesos, come suggerisce un confronto con la scheda
38, relativa ad una parthitura
amichevole di servi, divisi tra San Pietro ed i donnos paperos[117].
Il termine chita (che non indica solo
il reparto comandato dal maiore de
buiachesos o dal maiore de ianna
ma si estende ad indicare i giurati convocati, «citati», in corona), per Paulis non continua civitas latina come supponeva il Serra[118],
ma sarebbe un deverbale da citare,
nel senso tecnico-giuridico di notificare mediante un nuntius l’ordine di compiere un certo servizio pubblico, un munus publicum come il servizio dovuto
al giudice, in occasione ad esempio della corona
che si riuniva settimanalmente oppure a date fisse; ma analoghi munera sarebbero quelli che la chita era tenuta ad assicurare de guardia e de oste, dunque il servizio militare di sorveglianza sulle mura ed
alle porte della città ed in guerra. I buiachesos
equivalgono già nel nome, attraverso un procedimento di calco, agli excubitores bizantini, i quali a loro
volta derivano da una categoria di soldati della Roma imperiale, le sentinelle[119].
Non è stato osservato che, pur non potendo immaginare in alcun modo una
continuità dall'età tardo-antica in ambito strettamente locale, a Turris
Libisonis esistevano comunque dei soldati palatini
nel corso del IV secolo, forse in rapporto alle attività giudiziarie del
preside provinciale per la Sardegna settentrionale: lo stesso martire Gavino
potrebbe essere stato un soldato palatino[120].
Il Condaghe di San Pietro di Silki ci
documenta in età giudicale l’istituto della conciliazione e dell’accomodamento
tra le parti in sede extragiudiziaria, indicato col termine campània, campaniare: ffekimusinde
canpania in corona de Dericcor Canpule (nella scheda 220); et ego fekinde canpania cunille cun
boluntate dessa donna mea, donna Massimilla (nella scheda 229); et isse Turiu deitindeli j. mesa libra
d'arientu assu Tiniosu in campanbia, ponendeuilu Freuari assu Turiu (nella
scheda 279); vocarunime a ccorona ...
canpaniaruninos a pparthire in co auiamus leuatu (nella scheda 341); et iudiche narai ka «fakite bene,
kampaniateuos kena iura» et nois kanpaniaimusinos umpare et parthiuimus su fetu
(nella scheda 349); campaniandese Petru
de Moccor cun sa sorre, pro dareli sa sorre a Petru sa parte canta ui auiat
(nella scheda 416). E' stato di recente ribadito che questa intesa
extra-giudiziaria, che coincide con l'uscita di una delle parti dal processo (vocaresi de su kertu), dev'essere collegata con il lat. campana[121].
Infine, può essere seguita attraverso il
Condaghe tutta una giurisprudenza giudicale che documenta il diritto al
risarcimento nella misura doppia rispetto al valore originario (su pethone) per chi aveva perso un servo[122].
Il tema della sopravvivenza in età
giudicale di antichissimi munera fiscali
a carico delle comunità isolane è stato affrontato recentemente da Giulio
Paulis. In questa sede mi limiterò esclusivamente all’esempio di cerga, zerga, therga, nel senso di
«veste» e anche di «quantità di raccolto da destinare al fisco», vocabolo attestato
nei documenti giudicali (in particolare nelle Carte Volgari dell'Archivio
Arcivescovile di Cagliari) e che ora viene collegato alla vestis collatio di età tardo-antica, per indicare l’operazione di
raccolta dei capi di vestiario per le truppe che veniva effettuata a favore
delle sacrae largitiones,
contribuzione cui erano tenuti tutti i proprietari, sulla base degli iuga di terra posseduta e dei capita, del numero, dei lavoratori
agricoli o delle bestie[123].
Questa tassa in natura fu col tempo trasformata in un tributo in denaro, sulla
base del principio della adaeratio.
Pur consapevole dell’enorme distanza cronologica e culturale, credo possa
essere richiamata in proposito una preziosa testimonianza di Plutarco relativa
all’operazione di raccolta delle vesti per i suoi soldati (t¦ ™sq»ta) svolta in Sardegna da Gaio Gracco
nell’inverno 125-124 a.C. e che (come mi
suggerisce Paola Ruggeri) potrebbe aver ispirato la presentazione della lex Sempronia militaris di due anni
dopo: proprio facendo tesoro dell’esperienza sarda, Gaio Gracco fece approvare
un plebiscito che mise a carico della repubblica le vesti dei soldati, vietando
che si detraessero dal soldo; la disposizione fu in seguito abrogata forse
dalla lex Iunia militaris del 109,
tanto che ancora al principio dell’impero le spese per il vestiario dei soldati
erano trattenute dal soldo[124].
Sappiamo che le civitates stipendiariae
della Sardegna, alle quali il proconsole L. Aurelio Oreste ed il questore Gaio
Gracco avevano richiesto le vesti, avevano inviato una legazione in Senato ed
erano state esonerate dalla contribuzione; scrive Plutarco che i soldati
soffrivano gravi disagi anche per l’inclemenza dell’inverno, sicché Gaio Gracco
si recò presso le singole città della Sardegna e tanto fece che riuscì a
procurare le vesti e recare aiuto ai soldati, suscitando i sospetti del Senato
romano[125].
Difficilmente cerga, zerga, therga
medioevali possono essere connessi con questi lontanissimi precedenti di età
repubblicana, ma non pare eccessivo tenerli presenti sullo sfondo.
Il paesaggio del Logudoro è descritto
come fortemente articolato, con un’orografia seguita singolarmente in ogni suo
elemento: monti, gole, laghetti, paludi, pantani, stagni, fiumi, ruscelli, guadi
utilizzati dalle strade secondarie, saline, orizzonti marini, grotte, fontane,
alberi (in particolare quercie ed olmi), valli, rocce, colline, vasche per
calce, aie, canneti, addirittura tane di
lepre (se è stato tradotto correttamente il termine leporariu delle schede 378 e 398), rovi, muri, terreni agricoli,
orti, vigne (magari coltivate «seguendo l’antico sistema romano di far
arrampicare le viti alle piante nei frutteti»)[126],
terre da arare, oliveti, frutteti (con fichi, peri, noci, meli), canapeti, terre
incolte; abitato da uomini, capre, maiali, torelli, pecore, cavalli, ecc. Anche
in questo caso sono molte le continuità con un tempo precedente, alcune legate
all’ambiente, al paesaggio, alle vocazioni del territorio, altre espressione di
una tradizione: come la cura per l’allevamento dei cavalli di qualità[127],
che sicuramente è l’esito di competenze acquisite già in età tardo-antica,
quando la Sardegna era ditissima
fructibus et iumentis e splendidissima.[128]
Forse un toponimo documentato da un atto di compravendita nel salto di Puthuruiuiu apus Sauren (scheda 96)
potrebbe conservare il ricordo di stalle o scuderie per i cavalli: essit via
maiore de C. Istafla, nel senso di C(entu) Istafla, da *istabbia,
stabula, con la sorprendente
testimonianza di un accusativo neutro plurale preceduto dal numerale cardinale
abbreviato alla latina. Se si volesse seguire fino in fondo questo
ragionamento, si potrebbero forse ricordare gli stratores, addetti alle scuderie del governatore provinciale in età
imperiale, come il decurione di cavalleria Q.
Mon[t]an[i]us Po[ll]io, responsabile
delle scuderie del procuratore L. Baebius
Aurelius Iuncinus, forse nell’accampamento urbano della prima coorte di
Sardi di stanza a Carales nell’età di Settimio Severo e il Constantianus, fatto poi uccidere da Valentiniano I[129].
I prodotti più diffusi erano l’orzo ed il
grano che si misuravano a moggi[130],
come in età classica[131];
conosciamo gli arcaici attrezzi da lavoro; ma anche le botti, il panno, la
pelle leporina (218), le pelli di cervo cucite (222), le mole per macinare il
grano (forse connesso è il toponimo di
Mola fratta in Planu della scheda
136). Tra i prodotti si citerà a titolo esemplificativo la lana marina per la
sottoveste, conduri de rocca (scheda
172), ricavata da un mollusco, la pinna
nobilis; la stessa lana marina, il
prezioso bisso, che papa Leone IV chiedeva gli venisse inviata dalla Sardegna
nell’851 a qualsiasi prezzo[132].
Allo stesso modo sopravvivono le unità di misura di età classica e le unità di
peso, come le libbre[133]
o le once[134];
il terreno si misura in fustes de uirga[135];
per le monete, il latino denarius è
utilizzato di frequente[136],
talora ad indicare i bisanti bizantini
o genovesi[137];
ma anche sollu (da sol(i)dum) per indicare il soldo[138].
Il paesaggio della campagna giudicale che
emerge dal Condaghe si presenta anche come una sorta di vivente catalogo
archeologico, popolato di monumenti preistorici, protostorici e romani, domus
de janas, dolmens, betili mamellati, tombe di giganti, nuraghi, pietre
confinarie inscritte (abbiamo visto che alcune delle quali forse ricordano
popolazioni locali non urbanizzate),
mausolei e tombe, altri monumenti, croci, ecc.
Voglio qui richiamare l’attenzione
intanto sulle strade, molte delle quali iniziavano a Turris, con una rete
principale diretta verso Cagliari, ricalcando il percorso dell'antica a Turre Karales (chiamata più di
frequente a Karalibus Turrem)
costruita a partire dall'età di Augusto[139]
ed una serie di vie, del tutto secondarie, di penetrazione agraria, molte
sicuramente costruite in età bizantina o giudicale, ma certamente con relazione
con la rete stradale di età imperiale. La principale è la via maiore[140]
o la via Turresa (si noti
l'aggettivo, con un superamento del classico Turritana)[141],
che troviamo ad esempio ad Usini in direzione della vallata del Mascari: a manca de uia Turresa, in co falamus ad
Mascar (434); oppure nel salto di Nussu,
ancora ad Usini (436); un confine arriva assa
terra rubia dessa uia ki uaen sos d’Elba a Turres, come nel Saltu de Serra de Calcargia in Jennanu
(61)[142];
ancora a Jennanu, nel salto di Petra lata,
la via secondaria si incontra con la via maggiore, quella che gli abitanti di Bionis (un sito che ha restituito
importante materiale archeologico a testimonianza di una presenza in età
imperiale romana, citato anche nella scheda 91)[143]
percorrono per andare a Turres: auinde
tottuue sa uia essid isca ad oue s’ouiat cun sa uia maiore ki uaen sos de
Bionis a Turres. (62); conosciamo biforcazioni (forkillos)[144],
strade trasversali o scorciatoie (trauessaria,
5, 7, 13, 207, de Ospitine, 379)[145];
altre sono collegate da ponti, romani o medioevali: vd. sa uia dessos pontes nella delimitazione del salto di Sitale (403); altre vie principali passano
presso il salto in Cleu sul fiume Turthebi (189); conosciamo anche una
serie di altre strade principali, come la bia
maiore ki baen ad Ulumetu (425 e 443),
uia maiore de sa gruke...., sa uia
maiore de ualle torta (scheda 4), uia
maiore de C(entu) Istafla (scheda 96),
uia maiore ki uamus a Gulusai, in Planu (134); la bia maiore che si collega con la bia appa Andria nel salto di Othila
(312); la uia maiore de Vallinas nel
salto di Sitale (403); tra le vie
secondarie conosciamo ad esempio sa uia
trauessaria ki uaet a Banios (cioè a Bangios,
con riferimento forse a delle terme o ville romane) nel salto di Araue presso Usini (scheda 5), sa uia de serra isca Malusone (scheda
187), sa uia tottue de serra, assu muru
de Suruge (190), sa uia dessu
mamuthologe (256); c’è poi la strada nel salto di Sediles sui monti di Osilo: iui
iumpat uia assu ualliclu, verso la valletta; iui moliat sa uia ki uamus ad Ogosilo; issa uia ki andauat assa uinia de Janne de Carros (scheda 150);
oppure la Uia alba (363); la uia ki uaen de Gutturale, presso la uia maiore a Tamuri (413); infine la uia del
salto di Othicheor (423). Più importante è la uia de carru (198, 404), cioè la bia de carrucaria (404) al confine tra Bosa e Montresta, in
loc. Santa Maria-Cherki (ma si veda
anche la scheda 191 relativa a Silua
Manna, Kerkethanos e Calabrike):
evidentemente un tratto della strada costiera Tibula-Sulcos, tra le
stazioni di Bosa e di Carbia (scheda 404)[146].
E’ stato segnalato l’interesse dei
toponimi quali la «via dei Greci», la bia
de Grecos (scheda 413, in loc. Tamuri) e bia grechisca (scheda 423),
che ci riportano direttamente ad età bizantina[147]:
si è immaginato che essa collegasse direttamente Sassari con Alghero[148].
Si può iniziare la lista dei monumenti
archeologici partendo dai dolmens, definiti sas
pedras coperclatas (nel senso di pietre ‘coperte» con un coperchio) come
nella scheda 203 per il salto di S. Maria di Uri: e
collat assu nurake, e falat per meia sa serra, assa gruke, a sui kercu uu’es sa
petra infurcata (forse una pietra fitta o un menhir)[149], e falat assa coperclata; auinde collat a
sauia, e cclompet assu nurake, girat aue su nurake susu, a derettu assu nurake
de sutta uia, aue su nurake assu gulbare dessa uia ki uaet a Linthas. Nella
scheda 425 per il Salto d’Urchone: assa petra coperclata... et torrat assos
furchillos dessa petra alba. Conosciamo anche un salto di Coperclatas: nelle schede 4, 6, 11[150].
I condaghi ricordano anche le domus de
janas, le grotticelle artificiali preistoriche oppure più semplicemente grotte
naturali: troviamo citate le gructas de
jaconu Andria dessu albinathu, cioè della pozzolana (scheda 10); l’ispelunca de Conso (190), da identificare
con s’ispelunca di Consons nel salto
di Teclata (311), sa keia, forse una grotta naturale dove
si conservava del grano (241), infine la corona
dessa funtana de Sitale, intesa come la «grotta della fontana di Sitale»
(403); nel Condaghe di San Nicola di Trullas sono menzionate le ispeluncas[151] ed
un Garule de Speluncas a Noragugume[152]; ma forse anche il confine di agitu de ianas va connesso ad una
necropoli preistorica[153].
Analoghe indicazioni compaiono anche nel Condaghe di Gonario II: spelunca de Petra longa[154].
Le più tarde sepolture di età nuragica,
le tombe dei giganti, erano ben note nel medioevo, se in documento del 1153 il
giudice Gonario di Laccon cita all’interno di una delimitazione territoriale su monumentu dessu gigante[155].
I betili mammellati sono identificabili
perchè provvisti di thithiclos,
dunque di mammelle, come quelli di Tamuli a Macomer[156]:
nella scheda 62 i principali punti toccati dal termen nel salto di Petra
lata apus Jennanu sono i seguenti: dae
su gulbare (termine connesso col latino
bubulus, da cui bublaris, nel
senso di recinto per buoi)[157]
assu castru (cioè al nuraghe)... assa gruke (alla croce) ...assa petra iunpatu uue sun sos
thithiclos (cioè alla pietra confinaria, oltrepassati i betili con
sporgenze a forma di mammella) ... a
derettu assas petras dessu monimentu de gulparios (fino alle pietre della
sepoltura di gulparios) ecc.: siamo
di fronte ad una precisissima indicazione confinaria, che poggia su alcuni
monumenti difficilmente amovibili, uno dei quali è sicuramente rappresentato da
almeno un betilo con rappresentazione femminile, interpretato esattamente
dall’agrimensore medioevale[158]. Si osservi che altre pietre fitte o
menhirs sono documentate nel Condaghe di San Nicola di Trullas, vd. ad esempio
la petra ficta[159];
vd. anche pedra infurcata[160], ecc.
Più interesse rivestono i nuraghi, che sono ripetutamente
presenti nel Condaghe, indicati col termine monimentu
o munimentu (forse però tombe o
mausolei)[161], nurache; ma anche castru cioè fortezza[162]
(dal latino castrum), ma talora il
termine castru indica anche pietra
confinaria, cippo di confine[163]:
su castru mannu de ualle de Tirri (301), petra dessu castru dessa gruke, nel
salto di Bioseuin ecc. (scheda 10)[164].
Più frequente è la parola nurake: il Condaghe di Silki conservava
fino a pochi anni fa la più antica testimonianza della parola «nuraghe» e ciò
almeno fino alla pubblicazione dell’epigrafe latina del I o del II secolo d.C.
incisa sull’architrave Aidu Entos di Mulargia, che cita gli Ili(enses) presso il nurak Sessar[165].
Si tratterebbe dell’originaria forma protosarda della parola «nuraghe», che
dunque si caratterizzava per la gutturale finale: la forma nurak non risulta ancora integrata all’interno del sistema
declinazionale latino. Del resto una tale particolarità avrebbe dovuto essere
ipotizzata dagli studiosi a prescindere dal documento di Mulargia, per il fatto
che toponimi nurappònti, nurappedra,
nurakkraba, e simili presuppongono
che il primo elemento terminasse con una velare sorda (la lettera finale di nurak si è regolarmente assimilata,
allungandola, all’occlusiva sorda iniziale del secondo elemento composto, ponti, pedra, kraba, ecc.). Giulio
Paulis ha recentemente messo in rilievo come la testimonianza di Mulargia
preceda di almeno 900 anni quella del Condaghe di Silki, che conosce una serie
di nuraghi[166]: nurache
o nuracke o nurake ispilitu,
pelato (scheda 11); pithinnu (scheda
4, 403); nurake de gollettoriu ma
anche, nella stessa scheda, castru de
gollettoriu, a dimostrazione del fatto che le due parole, castru e nurake sono spesso sinonimi (scheda
202)[167]; susu (202); curthu (257); de corvos (430); d’annauos, cioè delle siepi di pruno selvatico (4); de Guthoppor nel salto di
Teclata (311); dess’elighe, del
leccio (scheda 186); nurake de sutta uia
(203), nurake de termen, nuraghe del
confine (316, vd. anche 193). Vastissima
e stranamente fin qui quasi ignorata[168]
è la documentazione relativa ai nuraghi nel Condaghe di Santa Maria di
Bonarcado[169],
nel Condaghe di San Michele di Salvennor[170],
nel Condaghe di Barisone II[171].
Anche il Condaghe di San Nicola di Trullas documenta l’utilizzazione dei
nuraghi come punti essenziali nella delimitazione dei terreni, a proposito ad
esempio del nurake Donnichellu, oppure
del nuracke Alvu; vd. anche un nuracce[172].
Ci sono poi nuraghi denominati da nomi di
persona o da nomi di luogo, questa volta con la parola castru: castru de Valisandra (scheda
96), castru de Mamusi o Mamuse (casa d’Ogothi nel salto di Gutherva)
(256), castru d’Intermontes (293,
294), castru de Goloppuma a badu de Tavellas (258), dunque in un
guado[173],
dove restavano delle tegole o dei mattoni come forse a Teclata, nel senso di *tegulata
(190, 269, 284, 311, 345, 400)[174];
oppure da fontane: castru dessa funtana
dess’ulumu (192). Vd. inoltre il castru
dessa serra (294), nel salto di Murgokia
presso Uras; oppure, nel Condaghe di Trullas, su castru dessu ager[175].
Nel Condaghe di Barisone II, il termine saltu
de castru muratu allude alla presenza di un nuraghe entro il latifondo di
proprietà giudicale[176].
L’uso di trovare dei segnacoli fissi, che
non possano essere rimossi dai confinanti, è conosciutissimo in Sardegna già
nell’antichità[177];
la funzione dei nuraghi era dunque fondamentale e nell’iscrizione di Mulargia,
come nel Condaghe di Silki, siamo di fronte ad un’indicazione confinaria,
questa volta di età imperiale.
Oltre dieci anni fa, in uno dei suoi
ultimi articoli sull’Archivio Storico
Sardo Alberto Boscolo affrontò il problema delle sepolture in Sardegna
nell’alto medioevo e poté sostenere che l’espressione «assas petras dessu monumentu de gulparios» della scheda 62 può
essere spiegata con riferimento al materiale per chiudere i terreni, con il quale
era costruita una tomba[178].
L’edificio è menzionato in un atto del giudice Mariano, che cedeva al monastero
di S. Pietro di Silki il salto di Pietralata ed un chiuso di bestiame situato
nel territorio di Nuracati, un villaggio presso Porto Torres poi distrutto. Nei
confini del salto, presso lo stagno di Iennanu,
di proprietà del donnicello Pietro, si trovava il monimentu de gulparios; e secondo Boscolo, poiché gulbare-bulbare era il chiuso per il bestiame bovino[179]
e i gulparios erano gli addetti ai
chiusi, sia per la sorveglianza sia per la costruzione, se ne potrebbe ricavare
qualche conclusione più ampia, pensando proprio a delle tombe (magari costruite
con lo stesso materiale dei chiusi). Questa dimostrazione è però da
abbandonare, dal momento che le origini del termine gulparios sono state fraintese da Boscolo e in realtà vanno
collegate con gulpe, volpe; il monumentu de gulparios potrebbe non
essere una tomba ma più semplicemente un nuraghe.
Viceversa ad un monumento funerario
anonimo ci conduce l’espressione del Condaghe: su fundu dessu kerku dessu monimentu ki est supra sa via de Petrade (schede
398 e 378) per segnare i confini del salto di Baniaria (nel senso di Bangiaria,
dal lat. Balnearia) donato da Giorgia
de Lacon, moglie di Comita de Navithan e figlia del donnicello Pietro di
Logudoro al monastero di Silki: se non si tratta di un nuraghe, può essere
forse accettata la traduzione di Ignazio Delogu: «in direzione della quercia
della sepoltura che sta sopra la via di Petrade», in agro di Uri.
Ancora più esplicita è la scheda 285
relativa ad un terreno di Codrongianus appartenente a Comita de Gunale, figlio
del giudice Mariano e di una sua concubina, da lui ceduto al monastero di San
Pietro in punto di morte: in questo caso il confine è segnato dalla sepoltura
della vecchia: assu derecctu dessu
monimentu dessa seneca. Un'analoga
espressione è riferita per un edificio
del salto di Querquedu, donato nel 1230 dal giudice Pietro d'Arborea a Santa
Maria di Bonarcado[180].
Penserei dunque a tombe oppure meno
probabilmente a piccoli mausolei rurali tardo-romani, magari in rovina, forse
con una statua, secondo un modello al momento sconosciuto in Sardegna, ma ben
noto nel Nord Africa. Viceversa Boscolo pensava a nuraghi, collocati in una
vigna antica, binia senega[181].
Ma la spiegazione non appare convincente, anche perché il termine senega preso singolarmente fa sempre
riferimento a persone e mai ad oggetti. Altre tombe sono citate ad esempio nel
Condaghe di Barisone II, come a proposito del confine del Saltu d’Ackettas (dei puledri), che arriva fino alla fontana delle
tombe di Santa Maria di Pisa: da dave
funtana dessas tumbas de Sancta Maria de Pisas.[182]
Già Massimo Pittau ha segnalato come
alcuni toponimi possano alludere ad antiche tradizioni popolari praticate
nell’antichità: è molto noto il vivace articolo su Geronticidio, eutanasia ed infanticidio pubblicato sull’VIII volume
de L’Africa Romana.[183].
Una delle testimonianze citate è proprio ripresa dalla scheda 423 del Condaghe
di Silki, per il salto di Othicheor: assa corona d’Inglutti theraccos, nel
senso di 'inghiottibambini' o di ‘inghiottiservi’. Si tratterebbe di un «toponimo carico di valenza dimostrativa»,
che dimostrerebbe come «l’usanza dell’infanticidio era conosciuta nel medioevo
perfino in zone strettamente attigue a Sassari», utilizzando qualunque sorta di
«inghiottitoio usato per la macabra operazione»[184].
Pittau invoca un confronto con Sparta e con la voragine del Monte Taigeto;
mentre in Sardegna cita il confonto con la località isquelveddateraquos in comune di Oliena e con molti altri toponimi
analoghi[185].
La tradizione dell’uccisione dei bambini
nella Sardegna cartaginese doveva essere illustrata nell’opera storica di
Timeo, per noi perduta, che sappiamo trattava cercamente dell’uccisione dei
vecchi ultrasettantenni, a proposito dei sacrifici a Kronos, collegati al mito
del riso sardonio[186]:
noi abbiamo una serie di versioni, attraverso fonti derivate, che ci consentono
di ricostruire quasi esattamente la notizia originaria di Timeo, che forse
pensava a tradizioni indigene originatesi in età nuragica. Per Fozio (IX
secolo) l'espressione SardÒnioj gšloj era legata all'uso documentato da Timeo di sospingere a
suon di legnate fino alle fosse preparate per loro le persone anziane che
avevano vissuto un tempo abbastanza lungo[187].
Anche per la Suida, Timeo riferiva ai Cartaginesi che avevano occupato la
Sardegna, «isola collocata presso le colonne d'Ercole», l'uso rituale di
sacrificare a Kronos i genitori che avevano oltrepassato la settantina; dal
fatto che gli abitanti della Sardegna eseguivano quest’operazione che era
considerata disumana, mentre i genitori ridevano, e mentre li percuotevano con
delle verghe o li facevano precipitare da dirupi di notevole altezza, sarebbe
nata l'espressione «riso sardonico»[188].
La stessa Suida attribuisce a Timeo la
notizia che i vecchi venivano sospinti mediante dei bastoni dentro una fossa
entro la quale dovevano poi essere seppelliti; e prima di morire ridevano[189].
In uno scolio alla “Repubblica” di
Platone si riprende Timeo a proposito degli abitanti della Sardegna (non più
distinti dai Cartaginesi), usi a sacrificare i genitori con una cerimonia
barbara: «Gli abitanti della Sardegna (oƒ g¦r t¾n Sardë katoikoàntej), stando a quanto riferisce Timeo, nel
momento in cui i loro genitori hanno raggiunto la vecchiaia (e a quel punto i
figli riconoscono che i loro padri hanno ormai vissuto un tempo abbastanza
lungo) li conducono al luogo in cui hanno in animo di seppellirli; e una volta
sul posto, durante l’escavazione delle fosse i vegliardi si pongono a sedere
col sorriso a fior di labbra, pur consapevoli di trovarsi ad un istante dalla
morte; allora ognuno di questi giovani brandendo un randello mena colpi al
proprio padre e lo sospinge verso le fosse; racconta ancora Timeo che i
vegliardi, compiacendosi dell’operazione dei propri figli, giungevano alla
morte con apparente manifestazione di gioia, ed emettevano l’ultimo sospiro col
sorriso e nella letizia»[190].
Ancora il paremiografo Zenobio precisa
che Timeo intende testimoniare che la morte dei vecchi in Sardegna era più
serena, perché si affidava ad un rito ancestrale: «e anche al momento in cui
gli stessi genitori andavano in malora, ridevano per questa azione dei loro
figli e morivano tranquillamente e con piacere». [191].
Un’altra versione parallela era già in Demone, contemporaneo di Timeo[192].
E’ molto nota la polemica di Polibio
contro il popolarissimo Timeo (356-260 a.C. circa) per le esagerazioni e le
imprecisioni con cui avrebbe parlato delle vicende svoltesi in Sardegna: nel
XII libro delle Storie Polibio gli
dedicava un lungo excursus,
all’interno della sezione dedicata agli errori ed alle esagerazioni di Timeo,
probabilmente sostenendo che è intollerabile che i Cartaginesi vengano ridotti
a barbari rozzi in confronto ai greci civilizzati, solo per il malanimo e
l’acrimonia di Timeo. In questo quadro si pone anche il racconto del rituale
del sacrificio dei fanciulli seguito dai Cartaginesi in Sardegna nei tofet
fenicio-punici, che va in realtà anch’esso collocato all’interno della polemica
contro le esagerazioni di Timeo[193].
In un paragrafo del libro, intitolato Timaei de Africa et Corsica errores[194], Polibio afferma che Timeo non solo era
male informato (¢nistÒrhton) sulle
caratteristiche della Libia, ma anche ingenuo come un bambino (paidariwvdh),
del tutto scriteriato (telšwj ¢sullÒgiston) e completamente legato alle antiche dicerie che ci sono
state tramandate: per Polibio Timeo racconta eventi incredibili e riferisce per
sentito dire errori ed interpretazioni discutibili. E ciò perché Timeo non ha
ritenuto di raccogliere informazioni e dati, frutto di ricerche personali lungo
il Mediterraneo, ma si è stabilito comodamente ad Atene per cinquanta anni,
dedicandosi a studi di carattere esclusivamente teorico e documentario. Polibio precisa: come è stato superficiale
nel parlare delle caratteristiche della Libia, così Timeo lo è stato nel dare
conto dell’isola che chiamano Cirno, parlando di capre selvatiche, pecore, buoi
selvaggi ed altri animali. E più avanti: pl¾n Ðti ge kakîj istÒrhke kaˆ t¦ perˆ t¾n' Libu»n kaˆ t¦ perˆ t¾n SardÒna, kaˆ m£lista
t¦ kat¦ t¾n 'Ital…an, ™k toÚtwn ™stˆ sumfanšj: dunque da queste osservazioni (per noi purtroppo perdute)
risulta chiaro che Timeo ha avuto una cattiva conoscenza della Libia, della
Sardegna e soprattutto dell’Italia, in particolar modo perché in lui è del
tutto trascurata la fase delle indagini personali, che costituisce invece
l’aspetto più importante della ricerca storica[195].
E’ perduta la parte delle Storie nella quale Polibio indicava
quali informazioni sulla Sardegna fornite da Timeo erano frutto di esagerazioni
o di travisamenti: il caso dell’uccisione dei vecchi e con quasi certezza anche
dell’uccisione dei bambini sono però senz’altro da includere in questi esempi
di quelle che Polibio ingenerosamente riteneva esagerazioni di Timeo e che
viceversa appaiono fatti storici radicati in una tradizione locale quanto mai
solida, la cui realtà potrebbe essere documentata anche a livello
toponomastico, a prescindere dal giudizio di Polibio; del resto non è detto che
Timeo legasse il sacrificio dei vecchi a Kronos alle tradizioni cartaginesi,
dato che i testimoni alludono più genericamente agli abitanti della Sardegna,
forse degli eredi della civiltà nuragica. Forse anche il Condaghe di San Pietro
di Silki ci ha conservato una debole traccia di questi precedenti.
Altri settori del Condaghe rimangono
interamente da esplorare: ad esempio l'onomastica è veramente di grande
interesse, con riferimento soprattutto alle tradizioni onomastiche di età
tardo-antica, che sembrano riemergere a distanza di secoli[196].
In questa sede è impossibile una
trattazione specifica dell'argomento. Ci si limiterà ad alcuni casi, per lo più
fin qui sfuggiti agli studiosi. Lussuria
della scheda 168 è senz'altro un nome collegato con il martire Lussorio di
Forum Traiani[197],
testimoniato dal toponimo attuale Santu Lussurgiu e ampiamente utilizzato
nell'antichità[198].
A parte il frequentissimo nome Gosantine,
con chiara derivazione bizantina in connessione con Costantino Magno[199],
anche Massimilla, protagonista di
tante pagine del Condaghe[200],
porta in realtà un nome ben attestato nella Sardegna romana, come p.es. a
Fluminimaggiore, dove una [M]aximilla
è ricordata nell’epitafio inciso su una lastra opistografa posta
originariamente per il soldato Surdinius
Felix[201];
ma l’origine sarda dell’abadessa
Massimilla, sostenuta anche di recente[202],
è tutt’altro che provata.
Di origine classica e nord-africana
appare il nome di Mattrona della
scheda 35 e della serva Matrona della
scheda 205; in un’iscrizione tardo-antica di Carales il nome compare nella
forma Matrona [203],
che con tutta probabilità è ricalcata sul nome della celebre martire africana
di Abitina[204].
Allo stesso modo il prete Isperate,
testimonio nell’atto di donazione (356 e 358) e confessore di donna Giorgia de Thori (376), porta un nome
che forse è da collegare con il toponimo di San Sperate e con le iscrizioni di Speratus, che potrebbero testimoniare
direttamente o indirettamente l’arrivo in Sardegna in età vandala delle
reliquie di un martire africano, durante l’episcopato di Brumasius[205].
Tra i cognomi c’è da segnalare quello
portato da Istefane Barbaru, forse
connesso con la Barbaria, l’attuale
Barbagia (195), per quanto il nome sia attestato in età classica in un ambito
più vasto (non isolano), se è portato, ad esempio, da un preside di età
dioclezianea[206];
ma anche Sardinia (275), che non mi
sembra documentato in età classica, quando però compare di frequente il cognome
Sardus[207];
oppure Petru de Mukianu (205), un
servo di San Pietro il cui cognome forse richiama il Mukanus di un’iscrizione cristiana di Porto Torres[208].
Molto maggiore interesse hanno i nomi
tipicamente sardi, quasi sicuramente pre-latini, espressione di quella che
Lidio Gasperini chiama la Sarditas indigena[209]:
alcuni di questi nomi medioevali tipici della Sardegna sono in realtà già
documentati in età romana, come il Torbenius di Ula Tirso loc. Sas Antas (nel Canales)[210],
così come il Torvenius di Pischina ‘e Pinna di Busachi ed ora ad Ula
Tirso[211],
che vanno senz'altro collegati col medioevale Dorueni de Caruia della scheda 414[212],
ma più in generale col nome Torbenus,
portato ad esempio dai giudici arborensi (ampiamente ripreso nelle Carte
d’Arborea).
I nomi romani Nispellus e Nispenini,
documentati ad Ula Tirso ed a Macomer, sono certamente da avvicinare al
medioevale Nispella (vedi ad esempio la moglie del giudice cagliaritano
Torchitorio nell’XI secolo) esito di un sostrato protosardo già testimoniato in
età antica[213].
Il nome Ietoccor Torceri filius di un cippo di Busachi è lo straordinario
precedente del diffusissimo Ithoccor (meno
spesso Ithocor, Itthoccor e Ithochor), portato dal esponenti dell'aristocrazia
giudicale, presente spessissimo anche nel Condaghe di Silki[214].
Allo stesso modo il Tartaso del Condaghe di
Trullas potebbe trovare riscontro con il Tartalasso
classico di un dolium di Tertenia[215].
In conclusione, mi limiterò a discutere i
problermi posti dalle attestazioni del nome Inbenia,
che compare ad esempio nella scheda 341, dove è ricordata come figlia di due
servi, Preuiteru Petru e Furata Cocote, primogenita di quattro figli e madre di Istefane[216].
Conosciamo poi nella scheda 46 la serva intera (integra) Inbenia Plana,
contesa in una lite dal vescovo Jorgi
Maiule; infine una ricca Inbenia de
Runda (330). Più interessante è la
poco nota documentazione di una S(an)c(t)a
Inbenia (probabilmente in relazione ad un convento più che ad una chiesa
che aveva a Codrongianus delle proprietà contigue a quelle di San Pietro) nella
scheda 316 relativa alla delimitazione di un terreno: «termen
dessu saltu: aue petra de ponte, e baet sa uia a guluare de Turre, de co
parthimus de pare cun sca. Inbenia e moliat sa uia e ccolat a nurake de termen».
In un recentissimo articolo pubblicato
negli atti del convegno svoltosi nel 1997 ad Oristano su «Giudicato di Arborea
e Marchesato di Oristano», Sante Bortolami ha riferito il nome Inbenia al menologio orientale
bizantino, ritenendo che Inbenia
starebbe per Eugenia[217].
Ne deriva la conseguenza che la martire citata nel Condaghe dovrebbe essere
bizantina e non di origine sarda. In realtà le spiegazione è improponibile,
perché il nome Inbenia è presente in
Sardegna nella documentazione epigrafica precedente all’età bizantina. Maria
Giovanna Campus nell'VIII volume de L’Africa
Romana (1990)[218]
ha rivalutato la testimonianza di una lastra con titulus funerario, rinvenuta
nel 1627 presso la chiesa di S. Lussorio a Cuglieri, chiarendo le circostanze
del ritrovamento; migliorando la lettura di CIL
X 1248*, il testo viene così restituito: hic
req(ui)escet fa/mula d(e)i Inbenia /
m(ense) ianuarii d(ie) III /
migravit a sec(ulo) / in D(omi)no / amen.
In passato - non senza qualche ragione,
fondata sull’inesattezza della tradizione manoscritta - io stesso avevo
sostenuto la falsità del documento[219],
che in realtà è sicuramente autentico e può essere riferito al V o al VI secolo
d.C., dunque in età vandala, quasi certamente prima dell’occupazione bizantina
della Sardegna.
Effettivamente c'è la singolarità del
nome, che recentemente Heikki Solin, su «Arctos» (1993) ha inteso come Inventa, nel senso di «trovatella»[220];
ciò non toglie che il nome Inbenia
sia assolutamente un unicum nell’orbe
romano ed abbia una testimonianza sicura che precede l’età bizantina.
Quella di Cuglieri è una martire locale
uccisa dai Vandali ? A me non sembra.
Intanto per l’abbreviazione m. dell'epitafio,
che può essere intesa m(artir) ma
meglio m(ense) e soprattutto per il
fatto che la chiesa di Cuglieri non conserva il nome della santa ma quello di
un altro martire locale, Lussorio; del resto escluderei la presenza di martiri
di età vandala in Sardegna proprio per le caratteristiche dell’occupazione e
per ragioni che ho ampiamente esposto in altra sede[221].
Viceversa nulla impedisce di pensare che sia effettivamente esistita una santa Inbenia, forse una martire isolana di
età dioclezianea, il cui culto appare testimoniato nel Condaghe: la popolarità
della santa può essere stata tale da diffondere un nome raro in tutta l'isola
già due secoli dopo la sua morte, in età vandala, come vedremo testimoniato in
età medioevale. Dunque non sembra impossibile che Inbenia fosse un nome impiegato in Sardegna in età tardo-antica,
adottato a Gurulis da una famiglia devota.
Gli esempi possono moltiplicarsi: ci
accontenteremo in questa sede di aver tracciato le linee di una ricerca che si
annuncia quanto mai fertile e stimolante.
* Debbo un vivo ringraziamento ai tanti
colleghi ed amici che hanno discusso con me questo testo: Manlio Brigaglia, Ignazio Delogu, Giovanni
Lupinu, Mauro Maxia, Alberto Moravetti, Giulio Paulis, Paola Ruggeri, Alessandro
Soddu, Antonio Francesco Spada, Raimondo Zucca.
[1] Per il testo sarà gioco forza seguire
l'edizione di G. Bonazzi, sostanzialmente l'unica ancora oggi disponibile (Condaghe di S. Pietro di Silki. Testo
logudorese inedito dei secoli XI-XIII, a cura di G. Bonazzi,
Sassari-Cagliari 1900), con le integrazioni della traduzione italiana di
Ignazio Delogu (Il Condaghe di San Pietro
di Silki, traduzione e introduzione a cura di I. Delogu, Sassari 1997). Un
utile indice-glossario è quello di A. SATTA, Il Condaghe di San Pietro di Silki. Indice-Glossario generale, verifica
del testo sul manoscritto, Sassari 1982.
[2] F.C. CASULA, La Storia di Sardegna, Sassari 1992, p. 253; vd. DELOGU, Introduzione, in Il Condaghe cit., pp. 28 s.; ID., Donnos, servos, appatissas e priores nella più grande «Cronaca» del Medio Evo Sardo: il Condaghe di S.
Pietro di Silki, «Sacer. Bollettino della Associazione Storica Sassarese»,
VIII, 8, Sassari 2001, p. 160.
[3] Per le date, vd. AA.VV., Genealogie medioevali della Sardegna,
Cagliari-Sassari 1984, pp. 66 s. (Gosantine ha regnato tra il 1082 ed il 1124,
Gunnari tra il 1116 ed il 1153, Barusone III dal 1147 al 1191, Gosantine II dal
1170 al 1198, infine Mariane III tra il 1204 ed il 1229).
[4] B. TERRACINI, Romanità e grecità nei documenti più antichi di volgare sardo
(Riassunto), in Atti del II Congresso
Nazionale di studi Romani, III, Roma 1931, pp. 205 ss; ristampa in Pagine e appunti di linguistica storica,
Firenze 1957, pp. 189 ss.
[5] Vd. A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo,
Cagliari 1917; G. PAULIS, Lingua e
cultura nella Sardegna bizantina. Testimonianze linguistiche dell'influsso
greco, Sassari 1983; ora ID., Studi
sul sardo medioevale, "Officina linguistica", I,1, settembre
1997.
[6] CSPS scheda 27, 28, 45, 62, 74, 75, 76,
80, 97, 147, 180, 186, 205, 221, 254, 271 ecc., vd. P. MELONI, La Sardegna romana, Sassari 19912, pp.
155 ss.
[7] DELOGU, Introduzione, in Il Condaghe
cit., p. 19.
[8] Vd. DELOGU, Donnos, servos cit., pp. 145 ss.
[9] Ad es. nelle schede CSPS 38, 427.
[10] La villa è citata ad esempio nel CSNT,
vd. Il Condaghe di San Nicola di Trullas,
a cura di P. Merci, Sassari p. 287 ed p. 352.
[11] Itin. Ant. p. 11 Cuntz = 82,2 Wesseling.
[12] Vd. DELOGU, Donnos, servos, cit., p. 166.
[13] Dorgotori
de Carvia, Thippari de Carbia, Nicoli de Carbia, Ithoccor de Carbia, Janne de
Carbia, Petru de Carbia, Comita de Caruia o de Carbia, Gosantine de
Carbia, Susanna de Caruia, Niscoli de
Carvia, Dorueni de Caruia, Gunnari de Caruia, ecc. schede 73, 79, 80, 82, 100, 108, 130, 175,
176, 191, 211, 222, 233, 290, 321, 351, 352, 357, 357, 359, 384, 385, 414, 415,
426, 435, ecc. Vd. anche il CSNT 63,2.
[14] Itin. Ant. p. 11 Cuntz = 83,7 Wesseling.
[15]
Nel CSPS è citato il notissimo arcivescovo di Torres Gosantine de Castra (340), sul quale vd.
A. MASTINO, La chiesa di San Pietro di
Bosa alla luce della documentazione epigrafica, in AA.VV., Le chiese di Bosa, Cagliari 1978, pp. 26
ss.; conosciamo inoltre Susanna de Castra
(273). Vd. anche CSNT 166,1 e 184,1. A Castra
va localizzato su molinu de Castra
del Condaghe di Barisone II, vd. G. MELONI, A. DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale e Sardegna del XII secolo, Napoli 1994, p. 162 f. 6r, 15; per su molinu de Sancta Maria de Castra, vd.
ibid., p. 164 f. 6v, 2-3.
[16] ANON. RAV. V,26 p. 412 Pinder-Parthey =
p. 102 Schnetz; vd. anche GUIDO 64, p. 500 Pinder-Parthey = p. 128 Schnetz.
[17] Vd. A. MASTINO, Ancora un titolo sepolcrale dal castrum di Luguido (Oschiri), "Nuovo Bullettino Archeologico
Sardo", I, 1984, pp. 189 ss.; Y. LE BOHEC, La Sardaigne et l'armée romaine sous le Haut-Empire, Ozieri 1990,
pp. 66 s. Nulla a che fare la via de Castrovetere del CSMB 4, cfr.
indice p. 128, una località in realtà
nell’Oristanese. Vd. invece nel Condaghe di S. Michele di Salvennor il camino que ban los de Castra a Gisalcro (vd. V. TETTI, Il Condaghe di S. Michele di Salvennor. Patrimonio dell’abbazia
vallombrosana, Sassari 1997, nr. 190).
[18] Itin.
Ant. p. 11 Cuntz = rispettivamente 83,2 e 80,2 Wesseling.
[19] Per Viniola,
vd. ora L. DI SALVO, Un fitonimo delle
Naturales Historiae di Plinio e un antico toponimo in Sardegna, «Civiltà
classica e cristiana», XIV,3, 1993, p.
272 n. 79. Ad altre località della Sardegna romana rimandano in modo
trasparente alcuni toponimi medioevali come Ficulinas
(con il toponimo attuale Florinas nella forma Ficulinas nella scheda 43 o
Ficulinas de Castellu nella scheda
245; vd. anche Figulinas e Fiulinas, nella scheda 410). Numerosi
sono i toponimi prediali recentemente studiati da M. Pittau: anche qui solo
pochi esempi: il Condaghe vecchio cancellato (illeggibile) iskecatu, ricopiato prende il nome da S. Maria de Cotronianu. Lo stesso toponimo è relativo alla chiesa
di Santu Paulu de Cotronianu, i cui
beni e transazioni registrati nel CSPS; vd. anche le schede 43, 285, 286, 288, 315, 316, 317, 318, 322,
325, 339, 340, 344, 380, 390, 410, 420, 437 ecc., che danno la forma Cotronianu, che precede l’attuale
Codrongianus oppure Quotronianum della
scheda 427, che è stata connessa con il toponimo prediale classico *Contronianus, dalla gens Cotronia (per una serie di confronti analoghi, vd. M.
PITTAU, Latifondisti, coloni, liberti e schiavi romani in Sardegna e in
Barbagia. Le prove linguistiche, "Quaderni Bolotanesi", 19, 1993,
pp. 209 ss.). L’abbazia San Michele di Plaianu, citata sia nel Condaghe di S.
Pietro di Silki (74, 244, 272, 309, 353,
354), che in quello di Trullas (CSNT 263, 1, vd. MERCI, op.cit., p. 290), ci conduce al cognome latino Plarianus, portato da A.
Egrilius Plarianus di origine ostiense della grande targa marmorea con
iscrizione conservata a N.S. di Tergu: A(ulus)
Egrilius A(uli) f(ilius) Plarianus decurial(is) scr(iptus) cer(ariorum) et
Cl(audia) Ti(berii) f(ilia) Hermione fecerunt Cl(audiae) Ti(berii) f(iliae)
Irenae lib(ertis) libertabus posterisque eorum (CIL X 7955 = XIV 346 = ILS
6151, vd. A. MASTINO, Popolazioone e
classi sociali a Turris Libisonis: i legami con Ostia, in A. BONINU, M. LE
GLAY, A. MASTINO, Turris Libisonis
colonia Iulia, Sassari 1984, p. 93 nr. 7).
[20] CSPS
6, 12, 34, 46, 57, 67, 68, 83,
85, 93, 128, 137, 146, 160, 161, 166, 246, 311, 349, 356, 374, 377, 423,
432, 435 la famiglia è citata nelle schede 138, 311 (o il villaggio ?), vd. DELOGU, Donnos, servos cit., p. 166.
[21] CSPS 6, 12, 244, 338, 358, 410, ecc.
[22]
MERCI, op. cit., p. 274.
[23]
CSNT 43,1; vd. anche MERCI, op.cit.,
pp. 331 s.
[24] Ibid.,
pp. 283 s.
[25]
M. PITTAU, I nomi di paesi città
regioni monti fiumi della Sardegna, significato e origine, Cagliari 1997,
p. 87.
[26]
CIL X 7930 = I,22 2227 =
ILS 5983 = ILLRP I, p. 227 nr. 478 e add.
II, p. 387, vd. A. MASTINO, Cornus nella
storia degli studi (con catalogo delle iscrizioni rinvenute nel territorio del
comune di Cuglieri), Cagliari 19822, pp. 121 e ss. nrr. 20 e ss.; ID., La supposta Prefettura di Porto Ninfeo
(Porto Conte), "Bullettino dell'Associazione Archivio Storico Sardo di
Sassari", II, 1976, pp. pp. 193 ss.
[27] Cfr. R. CARTA RASPI, Le classi sociali nella Sardegna medioevale.
I servi, Cagliari 1938, I, pp. 7 ss.; G. BORGHINI, Le prestazioni di manodopera e di servi nel condaghi sardi, in
"Le prestazioni d'opera nelle
campagne italiane del Medio Evo", IX Convegno storico di Bagni di
Lucca, 1-2 giugno 1984, Bologna 1987, pp. 159 ss.
[28] Vd.
II sollos de pecuiu, in CSPS 321.
[29] Vd. CARTA RASPI, Le classi sociali cit., pp. 7 ss.; ID., Storia della Sardegna, Milano 1983,
pp. 380 ss.
[30]
Vd. SATTA, Il Condaghe cit.,
pp. 81 s.; CSNT, in MERCI, op.cit., p. 208 s.v. fetu.
[31] C.Theod. II, 25, 1,
vd. MELONI, La Sardegna romana cit., pp. 211 ss.
[32] CSPS
145, 154, 258, 285.
[33] Vd. A. MASTINO, Il così detto declino di Turris, in A. MASTINO, C. VISMARA, Turris Libisonis (Sardegna
archeologica, Guide e Itinerari, 23), Sassari 1994, p. 57.
[34] M. BLOCH, I colliberti, in La servitù
nella società medievale, Firenze 1975, capp. VI-VII, pp. 319 ss. (nuova
ediz. Firenze 1993, pp. 189 ss.); N. TAMASSIA, I colliberti nella storia del diritto italiano, in Scritti di storia
giuridica, Padova 1969. Vd. già R. CARTA RASPI, Le classi sociali nella Sardegna medioevale, Cagliari 1938, II, pp.
33 ss.; A. MARONGIU, Saggi di storia
giuridica e politica sarda, Padova 1975, pp. 29 ss.; da ultimo F. PANERO, Il servaggio sardo e la questione dei
colliberti, in Schiavi, servi e
villani nell’Italia medievale (Le testimonianze del passato, 11), Torino
1999, pp. 64 ss. Per i colliberti nella Sardegna romana, vd. da ultimo AEp. 1997, 752 (Neapolis).
[35] Cfr. B. FOIS, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, Pisa
1990, p. 141. Vd. anche M.L. WAGNER, in Dizionario Etimologico Sardo, I,
Cagliari 1989, p. 365, per il quale «non sembra che i liberti e colliberti si
trovassero in condizione migliore dei servi, le tre parole essendo usate
promiscuamente».
[36]
CSNT 129,1; vd. MERCI, op.cit., p. 190.
[37] Così PAULIS, Origine e storia di una istituzione della Sardegna medioevale: la chita, in Studi
sul sardo medioevale, "Officina linguistica", I,1, settembre
1997, p. 22, con una sintesi delle posizioni precedenti.
[38] Così PAULIS, La chita cit., p. 35.
[39] Vd. A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo,
Cagliari 1917, p. 21; PAULIS, La chita cit., p. 21.
[40] G. CHERUBINI, Presentazione, in FOIS, Territorio
e paesaggio agrario cit., pp. VII ss.
[41] Cfr.
ad es. il saltu donnicu (nel senso di
«apparenente al giudice») di CSNT 6,1; analoga la caratterizzazione anche per i
servi di proprietà pubblica, come l’ankilla
integra de su rennu nel CSNT 280,2, vd. MERCI, op.cit., pp. 252 s.; oppure i seruos
de rennu di CSPS 62.
[42] FOIS, Territorio e paesaggio agrario cit., pp. 145 ss
[43] Cfr. AA.VV., La Tavola di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella
Barbaria Sarda, Sassari 1993, cfr. FOIS, Territorio e paesaggio agrario cit., pp. 18 ss.
[44]
Vd. C. COSSU, G. NIEDDU, Terme e
ville extraurbane della Sardegna romana, Oristano 1998.
[45] Vd. FOIS, Territorio e paesaggio agrario cit., pp. 36 ss.
[46] Vd. DELOGU, Introduzione, in Il Condaghe
cit., p. 16.
[47] FOIS, Territorio e paesaggio agrario cit., pp. 91 ss. Vd. anche P.
MANICHEDDA, Il Condaghe di Santa Chiara.
Il manoscritto 1B del Monastero di santa Chiara di Oristano, Oristano 1987,
pp. 22 ss.
[48] Codex
Diplomaticus Sardiniae, I, p. 188; vd. FOIS, Territorio e paesaggio agrario cit., pp. 120 ss.; PAULIS, La chita cit., p. 16. Vd. anche B. Fois, Attrezzi da lavoro e macchine semplici nelle campagne sarde fra antico
e altomedioevo, in "L'Africa
Romana", VIII, 1990 (1991), pp. 713 ss.
[49]
Vd. DELOGU, Donnos, servos
cit., p. 168; SATTA, Il Condaghe
cit., p. 104.
[50] Vd. DELOGU, Introduzione, in Il Condaghe
cit., pp. 49 s. ID., Donnos, servos
cit., pp. 169 s.
[51] Vd. MELONI, La Sardegna romana cit., pp. 211 ss.; per i confronti africani, vd.
D. VERA, Enfiteusi, colonato e
trasformazioni agrarie nell'Africa Proconsolare, in "L'Africa Romana", IV, 1987 (1988),
pp. 267 ss.
[52] Cod. Theod. II, 25,1.
[53] Vd. A.
MASI, Ricerche sulla 'res privata' del
'Princeps', Milano 1971, pp. 55 ss.; R. DELMAIRE, Largesses sacrées et «res privata». L'«aerarium» impérial et son administration
du IVe au VIe siècle (Coll. EFR,
121), Roma 1989, pp. 659 ss.
[54] C. BELLIENI, Enfiteusi, schiavitù e colonato in Sardegna all'epoca di Costantino,
Cagliari 1928, pp. 3 ss.
[55] Vd. FEST. pp. 428, 430 Lindsay,
cfr. M. PITTAU, La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi, Sassari 1981, pp. 36
ss.; per un'origine più recente dell'espressione, collegate alle campagne di
Tiberio Semprionio Gracco tra il 177 ed il 176 a.C;, v.d. A. MASTINO, Ettore Pais e la Sardegna romana, in La figura di Ettore Pais a cura di L.
Polverini, Roma 2001, p. 287.
[56]
Vd. SATTA, Il Condaghe cit.,
p. 16 s.v. ancilla, ankilla, ankillas,
anchillas, ancillis (si noti l’ablativo); p. 169, s.v. seruo (si noti l’ablativo), seruos,
seruu, servuum, seruos, ecc.
[57] Vd. A. SANNA, I liberos de paniliu nella Sardegna medioevale, "Annali delle
Facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero dell'Università di Cagliari",
35, 1972, pp. 227 ss.
[58] C. BELLIENI, La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico, Cagliari, II
1931, p. 46, vd. A. MASTINO, P. RUGGERI, Camillo
Bellieni e la Sardegna romana, "Sesuja", 17-18, 1995-96, pp. 23
ss.
[59] Vd. MELONI, La Sardegna romana cit., pp. 97 ss.
[60] Vd. A. MASTINO, P. RUGGERI, Claudia
Augusti liberta Acte, la liberta amata da
Nerone ad Olbia, "Latomus", LIV,3, pp. 513 ss.
[61] Vd. DELOGU, Introduzione, in Il Condaghe
cit., p. 9 ss.
[62] Vd. DELOGU, Introduzione, in Il Condaghe
cit., p. 42.
[63]
V. TETTI, Osservazioni e
precisazioni sulle antiche strade romane nella zona di Bonorva, «Sacer.
Bollettino dell’Associazione Storica Sassarese», 5, 1998, pp. 137 ss.
[64]
La voce manca nel recente Dizionario
della lingua sarda di M. Pittau, Cagliari 2000, vd. però a p. 936 s.v. trèmene. Vd. anche E. ESPA, Dizionario sardo-italiano dei parlanti la
lingua logudorese, Sassari 2000, p. 1211 s.v. termene. Per la lista delle
numerose attestazioni del CSPS, vd. SATTA,
Il Condaghe cit., p. 177.
[65] Vd. DELOGU, Introduzione, in Il Condaghe
cit., p. 12. Per la parola termen nel
Condaghe di Barisone II, vd. MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale cit., p. 158 f. 5r 5-6 ; 10r, 16-17.
[66] CSNT 65,2, vd. MERCI, op. cit., p. 234. La spiegazione più
semplice sarebbe quella di ipotizzare che la N sia stata incisa in età
medioevale per indicare le proprietà del convento di San Nicola. Per gli altri condaghi, vd. ad es. MELONI,
DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale cit.,
p. 158 f. 5r 5-6 (termen de Oliula);
p. 178 10r, 16-17 (termen dessu iudike de
Arbore).
[67]
Scheda 10. Vd. MERCI, op. cit.,
p. 193, con l’elenco delle schede.
[68]
MERCI, op. cit., p. 260 s.
[69]
Abbiamo testimonianza di operazioni catastali per segnare nuovi confini
p.es. in CSPS 96: aterminande pupillos
dessu saltu; 202: custos destimonios
ui furun uue atterminauan su saltu; 203:
donnu Saltaro su frate de iudike ki lu aterminait su saltu; 294: ego Judike Dorgotoriu ki’nde seco dessu
saltu de Murgokia ki fuit de rennu; 309:
Ithoccor de Lella serbu de rennu ki aterminauat su saltu; vd. anche 310
(erroneamente nella traduzione di p. 213); 410: et seruos dessa domo, Petru Unchinu mannu ki acterminauat, nel
senso di «delimitava», da attereminare,
vd. anche la scheda 9.
[70]
Vd. D. SALVI, Il limes
aecclesiae a Santa Gilla, in Insulae
Christi, Il cristianesimo primitivo in
Sardegna, Corsica e Baleari, Oristano 2000, p. 33.
[71]
Per la gruke, vd. SATTA, Il Condaghe cit., pp. 92 s.; TETTI, Salvennor, cit., p. 253.
[72]
Vd. anche ccorona pertusa,
scheda 188.
[73]
WAGNER, in Dizionario etimologico
sardo cit., II, p. 572.
[74]
Vd. SATTA, Il Condaghe cit.,
p. 146 e p. 148.
[75]
Vd. MERCI, op. cit., p. 244.
[76]
Vd. TETTI, Salvennor, cit.,
pp. 285 s.
[77]
MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo
rurale cit., p. 176 f. 9v 13 (spelunca
de Petra Longa e petra de i Stefania),
p. 180 f. 10v 15 (p<etr>a manna de
macta Antoni), p. 178 f. 10r 18 (Coronas
de Petras de lictu).
[78] A. SOLMI, Un nuovo documento per la storia di Guglielmo di Cagliari e
dell'Arborrea, "ASS", 4, 1908, pp. 193 ss.; F.C. CASULA, La diocesi di Usellus-Ales nel periodo
giudicale, in AA.VV., La Diocesi di Ales-Usellus-Terralba, Aspetti
e valori, Cagliari 1975, pp. 231 s.; R. ZUCCA, Neapolis e il suo territorio, Oristano 1987, p. 93 n. 63.
[79]
Il miliario EE VIII 742 = ILS 105 potrebbe documentare l'inizio
dei lavori stradali all'altezza di Fordongianus durante la trentaseiesima
potestà tribunicia di Augusto (nel 13 d.C.), durante il governo del prolegato T. Pompe(i)us [P]roculus; sul
personaggio vd. P. MELONI, L'amministrazione
della Sardegna da Augusto all'invasione vandalica, Roma 1958, pp. 183 s.
pros. 2;
ID., La seconda redazione
della "Geografia" di Strabone e il capitolo riguardante la Sardegna
(V,2,7), "Nuovo Bullettino Archeologico Sardo", 4, 1993-95, in
c.d.s.
[80]
Vd. ad es. MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo
rurale cit., p. 178 f. 10r, 16-17 (termen
dessu iudike de Arbore).
[81]
Al Rio S. Caterina pensa G.C. MOR, In
tema di origini: vescovadi e giudicati in Sardegna, in Studi storici e giuridici in onore di A. Era, I, Padova 1963, pp.
257 ss.
[82] Vd. ora A. MASTINO, Tempio Pausania: Gemellae o Hereum ? in Studi in onore di M. Brigaglia, Roma 2001, in c.d.s.; A. MASTINO,
G. PITZALIS, Ancora sull’artigianato
popolare e sulla «scuola» di Viddalba: le stele inscritte, in "Studi
in onore di G. Sotgiu, in c.d.s.
[83] PLIN. nat. III, 7, 85; vd. PAUS. 10,
17,8; PTOL. 3,3,6; SALL. Frag. pap.
Oxyrh. s.n. 1 b; vd. STEPH. BYZ. 376, 13-14.
[84] CSPS 240: Juuanne
Corsu; 240: Comita Corsu; 282: Janne Corsu; 406: Deodatu Corsu; vd. anche
103, 144, 158, 201, 205, 239, 241, 282, 351, 375, ecc. Vd. inoltre il CSNT
172,1: Dorgotoru Corsu, servo in
Mularia. Per il Condaghe di
Barisone II, vd. MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo
rurale cit., p. 154 f. 4r 10: Iuvanne
Corsu.
[85]
CSPS 242: Corsellu Murtinu. Vd. 17, 149, 160, 186, ecc.
[86]
CSPS 314 e 383: Petru Corsellu.
[87] EE VIII 737 = P. TAMPONI, Silloge epigrafica olbiense con prefazione di Theodoro Mommsen e
appendice di Ettore Pais, Sassari 1895, ristampa a cura di P. Ruggeri,
Milano 1999, p. 56, vd. A. MASTINO, Olbia in età antica, in Da Olbìa
ad Olbia, 2500 anni di storia di una città mediterranea, Atti del Convegno
internazionale di Studi, Olbia 1994, I, a cura di A. Mastino e P. Ruggeri,
Sassari 1996, p. 67 fig. 5 e 6.
[88] CIL X 7981 = TAMPONI, op. cit., p. 49 (Telti).
[89]
Vd. TERRACINI, Osservazioni cit.,
pp. 95 s.; M.L. WAGNER, La lingua sarda.
Storia, spirito e forma, riedizione a cura di G. Paulis, Nuoro 1997, p.
264.
[90]
PTOL. 3,3,6.
[91]
R. DI TUCCI, Cicero Pro Scauro,
Elementi giuridici romani e consuetudini locali nella società medioevale sarda,
“Archivio Storico Sardo”, XXI, 1938, pp. 26 ss.
[92] F. SINI, Comente comandat sa lege, Diritto romano nella Carta de Logu d’Arborea,
Torino 1997.
[93] A. SOLMI, La Sardegna e gli studi storici, «Archivio storico sardo», I,
1905, p. 13; vd. soprattutto ID., Prefazione,
in Testi e documenti per la storia del
Diritto agrario in Sardegna, Sassari 1938, pp. VII ss.
[94] E. BESTA, La Sardegna medioevale, 2, Le
istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, Palermo 1909, pp.
70 ss. Per i curatores rei publicae
di età classica, vd. I. DIDU, Il curator
rei publicae di Turris Libisonis: un
esempio di tardivo processo di sviluppo delle istituzioni municipali romane in
Sardegna, in Sardinia antiqua. Studi
in onore di P. Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno,
Cagliari 1992, pp. 377 ss.
[95] A. CECCHINI, Note sull’origine delle istituzioni processuali della Sardegna
medioevale, Aquila 1927, ora in ID., Scritti
giuridici e storico-giuridici, II, Storia
del processo - Storia del diritto privato, Padova 1958, pp. 207 ss.
[96] A. MARONGIU, Aspetti della vita giuridica sarda nei Condaghi di Trullas e di
Bonarcado (secoli XI-XIII), «Studi economico-giuridici della Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Cagliari», XXVI, 1938, pp. 624 s., ora in Saggi di storia giuridica e politica sarda,
Padova 1975, pp. 13 ss.
[97] CASULA, La storia di Sardegna cit., pp. 167 ss.
[98] Vd. ora G. PAULIS, La machizia nel diritto della
Sardegna medioevale e moderna, in Studi
sul sardo medioevale, "Officina linguistica", I,1, settembre
1997, pp. 99 ss.
[99] C. I., Nov. 23,1; vd. anche Epit. Theod. 23; Epit.
Athan. 7,2, cfr. SINI, Comente comandat sa lege cit., pp. 128
ss.
[100] Ibid.,
pp. 137 ss.
[101] Per la tredicesima indizione, vd. l’intestazione
dell’anno 1180 (anno ab incarnatione eius M° C° Octogestimo, indictione XIII), in
DELOGU, Il Condaghe cit., p. 235. Per
l’indizione classica, vd. A. MASTINO, L’indizione
in due iscrizioni cristiane dalla Sardegna vandala o bizantina, in Epigraphai, Miscellanea epigrafica in onore di Lidio Gasperini, a cura di G.F. Paci, Tivoli 2000, pp. 595 ss.
[102]
Per San Gavino, vd. anche il CSNT, in MERCI, op.cit., pp. 293 s.
[103] Vd. anche CSPS 27, 57, 80 (sa die in sinotu), 243, 372, 372, 373.
[104] Le tre feste principali in Sardegna
vengono ancora dette «pasca»: de Nadale, de Abrile (o Pasqua di
Resurrezione), de Maju. La pentecoste
nel calendario medioevale (ma ancora oggi), dovendosi celebrare 50 giorni dopo
la Pasqua, cadeva dal 10 maggio al 13 giugno.
[105] Vd. A.F. SPADA, Storia della Sardegna cristiana e dei suoi santi, Il primo millennio, I, Oristano 1994, p.
253.
[106]
Le Litanie Maggiori venivano celebrate solennemente il giorno della
festa di san Marco; la denominazione forse è da collegarsi alla processione
romana, che terminava nella chiesa di Santa Maria Maggiore; per altri studiosi
si chiamano tali Litanie si chiamavano Maggiori perché il percorso era più
lungo o perché la processione era più solenne; le Litanie Minori erano quelle del giorno delle Rogazioni.
[107] Acta SS., Ott. XIII,
p. 297, nr. 3 (rec. Mombrizio).
[108] Vd. B.R. MOTZO, La Passione dei SS. Gavino, Proto e Gianuario, in Studi di Storia e Filologia, I, Cagliari
1927, pp. 145 s.; B. DE GAIFFIER, La
Passion de S. Gavin, martyr de Sardaigne, "Analecta Bollandiana",
LXXXVIII, 1960, pp. 310 ss.; G. ZICHI, K. ACCARDO, Passio Sanctorum martyrum Gavini, Proti et Ianuarii, Sassari 1989,
2, p. 38. Per il preside Barbarus,
vd. anche MELONI, L'amministrazione cit., p. 237 ss. pros. 53; ID., La Sardegna romana cit., p. 479.
[109] CIL X
7946 = ILS 5526.
[110] Tale documento continua a non avere
un’edizione completamente accettabile, vd. da ultimo R. CORONEO, in Studi in onore di Giovanna Sotgiu, in c.d.s., con bibliografia
precedente; per una prossima edizione a cura di L. Gasperini, vd. AEp. 1994, 797.
[111] Vd. R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, "Archivio
Storico Sardo", XV, 1924, pp. 3 ss.
[112] Vd. A. BONINU, Per una riedizione della Tavola di Esterzili (CIL X, 7852), in
AA.VV., La Tavola di Esterzili cit., pp.
75 s.
[113] I lieros
de cavallu erano portatori di una sorta di giavelloto analogo al verutum romano, vd. G.
PAULIS, Un organismo giudiziario di epoca
medioevale: la corona de chida de berruda, in Studi sul sardo medioevale, "Officina linguistica", I,1,
settembre 1997, p. 61.
[114] Vd.
PAULIS, Lingua e cultura cit.,
pp. 22 ss.
[115] PAULIS, La chita cit., pp. 15 s.
[116] Ibid., p. 18.
[117] Ibid., p. 19. Per questa categoria di nobili della
Sardegna giudicale, vd. B. FOIS, Donnos
Paperos. I «Cavalieri Poveri» della Sardegna
medioevale, Cagliari
1996.
[118] G.D. SERRA, Continuità e sviluppo della voce latina "civitas" nel sardo
medioevale, "Revista portuguesa de Filologia", IV, 1950, pp. 5
ss.
[119] G. PAULIS, La guardia palatina nella Sardegna giudicale: la chita de
buiachesos, in Studi sul sardo medioevale,
"Officina linguistica", I,1, settembre 1997, pp. 63 ss.
[120] Vd. A. MASTINO, H. SOLIN, Supplemento epigrafico turritano, II, in
Sardinia antiqua, Studi in onore di P.
Meloni in occasione del suo settantesimo compeanno, Cagliari 1992, pp. 362
ss.: Thalassus Pal(atinu)s (vd. AEp. 1992, 902 e 1995, 699); per il martire Gavinus, vd. le Abbreviationes
del Martirologo di Reichenau, in Acta
Sanctorum, a cura dei Bollandisti, Iun.
VII: Martyrologia hieronymiana
contracta, p. 9. Si veda anche il caso di Leontius palatinus, in una iscrizione di Karales considerata falsa:
CIL X,1 1279*.
[121] G. PAULIS, La composizione delle liti nel diritto sardo medioevale, in Studi sul sardo medioevale, "Officina
linguistica", I,1, settembre 1997, pp. 85 ss.
[122] PAULIS, La machizia cit., p. 97.
[123] G. PAULIS, La cerga e i tributi di
natura reale nel Medioevo sardo, in Studi
sul sardo medioevale cit., pp. 75 ss.
[124]
Vd. G. ROTONDI, Leges publicae populi
Romani, Elenco cronologico con una
introduzione sull’attività legislativa dei comizi romani, Milano 1912, p.
308 e p. 324.
[125] PLUT., C. Gracchus 23,2, cfr.
MELONI, La Sadegna romana cit., pp.
104 ss.
[126]
Vd. FOIS, Territorio e paesaggio
agrario cit., pp. 101 ss. con indicate a n. 50 le schede del CSPS relative
alle vigne associate ai frutteti.
[127]
Ad es. schede 40, 158: cauallu
domatu; 253: cauallu ed eba; vd. anche 40, 87, 114, 117, 151,
188, 201, 253, 398, ecc. Vd. il Condaghe di Barisone II, in MELONI, DESSI’
FULGHERI, Mondo rurale cit., p. 168
7v, 21 (un cavallo del valore di una libbra d’argento).
[128] Expositio
totius mundi et gentium, a cura di J. Rougé (Sch 124), Pais 1966, p. 210 Expos. 66, vd. M. GIACCHERO, Sardinia ditissima et valde splendidissima, «Sandalion», V, 1982,
pp. 223 ss.; per l’epoca giudicale, vd. la documentazione del CSPS e del CSNT
citata in MERCI, op. cit., p. 182
(s.v. caballu), 204 (s.v. eba), ecc.; FOIS, Territorio
e paesaggio agrario cit., p. 102.
[129] CIL X 7580 = ILS 1358, vd. MELONI, L’amministrazione cit., pp. 203 s. pros. 23; AMM. MARC. XXIX, 3,5.
[130] CSPS
212, 215, 217, 219 (in moggi); ma
anche in stai (istaios, 364).
[131] La produzione di grano in Sardegna superava
i 10 milioni di moggi, gli 87 milioni di litri, vd. MELONI, La
Sardegna romana cit., pp. 107 ss. e p. 220 ss.; per l'età medioevale vd. il
capitolo La Sardegna-granaio, tra mito e
realtà, in M. TANGHERONI, Aspetti del
commercio dei cereali nei paesi della Corona d'Aragona, La Sardegna, Pisa
1980, pp. 38 ss.
[132] Italia
Pontificia, X, Calabria-Insulae, in
Regesta Pontificum Romanorum, cong. P.F. Kehr, a cura di D. Giergensohn,
Zurch 1975, p. 378 n. 22; vd. PAULIS, Lingua e cultura cit., pp. 135 ss.;
FOIS, Territorio e paesaggio agrario cit.,
p. 136; R. TURTAS, Storia della chiesa in
Sardegna dalle origini al Duemila, Roma 1999, p. 165 e n. 100, con
bibliografia precedente. Tale prodotto è ancora oggi lavorato soltanto a
Sant’Antioco.
[133]
CSPS 5, 7, 9, 10, 13, 19, 83, 145, 146, 151, 153, 159, 183, 184,
187, 188, 189, 202, 207, 246, 253, 254, 279, 282, 358, 379, 381, 422, 423, 440;
vd. anche nel Condaghe di San Nicola di Trullas, vd. MERCI, op.cit., p. 224; il Condaghe di Barisone
II, in MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo
rurale cit., p. 163 f. 6r, 17; p. 166 7r, 16; p. 168 7v, 22.
[134] CSPS 352. Vd. anche il Condaghe di
Barisone II, in MELONI, DESSI’ FULGHERI,
Mondo rurale cit., p. 156 f. 4v 4; p. 158 f. 5r 18 (untha d’argentu); p. 164 f. 6v 9,
17 (unthas d’argentu coctu).
[135] CSPS 142, 143, 144, 417.
[136] CSPS 417, 426. Ad un'origine bizantina
pensa PAULIS, Lingua e cultura cit.,
p. 133.
[137] CSPS 438: de dinaris Junuinos minutos; 441: libras 1. de dinaris Januinos). Vengono usati anche i tremisses (329, 330, 331) ed i bisantis (401, 402, 409, 429, 428: in V bisantis et bisantis j in dinaris;
438: bisantis C. de dinaris Junuinos
minutos). Per i bisanti, vd. anche MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale cit., p. 158 f. 5r, 19.
[138]
CSPS 142, 143, 144, 255, 426: deitindelis
in dinaris XXVJ sollos, vd. PAULIS, Lingua
e cultura cit., pp. 132 ss. Come unità di peso (1/72 di libbra), il termine
sollu (de pannu) è nel Condaghe di Barisone II, in MELONI,
DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale cit.,
p. 176 f. 9v 2 e p. 202 (con un richiamo a Festo, 284, 29); al plurale, vd. p.
174 f. 9r, 5, 9, 13, 18.
[139] Vd. MELONI, La Sardegna romana cit., pp. 317 ss..
[140]
Vd. anche CSMB 163: via maiore;
176: via de strada.
[141] Vd. p.es. la ripa Turr(itana) in AEp. 1904,
212 = ILSard. I 245; oppure i navic(ularii) Turritani in CIL XIV 4549, 19. Turritana compare in un epitafio cristiano inedito, in corso di
pubblicazione a cura di F. Manconi. Per
la documentazione del Condaghe di santa Maria di Bonarcado, vd. via de Turre nella scheda 207; per il
Condaghe di Salvennor, vd. il camino
Mayor Turresa, 175; vd. anche la Via
Turresa nella scheda 7.
[142]
Nella traduzione: Petra lata. Per la Via
Turresa vd. anche il Condaghe di San
Nicola di Trullas, scheda 271.
[143]
Vd. il signaculum Veneris ob/sequentis in AEp. 1972, 228 = G. SOTGIU, in L'epigrafia latina in Sardegna dopo il
C.I.L. X e l'E.E. VIII, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II, 11,1, Berlino-New York 1988, p. 605
nr. B103 b e p. 656 B103b.
[144] Vd. il Condaghe di Barisone II, in
MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale
cit., p. 184 f. 10v 11: termen dave sos
forkillos dessa ariola de garritoriu, dunque un confine che ha origine
dalle biforcazioni dell’aia dei carriaggi; il termine furkillos è usato anche per i ruscelli, vd. ibid., 10v 11: furkillos
dessa ena.
[145]
Vd. il Condaghe di Salvennor, 167: via
traversagia; vd. anche la scheda 188.
[146]
Per un bau de Carruca, vd.
CSMB 19; vd. anche bau dessu carru,
CSMB 162. Nel Condaghe di Barisone II, tra le strade secondarie, sono ricordate
quelle delle singole proprietà (bia dessa
domestica de bulbare, p. 156 4v 21); vd. anche la bia usque ad Iscala de Orlatas (p. 172 f. 8v 4), ecc., vd. MELONI,
DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale cit.,
p. 185 e p. 205; ibid. p. 184 f. 10v
11: garritoriu, nel senso di luogo
ove passano i carri.
[147] Vd. PAULIS, Lingua e cultura cit., pp. 62 ss.
[148] Così F. ARTIZZU, Tre note di topografia storica (Sul
luogo del martirio di Ponziano e di Ippolito. Sul luogo detto Toraio. Bia de
Grecos e bia Grekiska), in AA.VV., Medioevo.
Età moderna, Cagliari 1972, pp. 46 ss.
[149]
Vd. anche CSNT 43.
[150]
Vd. petras coblatas de Murtas
in CSMB 163; vd. anche TETTI, Salvennor,
cit., p. 256 (schede 6, petra coperclata;
175: coperclata, Coplecata; 186: assa Coplecata; 214 sa Copeiada; 245: pieda
Coplecata).
[151]
Grotte naturali, ma credo più probabilmente grotticelle artificiali
preistoriche, vd. CSNT 50,2; 82,2; 113, 3; 305, 4; al plurale: 100,1 e 108,5;
vd. anche 82, 108, ecc.; cfr. MERCI, op.cit., p. 257.
[152]
CSNT 154,1.
[153]
CSNT 17,2.
[154] Vd. MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale cit., p. 176 f. 9 v, 12.
[155]
A. SABA, Montecassino e la
Sardegna medioevale, Montecassino 1927, XXXI, p. 193.
[156]
Vd. A. MORAVETTI, Ricerche
archeologiche nel Marghine-Planargia, Sassari 1998, pp. 123 ss.
[157] Vd.
G. PAULIS, Il logudorese gulbare,
bulbare e la custodia del bestiame nella
Sardegna medioevale, in Studi sul
sardo medioevale, "Officina linguistica", I,1, settembre 1997,
pp. 107 ss.
[158]
Vd. WAGNER, in Dizionario
etimologico sardo cit., II, pp. 489 s.
[159] CSNT 254,3; vd. CSMB 139: petras fictas.
[160] CSNT 43, vd. CSPS 203.
[161]
CSPS 62, 285, 378, 398, forse però tombe, mausolei.
[162]
CSPS 10, 62, 96, 186, 192, 202,
256, 258, 293, 294, 301, ecc. Vd. M. PITTAU, Dizionario della lingua sarda, Sassari 2000, p. 274 s.v. castru; p. 679 s.v. nurache. Per il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, vd. castru de monticlu de piscobu (schede
1, 207), castru de serra de Copiu
(145), de Stria (122), de Ulgoni (1), de Velio (1), de Viola mouiu
(1, 207), dessu Cannisoni (36), dessu giradoriu (36). Per l’insieme
della documentazione nel CSPS, vd. SATTA,
Il Condaghe cit., pp. 43 s.; in particolare vd. la scheda 10: castru dessa turre.
[163]
Un’analoga ambiguità caratterizza il termine anche nel Condaghe
di San Nicola di Trullas (vd. ora P. MERCI, op. cit., p. 185).
[164]
Vd. anche CSMB 297: pedra dessa
gruke.
[165] Vd. A. MASTINO, Analfabetismo
e restistenza: geografia epigrafica della Sardegna, in L'epigrafia del villaggio (Epigrafia e antichità, 12), Faenza 1993,
pp. 498 ss.; L. GASPERINI, Ricerche
epigrafiche in Sardegna (I), in Sardinia
antiqua. Studi in onore di P. Meloni in occasione del suo settantesimo
compleanno, Cagliari 1992, pp. 303 s. Non sono fondate le critiche espresse
da M. PITTAU, L’iscrizione nuragica in
lettere latine del nuraghe Aidu Entos, in Ulisse e Nausica in Sardegna, Nuoro 1994, pp. 189 ss.
[166] G. PAULIS, La forma protosarda della parola Nuraghe alla luce dell’iscrizione
latina di Nurac Sessar (Molaria),
in "L'epigrafia del villaggio",
a cura di A. Calbi, A. Donati, G.
Poma (Epigrafia e Antichità, 12), Faenza 1993, pp. 537 ss.; vd. anche
WAGNER, in Dizionario etimologico sardo
cit., II, pp. 176 ss.
[167]
Vd. WAGNER, in Dizionario
etimologico sardo cit., I, p. 316.
[168] Ad es. in G. LILLIU, La civiltà dei Sardi dal paleolitico all’età
dei nuraghi, Torino 19883; E. CONTU, La
Sardegna preistorica e nuragica, 1. La Sardegna prima dei nuraghi; 2. La
Sardegna dei nuraghi, Sassari 1997.
[169]
CSMB 168: nurake albu, 121: nurake di Nule; 1 e 107: nurake d’Olisandri; 1 h: nurake de Vesala; 208: nurake de Vineas; 92, 132: nurake niellu; 1, 207: nurake pikinnu, vd. 163: saltu de Nurakipikinnu; 146: nurake
rubiu.
[170] Vd. TETTI, Salvennor cit., pp. 281 ss.: nuraque
de Canetu, de bonule, de Gelesa, de Agasones, de Comita, de s’Ena de Monte de
Pira Domestica, de Atentu, ecc.
[171] MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale cit., p. 176 f. 9v 6: matta de Nuracke.
[172] Nurake
Donnichellu, scheda 222,5 del CSNT; nuracke
Alvu, scheda 279; vd. anche nuracce
alla scheda 127; cfr. MERCI, op. cit.,
p. 238 e p. 288.
[173]
Per altri guadi vd. anche il Condaghe di Gonario II, in MELONI, DESSI’
FULGERI, Mondo rurale cit., p. 176 f.
9v 18: badu dessa arriola; p. 178 f.
10r 22: falat sa via assu jumpatoriu de
Valle de Therkis.
[174] Vd. il Condaghe di Barisone II, in
MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale
cit., p. 158 f. 5 , 15.
[175] CSNT 43.
[176] MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale cit., p. 144 f. 1v 10.
[177] Vd.
Th. MOMMSEN, in CIL X 7930, a proposito della
preoccupazione di collocare un secondo elemento, un vaso in terracotta (ollam), nel caso fosse stato asportato
il cippo dei Giddilitani a Nord di
Cornus; avevo accolto anch'io tale posizione in MASTINO, La supposta Prefettura cit., pp. 193 ss., ma oggi penserei
piuttosto ad una connessione con il toponimo medioevale Fogudolla, secondo
l’ipotesi originaria dello Spano.
[178] A. BOSCOLO, Sepolture in Sardegna nell'alto medioevo "Archivio Storico
Sardo", XXXVI, 1989, pp. ss.
[179] Schede 11 (buluares), 62 (gulbare maiore
de Nuracati), 63 (gulbare), 187 (guluares de Oreiu), 189 (gulbare), 190, 202, 203, 206, 275, 285 (buluare), 293 (assa funtana de su gulbare), 294, 311 (guluare), 403 (bulbare),
404 (buluare), 413 (uuluare), 424 (vulvares e uuluares), 425 (uuluares),
428 (uuluare), 430 (buluare), 443 (bulbares); per i maiores de
gulbare/bulbare, vd. le schede 144, 158, 326, 328, 330, 332. Vd. ora con
maggior precisione PAULIS, Il logudorese gulbare,
bulbare cit., pp. 107 ss., che pensa ad un'etimologia dal lat. bubulus, che in Sardegna sarebbe
penetrata in due forme distinte, «retaggio di due differenti strati sociali e/o
cronologici della romanizzazione: lat. bubulus,
senza sincope vocalica [...] e lat. *bublaris».
[180] Vd. A. SOLMI, E. BESTA, I condaghi di San Nicola di Trullas e di
Santa Maria di Bonarcado, Milano 1937, nr. 100; vedi anche n. 293.
[181]
BOSCOLO, Sepolture in Sardegna
cit., p. 82.
[182] MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo rurale cit., p. 176, f. 9v 4.
[183] M. PITTAU, Geronticidio, eutanasia ed infanticidio nella Sardegna antica, in "L'Africa Romana", VIII, 1990 (1991), pp. 703 ss.
[184] Ibid., p. 710.
[185] F.M. CHESSA, La toponomastica del Comune di Oliena, tesi di laurea discussa
nella Facoltà di Magistero di Sassari nel 1988, p. 63.
[186]
Vd. da ultimo G. PAULIS, Le
"ghiande marine" e l'erba del riso sardonico negli autori
greco-romani e nella tradizione dialettale sarda, "Quaderni di
semantica", I, 1993, pp. 9-23, con
bliografia precedente.
[187] PHOT. lex. s.v. sardovnio" gevlo".
[188] SUID., s.v. sardavnio" gevlo",
fr. 123, 28, nella traduzione di M. PERRA, Sardw', Sardinia, Sardegna, Le antiche testimonianze letterarie di carattere etnografico,
socio-economico, naturalistico e geografico sulla Sardegna e i Sardi, dai
primordi sino al VII s. d.C., III, Oristano 1997, p. 765.
[189]
SUID., s.v. sardavnio" gevlo", fr. 123, 29.
[190]
SCHOL. ad Plat. Resp. I, 337 A (traduzione di Mario Perra).
[191] ZEN. V, 85.
[192] DEMON F 18a-b FGrH III B 327.
[193] Per un quadro di sintesi, vd. S.
RIBICHINI, Il tofet e il sacrificio dei
fanciulli, (Sardò, 2), Sassari 1987; per le fonti e per la bibliografia più
recente, vd. ora la sintesi in ID., La
questione del “tofet” punico, in Rites
et espaces en pays celte et Méditerranéen, a cura di St. Verger (Collection
de l’Ecole Française de Rome, 276), Roma 2000, pp. 293 ss.
[194] POL. XII, II, 3.
[195]
POL. XII, III, 4c, 2.
[196] Vd. H.J. WOLFF, Sardisch: Interne Sprachgeschichte
III. Onomastik, in Lexicon der
Romanistischen Linguistik, herausgegeben von G. Holtus, M. Metzeltin, Ch.
Schmitt, IV, Tübingen 1988, pp. 868 ss.; ID., Sardische Herkunftsnamen, in «Beiträge zur Namenforschung», 23,
1988, pp. 1 ss.
[197]
Per il nome in epoca antica: AEp. 1990, 459 = 1992, 879.
[198] Conosciamo il monastero femminile dei
Santi Gavino e Lussorio a Carales in GREG. M., Epist. IX, 197.
[199] Vd. PAULIS, Lingua e cultura cit., pp. 197 s.
[200]
Vd. SATTA, Il Condaghe cit..,
p. 124.
[201] AEp. 1985, 485, Is Campixeddus.
[202]
I. DELOGU, Quasi una cronaca al
femminile nel Medio Evo Sardo. Il Condaghe di S. Pietro di Silki, «Quaderni
Bolotanesi», 27, 2001, p. 155.
[203] CIL X 7760 = L. PANI ERMINI, M.
MARINONE, Museo archeologico nazionale di
Cagliari, Catalogo dei materiali
palerocristiani e altomedioevali, Roma 1981, p. 15 nr. 18.
[204]
Vd. L. PANI ERMINI, La Sardegna e
l’Africa nel periodo vandalico, in «L’Africa
Romana», II, 1984 (1985), p. 111 s.
[205] Ibid., p. 111 e n. 43. Per le iscrizioni
di Speratus trovate a Cagliari, vd. CIL X 1282*-1283*.
[206] La forma latina Barbaria è ad es. in CSMB 83, 122, 146, 155, 163, 164. Per il praeses Barbarus, vd. MELONI, L’amministrazione della Sardegna cit.,
pp. 237 s. pros. 53. Vd. anche le schede 72, 73; per Barbara, vd. 23, 24, 28, 33, 79, 91,
100, 106, 290.
[207] Vd.
R.J. ROWLAND, Sardinians in the Roman
Empire, “Ancient Society”, V, 1974, pp. 223 ss.
[208] ILSard. I 305.
[209] L. GASPERINI, Presentazione di: Porto Torres e il suo volto, in "L'Africa Romana", X, 1992 (1993),
p. 76. Vd. una prima lista (con molte omissioni) in R. J. ROWLAND, Onomastic Remarks on Roman Sardinia,
«Names», XXI, 2, 1973, pp. 401 s.
[210] CIL X 7876, cfr. R. ZUCCA, Ula Tirso, Un centro della Barbaria sarda,
Dolianova 1999, pp. 67 s.: Torbenius
Kariti (filius).
[211] A.M.
COSSU, Iscrizioni di età romana dal Barigadu, in "L'Africa Romana", X, 1992 (1993),
pp. 976 ss. nr. 2; vd. ZUCCA, Ula Tirso, cit.,
p. 69. Per una nuova testimonianza da Ula Tirso, vd. P. RUGGERI, Ancora un Torbenius da Ula Tirso, in Atti Convegno Borghesi 2001, Genova, in
c.d.s.
[212]
Vd. anche Dorbeni, 425, 443; Dorueni, 75, 205, 243, 317, 333, 337,
376, cfr. già S. BORTOLAMI, Antroponimia
e soccietà nella Sardegna medioevale: caratteri ed evoluzione di un ‘sistema’
regionale, in Giudicato di Arborea e
Marchesato di Oristano: proiezioni mediterranee e aspetti di storia locale,
Atti del I Convegno internazionale di studi, Oristano, 5-8 dicembre 1997, a cura di G.P. Mele (ISTAR, Subsidia 2/1),
I, Oristano 2000, p. 183.
[213]
Vd. ZUCCA, Ula Tirso cit., p. 64: Nispellus,
Pipedionis f(ilius); vd. anche
ILSard. I 214 = AEp. 1992, 888: Urseti
Nispenini, a Macomer. Per una Valeria Nispenini ad Olbia, vd. CIL X 7988 = ILCV 4358 = L. GASPERINI, Olbiensia epigraphica, in Da Olbìa ad Olbia cit., pp. 311 ss. nr. 3 = AEp. 1996, 821. Per una nuova testimonianza da Ula Tirso, vd.
RUGGERI, Ancora un Torbenius da Ula Tirso
cit., in c.d.s. Per la Nispella di età medioevale, vd. ad es. A. BOSCOLO, La Sardegna bizantina e altogiudicale,
Sassari 1978, pp. 113 ss.; AA.VV., Genealogie
cit., po. 78 s. tav. III.
[214] COSSU, Iscrizioni di età romana dal Barigadu cit., p. 982 ss. nr. 4; vd.
R. ZUCCA, Le persistenze preromane nei
poleonimi e negli antroponimi della Sardinia, in "L'Africa Romana", VII, 1989 (1990), p. 664. Per il CSPS vd. ad es. il prete Ithocorr de Frauile nelle schede 95 e
98; una lista completa in SATTA, Il
Condaghe cit., pp. 106 s.; vd. Ithocor
e Thocor anche il Condaghe di
Barisone II, in MELONI, DESSI’ FULGHERI, Mondo
rurale cit., p. 194 (dove si ipotizza un’improbabile origine bizantina), p.
204 e p. 211.
[215] CSNT 88,1; vd. ELSard. p. 655 B 101 f, cfr. A. MASTINO, P. RUGGERI, La romanizzazione dell'Ogliastra, in Ogliastra. Identità storica di una
provincia, Atti del Convegno di studi, Jerzu-Lanusei-Arzana-Tortolì, 23-25
gennaio 1997, a cura di M.G. Meloni e S. Nocco, Senorbì 2000, pp. 158 e n.
81.
[216] Vd. PAULIS, Studi sul sardo medioevale cit., p. 181.
[217]
BORTOLAMI, Antroponimia e società
cit., p. 193.
[218] M.G. CAMPUS, Il titulus funerario di Inbenia (Cuglieri). Contributo alla rilettura
del materiale epigrafico cristiano della Sardegna, in "L'Africa Romana", VIII, 1990
(1991), pp. 1063-1072 , cfr. AEp. 1991, 910.
[219] A. MASTINO, Cornus nella storia degli studi (con un catalogo delle iscrizioni del
comune di Cuglieri), Cagliari 19832, p. 141 nr. 62, cfr. CIL X 1248*.
[220] H. SOLIN, Analecta epigraphica CLIV, Inbenia. Zu einer Sardischen Inschrift, "Arctos",
27, 1993, pp. 129 s., vd. ora Analecta epigraphica 1970-1999 iterum
edenda indicibusque instruenda curavit M. Kajava, adiuvantibus K. Korhonen, M.
Leiwo, O. Salomies (Acta Instituti Romani Finlandiae, 21), Roma 1998, pp. 372
s., vd. AEp. 1993, 851.
[221] Vd. A. MASTINO, La Sardegna cristiana in età tardo-antica, in AA.VV., La Sardegna paleocristiana tra Eusebio e
Gregorio Magno. Atti del Convegno Nazionale di studi, Cagliari 10-12 ottobre
1996, a cura di A. Mastino, G. Sotgiu, N. Spaccapelo, con la collaborazione
di A. Corda, Cagliari 1999, pp. 293 ss.