N° 1 - Maggio 2002 -
Tradizione
RENATO DEL
PONTE
Villafranca in Lunigiana
Aspetti del lessico pontificale: gli indigitamenta
(*)
(*) Ius Antiquum-Drevnee
Pravo 5, (Mosca) 1999, pp. 154-160.
1.
Gli indigitamenta dei pontefici. – 2. Inalterabilità del lessico religioso. – 3. La “riscoperta” del lessico pontificale nel I secolo
a.C. – 4. L’indigitazione
come interpretatio dei nomi divini. – 5. Indigitamenta attinenti alla religione pubblica.
Non essendo questa la sede per ripercorrere l’annoso
dibattito sul reale significato delle espressioni indigitamenta, indigitare, dii Indigetes (per cui rimando ad alcuni
capitoli del mio La Religione dei Romani[1], termini tutti, del resto, propri del lessico pontificale,
sarà sufficiente ricordare che la distinzione operata da Varrone, in un passo
del suo perduto Cato vel de liberis
educandis[2] , fra precari e indigitare può far concludere (in via
provvisoria, s’intende) che quest’ultimo verbo significhi “scrivere negli indigitamenta” piuttosto che “pregare”,
“invocare” o, meglio, che indigitare corrisponda
a scriptum habere, cioè avere in
elenchi scritti, raccolti in appositi libri. Una iscrizione di Pompei (che collega
implicitamente Indiges con indigitamenta: un nesso evidentemente
molto antico) può servire a rafforzare questa ipotesi:
(Aeneas) [dictus] est indiges [et in
deorum n]umero relatus
(Enea) “fu dichiarato indiges
e messo nel numero degli dei”[3].
In effetti, iscrivere ufficialmente un nome (sia esso
quello di un dio straniero, di un eroe o sovrano divinizzato) in un elenco dei
pontefici (o di altri colleghi sacerdotali) equivale a un rito di aggregazione
al divino. Questi elenchi, risalenti, secondo la tradizione[4], al re Numa Pompilio, subirono continui aggiornamenti e
la loro rielaborazione dovette terminare solo nel III secolo a.C. Di certo
esistettero indigitamenta organizzati
secondo criteri differenti, dal momento che la più parte di quelli conosciuti
furono formati riunendo i nomi delle diverse divinità che sovraintendono ai
singoli che compongono la vita umana: dei
complures hominum vitam pro sua quisque portione adminiculantes, come dice
Censorino[5].
Difatti, del centinaio, o poco più, di nomi che ci
rimangono di quegli dèi quorum numina
habent scritta pontifices e che solent
indigitare pontifices[6], quasi tutti sono nomi riferiti a un actus e ricavati dal nome stesso dell’actus, sul tipo di Conditor (da condere,
“immagazzinare il farro”), “l’immagazzinatore delle messi”, o di Subigus (da subigere, “sottomettere”), “colui che sottopone (in senso
letterale) la sposa al marito”; oppure, se di altro tipo, tali comunque da
riportarsi ad un actus, come Diespiter qui partum perducat ad diem[7], che altri non è che l’aspetto originario di Giove Uranio,
il Diespiter olim dictus di Varrone[8] o altrimenti il [155] sanscrito Dyh Pitá[9]. Il che conferma quanto riportato dal Servio danielino,
per cui “i pontefici dicono che a ciascun atto è preposto un dio apposito”[10]: una nozione importante perché ci dice che per il Romano
l’azione rituale stessa, accompagnata dell’esatta e corretta invocazione della
debita divinità a richiamarne la “presenza”, cioè l’assistenza.
A parte gli dei utili alle pratiche agricole (attività
essenziali per la Roma dei primi secoli), si tratta per lo più di divinità che
fanno riferimento ai grandi momenti o “riti di passagio”, quali occorrono ad
ogni uomo o donna durante l’esistenza e che proprio per la loro delicatezza
necessitano di un particolare presidio divino: la nascita (con tutti quei
momenti critici antecedenti e seguenti ad essa), il raggiungimento della pubertà
(con quanto precede e segue), il matrimonio, il momento della morte. A questo
scopo negli archivi dei pontefici esistevano liste ufficiali di nomi e formule,
autentiche e inalterate, a disposizione dei cittadini per il loro uso in
privato.
Bisogna innanzitutto insistere su questo concetto di
“inalterabilità” delle espressioni linguistiche e del lessico religioso in
quanto compito domandato al collegio dei pontefici.
Il
concetto del valore sacro e dell’immutabilità della lingua in genere è proprio
di ogni popolo ai suoi primi stadi di vita comunitaria e civile e quindi non
stupisce, da una parte, che nel mito latino delle origini l’invenzione stessa
dell’alfabeto venisse attribuita a Carmenta[11] , dea del carmen
certamente, ma spesso detta nimpha,
non diversamente da quelle Camenae,
Casmenae o Carmenae presenti non
per caso negli indigitamenta
pontificali in qualità di numina assistenti
il canto del fanciullo e solo a partire dei tempi di Livio Andronico associate
alle Muse greche[12] . D’altra parte non sorprende che la tradizione indichi
come tutto il corpus dei testi
religiosi fosse consegnato dal re Numa Pompilio (per suggerimento forse della nimpha Egeria...) al capostipite dei
pontefici, Numa Marcio, per la loro custodia e salvaguardia. Un corpus, dice Livio, di testi sacri
“scritti”e quindi contenuti in appositi libri: Pontificem deinde Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique
sacra omnia exscripta exsignataque attribuit: quibus hostiis etc.[13]. Premesso, appunto, come oggi non si dubiti più circa
l’antichissimo uso della scrittura in Roma[14] e dunque vi siano infinite “ragioni di fondo che
inducono a far risalire l’inizio delle compilazioni pontificali ad epoca assai
antica della storia cittadina”[15], come basterebbe di per sè a dimostrare il testo
epigrafico pervenutoci del Carmen dei
Fratelli Arvali, la custodia dei testi sacri da parte dei pontefici si
giustifica, fin dagli inizi, col loro compito eminentemente archivistico e
cancelleresco: donde loro deriverà anche la funzione di primi cronisti dei
fatti dell’Urbe.
L’uso della scrittura e un’adeguata capacità di lettura è
essenziale per il rispetto assoluto della formula religiosa, i cui concepta verba si debbono pronunziare e
udire senza errore alcuno, senza incertezze o interferenze, proponendosi anche
come modello linguistico ad una popolazione “ancora divisa in gruppi etnici e
idiomatici”[16]. Ma proprio perché sia rispettata la pax deorum, cioè il patto che si vuole
stipulato alle origini tra i fondatori della Città e i loro dèi, quindi la
saldezza della compagine statale che su tale patto si fonda, occorre vigilare
sulla [156] rigorosa osservanza delle norme contenute nei testi sacri,
sulla corretta pronuncia dei nomi e delle formule: ecco la funzione precipua
dei pontefici, gli unici autorizzati a custodire le copie autentiche delle
attribuite a Numa, ragione non ultima della loro ascesa continua di prestigio
sopra tutti gli altri sacerdoti e della loro futura potenza politica.
Ai fini del discorso che qui a noi interessa, si può ben
dire che questi “arbitri delle cose divine e umane” (come saranno definiti da
Cicerone) furono, almeno nei primi secoli, anche gli attenti custodi ed esegeti
del lessico attinente le cose divine, inprimis
dei nomi autentici degli dei, sia di quelli ereditati dei tempi antichi,
sia di quelli che col passare del tempo il senato e l’apposito collegio dei Duumviri (poi Decemviri e Quindecemviri)
sacris faciundis introducevano nello spazio e nel tempo sacro della città.
Sarà stato forse per contrasto, anche indirettamente
polemico, con l’affievolito senso religioso del tempo o, forse, più semplicemente
per il naturale progredire degli studi di carattere linguistico, fatto sta che
all’epoca dell’antiquario Marco Terenzio Varrone e del pontefice massimo Caio
Giulio Cesare era tornato assai vivo l’interesse e quindi attive le ricerche
sul lessico pontificale. Ce lo testimonia la perduta opera di Veranio De pontificalibus quaestionibus[17] , di due capitoli della quale ci sono noti i titoli: de supplicationibus (contenente quindi
l’analisi di determinati tipi di cerimonie pubbliche)[18] e de verbis
pontificalibus (uno studio sul lessico dei pontefici, appunto)[19], il cui materiale sarà stato verosimilmente derivato
studiando, nell’archivio dei pontefici, quei libri e commentarii includenti
i sacra privata et publica, le comprecationes deorum e gl’indigitamenta[20].
Come esempio di analisi del lessico pontificale viene
discusso nel capitolo de verbis
pontificalibus l’esatto senso da darsi all’aggettivo eximius: non un epiteto esornativo, bensì sacerdotale nomen in quanto riferito a quelle vittime quae ad sacrificium destinatae eximantur[21], mentre in un altro passo Veranio ci offre un prezioso
elenco di quelli che si debbano ritenere felices
arbores:
Felices arbores putantur esse quercus, aesculus, ilex, suberies, fagus,
corylus, sorbus, ficus alba, pirus, malus, vitis, prunus, cornus[22],
lotus[23].
Il medesimo interesse per il lessico pontificale traspare
anche dall’opera di Granio Flacco, contemporaneo di Veranio se, a quanto pare,
dedicò il suo De indigitamentis a
quel Lucio Giulio Cesare che fu console nel 90 a.C. e autore pure lui di un
trattato d’argomento religioso, il De
auspiciis[24].
[157] Sia Veranio che Granio Flacco attingono
entrambi, come fonte, a Quinto Fabio Pittore, l’antiquario (da non confondersi,
come spesso si fa, con l’omonimo annalista vissuto nel III/II secolo a.C.) che
scrisse attorno al 130 a.C. un trattato De
iure pontificio. Riportando un’espressione di Pittore che, considerata la
solennità dell’imperativo futuro, deriverà certamente dalle formule
pontificali, Veranio analizza l’esatto significato del verbo porricere (= “offrire”, non “gettare”)
precisando trattarsi di un verbum...
sollemne sacrificantibus derivato vuoi ex
disciplina haruspicorum, ma anche ex
praecepto pontificum (“da precisa disposizione dei pontefici”): Exta porriciunto, dis danto, in altaria
aramve focumve eove quo exta dari debebunt[25]. Ulteriore e preziosa testimonianza, questa,
dell’interesse rivolto dal collegio pontificale alla corretta interpretazione
del significato di espressioni religiose tendenti col tempo a entrare in
un’area semantica più generalizzata.
Da parte sua, Granio Flacco nel De indigitamentis doveva trattare, fra l’altro, dei differenti nomi
di Apollo e della sua identificazione con Dioniso/Padre Libero[26], segno che anche la questione dell’interpretatio dei nomi divini, della specificazione degli epiteti e
quindi delle funzioni diverse di Apollo doveva essere chiarita negli indigitamenta dei pontefici, allorchè
nel V secolo a.C. questa divinità in qualità di Medicus (“Guaritore”) fece il suo ingresso nei culti ufficiali. Proprio
nel 433 era stato votato il suo tempo in occasione di un’epidemia, poi dedicato
nel 431 dal consule Cn. Giulio Mentone in
pratis Flaminiis[27]: l’epoca stessa a cui dovrebbe risalire l’indigitazione
apollinea delle vergini Vestali riferita da Macrobio: ita indigitant: “Apollo Medice, Apollo Pean”[28].
Dal momento che pare abusivo ritenere il culto romano di
Apollo risalente all’età monarchica[29], se non altro perché si sa come non fosse compreso negli
antichissimi indigitamenta pompiliani[30], ne deriva che quei formulari di nomi divini che erano
gli indigitamenta dovevano essere
continuamente aggiornati dai pontefici, bene attenti alla traserizione precisa
del nome, da pronunciarsi con estrema esatezza. In effetti, nel caso specifico,
Aperto – e non Apollo – pare venisse chiamato il dio in epoca arcaica, prima della
sua omologazione ufficiale[31].
Parlando di Apollo, siamo quasi inavvertitamente entrati
in una nuova categoria di indigitamenta:
non più nomi di “dèi - actus” (o munus o officium), ma elenchi di epiteti con cui una dinità poteva essere
invocata per una determinata funzione e/o in un momento particolare. Indigitamenta di questo genere, come poi
si vedrà, dovevano essere contenuti negli archivi anche di altre comunità sacerdotali.
A differenza della categoria degli “dèi - actus”,
di questo secondo elenco ci restano scarsissime testimonianze e probabilmente
non a caso, dal momento che questo àmbito specifico doveva essere riservato non
tanto alla sfera privata (come, per lo più, succedeva per gli dèi del primo
gruppo), quanto alle cerimonie della religione pubblica, in cui - specialmente
in riferimento alle preghiere o altre espressioni rituali composte utilizzando
le indigitazioni pontificali - determinati sacerdoti specialistici al servizio
dello Stato pronunciavano formule cui era talvolta legata la sopravvivenza
dello Stato stesso.
[158] A parte il caso citato di Apollo, ce ne
rimangono solo due esempi. Nei Saturnalia
(I 12,21) Macrobio, parlando della dea Maia, afferma: auctor est Cornelius Labeo... hanc eandem Bonam Deam Faunamque et Opem
et Fatuam pontificum libris indigitari. Ci viene detto, cioè, che il
teologo del III secolo d.C. Cornelio Labeone (autore di Fasti, di un De diis
animalibus e di un trattato De oraculo
Apollinis Clarii) trovava scritti nei libri pontificali i nomi di Bona Dea, Fauna, Opi e Fatua e riteneva
con ciò di avere validi motivi per identificare queste dee con Maia. Si tratta
di un buon esempio di interpretatio,
poiché Maia (“cioè la terra”, sosteneva sempre Cornelio Labeone in Macr., Sat. I 12,20), eponima del mese di
Maggio, è strettamente legata alla “crescita” delle messi, quindi appare come
un’indigitazione agricola[32] - così come del resto Opi, “l’abbondanza” –, Bona Dea è un epiteto cultuale (sul tipo
della picena Cubra o Cupra, “la buona”)[33], mentre Fauna-Fatua ne attesta la sua antica funzione
oracolare, presente sia nel mito latino delle origini che nella pratica della
devozione popolare come paredra di Fauno[34].
Ancora più interessante è l’ultimo esempio di
indigitazione riferita alla religione pubblica che conosciamo, dal momento che
forse può avere relazione con la funzione primordiale dei pontefici: quella di pontem facere. Riporta Varrone sulla
etimologia di pontifex:
Ego a ponte arbitror:
nam ab his )i.e. a pontificibus) Sublicius est factus primum ut restitutus
saepe, cum ideo sacra et uls et cis Tiberim non mediocri ritu fiant
[“Io penso che il termine derivi da pons; infatti per loro cura fu costruito
la prima volta, come poi spesso restaurato, il ponte Sublicio, poiché proprio
per questo, di qua e di là del Tevere sacri riti si svolgono con solenne
cerimoniale”][35].
Se si pensa che la tradizione attribuisce ad Anco Marcio
la costruzione del Ponte Sublicio[36] (un ponte sempre conservato in puro legno e privo di
ogni connessura in bronzo o ferro), cioè a quel sovrano che intese restaurare
le funzioni del collegio dei pontefici usurpate da Servio Tullio[37], ben si comprende perché proprio ai pontefici ne venisse
affidata la cura, certamente avvenuta in epoca antichissima se tale circostanza
era indicata nei carmina dei Salii:
quamvis
quidam pontifices a ponte sublicio, cui primus Tybri impositus est, appellatos,
tradunt, sicut Saliorum carmina loquuntur[38].
E proprio in relazione a questo “solenne cerimoniale”,
che certo non può riferirsi alla cerimonia degli Argei nel mese di Maggio
(poiché si svolgeva il ponte Sublicio)[39], risulta in effetti che la divinità del Tevere, Tiberinus pater, doveva avere gran
rilievo negli indigitamenta pontificali,
secondo la testimonianza di Servio:
nam
et a pontificibus indigitari solet[40].
[159] Seppure
non solo in quelli, poiché sono attestate anche indigitazioni del Tevere da
parte degli Auguri nei loro libri:
[“I libri degli Auguri chiamano il
Tevere “serpente”, in virtù delle sue flessuosità”][41].
Un’indigitazione, questa di Coluber, che certamente deriva dall’osservazione del fiume quale
doveva apparire dall’alto dell’auguraculum
della rocca capitolina. Così come risulta spiegabile la sua indigitazione
come Serra, “Demolitore di rive”, da
parte dei pontefici che invece ne custodivano dal basso le sponde[42].
Ma il più prezioso esempio di indigitazione pontificale
del Tevere - prezioso perché il nome divino è inserito in una vera e propria
formula di comprecatio – è il seguente, fornitoci da Servio:
“Sii presente (assisti, partecipa,
mostrati), o Tiberino, con le tue onde”[43].
Una formula
autentica che doveva essere ben nota ai massimi autori, poeti e storici, della
tradizione romana, se Ennio, Vergilio e Livio paiono riecheggiarla quasi alla
lettera:
Teque,
pater Tiberine, tuo cum flumine sancto[44].
Tuque,
o Thybri, tuo genitor cum flumine sancto[45]
Tiberine pater te sancte precor…[46].
Nella comprecatio è
da notarsi innanzitutto il nome cultuale al vocativo, Tiberine (pater)[47], il cui appellativo è proprio solo di determinate
divinità legate alle origini (ad es. Iu-piter,
al vocativo - Mars-piter ecc.)[48] e poi la particolare solennità formulare (quasi di un
vero e proprio carmen), sottolineata
dall’imperativo futuro, caratteristico, come è ben noto, delle disposizioni di
legge (a partire dal sakros esed - “sacer esto” dell’arcaico cippo sotto il Lapis Niger del VI sec. a.C.), nonchè
dalla pregnanza religiosa del verbo ad-sum
(che varrebbe, del resto, anche per prae-sum)[49]. Nell ottica romana, infatti, il numen del dio non vale senza la sua diretta “presenza” (che
equivale ad “assistenza”), che solo l’efficacia del rito e della formula
correttamente pronunciata può evocare.
Qui la preghiera sembra farsi formula magica, così che
forse non a torto Paolo Diacono, nel suo commento a Festo (101 L.) può asserire
che gli indigitamenta “sono formule
incantatorie” (incantamenta) e dei
“segni” (indicia)”.
In tutto ciò è evidente la concezione arcaica della
“magia della parola” o “magia dei nomi”: chi conosca il nome autentico del dio,
pronunciandolo con esattezza e proprietà, può provocarne l’intervento benefico.
Ecco perché i dii Indigetes “sono
quelli i cui nomi non è consentito divulgare”[50] e, fra essi, soprattutto quello del dio in cuius tutela urbs Roma est et ipsius
urbis Latinum nomen[51] .
[160] Un nome la cui conoscenza sarebbe equivalsa,
per i nemici, a impadronirsi della città stessa e che, proprio per questo
motivo, non fu mai iscritto negli indigitamenta,
ma trasmesso e pronunciato oralmente nel recesso delle più sacre cerimonie.
[1] Cfr. R. Del Ponte, La Religione dei Romani, Milano 1992, paragrafi 4 e 5 del cap. II (Le fondamenta sacrali), pp. 75-87 e
note.
[2] “Nel parto precabantur Numeria, dea che anche i pontefici sono soliti indigitare” (Varr., in Non., 559 L.).
[3] CIL I² p. 189 n. 1. Cfr. G.B.
Pighi, La preghiera romana, in
AA. VV., La preghiera, Roma 1967, pp.
580-581.
[4] Cfr.
Arnob., adv. nat. II 73.
[5] Cens., die
nat. III 4.
[6] Varr., in Non. 853
e 559 L.
[7] Aug.,
civ. IV 11.
[8] Varr., L.L.
V 66.
[9] R.
del Ponte, La Religione dei Romani,
cit., pp. 128-129.
[10] Serv. Dan., ad Aen. II 141.
[11] Hyg., 277; Isid., Etym.I 4, I; V 39, 11.
[12] Ennius, Ann.
2 V.; Varr., L.L. VII 3, 26.
[13] Liv. I 20, 5.
[14] Si vedano utilmente gl’importanti studi di Emilio Peruzzi: in particolare Origini
di Roma, Il (Le lettere), Bologna
1973; Aspetti culturali del Lazio
primitivo, Firenze 1978; Civiltà
greca nel Lazio preromano, Firenze 1998.
[15] F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica, I
(Libri e commentarii), Sassari 1983,
p. 154.
[16] E.Peruzzi,
Origini di Roma, II, cit., p. 167.
[17] L’interesse di Veranio per il lessico
sacerdotale in genere è attestato anche dall’unico frammento pervenutoci di
un’altra sua opera, gli Auspiciorum
libri, in cui analizza l’espressione Paludati
(= armati), ricavata dai libri degli Auguri (cfr. Fest., 298 L.).
[18] Macrobio (Sat. III 6,14) riferisce il brano in cui si analizzava la presenza
e la funzione dei membri della gens
Pinaria al rito erculeo dell’Ara
Maxima, interessante per i risvolti mitici che offre e per la
considerazione che quel rito stesso, da gentilizio (privato) che era, fosse
divenuto pubblico ai tempi di Appio Claudio e quindi verosimilmente solo allora
inserito nel formulario delle supplicationes
pubbliche dei libri pontificali.
[19] Macr., Sat.
III 5, 6 e III 20, 2.
[20] Seguo la ripartizione offerta da G.B. Pighi, La preghiera romana, cit., pp. 575-576.
[21] Macr., Sat.
III 5, 6.
[22] Dunque, per il fatto di essere utilizzato
nella fustigazione preliminare dei parricidi, il corniolo non era affatto
ritenuto un arbor infelix, come
erroneamente hanno pensato alcuni autori moderni (M.Baistrocchi, Il
Tevere sacro: acque risanatorie e purificatrici, in “Ignis”, I, n.s., 2,
dicembre 1990, p. 170; A. Carandini,
La nascita di Roma, Torino 1997, p.
401 n. 56).
[23] Macr., Sat.
III 20, 2.
[24] Macr., Sat.
I 16, 29; Cens., die nat. III 2.
[25] Macr., Sat. III 2, 3. In III 2,11 Macrobio
riporta da Fabio Pittore il termine vitulari,
espressione pontificale che spiega utilizzando un altro scrittore di cose
sacre, Tizio, autore all’epoca di Augusto di un De ritu sacrorum.
[26] Macr., Sat. I 18,4.
[27] G.Dumézil,
La religione romana arcaica, Milano
1977, p. 383.
[28] Macr., Sat.
I 17, 15.
[29] G.Dumézil,
op. cit., p.384.
[30] Arnob., adv. nat. II 73: doctorum in litteris
continetur Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire.
[31] E.Peruzzi,
Aspetti culturali del Lazio primitivo, cit.,
p. 49, che riporta in nota 88 un passo di Festo (21.1-2): Aperta idem Apollo vocabatur, quia patente cortina responsa ab eo
dentur.
[32] R. del
Ponte, La Religione dei Romani,
cit., pp. 67-68.
[33] R. del
Ponte, Dèi e Miti Italici,
Genova 1998³, p. 165. Per Bona Dea -
Fauna come “signora degli animali”, vedi ivi, pp. 164-167. E probabile che le
indigitazioni su riferite fossero utilizzate delle vergini Vestali, considerato
che la virgo Vestalis Maxima presiedeva
il I di Maggio ai riti notturni e segreti pro
populo (da cui erano esclusi gli uomini) in onore di Bona Dea (Cic., Har. Resp. 37;
Leg. II 21).
[34] Per Fauno, cfr. Dèi e Miti Italici, cit., pp. 162-164.
[35] Varr., L.L.
V 15,83. Per le etimologie moderne, le origini e la storia del pontificato
massimo, rinvio al mio La Religione dei
Romani, cit., pp. 107-116 e note relative.
[36] Liv. I 33, 6.
[37] Liv. I 32, 2.
[38] Serv., ad
Aen. II 166.
[39] Sul rito degli Argei cfr. R. Del Ponte, Dèi e Miti Italici, cit., pp. 85-94.
[40] Serv. II, ad Aen. VIII 330. Cfr. G. Rohde,
Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices, Berlin 1936, p. 58.
[41] Serv. II, ad Aen. VIII 95.
[42] Serv., ad
Aen. VIII 63.
[43] Serv., ad
Aen. VIII 72.
[44] Ennius, Ann.
54 V.
[45] Verg., Aen.
VIII 72.
[46] Liv. II 10,11 (la preghiera è fatta
pronunciare ad Orazio Coclite prima di lanciarsi a nuoto nel fiume).
[47] Cic., nat.
deor. III 20,52.
[48] Varr., L.L.
VIII 33 e X 65.
[49] Vedi Tibull. I 1,37: Adsitis, divi.
[50] Paul. 94 L.
[51] Macr., Sat.
III 9,3.