N° 1 - Maggio 2002 - Tradizione

 

 

Francesco Sini

Università di Sassari

 

Uomini e Dèi nel sistema giuridico-religioso romano:

Pax deorum, tempo degli Dèi, sacrifici(*)

 

 

(*) Relazione presentata al VIII Colloquio dei romanisti dell’Europa centro-orientale e d’Italia «Studio e insegnamento del diritto romano. La persona nel sistema del diritto romano. La difesa dei debitori» (Vladivostok 5-7 ottobre 2000), organizzato dal «Juridi eskij Institut Dal’nevosto nogo Gosudarstvennogo Universiteta» (Istituto Giuridico dell’Università Statale dell’Estremo Oriente) in collaborazione con il Centro per gli studi su Diritto romano e sistemi giuridici del Consiglio Nazionale delle Ricerche e il Gruppo di ricerca sulla diffusione del Diritto Romano.

La traduzione russa di questo testo, curata dalla dr.ssa Maria Celintseva, è stata pubblicata in Ius Antiquum-Drevnee Pravo 8, 2001, pp. 8-30.

 

 

 

Sommario:

  1. Premessa
  2. Pax Deorum e religio
  3. Tempo degli Dèi (festi dies, feriae)
  4. Sacrifici. A) Il sacrificio nella ‘religione’ pontificale: sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio
  5. B) Vittime sacrificali tra teologia e diritto
  6. C) Sacrifici umani

 

 

 

1.      Premessa

 

Questo intervento, più che sulla nozione di uomo, verterà su alcuni aspetti dei rapporti tra uomini e divinità in Roma antica. Tratterò in particolare della pax deorum, del tempo degli Dèi e dei sacrifici.

La sapientia (teologica e giuridica) dei sacerdoti romani, mediante la definizione del ne-fas, rivolgeva le sue prime e maggiori cautele proprio alla regolamentazione dei rapporti tra uomini e Dèi; con lo scopo precipuo di preservare la pax deorum, che riposava sulla perfetta conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla; degli atti che mai dovevano essere compiuti; delle parole che mai dovevano essere pronunciate[1].

Nell'antitesi fas/nefas[2], fondata in particolar modo sul sentimento che spazio e tempo appartenessero agli Dèi, si manifestava compiutamente la peculiarità dei rapporti tra uomini e divinità nel sistema giuridico-religioso romano: in un sistema, cioè, in cui la distinzione tra il "divino" e l' "umano" rappresentava – per dirla con Riccardo Orestano – «la più antica concezione romana del mondo»[3]. Va sottolineato, che su tale concezione del mondo, da cui risultano evidenti la cautela definitoria della scienza sacerdotale e la tensione universalistica della teologia pontificale[4], appaiano fondate sia la definizione ulpianea di iurisprudentia, accolta nei Digesta dell'Imperatore Giustiniano[5], sia la summa divisio rerum della giurisprudenza romana[6]. Ma, quasi sicuramente, anche il grande M. Terenzio Varrone faceva riferimento a questa «più antica concezione romana del mondo» nella strutturazione delle sue Antiquitates[7] in humanae e divinae[8].

 

2.      Pax deorum e religio

 

Nelle elaborazioni teologiche e giuridiche dei sacerdoti romani, tutte le manifestazioni significative della vita e della storia del Popolo romano sono rappresentate in rapporto di imprescindibile causalità con la religio[9]. Teologia e ius divinum mostravano che la volontà degli Dèi aveva concorso alla fondazione dell’Urbs Roma[10]; ne aveva sostenuto la prodigiosa “crescita” del numero dei cittadini (civitas augescens, per usare la felice espressione del giurista Pomponio, conservata dai compilatori dei Digesta Iustiniani[11]); infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la sua estensione sine fine[12].

I sacerdoti romani avevano postulato, fin dalle prime attestazioni della memoria storica e documentaria delle loro attività, un legame indissolubile tra la vita del Popolo romano e la sua religio (parola da intendere nel senso di culto degli Dèi «religione, id est cultu deorum»)[13]; per questa ragione riti e culti della religione politeista risultavano finalizzati al conseguimento e alla conservazione della pax deorum[14] («pace degli Dèi», ma da intendere nel senso di «pace con gli Dèi»)[15].

Per la vita del Popolo romano si riteneva indispensabile il permanere di una situazione di amicizia nei rapporti uomini e Dèi[16], considerati anch’essi una delle parti del sistema giuridico-religioso[17]; certo la più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che si riconosceva alle divinità[18].

Dagli Dèi i Romani si aspettavano di ricevere pace e perdono[19]; senza tuttavia ignorare che le loro colpe potevano essere punite da Iuppiter con gravissimi mali[20]. Emerge così la nozione di pax deorum, che potrebbe essere addirittura «all'origine del concetto romano di pax», secondo una suggestiva ipotesi avanzata da Marta Sordi[21]; per quanto, riguardo alla tesi della studiosa italiana, mi pare di poter condividere alcuni rilievi formulati dallo storico delle religioni Enrico Montanari[22].

L’espressione pax deorum è attestata ancora nella sua forma arcaica, pax divom o deum, da Plauto (sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet adesse?)[23], Lucrezio (non divom pacis votis adit, ac prece quaesit)[24], Virgilio (exorat pacem divom)[25] e Tito Livio (His avertendis terroribus in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum mulierumque turba implebantur)[26].

Dal punto di vista umano (cioè dello ius sacrum), il «legalismo religioso» («Legalismo religioso è l'insieme delle regole che insegnano a mantenere la pax deorum»: P. Voci)[27] dei sacerdoti romani configurava la pax deorum come una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività e individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore degli Dèi. Questo spiega anche l'attenzione precisa e minuziosa dell'annalistica romana, erede diretta dell'attività "storiografica" del collegio dei pontefici[28], nel documentare fatti e avvenimenti suscettibili di turbare la pax deorum, le conseguenze negative per la vita comunitaria, i riti e le cerimonie posti in essere per espiare[29].

In questa prospettiva, può ben comprendersi perché la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale[30] e fosse considerato, al tempo stesso, l'elemento basilare del sistema giuridico-religioso. Oggetto, quindi, dello ius del Popolo romano (ius publicum), non a caso tripartito secondo il giurista Ulpiano in sacra, sacerdotes, magistratus:

 

D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit[31].

 

«Una suddivisione – ha scritto Pierangelo Catalano – propria della giurisprudenza repubblicana, tracciata in spontanea adesione ai documenti sacerdotali e magistratuali»[32]. Credo di aver dimostrato in un mio libro, intitolato Documenti sacerdotali di Roma antica, che la tripartizione ulpianea (e ciceroniana[33]) dello ius publicum affonda le sue radici in elaborazioni sacerdotali di età precedente al pareggiamento tra patrizi e plebei, o di età appena successiva, e riflette una gerarchizzazione delle parti dello ius publicum sostanzialmente antiplebea[34]. Il conservatorismo rituale e il carattere prevalentemente sacerdotale della giurisprudenza medio-repubblicana[35] hanno consentito all'antica partizione dello ius publicum di affermarsi nella sistematica giurisprudenziale del III e II secolo a. C.[36], fino ad essere poi canonizzata in funzione politica nel I secolo da Cicerone.

 

3.      Tempo degli Dèi (festi dies, feriae)

 

Nelle pratiche cultuali dell’antica religione romana[37], finalizzate sempre alla conservazione della pax deorum[38], risulta invero assai evidente la centralità del tempo (o più concretamente dei giorni e delle stagioni). Uno dei doveri religiosi osservato con più scrupolo dal Popolo romano era il rispetto del tempo degli Dèi: i dies festi o feriae; per la teologia (e per il diritto) dei sacerdoti, da tale scrupolosa osservanza dipendeva massimamente l'esistenza di buoni rapporti tra uomini e Déi.

Come apprendiamo da Macrobio, i dies festi erano dedicati agli Dèi per l'intero arco della giornata (Festi dis dicati sunt):

 

Macrobius, Sat. 1.16.2-3: Numa ut in menses annum, ita in dies mensem quemque distribuit, diesque omnes aut festos aut profestos aut intercisos vocavit. Festi dis dicati sunt, profesti hominibus ob administrandum rem privatam publicamque concessi, intercisi deorum hominumque communes sunt. Festis insunt sacrificia epulae ludi feriae.

 

Si trattava di giorni in cui i cittadini romani dovevano praticare le devozioni verso le divinità e celebrare i sacrifici in loro onore; giorni sottratti alle altre attività umane, per essere consacrati esclusivamente al culto degli Dèi.

Questo carattere obbligatorio del rispetto delle feriae doveva avere senza dubbio anche una fortissima valenza giuridica; che troviamo sottesa nel linguaggio tecnico-giuridico utilizzato dal Servio Danielino per definire, appunto, l’obbligatorietà del rispetto delle feriae, nel commento al verso 268 del primo libro delle Georgiche, in un contesto che sembra estrapolato, quanto meno, da un trattato di ius pontificium di qualità eccellente.

 

Servius Dan., in Verg. Georg. 1.268: Sunt enim aliqua, quae si festis diebus fiant, ferias polluant: quapropter et pontifices sacrificaturi praemittere calatores suos solent, ut, sicubi viderint opifices adsidentes opus suum, prohibeant, ne pro negotio suo et ipsorum oculos et caerimonias deum attaminent: feriae enim operae deorum creditae sunt. Sane feriis terram ferro tangi nefas est, quia feriae deorum causa instituuntur, festi dies hominum quoque.

 

Il commentatore di Virgilio scrive che le feriae sono da considerarsi a tutti gli effetti come operae dovute agli Dèi (Feriae enim operae deorum creditae sunt); e spiega il nefas che inibisce i lavori agricoli durante le feriae (feriis terram ferro tangi nefas est), in ragione del fatto che «feriae deorum causa instituuntur». Orbene, proprio nel ricorso alla nozione di opera, mi pare possa cogliersi l'esatto senso giuridico degli obblighi gravanti sugli uomini per il rispetto del tempo delle feriae. Tuttavia, al riguardo, non credo di poter condividere la tesi formulata, più di quarant’anni orsono, da Pierre Braun, in un suo saggio dedicato ai “Tabous des «feriae»”; lo studioso francese ha sostenuto che i divieti imposti nelle feriae determinerebbero l’instaurarsi di una relazione tra uomini e divinità del tutto simile «à celle de l’affranchi et de son patron»[39].

Su questi divieti, i pontefici avevano elaborato regole di comportamento piuttosto complesse e minuziose, di cui tramandavano la memoria e la dottrina nei libri del collegio, come attesta ancora una volta Servio Danielino, nel suo commento al verso 270 del primo libro delle Georgiche virgiliane.

 

Servius Dan., in Verg. Georg. 1.270: Sed qui disciplinas pontificum interius agnoverunt, ea die festo sine piaculo dicunt posse fieri, quae supra terra sunt, vel quae omissa nocent, vel quae ad honorem deorum pertinent, et quidquid fieri sine institutione novi operis potest: ut rivorum inductionem sic accipimus, per fossam vel pratum purgatum deducere, id est emittere, quoniam cautum in libris sacris est feriis denucalibus aquam in pratum ducere nisi legitimam non licet, ceteris feriis omnes aquas licet deducere. Ergo hic, ut aliquibus videtur, ‘deducere’ purgare est, et sordes emittere, quae praecludant aquam, ideo quia a pontificibus, ut novum fieri non permittitur feriis, ita vetus purgeri permittitur. Alii hoc sedundum augurale ius dictum tradunt, quod etiam in bello observetur, ne novum negotium incipiatur. Ergo ‘rivos deducere’ non est novum negotium, et potest hoc ad illud referri quique paludis collectum umorem bibula deducit harena. Sane quae feriae a quo genere hominum vel quibus diebus observentur, vel quae festis diebus fieri permissa sint, siquis scire desiderat, libros pontificales legat[40].

 

Sulla materia vi erano scrupoli e zone d’ombra che richiedevano il costante conforto degli esperti. Regnava, per esempio, una grande incertezza sulle opere agricole consentite durante i dies festi: tema peraltro usuale fra gli scrittori di agricultura: se ne erano occupati Catone il Censore[41] e poi Virgilio[42], infine se ne occuperà Columella[43], ma senza pervenire ad una totale identità di vedute. Per quanto, ormai, le prescrizioni pontificali dovessero essere improntate ad una pratica assai permissiva, almeno fin dall’età di Quinto Mucio Scevola[44], poiché, come insegnava il grande giurista e pontefice massimo, durante le ferie poteva essere portato a compimento tutto ciò quod praetermissum noceret.

 

Macrobius, Sat. 1.16.9-11: Adfirmabant autem sacerdotes pollui ferias si indictis conceptisque opus aliquod fieret. Praeterea regem sacrorum flaminesque non licebat videre feriis opus fiere, et ideo per praeconem denuntiabant ne quid tale ageretur: et praecepti neglegens multabatur. Praeter multam vero adfirmabatur eum qui talibus diebus imprudens aliquid egisset porco piaculum dare debere. Prudentem expiare non posse Scaevola pontifex adseverabat, sed Umbro negat eum pollui qui opus vel ad deos pentinens sacrorumve causa fecisset, vel aliquid ad urgentem vitae utilitatem respiciens actitasset. Scaevola denique consultus, quid feriis agi liceret, respondit: quod praetermissum noceret. Quapropter, si bos in specum decidisset eumque pater familias adhibitis operis liberasset, non est visus ferias polluisse; nec ille qui trabem tecti fractam fulciendo ab imminenti vindicavit ruina[45].

 

Tuttavia, lo stesso Quinto Mucio era, invece, piuttosto rigoroso nell’escludere la possibilità di espiare le violazioni volontarie del “tempo degli dei”.

 

Varro, De ling. Lat. 6.30: Contrarii horum vocantur dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem ‘do, dico, addico’; itaque non potest agi: necesse est aliquo <eorum> uti verbo, cum lege qui<d> peragitur. Quod si tum imprudens id verbum emisit ac quem manumisit, ille nihilo minus est liber, sed vitio, ut magistratus vitio creatus nihilo setius magistratus. Praetor qui tum fa[c]tus est, si imprudens fecit, piaculari hostia facta piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius a[b]i[g]ebat eum expiari ut impium non posse[46].

 

Riferisce, al riguardo, M. Terenzio Varrone che il pontefice massimo Scevola, a proposito della violazione da parte del pretore dei dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem ‘do, dico, addico’, distingueva nettamente la posizione di chi avesse violato il nefas fari involontariamente (imprudens), e dunque poteva espiare con un sacrificio, da quella di colui che a tale obbligo era venuto meno volontariamente (prudens), per il quale non vi era invece possibilità di espiazione: si prudens dixit, Quintus Mucius aiebat eum expiari ut impium non posse.

L’interpretatio (dispositiva, precettiva o rispondente) dei pontefici, e degli altri sacerdoti, risultava massimamente finalizzata a preservare nel tempo la pax deorum, che si consolidava soprattutto attraverso il rispetto più rigoroso delle prescrizioni cultuali previste nei giorni riservati agli Dèi. Era altresì necessaria da parte dei sacerdoti un’intensa attività cautelare, in rapporto al tempo e alla natura, al fine di evitare, prevenire o rimuovere, ogni accadimento suscettibile di innescare il verificarsi del nefas[47] (che l'opera della natura o l'azione degli uomini tendevano sempre a provocare), con la sua dirompente turbativa dei rapporti tra uomini e divinità. Ma la scienza sacerdotale, proprio mediante la riqualificazione religiosa a favore degli Dèi di quote del tempo profano, che in tal modo diventavano giorni di ferie e di preghiera per tutta la comunità, si mostrava quasi sempre in grado di exposcere pacem deum nella maniera più efficace.

 

Livius 3.5.14: Ut Romam reditum est, iustitium remissum est; caelum visum est ardere plurimo igni, portentaque alia aut obversata oculis aut vanas exterritis ostentavere species. His avertendis terroribus in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum mulierumque turba implebantur[48].

 

In queste azioni rituali, la più antica teologia sacerdotale e le norme dello ius sacrum concretizzavano il legame indissolubile tra la vita del popolo romano e la sua religio, finalizzata alla stabilizzazione della pax deorum: cioè al permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e Dèi. Si possono ben comprendere le ragioni profonde dell’interpretatio sacerdotale, che teorizzava la conservazione della pax deorum come l’elemento basilare del sistema giuridico-religioso romano, in quanto fondamento teologico di tutti i riti.

 

4.      Sacrifici. A) Il sacrificio nella ‘religione’ pontificale: sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio

 

La centralità dei sacrifici di esseri animati (hostiae o victimae), per le pratiche cultuali dell’antica religione politeista romana (e dunque per la conservazione della pax deorum), risulta invero assai evidente in un notissimo passo di Tito Livio (1.20.5-7), relativo all’istituzione del sacerdozio pontificale da parte del re Numa Pompilio[49].

 

Livius 1.20.5-7: Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium, ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset, quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec celestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur.

 

Riguardo al passo appena citato, mette conto sottolineare il fatto che nell’elenco delle materie di competenze dei pontefici, il cui ordine non può ritenersi certo casuale, proprio le hostiae vengano collocate al primo posto; precedendo rispettivamente dies, templa, pecunia, cetera sacra, funebria e prodigia. Peraltro le potenzialità classificatorie e sistematiche insite nel testo liviano non sono sfuggite alla parte più avvertita della dottrina contemporanea, al cui interno coesistono però posizioni assai diversificate: alcuni studiosi hanno ritenuto determinante la tripartizione: quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa (così, ad esempio, il grande storico francese Auguste Bouché-Leclercq[50]); altri, come lo storico della religione romana Nicola Turchi, propugnano una divisione della materia in cinque parti: controllo rituale, responsi sull'attività circa le cose sacre e pubbliche, controllo sul culto degli Dèi patri e sull'accettazione dei culti stranieri, controllo sul diritto funerario, espiazione e neutralizzazione di fulmini e altri prodigi funesti[51]; altri ancora – è il caso del linguista Emilio Peruzzi – ritengono di poter individuare anche il contenuto, o almeno l’ordine di disposizione della materia, dei primitivi libri pontificum proprio sulla base del citato passo di Tito Livio, «da cui traspare che la copia consegnata al pontefice era divisa in sette capitoli»[52].

Bisogna ricordare, poi, che le ricerche del Peruzzi hanno dimostrato in maniera convincente la derivazione da documenti sacerdotali del testo liviano; in esso si sarebbero conservati elementi di autenticità assai risalenti, come la formula onomastica del pontifex[53].

Del resto, appare abbastanza credibile che la riforma religiosa di Numa Pompilio[54] abbia imposto l’esigenza di testi scritti, senza il cui ausilio doveva essere ormai quasi impossibile osservare la complessità dei sacra e delle caerimoniae e la minuziosa regolamentazione dei sacrifici, testimoniate a proposito della religiosità di quell'epoca. Di alcune delle prescrizioni rituali pompiliane abbiamo notizia nella ‘vita di Numa’ di Plutarco[55]: esse riguardavano l’obbligo di sacrificare un numero dispari di vittime agli Dèi celesti ed un numero pari a quelli inferi[56]; il divieto di libare agli Dèi con vino[57]; il divieto di sacrificare senza farina[58]; la necessità di pregare e adorare la divinità compiendo un giro su sè stessi[59]; apprendiamo infine, da una testimonianza di Arnobio, che gli antichi attribuivano a Numa Pompilio la composizione degli indigitamenta[60], appellativi rituali delle divinità (nomina deorum et rationes ipsorum nominum)[61], raccolti in seguito dai sacerdoti in libris pontificalibus[62].

Alla luce di quanto si è detto, nel passo di Tito Livio deve considerarsi particolarmente affidabile l’elenco, o per meglio dire l’ordine-gerarchia, delle materie di competenze dei pontefici (quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur), poiché esso ricalcava l’ordine degli antichissimi sacra omnia exscripta exsignataque istitutivi del sacerdozio pontificale[63], ritenuti dalla tradizione annalistica opera dello stesso Numa Pompilio. Infine, non va dimenticato che secondo la tradizione antiquaria (Varrone) questi libri Numae avevano costituito il nucleo primitivo dei libri pontifícum[64].

 

5.      Sacrifici. B) Vittime sacrificali tra teologia e diritto

 

Torniamo, ora, agli aspetti giuridici e rituali del sacrificio[65] e alla valenza teologica delle hostiae[66] per i rapporti tra uomini e Dèi. Voglio subito precisare, che non è mio intendimento proporre qui di seguito una trattazione compiuta della materia: da un lato, non lo consentirebbe lo spazio concesso a questo contributo; dall’altro, bisogna pur convenire che sono validi ancora oggi molti pregevoli studi del passato (penso in particolare, ad opere come quelle di E. Lübbert[67], A. Bouché-Leclercq[68], C. Krause[69], C. Blecher[70]), mentre restano quasi insuperabili le sintesi manualistiche di J. Marquardt[71] e G. Wissowa[72].

Il sacrificio (sacra facere), nella sua accezione più generale, si presentava come un’azione rituale che permetteva alle diverse aggregazioni comunitarie romane[73] di stabilire, per mezzo della vittima immolata, forme di comunicazione con le divinità destinatarie del sacrificio[74]; si può ben dire, usando le parole di Ileana Chirassi, che il sacrificio era sentito dalla religiosità romana principalmente come «modalità di scambio tra due posizioni, due dati che si fronteggiano dialetticamente e dei quali uno viene a trovarsi in posizione mancante, quindi bisognoso d’integrazione»[75].

A proposito delle forme di religiosità romana, sarà bene ricordare che il vocabolo cultus è un derivato del verbo colere, utilizzato indifferentemente in riferimento alla terra, agli uomini, agli Dèi; questo significa che anche i rapporti con le divinità, per produrre i frutti desiderati, necessitavano di assidue cure e di particolari attenzioni. L’uomo doveva impegnarsi in una incessante attività cultuale, poiché solo così poteva sperare di ricevere benefici sempre maggiori dall’immenso potere degli Dèi; tuttavia, come spiega con la consueta acutezza Robert Turcan, nella concezione romana dei rapporti tra l’umano e il divino le azioni cultuali degli uomini (con particolare riguardo al sacrificio) erano reputate indispensabili per la stessa esistenza degli Dèi[76].

Teologia e ius divinum mostravano nei confronti del sacrificio un atteggiamento bivalente: i sacerdoti romani, da un lato, ritenevano che le azioni sacrificali costituissero i riti più idonei per attrarre la benevolenza divina sulle vicende umane, volgendo in tal modo a beneficio degli uomini l’immensa potenza degli Dèi; d’altro lato, consideravano i sacrifici indispensabili per la sopravvivenza delle stesse divinità, le quali diventavano tanto più potenti, quanto più numerose erano le vittime immolate sui loro altari[77]. Di questa concezione romana del sacrificio, costituisce una prova incontrovertibile l’uso linguistico corrente del verbo mactare: come insegnano i linguisti[78], tale verbo, muovendo dal suo significato originario di «accrescere», «fare più grande» (deriva infatti dalla stessa radice di magis), ha finito per acquisire il senso prevalente di «sacrificare», «immolare»:

 

Servius, in Verg. Aen. 4.57: mactant verbum sacrorum, kat'eÙfhmismÒn dictum, ut adolere; nam ‘mactare’ proprie est ‘magis augere’[79].

 

Nell’azione rituale del sacrificio, percepito come vero e proprio nutrimento degli Dèi[80], si perfeziona in tutta la sua dimensione bilaterale il rapporto di reciprocità insito nella concezione romana di religio[81]. Certamente, aveva ben presente questa concezione della religio M. Tullio Cicerone, quando scriveva nel de legibus che gli Dèi e gli uomini appartengono alla medesima societas, alla medesima civitas[82] e che la loro associazione riposa nella comunanza della legge: lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus[83].

La sapienza teologica e giuridica dei sacerdoti romani aveva operato ab antiquo partizioni fondamentali in materia di sacrifici (quibus hostiis immolandum quoique deo, cui maioribus, cui lactentibus, cui maribus, cui feminis)[84]. Essi potevano consistere in offerte incruente di prodotti della terra (libamina), oppure in sacrifici cruenti di esseri animati (hostiae, victimae). Quanto al risultato che si voleva conseguire, la pratica dei sacrifici cruenti erano ritenuta di gran lunga superiore alla semplice offerta di libamina, in ragione del radicato convincimento che il sangue delle vittime sacrificali, versato nell’azione rituale, risultasse sommamente gradito alle divinità (e ai defunti):

 

Servius Dan., in Verg. Aen. 3.67: Ideo autem lactis et sanguinis mentio facta est, qui adfirmantur animae latcte et sanguine delectari. Varro quoque dicit mulieres in exsequiis et luctu ideo solitas ora lacerare, ut sanguine ostenso inferis satisfaciant, quare etiam institutum est, ut apud sepulcra et victimae caedantur. Apud veteres etiam homines interficiebantur, sed mortuo Iunio Bruto cum multae gentes ad eius funus captivos misissent, nepos illius eos qui missi erant inter se composuit, et sic pugnaverunt: et quod muneri missi erant, inde munus appellatum[85].

 

Nello stesso tempo, al fine di assicurare ai fedeli la piena conoscenza delle modalità di celebrazione dei sacrifici, i sacerdoti romani fissarono con estrema precisione sia le regole rituali, sia le tipologie degli animali sacrificabili alle diverse divinità; in tal modo, diventava possibile per i cittadini vincere ogni scrupolo religioso e associare a ciascun Dio la vittima più idonea (Victimae numinibus aut per similitudinem aut per contrarietatem immolantur):

 

Servius, in Verg. Georg. 2.380: Victimae numinibus aut per similitudinem aut per contrarietatem immolantur: per similitudinem, ut nigrum pecus Plutoni; per contrarietatem, ut porca, quae obest frugibus, Cereri, ut caper, qui obest vitibus, Libero, item capra Aesculapio, qui est deus salutis, cum capra numquam sine febre sit[86].

 

Si andarono elaborando classificazioni sempre più rigorose delle vittime sacrificali, pur nella generale tendenza alla semplificazione dei genera hostiarum. Sul finire dell’età repubblicana, il grande giurista C. Trebazio Testa[87], autore di un’opera intitolata de religionibus, aveva teorizzato che tali genera potessero ridursi sostanzialmente a due (unum in quo voluntas dei per exta disquiritur, alterum in quo sola anima deo sacratur)[88].

Venne così ad operarsi una distinzione sempre più marcata tra hostiae e victimae, che però risultava ormai lontana dalle motivazioni teologiche e giuridiche (ricordate ancora in età tardo antica dal grammatico Servio), per quanto proprio queste motivazioni costituissero il fondamento di tale distinzione[89].

In genere, nella pratica religiosa corrente col termine hostiae si designavano gli animali piccoli, quali maiali, capre, pecore; mentre erano denominati victimae tutti gli animali più grandi, soprattutto tori e vacche[90]. I pontefici poi, nella classificazione delle vittime, tenevano conto dell’età: si chiamavano lactentes quando avevano un determinato numero di giorni (cinque o dieci i porcellini, sette gli agnelli e trenta i vitelli); erano invece maiores o bidentes quando divenute adulte avevano messo la doppia fila di denti; inoltre, gli animali da sacrificare sovente venivano distinti sulla base del sesso[91] e del colore, o anche dello scopo che si voleva conseguire con il sacrificio[92]. Naturalmente, le vittime dei sacrifici non dovevano avere difetti fisici (purae). Per questo, come leggiamo in un passo di Macrobio, il quale cita letteralmente le quaestiones pontificales di Veranio[93]

 

Macrobis, Sat. 3.5.6: Eximii quoque in sacrificiis vocabulum non poeticum ™p…qeton, sed sacerdotale nomen est. Veranius enim in Pontificalibus quaestionibus docet eximias dictas hostias quae ad sacrificium destinatae eximantur e grege, vel quod eximia specie quasi offerendae numinibus eligantur[94],

 

prima del sacrificio era necessario procedere ad una verifica che dichiarasse tali vittime electae (scelte), eximiae, egregiae (separate dal gregge) e quindi idonee all’immolazione.

Nel caso di sacrifici particolarmente solenni, il rituale prescriveva che si offrissero insieme diverse specie di animali; il più noto di questi sacrifici prendeva il nome di suovetaurilia e consisteva nell’offerta alle divinità di un maiale, di una pecora e di un toro. I suovetaurilia, attestati anche negli inni vedici dell’antica India[95], erano un’antichissimo sacrificio risalente alla “religione comune” dei popoli indoeuropei; a Roma essi dovevano essere compiuti nelle cerimonie lustrali o di purificazione: si offrivano al dio Marte in Campo Marzio nel corso della cerimonia di purificazione del populus Romanus, che aveva luogo ogni cinque anni ad opera dei censori (lustrum condere)[96]. Lo stesso sacrificio, peraltro, era celebrato annualmente dal pater familias nella seconda parte del mese di maggio, in occasione degli ambarvalia, cerimonia di purificazione dei campi descritta da Catone, in cui ogni proprietario sacrificava i tre animali condotti precedentemente in processione intorno ai confini del fondo familiare[97].

Non posso addentrarmi ulteriormente nel complesso rituale romano del sacrificio, le cui regole minuziose esigevano dal fedele grande attenzione e notevole perizia; l’attività cautelare dei sacerdoti romani fu pressoché incessante in materia, si elaborarono perfino modi di espiazione anticipata degli eventuali scelera determinati da omissioni involontarie del sacrificante. A tale scopo, i sacerdoti prescrivevano di immolare, il giorno precedente a quello fissato per il compimento di sacrifici solenni, una vittima espiatoria, chiamata appunto praecidanea «uccisa prima», per sanare ogni infrazione rituale involontaria che si sarebbe potuta commettere durante lo svolgimento della cerimonia[98].

 

6.      Sacrifici. C) Sacrifici umani

 

Vorrei proporre un’ultima suggestione riguardo ai sacrifici nella religione politeista romana. è noto che i giuristi romani, sulla base dello ius naturale, hanno teorizzato l’esistenza di istituti giuridici comuni a tutti gli animalia[99]; si riteneva, dunque, che il sistema giuridico-religioso romano fosse caratterizzato da una comunanza di diritti tra (Dèi) uomini e animali, la cui coerente traduzione nella sfera religiosa permetteva di considerare quali possibili vittime sacrificali anche gli stessi esseri umani.

Col progredire della storia di Roma, i sacrifici umani divennero del tutto eccezionali: per essi trovarono più frequente applicazione sia il principio della sostituzione dell’uomo[100] con gli animali (vigente nelle antichissime leges regiae, per il colpevole di omicidio involontario)[101], sia la regola in sacris simulata pro veris accipi, certamente elaborata dai sacerdoti in età arcaica, per quanto attestata da una fonte piuttosto tarda.

 

Servius, in Verg. Aen. 2.116: virgine caesa non vere, sed ut videbatur. Et sciendum in sacris simulata pro veris accipi: unde cum de animalibus quae difficile inveniuntur est sacrificandum, de pane vel cera fiunt et pro veris accipiuntur[102].

 

Tuttavia i sacrifici umani, nonostante il Senato di Roma li avesse proibiti fin dal 97 a.C.[103], continuarono ad essere praticati eccezionalmente fino all’età imperiale avanzata. Depone in tal senso la testimonianza di Plinio il Vecchio, il quale tratta di sacrifici umani (in forma di sepoltura rituale) nel libro ventottesimo della Naturalis historia, descrivendoli come cerimonie religiose ancora praticate nel suo tempo (etiam nostra aetas vidit).

 

Plinius, Nat. hist. 28.12: Boario vero in foro Graecum Graecamque defossos aut aliarum gentium, cum quibus tum res esset, etiam nostra aetas vidit. Cuius sacri precationem, qua solet praeire XVvirum collegii magister, si quis legat, profecto vim carminum fateatur, omnia ea adprobantibus DCCCXXX annorum eventibus[104].

 

Altri episodi tramandati dalle tradizione annalistica riguardano invece l’età repubblicana.

 

Livius 22.57.4-6: Hoc nefas cum inter tot, ut fit, clades in prodigium versum esset, decemviri libros adire iussi sunt et Q. Fabius Pictor Delphos ad oraculum missus est sciscitatum quibus precibus suppliciisque deos possent placare et quaenam futura finis tantis cladibus foret. Interim ex fatalibus libris sacrificia aliquot extraordinaria facta; inter quae Gallus et Galla, Graecus et Graeca in foro bovario sub terram vivi demissi sunt in locum saxo consaeptum, iam ante hostiis humanis, minime Romano sacro, inbutum[105].

 

Tito Livio riferisce la notizia che nel 216 a.C. i libri fatales, consultati dopo la battaglia di Canne, ordinarono ai Romani sacrificia aliquot extraordinaria e che, sulla base di quelle prescrizioni, furono sepolte vive nel Foro Boario una coppia (maschio e femmina) di Celti e una coppia di Greci[106]. Peraltro lo stesso sacrificio, come si legge in Plutarco[107], era già stato celebrato nell’anno 228 a.C., prima della guerra contro gli Insubri.

Allo stesso modo, si potrebbe ritenere un vero e proprio sacrificio espiatorio l’interramento nel Foro Boario della Vestale incestuosa[108]; similmente, sono da considerare sacrifici umani i riti della devotio[109] e della “primavera sacra”[110]. Infine, il ricordo di un antichissimo sacrificio umano permane nel misterioso rito degli Argei, che si celebrava il 14 o 15 maggio[111]: mentre sfugge quasi totalmente il significato religioso del rito, risultano più chiare le modalità della cerimonia, durante la quale le Vestali, operando alla presenza dei pontefici e dei magistrati, gettavano nel Tevere dal Ponte Sublicio 27 fantocci di paglia (il numero è indicato da Varrone), certo in sostituzione delle vittime umane effettivamente sacrificate nell’età più antica alla divinità del fiume[112].

 



 

[1] R. Orestano, I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967, p. 114: «In queste condizioni tutta la vita privata e quella pubblica erano dominate dall'assillo ansioso e ininterrotto di operare in accordo con queste "forze" o "deità", di procurarsi il loro ausilio, di propiziarsi il loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro influenze ostili, di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una loro reazione. La paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o comportamento potesse rompere la pax deorum da cui dipendevano il benessere dell'individuo, della famiglia, della comunità, rendeva il romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della natura i segni della volontà divina».

 

[2] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico", [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 7] Sassari 1991, pp. 83 ss.

 

[3] R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939, p. 201: «Una siffatta concezione ci riporta a quella che è stata la più antica concezione romana del mondo, rimasta costante in tutta la tradizione, secondo la quale la totalità degli esseri ragionevoli si divideva in due gruppi, gli Dei e gli uomini. Da essa scaturiva la suprema distinzione di tutti i rapporti e delle pertinenze in "divina" e "humana"».

 

[4] Cfr. la qualifica, certo antichissima, attribuita al pontifex maximus nell'ordo sacerdotum: Festus, De verb sign. pp. 198-200: Ordo sacerdotum aestimatur deorum <ordine ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex, dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex maximus. Itaque in soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra Martialem, et Quirinalem; Martialis supra proximum; omnes item supra pontificem. Rex, quia potentissimus: Dialis, qui universi mundi sacerdos, qui appallatur Dium; Martialis, quod Mars conditoris urbis parens; Quirinalis, socio imperii Romani Curibus ascito Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque arbiter habetur rerum divinarum humanarumque. Per la risalenza dell'ordo sacerdotum attestato da Festo, vedi soprattutto G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris 1974, p. 155 [= Id., La religione romana arcaica, trad. it. di F. Jesi, Milano 1977, pp. 138 s.]; sul testo cfr. anche F. D'Ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica, Roma-Bari 1986, pp. 91 s.; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, p. 108.

 

[5] D. 1.1.10.2 (Ulpianus libro primo regularum): Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. Cfr. F. Senn, Les origines de la notion de jurisprudence, Paris 1926; F. Stella-Maranca, Intorno alla definizione della giurisprudenza, in Historia 8, 1934, pp. 640 ss.; F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera, Firenze 1968, p. 242; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, p. 341 n. 543; G. Nocera, Iurisprudentia. Per una storia del pensiero giuridico romano, cit., pp. 9 ss.; G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, pp. 708 s.

 

[6] Gaius, Inst. 2.2 (= D. 1.8.1 pr.): Summa itaque rerum divisio in duos articulos diducitur: nam aliae sunt divini iuris, aliae humani. Sebbene nel manuale gaiano questa summa divisio sia preceduta dalla divisione tra cose quae vel in nostro patrimonio sunt vel extra nostrum patrimonium habentur (Inst. 2, 1), non mi pare si possa dubitare del carattere più risalente della partizione delle res tra ius divinum e ius humanum: di ciò non dubitavano i compilatori dei Digesta Iustiniani, i quali nel titolo VIII del primo libro, De divisione rerum et qualitate, hanno ripristinato tale priorità. Su questa divisio vedi F. Fabbrini, v. Res divini iuris, in Novissimo Digesto Italiano, XV, Torino 1968, pp. 510 ss., con ampia rassegna del dibattito dottrinario precedente e della bibliografia; brevemente anche G. Grosso, Problemi sistematici del diritto romano. Cose-Contratti, Torino 1974, pp. 22 s. Riguardo al significato dell'espressione summa divisio, sempre in riferimento a Gaio, vedi invece F. Goria, Schiavi, sistematica delle persone e condizioni economico-sociali nel principato, in AA.VV., Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, pp. 339 ss.; sull'influenza dell'ideologia religiosa vedi, infine, L. Lantella, Il lavoro sistematico nel discorso giuridico romano (Repertorio di strumenti per una lettura ideologica), Ibid., pp. 244 ss.

 

[7] Per la sistematica delle Antiquitates varroniane, risultano fondamentali H. Dahlmann, v. M. Terentius Varro, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. VI, Stuttgart 1935, coll. 1229 ss.; Id., Zu Varros antiquarisch-historischen Werken, besonders den Antiquitates rerum humanarum et divinarum, in Atti del Congresso Internazionale di Studi Varroniani, I, Rieti 1976, pp. 163 ss.; J. Collart, Varron grammairien latin, Paris 1954, pp. 275 ss. Più in particolare, sulle 'antichità divine': A. G. Condemi, Proemium a M. Terenti Varronis Antiquitates rerum divinarum. Librorum I-II fragmenta, Bologna 1965, pp. VII ss.; B. Cardauns, M. Terentius Varro Antiquitates rerum divinarum, II. Kommentar, Wiesbaden 1976, pp. 125 ss.; P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 446 ss.; brevemente anche F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 2] Sassari 1983, pp. 210 ss.

 

[8] Augustinus, De civ. Dei 6.3: In divinis identidem rebus eadem ab illo divisionis forma servata est, quantum attinet ad ea quae diis exhibenda sunt. Exhibentur enim ab hominibus, in locis et temporibus sacra. Haec quattuor, quae dixi, libris complexus est ternis: nam tres priores de hominibus scripsit, sequentes de locis, tertios de temporibus, quartos de sacris, etiam hic qui exhibeant, ubi exhibeant, quando exhibeant, quod exhibeant, subtilissima distinctione commendans. Sed quia oportebat dicere et maxime id expectabatur quibus exhibeant, de ipsis quoque diis tres conscripsit extremos, ut quinquies terni quindecim fierent. Sunt autem omnes, ut diximus, sedecim quia et istorum exordio unum singularem qui prius de omnibus loqueretur, apposuit; quo absoluto consequenter ex illa quinquepartita distributione tres praecedentes, qui ad homines petinent, ita subdivisit, ut primus sit de pontificibus, secundus de auguribus, tertius de quindecemviris sacrorum: secundos tres ad loca pertinentia ita, ut in uno eorum de sacellis, altero de sacris aedibus, diceret, tertio de locis religiosis. Tres porro qui illos sequentur, ad tempora pertinent, id est ad dies festos, ita, ut unum faceret de feriis, alterum de ludis circensibus, de scenicis tertium. Quartorum trium ad sacra pertinentia uni dedit consecrationes, alteri sacra privata, ultimo publica. Hanc velut pompam obsequiorum in tribus, qui restant, dii ipsi sequuntur extremi, quibus iste universus cultus impensus est, in primo dii certi, in secundo incerti, in tertio cunctis novissimo dii praecipui atque selecti.

 

[9] Per significati e spettro semantico della parola, cfr. H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, pp. 172 ss.; é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, pp. 265 ss.; H. Wagenvoort, Wesenzüge altrömischer Religion, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 348 ss. [ripubblicato col titolo Characteristic Traits of Ancient Roman Religion, in Id., Pietas. Selected Studies in Roman Religion, Leiden 1980, pp. 223 ss.]; G. Lieberg, Considerazioni sull'etimologia e sul significato di religio, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, pp. 34 ss.; R. Muth, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 290 ss.; R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, Paris 1979, pp. 30 ss.; E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 423 ss.

 

[10] Già il poeta Ennio aveva cantato, in questo modo, l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est (Svetonius, August. 7: cum, quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non solum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicatur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est.); cfr. anche Livius 1.4.1: Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium. Le varie ‘fondazioni’, di cui Roma sarebbe stata oggetto in epoche diverse, sono state studiate da A. Grandazzi, La fondation de Rome. Réflexion sur l’histoire, Paris 1991; di cui vedi, in part. p. 195, dove lo studioso francese sostiene che i Romani ebbero piena coscienza di questo «recommencement perpétuel» che aveva caratterizzato la storia della loro città.

 

[11] D. 1.2.2.7 (Pomponius libro singulari enchiridii): Augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum. Le implicazioni giuridiche e politiche del concetto di civitas augenscens, con particolare riguardo alla raccolta di iura ordinata dall’imperatore Giustiniano, sono state ben delineate da P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, pp. xiv s. Sulla stessa linea interpretativa, vedi ora M. P. Baccari, Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996], pp. 759 ss.; Ead., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 9] Torino 1996, pp. 47 ss.

 

[12] Vergilius, Aen. 1.275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine dicet. / His ego nec metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi. La forte carica ideologica e la precisa connotazione religiosa del passo non sono sfuggite a P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, p. 54, per il quale proprio sull’annuncio Imperium sine fine dedi «sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu suprême repose pour ainsi dire toute l’œuvre». Già i commentari antichi (cfr. Servius, in Verg. Aen. 1.278) avevano stabilito un nesso ben preciso tra l’imperium sine fine e l’eternità di Roma; lo stesso orientamento si registra nella maggior parte della dottrina contemporanea. Tuttavia, ad un esame più attento, il verso non sembra avere univoco senso temporale. Lo interpretano in senso spazio/temporale sia G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974, p. 209; sia R. Turcan, Rome éternelle et les conceptions gréco-romains de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca [Da Roma alla Terza Roma, Studi I], Napoli 1983, p. 16; mentre A. Mastino, Orbis, kosmos, oikoumene: aspetti spaziali dell’idea dell’impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi III], Napoli 1986, p. 71, sostiene che nei due versi Aen. 1, 278-279 è attestata la propensione augustea a superare tutti i limiti di spazio: «l’impero romano era almeno teoricamente un imperium sine fine, che non aveva frontiere». Per la bibliografia sul poema virgiliano, mi pare utile rinviare a W. Suerbaum, Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.31.1, Berlin-New York 1980, pp. 3 ss. Quanto alla divini et humani iuris scientia di Virgilio, vedi invece F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., pp. 17 ss.

 

[13] Cicero, De nat. deor. 2.8: Nihil nos P. Clodi bello Punico primo temeritas movebit, qui etiam per iocum deos inridens, cum cavea liberati pulli non pascerentur, mergi eos in aquam iussit, ut biberent, quoniam esse nollent? Qui risus classe devicta multas ipsi lacrimas, magnam populo Romano cladem attulit. Quid collega eius L. Iunius eodem bello nonne tempestate classem amisit, cum auspiciis non paruisset? Itaque Clodius a populo condemnatus est, Iunius necem sibi ipse conscivit. C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores. Cfr anche De nat. deor. 1.117 (religionem, quae deorum cultu pio continetur); De leg. 1.60 (cum suis, omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem susceperit); 2.30 (Quod sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum, ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper populum indigere. Discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset infinitum, neque ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra collegium nosset); ed ancora De har. resp. 18 (Ego vero primum habeo auctores ac magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta fuisse sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum prudentiam non dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint; qui statas sollemnisque caerimonias pontificatu, rerum bene gerendarum auctoritates augurio, fatorum veteres praedictiones Apollinis vatum libris, portentorum expiationes Etruscorum disciplina contineri putaverunt).

Una diversa definizione di religio è data da Servius, in Verg. Aen. 8.349: religio id est metus, ab eo quod mentem religet dicta religio). Sull'uso del termine nelle opere di Virgilio, vedi E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana, IV, cit., pp. 423 ss.

 

[14] Per la definizione di pax deorum, vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, pp. 186 ss.; ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla in P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, pp. 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, pp. 226 ss.]; ai quali sono da aggiungere: J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psychologique, (1957), 2a ed., Paris 1969 [rist. 1976], pp. 57 ss. [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959 (rist. 1992), pp. 59 ss.]; M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di pax e pax deorum, in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma", Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss.; Id., Mito e storia nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 ss. (Appendice I: "Tempo della città e pax deorum: l'infissione del clavus annalis"); F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico", cit., pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente); Id., Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari 2, N. s., 1995 (ma 1996), pp. 77 ss.; Id., La negazione nel linguaggio precettivo dei sacerdoti romani, in Il Linguaggio dei Giuristi Romani. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Lecce, 5-6 dicembre 1994, a cura di O. Bianco e S. Tafaro, [Università di Lecce – Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Studi di Filologia e Letteratura 5, 1999] Galatina 2000, pp. 176 ss.; infine, ma con qualche riserva, R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, pp. 167 ss.

 

[15] M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, p. 195: «La conception – d'ordre philosophique – du monde romain est celle d'un ensemble de rapports ou de forces en équilibre: toute action humaine affecte par définition cette harmonie naturelle et trouble l'ordre voulu par les dieux. D'où la nécessité, avant (ou, au pire, après) toute action, de se concilier l'accord des dieux témoignant leur adhésion. La paix universelle est alors sauvegardée. La religion consiste ainsi à rester en bons rapports avec les dieux, pour les avoir avec soi».

 

[16] Cfr. in tal senso, P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 49 [= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., p. 224].

 

[17] Ho utilizzato l’espressione «sistema giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle motivazioni offerte da P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 30 ss., in part. p. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., pp. 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57; con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis Humanae'', Roma 1991, pp. 34 s. Contro, R. Orestano, Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Id., Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, pp. 959 ss., in part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, pp. 10 ss.; e parzialmente da A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, pp. 56 s.

 

[18] J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in Aa.Vv., Des ordres à Rome, direction de C. Nicolet, Paris 1984, pp. 269 s.: «La République est effectivement une association de trois partenaires: les dieux, le peuple et les magistrats»

 

[19] Cicero, Pro Rabir. per. 5: ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabus immortalibus, quorum ope et auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem ac veniam peto; Ovidius, Amor. 1.2.21: veniam pacemque rogamus; Livius 39.10.5: pacem veniamque precata deorum dearumque. Cfr. Plautus, Merc. 678: Apollo, quaeso te ut des pacem propitius; Livius 1.16.3: pacem praecibus exposcunt; 3.7.8: veniam irarum caelestium finem pesti exposcunt; Seneca, Med. 595: Parcite, o divi, veniam precamur. Per una più ampia raccolta delle fonti sul pacem deum petere da parte degli uomini e sul pacem dare degli dèi, rinvio al libro di H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke, cit., pp. 186 ss.

 

[20] Vergilius, Aen. 12.849-852: Hae Iovis ad solium saevique in limine regis / apparent acuuntque metum mortalibus aegris, / si quando letum horrificum morbosque deum rex / molitur, meritas aut bello territat urbes; per quanto nella teologia tradizionale Iuppiter non era legato alla morte, come possiamo leggere nel commento a Virgilio del grammatico Servius, in Verg. Aen. 12.851: letum horrificum volunt Iovem non esse morti auctorem, sed posse mortis genere vel prodesse vel obesse mortalibus.

 

[21] M. Sordi, Pax deorum e la libertà religiosa nella storia di Roma, cit., p. 147: «L'antichità della formula e la derivazione di pax dalla radice di pangere, che si ritrova nell'uso arcaico di pangere clavum, che Livio ricorda tra i piacula destinati, durante la pestilenza del 364 e del 363 varr., "pacis deum exposcendae causa" (Liv. VII, 2 e 3), mi induce ad avanzare l'ipotesi che pax deum sia addirittura all'origine del concetto romano di pax».

 

[22] E. Montanari, Il concetto originario di pax e la pax deorum, cit., p. 56: «In definitiva – scrive lo studioso – la principale obiezione che riteniamo di muovere all’interpre-tazione della Sordi, concerne il suo tentativo di dimostrare l’anteriorità genetica del concetto religioso di pax deorum rispetto al concetto giuridico-politico di pax. Ci sembra più opportuno parlare di concomitanza: sia perché si rischierebbe altrimenti di postulare una categoria a-priori di “religione”, anteriore e ben distinta rispetto a quella di “diritto”, cosa difficilmente proponibile per la Roma arcaica; sia perché, sovente, tanto le situazioni da espiare quanto gli operatori scelti per l’espiazione implicano non soltanto un prodigium, segno della deorum ira, ma anche un elevato grado di tensione politico-sociale; sia perché ogni pax giuridica avente pubblica rilevanza è comunque pronunciata sotto la tutela dei di testes foederis ed, anzitutto, di Giove» [= Id., “Tempo della città e pax deorum”, cit., pp. 92 s.].

 

[23] Plautus, Poen. 252-2533: Ergo amo te. Sed hoc nunc responde [mihi]: / Sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet adesse?.

 

[24] Lucretius, De rer. nat. 5.1226-1230: Summa etiam cum vis violenti per mare venti / induperatorem classis super aequora verrit / cum validis pariter legionibus atque elephantis, / non divom pacem votis adit, ac prece quaesit / ventorum pavidus paces animasque secundas?.

 

[25] Aen. 3.369-373: Hic Helenus caesis primum de more iuvencis / exorat pacem divom vittasque resolvit / sacrati capitis, meque ad tua limina, Phoebe, / ipse manu multo suspensum numine ducit, / atque haec deinde canit divino ex ore sacerdos. Questo è anche l'unico testo di Virgilio in cui troviamo esplicitamente menzionata l'espressione pax deorum ; il contenuto, poi, è di particolare solennità rituale (cfr. C. Bailey, Religion in Virgil, Oxford 1935, p. 47; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., p. 262), in quanto il verbo exorare nel linguaggio sacerdotale significa impetrare, come del resto aveva già spiegato il grammatico Servius, in Verg. Aen. 3.370: exorat pacem divum aut de sacrificantum more requirit, utrum tempus consulendi esset; nam et hoc vehementer quaeritur, ut in sexto cum virgo poscere fata tempus ait; aut certe, quod et melius est, de sacrificantum more ante nefas expiat ab harpyia praedictum, et sic venit ad vaticinationem. Ut autem hic expiatam famem intellegamus sequens efficit locus, ut aderitque vocatus Apollo, cum constet, nisi in hoc intellexeris loco, famis causa nusquam invocatum esse Apollinis numen. Dubitationem autem in hoc loco 'exorat' facit; nam 'orare' est petere, 'exorare' impetrare: ergo impetrat pacem aut ad inquirendum tempus, aut ad mitigandum famis periculum.

 

[26] Livius 3.5.14; cfr. 7.2.2: nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit; 42.2.3: prodigia expiari pacemque deum peti praecationibus, qui editi ex fatalibus libris essent, placuit.

 

[27] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 50 [= Id., Scritti di diritto romano, cit., p. 225].

 

[28] B. W. Frier, 'Libri Annales pontificum Maximorum': the Origins of the Annalistic Tradition, Roma 1979 [2ª ed. Ann Arbor 1998]; J. Rüpke, Livius, Priesternamen und die annales maximi, in Klio 75, 1993, pp. 155 ss.; M. Chassignet, L’annalistique romaine, Tome I. Les annales des pontifes et l’annalistique ancienne (fragments), Texte établi et traduit par M. Ch., Paris 1996.

 

[29] Cfr. Livius 2.36.1; 3.5.14; 3.10.6; 4.9.3; 4.12.6; 4.21.5; 4.30.7; 5.13.4; 6.20.16; 7.2.2; 7.3.3; 7.27.1; 7.28.7; 8.6.9; 8.9.6-12; 8.25.1; 10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13; 22.3.11; 22.9.7; 22.36.6; 23.31.15; 23.36.10; 23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9; 25.7.7-9; 25.16.1; 25.17.3; 26.23.3-6; 26.45.9; 27.4.11; 27.11.1; 28.27.16; 30.2.9-13; 30.38.8. Sul nutrito elenco di prodigi presenti nell'opera liviana, certo improntati - direttamente o indirettamente - agli Annales Maximi, vedi E. De Saint-Denis, Les énumérations de prodiges dans l'œuvre de Tite-Live, in Revue de Philologie 16, 1942, pp. 126 ss.; J. Ph. Packard, Official notices in Livy's fourth decade: style and treatment, Ann Arbor 1970, pp. 125 ss.; E. Rawson, Prodigy list and the use of Annales Maximi, in The Classical Quarterly 21, 1971, pp. 158 ss.; infine il più recente lavoro di B. MacBain, Prodigy and expiation: a study in religion and politics in Republican Rome, Bruxelles 1982, pp. 82 ss. [Appendix A: index of prodigies].

 

[30] C. Bailey, Phases in the religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn. 1972], p. 76: «Roman ritual, as it was later formulated in the ius divinum of the State-cult, recognized four means (caerimoniae ) for securing and maintaining the pax deorum, the relation of kindliness between gods and men».

 

[31] Riguardo al frammento di Ulpiano, mi pare che possano ormai considerarsi superate sia  affermazioni contrarie alla genuinità del testo (F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934; qui cit. in trad. it.: I principii del diritto romano, trad. it. a cura di V. Arangio-Ruiz, Firenze 1949, p. 23 nt. 33; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt am Main 1955, p. 618: «Die merkwürdige Dreiteilung des ius publicum: in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus stammt sicherlich nicht von Ulpian»), sia dubbi e perplessità (B. Albanese, Premessa allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, p. 192 nt. 295). Favorevoli all'autenticità del testo, fra gli altri: F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine politiche, in Id., Scritti vari di diritto romano, Bari 1931, pp. 102 ss.; Silvio Romano, La distinzione fra ius publicum e ius privatum nella giurisprudenza romana, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, IV, Padova 1940, pp. 157 ss.; G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946, pp. 152 ss.: «Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (p. 161); Id., Il binomio pubblico-privato nella storia del diritto, Napoli 1989, pp. 171 ss.; F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélenges De Visscher, II, Bruxelles 1949, p. 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è una suddivisione di inconfondibile stampo repubblicano; A. Carcaterra, L’analisi del ius e della lex come elementi primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 46, 1980, pp. 272 ss.; G. Aricò Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 37, 1983, pp. 447 ss., in part. 461 ss.; H. Ankum, La noción de ius publicum en derecho romano, in Anuario de Historia del Derecho Español 53, 1983, pp. 524 ss.; M. Kaser, Ius publicum und ius privatum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (R. A.) 103, 1986, pp. 6 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., p. 223 nt. 112; P. Stein, Ulpian and the Distinction between ius publicum and ius privatum, in Collatio iuris Romani. études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65ème anniversaire, II, Amsterdam 1995, pp. 499 ss.; V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000, pp. 153 ss.

 

[32] P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, p. 676; con adesione di C. Nicolet, Notes complémentaires, in Polybe, Histoires, Livre VI, Paris 1977, pp. 149 ss.; e di J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, cit., pp. 269 ss.

 

[33] Cicero, De leg. 2.19 ss.; 3.6 ss. V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, cit., p. 157, sostiene che «Ulpiano, scrivendo che "ius publicum in sacris, in sacerdotibus … consistit", rinnova, nella peculiare situazione politica e religiosa dei suoi tempi, il punto di vista tradizionale di derivazione ciceroniana: se gli auspici di Romolo e i riti di Numa posero le fondamenta della res publica, Roma appartiene ai suoi dèi in ogni momento e in ogni aspetto della vita quotidiana».

 

[34] F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 213-214: «Questa simiglianza rappresenta un fatto di notevole portata, in quanto consente di definire con precisione la matrice ideologica della concezione ciceroniana e ulpianea del ius publicum. Essa trae le sue radici da una gerarchizzazione assai antica delle parti del ius publicum, sostanzialmente antiplebea, risalente di certo alla elaborazione sacerdotale di età precedente al pareggiamento dei due ordini, o ad età immediatamente successiva: prova di ciò può trovarsi nel fatto che con l’avvento dei plebei alle magistrature, questi introdussero la consuetudine non solo di cumulare magistratura e sacerdozio, ma di anteporre gli honores ai sacerdotia (schema ancora conservato in Varrone, De ling. Lat. 5,80-86), che divenne tipica dell’età medio-repubblicana».

 

[35] Cfr. F. D'Ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli 1988.

 

[36] F. D'Ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica, Roma-Bari 1986; F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 8] Torino (1992) 1995.

 

[37] Resta ancora valido, per molti versi, il lavoro di W. W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic. An Introduction to the Study of the Religion of the Romans, 1899 (qui citato nella ristampa London 1925); da vedere anche P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, pp. 322 ss.; E. Vetter, Zum altrömischen Festkalender, in Rheinisches Museum für Philologie 103, 1960, pp. 90 ss.; M. Le Glay, La religion romaine, Paris 1971, pp. 13 ss.; A. Pastorino, La religione romana, Milano 1973, pp. 22 ss.; A. J. Pfiffig, Religio etrusca, Graz 1975, pp. 91 ss; G. Dumézil, Fêtes romaines d’été et d’automne, suivi de dix questions romaines, Paris 1975 [= Id., Feste romane, trad. it. a cura di M. Del Ninno, Genova 1989]; D. P. Harmon, The Public Festival of Rome, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.2, Berlin-New York 1978, pp. 1440 ss.; H. H. Scullard, Festivals and Ceremonies of the Roman Republic, London 1981 pp. 51 ss. [= Id., Römische Feste. Kalender und Kult, trad. tedesca, Mainz am Rhein 1985, pp. 75 ss.].

 

[38] A. K. Michels, The Calendar of the Roman Republic, Princeton 1967, p. 5: «The pax deorum, the absence of divine anger, is sought by all the great religious ceremonies of the state on behalf of the populus Romanus Quiritium, the body of Roman citizens. All the activities of the state, those which to us seem secular as well as those which are clearly religious, must be carried out at times which meet with the approval of the gods, as it is interpreted by the priests, because the orderly conduct of public affairs is to the Roman both necessary for the maintenance of the pax deorum, and also evidence that it has been maintained. Disorder in the state is evidence that the gods are angry».

 

[39] P. Braun, Les tabous des «feriae», in L’Année Sociologique, 3ª ser., 1959 [ma 1960], pp. 49 ss.; rilevava lo studioso francese come nella pratica esplicazione delle operae il liberto fosse tenuto ad un operare in positivo, mentre il dovere dell’uomo verso gli Dèi era di astenersi dalle attività vietate: «Ce caractère obligatoire du respect des feriae avait une valeur juridique à laquelle les romanistes ne se sont guère intéressés; les feriae étaient, en effet, des operae dues aux dieux: Feriae … operae deorum creditae sunt, affirme Deutero-Servius. On pourrait évidemment considérer que operae signifie ici journée de travail. Mais le texte du commentateur de Virgile est bien plus précis; il s’agit d’operae au sens juridique. Nous sommes en présence d’une relation entre les dieux et l’homme semblable à celle de l’affranchi et de son patron. Le parallélisme du concept d’operae dans les deux cas est frappant; le devoir de l’homme envers les dieux rappelle la notion l’obsequium». […] L’homme doit se tenir à la disposition des dieux comme l’affranchi est obligé d’être au service de son ancien maître. Le pouvoir du patron sur l’affranchi va jusqu’au droit de vie et de mort; il est évident que les dieux ont un pourvoir semblable sur les hommes. Cette soumission se matérialise dans l’officium qui signifie étymologiquement la prestation de services ou l’exécution d’une tâche. Le terme operae désigne ces services; mais, alors que l’affranchi est tenu à une action positive, le devoir de l’homme envers les dieux est de s’abstenir des activités interdites» (pp. 54-55).

 

[40] Sulle implicazioni di questo passo di Servio Danielino nella prospettiva di una ricostruzione delle materie raccolte ed elaborate nei libri pontificum, si vedano, pur nella diversità di valutazioni, G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, pp. 40 s.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 109 s.

 

[41] Cato, De agr. 4: Per ferias potuisse fossas veteres tergeri, viam publicam muniri, vepres recidi, hortum fodiri, pratum purgari, virgas vinciri, spinas eruncari, expinsi far, munditias fieri.

 

[42] Vergilius, Georg. 1.268-272: Quippe etiam festis quaedam exercere diebus / fas et iura sinunt: rivos deducere nulla / religio vetuit, segeti praetendere saepem, / insidias avibus moliri, incendere vepres / balantumque gregem fluvio mersere salubri. Su questi versi risultano, per molti versi, ancora valide le riflessioni di W. W. Fowler, Roman Essays and Interpretations, Oxford 1920, pp. 79 ss.

 

[43] Columella, De re rust. 2.21 (Quae per ferias liceat agricolis et quae non liceat facere): Sed cum tam otuii quam negotii rationem reddere maiores nostri censuerunt, nos quoque monendos esse agricolas existimamus, quae feriis facere quaeque non facere debeant. Sunt enim, ut ait poeta, quae «festis exercere diebus / fas et iura sinunt: rivos deducere nulla / religio vetuit, segeti praetendere saepem, / insidias avibus moliri, incendere vepres / balantumque grege fluvio mersere salubri». Quamquam pontifices negant segetem feriis saepiri debere; vetant quoque lanarum causa lavari oves nisi propter medicinam. Vergilius, quos liceat feriis flumine abluere gregem, praecipit et idcirco adicit «fluvio mersere salubri», id est salutari; sunt enim vitia, quorum causa pecus utile sit lavare. Feriis autem ritus maiorum etiam illa permittit: far pinsare, faces incidere, cadelas sebare, vinea conductam colere, piscinas, lacus, fossas veteres tergere et purgare, prata sicilire, stercora aequare, foenum in tabulata componere, fructus oliveti conductos cogere, mala, pira, ficos pandere, caseum facere, arbores serendi causa collo vel mulo clitellario adferre; sed iuncto advehere non permittitur nec adportanda serere neque terram aperire neque arborem conlucare, sed ne sementem quidem administrare, nisi prius catulo feceris, nec faenum secare aut vincire aut vehere.Ac ne vindemiam quidem cogi per religiones pontificum feriis licet nec ovis tondere, nisi si catulo feceris. Defructum quoque facere et vinum defrutare licet. Uvas itemque olivas conditu legare licet. Pellibus oves vestiri non licet. In horto quicquid holerum causa facias, omne licet. Feriis publicis hominem mortuum sepeliri non licet. M. Porcius Cato mulis, equis, asinis nullas esse farias ait, idemque boves permittit coniungere lignorum frumentorum advehendorum causa. Nos apud pontifices legimus fereis tantum denicalibus mulos iungere non licere, ceteris licere.

 

[44] Intorno all’elaborazione teologica e giuridica di questo sommo giurista dell’età repubblicana, vedi fra gli altri: G. Lepointe, Quintus Mucius Scaevola. I. Sa vie et son oeuvre juridique. Ses doctrines sur le droit pontifical, Paris 1926, a cui rimando per la bibliografia precedente; F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., pp. 81 ss.]; O. Behrends, Die Wissenschaftslehre im Zivilrecht des Q. Mucius Scaevola, in Nachrichten der Akademie der Wissenschaften in Göttingen (Philologisch-Historische Klasse), 1976, pp. 265 ss.; M. Talamanca, Costruzione giuridica e strutture sociali fino a Quinto Mucio, in Aa.Vv., Società romana e produzione schiavistica. 3. Modelli etici, diritto e trasformazioni sociali, Roma-Bari 1981, pp. 15 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics. A study of Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, München 1984, pp. 340 ss.; F. Bona, Cicerone e i “libri iuris civilis” di Quinto Mucio Scevola, in Aa.Vv., Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un Seminario (Firenze, 27-28 maggio 1983), Milano 1985, pp. 205 ss.; A. Schiavone, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, Roma-Bari 1987, pp. 25 ss.; Id., Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, pp. 47 ss.

Per quanto riguarda la teologia muciana, theologia tripertita, che notoriamente sta alla base del pensiero teologico varroniano, vedi il saggio di G. Lieberg, Die Theologia tripertita in Forschung und Bezeugung, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.4, Berlin-New York 1973, pp. 63 ss. (a pp. 107 ss. sono raccolte le fonti fondamentali per la conoscenza della theologia tripertita), a cui rimando per la discussione della bibliografia anteriore al 1970. Fra la dottrina più recente, sono da vedere: A. Schiavone, Quinto Mucio teologo, in Labeo 20, 1974, pp. 315 ss. [= Id., Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero giuridico nella Roma repubblicana, 2ª ed., Bari 1977, pp. 5 ss.]; J. Pépin, Remarques sur les sources de la ‘theologia tripertita’ de Varron, in Varron. Grammaire antique et stylistique latine. Recueil offert à Jean Collart, Paris 1978, pp. 127 ss.; G. Lieberg, Die theologia tripertita als Formprinzip antiken Denkens, in Rheinisches Museum für Philologie 125, 1982, pp. 25 ss.; A. Dihle, Die Theologia tripertita bei Augustin, in Geschichte - Tradition - Reflexion. Festschrift für Martin Hengel zum 70. Geburtstag, II. Griechische und Römische Religion, hrg. von H. Cancik, Tübingen 1996, pp. pp. 183 ss.

 

[45]. Ph. E. Huschke, Iurisprudentiae Antejustinianae quae supersunt, editio quinta, Lipsiae 1886, p. 15 fr. 12; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt. Par prior: Liberae Reipublicae iuris consulti, Lipsiae 1896 [rist. an., Roma 1964], p. 57 fr. 2. Sul testo muciano vedi G. Lepointe, Quintus Mucius Scaevola, cit., pp. 93 s.; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., 41.

 

[46] Ovidius, Fast. 1, 47-48: Ille nefastus erit per quem tria verba silentur; / Fastus erit, per quem lege licebit agi. Gaius, Inst. 4, 29: praeterea quod nefasto quoque die, id est quod non licebat lege agere, pignus capi poterat. Cfr. inoltre Festus, p. 162 L.; Macrobius, Sat. 1, 16, 14; Isidoro, Orig. 6, 18, 1.

 

[47] Per un primo approccio alla nozione di nefas, J. Paoli, Le monde juridique du paganisme romain. Introduction à l'étude du domaine interdit des dieux dans le temps (nefas), in Revue Historique de Droit Français et Étranger 23, 1945, pp. 1 ss.; H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, pp. 127 ss.; P. Cipriano, Fas e nefas, Roma 1978.

 

[48] Vedi anche Livius 3.7.6-8: Haud minor Romae fit morbo strages quam quanta ferro sociorum facta erat. Consul qui unus supererat moritur; mortui et alii clari viri, M'. Valerius, T. Verginius Rutulus augures, Ser. Sulpicius curio maximus. Et per ignota capita late vagata est vis morbi, inopsque senatus auxilii humani ad deos populum ac vota vertit: iussi cum coniugibus ac liberis supplicatum ire pacemque exposcere deum. Ad id quod sua quemque mala cogebant auctoritate pubblica evocati omnia delubra implent. Stratae passim matres, crinibus templa verrentes, veniam irarum caelestium finemque pesti exposcunt. 42.2.3-7: Cum bellum Macedonicum in expectatione esset, priusquam id susciperetur, prodigia expiari pacemque deum peti precationibus, qui editi ex fatalibus libris essent, placuit. Lanuvi classis magnae species in caelo visa dicebatur, et Priverni lana pulla terra enata, et in Veienti apud Rementem lapidatum; Pomptinum omne velut nubibus lucustarum coopertum esse; in Gallico agro, qua induceretur aratrum, sub existentibus glebis pisces emersisse. Ob haec prodigia libri fatales inspecti, editumque ab decemviris est, et [ex] quibus diis quibusque hostiis sacrificaretur, et ut supplicatio prodigiis expiandis fieret. Alteraque, quae priore anno ualetudinis populi causa uota esset, ea uti fieret feriaeque essent. Ita sacrificatum supplicatumque est, ut decemviri scriptum ediderant.

 

[49] Sulla figura del primo sovrano sabino di Roma, cfr. K. Glaser, v. Numa Pompilius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XV.1, Stuttgart 1936, coll. 1242 ss.; J. Gagé, Apollon romain. Essai sur le culte d’Apollon et le développement du ritus Graecus à Rome des origines à Auguste, Paris 1955, pp. 297 ss.; S. Accame, I re di Roma nella leggenda e nella storia, Napoli s.d. (1965), pp. 206 ss.; R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965 [Reprinted 1998], pp. 90 ss.; J. Poucet, Recherches sur la légende sabine des origines de Rome, Louvain-Kinshasa 1967, pp. 138 ss.; A. Storchi Marino, C. Marcio Censorino, la lotta politica intorno al pontificato e la formazione della tradizione liviana su Numa, in Aion (Archeol.) 14, 1992, pp. 105 ss.; V. Buchheit, Numa-Pythagoras in der Deutung Ovids, in Hermes 121, 1993, pp. 77 ss.

 

[50] A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome. Étude historique sur les institution religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], pp. 60-61: «La meilleure analyse des livres liturgiques serait donc l’étude complète du culte romain. Mais notre plan est plus restreint. Oublions pour un moment la variété des divers actes religieux, consécrations, vœux, expiations… etc., dont nous aurons occasion de parler au chapitre suivant, et bornons-nous à remplir avec quelques rares débris de textes mutilés le cadre indiqué par Tite-Live: quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent».

 

[51] N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., p. 41.

 

[52] E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le lettere, Bologna 1973, pp. 165 s. La divisione delle materie prospettata dal Peruzzi è la seguente: A) caelestes caerimoniae, comprendente i sacra dei collegi sacerdotali maggiori e gli altri sacra pubblici e privati, divise in cinque capitoli: 1 quibus hostiis, 2 quibus diebus, 3 ad quae templa, 4 unde in eos sumptus pecunia, 5 cetera publica privataque sacra; B) 6 iusta funebria et ad placandos manes; C) 7 prodigia fulminibus aliove quo visu missa.

 

[53] E. Peruzzi, Origini di Roma, II, cit., p. 162: «Tutti i precisi particolari di Liu. 1.20.5-7 sul pontefice, che, ripeto – scrive lo studioso –, è l’ultimo dei sacerdoti elencati e tuttavia, unico fra tutti, è perfino rammentato con piena formula onomastica, denotano che la fonte prima da cui deriva la notizia dello storico patavino è un testo redatto dai pontefici: verosimilmente (poiché si tratta di una notizia storica, non di norme religiose o giuridiche), gli annales maximi». Cfr. Id., Origini di Roma, I. La famiglia, Firenze 1970, pp. 142 ss.: «L’importanza di questo argomento e silentio è indubbia: la principale fonte scritta degli storici di Roma sono gli annales maximi, e, come è verosimile che dedicassero particolare attenzione a fatti di significato religioso, così è assolutamente certo che essi erano il documento più preciso e minuzioso della tradizione pontificale. Ora, il passo di Liu. 1.20.5 è una scarna notizia, espressa non meno ieiune di quelle degli annales, che reca un elemento davvero singolare. Trattando della più antica età regia, non di rado lo storico patavino indica la parentela dei personaggi, sia pure concisamente (per esempio 1.22.1 “Tullum Hostilium nepotem Hostili”, 1.34.1-2 “Lucumo … Demerati Corinthii filius erat”), però questo è l’unico caso in cui egli menziona un individuo con la sua formula onomastica, quale doveva apparire in registrazioni burocratiche: Numa Marcius Marci filius; formula, si noti, dell’età di Numa Pompilio, poiché questo sovrano, come diceva il sarcofago riportato alla luce nel 181 a.C., si chiamava ufficialmente Numa Pompilius Pomponi filius rex Romanorum. Ritengo probabile che la notizia di Livio risalga in ultima analisi agli annales» (pp. 144 s.).

 

[54] Per le fonti vedi Livius 1.19-20; Dionysius Hal. 2.64-73; Plutarchus, Numa 9-14. Fra gli studiosi che si sono occupati delle riforme religiose attribuite a Numa sono da vedere: F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti dell'Accademia dei Lincei, ser. VIII, vol. 5, 1950, pp. 553 ss.; E. M. Hooker, The Significance of Numa's Religious Reforms, in Numen 10, 1963, pp. 87 ss.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, pp. 3 ss.; M. A. Levi, Il re Numa e i penetralia pontificum, in Rendiconti dell'Istituto Lombardo 115, 1981 (pubbl. 1984), pp. 161 ss.; J. Martinez Pinna, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, pp. 97 ss.; J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire, Bruxelles 1985, in part. pp. 194 ss., 219 ss.; infine L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella 'Storia di Roma arcaica' di Dionigi d'Alicarnasso, I parte, Napoli 1988, pp. 128 ss.; G. Capdeville, Les institutions religieuses de la Rome primitive d'après Denys d'Halicarnasse, in Pallas, 39, 1993, pp. 153 ss.

 

[55] Plutarchus, Num. 14.6-7. Per una rapida esposizione dei problemi relativi alle fonti della ‘vita di Numa’, vedi L. Piccirilli, Introduzione, in Plutarco, Le vite di Licurgo e di Numa, a cura di M. Manfredini e L. Piccirilli, Milano 1980, pp. XLII ss.

 

[56] Servius, in Verg. Buc. 5.66: Sane quaeritur, cur duo altaria Apollini se positurum dicat, cum constet supernos deos impari gaudere numero, infernos vero pari, ut numero deus impare gaudet, quod etiam pontificales indicant libri (P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, p. 13 fr. 56. Commenti al testo: A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., p. 113; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, pp. 37 s.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., p. 109). Cfr. anche Servius Dan., in Verg. Buc. 8.75; Macrobius, Sat. 1.13.5.

 

[57] Plinius, Nat. hist. 14.88: Romulum lacte, non vino libasse indicio sunt sacra ab eo instituta, quae hodie custodiunt morem. Numae regis proxumi lex est: "Vino rogum ne respargito". Quod sanxisse illum propter inopiam rei nemo dubitet. Eadem lege ex imputata vite libari vina diis nefas statuit, ratione excogitata ut putare cogerentur alias aratores et pigri circa, pericula arbusti. M. Varro auctor est Mezentium Etruriae regem auxilium Rutulis contra Latinos tulisse vini mercede quod tum in Latino agro fuisset. Su tale divieto, vedi G. Piccaluga, Numa e il vino, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 33, 1962, pp. 99 ss.; Ead., Bona Dea. Due contributi all’interpretazione del suo culto, Ibidem 35 1964 pp. 195 ss. G. Dumézil, Vin et souveraineté, in Id., Fêtes romaines d'été et d'automne, suivi de Dix questions romaines, Paris 1975, pp. 87 ss. [= Id., Feste romane, trad. it. di M. Del Ninno, Genova 1989, pp. 91 ss.]; più in generale, sul vino in età arcaica, vedi L. Minieri, Vini usus feminis ignotus, in Labeo 28, 1982, pp. 150 ss.; M. Gras, Vin et société à Rome et dans le Latium à l’époque archaïque, in Forme di contatto e processi di trasformazione nelle società antiche. Atti del convegno di Cortona (24-30 Maggio 1981), Pisa-Roma 1983, pp. 1067 ss.; G. Pucci, I consumi alimentari, in A. Schiavone (direz.), Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, Torino 1989, pp. 372 ss.

 

[58] Plinius, Nat. hist. 18.7: Numa instituit deos fruge colere et mola salsa supplicare atque, ut auctor est Hemina, far torrere, quoniam tostum cibo salubrius esset, id uno modo consecutus, statuendo non esse purum ad rem divinam nisi tostum. Cfr. Servius Dan., in Verg. Buc. 8.82. D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, Milano 1988, p. 61: «All’importanza politico-sociale della riunione faceva riscontro l’importanza economico-religiosa del farro. Importanza economica: il farro è il più antico cereale coltivato dai Romani, e forse il solo cereale fino al 5° secolo a.C. Importanza religiosa: la farina di farro mista a sale, la cosiddetta mola salsa, era indispensabile per l’esecuzione di ogni sacrificio, tanto che immolare (cospargere di mola salsa la vittima) era diventato sinonimo di sacrificare; il matrimonio solenne, quello che non ammetteva divorzio ed era prescritto per alcuni sacerdozi, quello che veniva celebrato dal pontefice massimo alla presenza di sei testimoni, era chiamato confarreatio da una focaccia di farro offerta dalla sposa». Sul farro nella religione romana, cfr. anche A Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, 2ª ed., Roma 1976, pp. 126 ss.

 

[59] Cfr. Livius 5.21.16: Convertentem se inter hanc venerationem traditur memoriae prolapsum cecidisse; idque omen pertinuisse postea eventu rem coniectantibus visum ad damnationem ipsius Camilli, captae deinde urbis Romanae, quod post paucos accidit annos, cladem; Svetonius, Vitell. 2: Idem miri in adulando genii, prius C. Caesarem adorare ut deum instituit, cum reversus ex Syria non aliter adire ausus esset quam capite velato circumvertensque se, deinde procumbens.

 

[60] Arnobius, Adv. Nat. 2.73.18: Non doctorum in litteris continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire? Sui nomina deorum che si invocavano negli indigitamenta, risulta di qualche utilità il vecchio lavoro di I. A. Ambrosch, Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; ancora indispensabili, invece, sia il bel libro di A. Bouché-Leclercq, Les Pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 24 ss.; sia il manuale di J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III. Das Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an. New York 1975], pp. 7 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, trad. francese di M. Brissaud, Paris 1889, pp. 10 ss.]; più di recente, vedi l'importante articolo di J. Bayet, Les feriae sementivae et les indigitations dans le culte de Cérès et de Tellus, in Revue d'Histoire des Religions 137, 1950, pp. 172 ss. (ora in Id., Croyances et rites dans la Rome antique, Paris 1971, pp. 175 ss.); ma anche G. B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 45 ss.; A. Pastorino, La religione romana, Milano 1973, pp. 199 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 50 ss. [= Id., La religione romana arcaica, cit., pp. 46 ss.]; R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992, pp. 78 ss.

 

[61] Servius, in Verg. Georg. 1.21: Quod autem dicit ‘studium quibus arva tueri’, nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum continent, quae etiam Varro dicit. Nam, ut supra diximus, nomina numinum ex officiis constant imposita, verbi causa ut ab occatione deus Occator dicatur, a sarratione Sarritor, a stercoratione Sterculinus, a satione Sator. Seguo la lezione del testo serviano offerta da B. Cardauns: M. Terentius Varro, Antiquitates rerum divinarum, I. Die Fragmente, Wiesbaden 1976, p. 64 fr. 87; l'insigne studioso ritiene, non senza ragione, che il passo di Servio sia in realtà un frammento varroniano, tratto dal XIV libro delle Antiquitates rerum divinarum [Op. cit. II. Kommentar, p. 184]. Vedi anche, brevemente, F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 108 s.

 

[62] Sull’archivio dei pontefici, ma senza pretesa di completezza bibliografica, si vedano: J.-V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains, recherches précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments des journaux de l’ancienne Rome, Paris 1838, in part. pp. 127 ss.; I. A. Ambrosch: Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, in part. pp. 159 ss.; Id., Observationum de sacris Romanorum libris particula prima, Vratislaviae 1840; E. Luebbertus, Commentationes pontificales, Berolini 1859; A. Bouché-Leclercq, Les Pontifes de l’ancienne Rome, cit., pp. 19 ss.; P. Preibisch, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; Id., Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 299 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, II, cit., pp. 358 ss.]; R. Peter, De Romanorum precationum carminibus, in Commentationes Philologae in honorem Augusti Reifferscheidii, Vratislaviae 1884, pp. 67 ss.; Id., Quaestionum pontificalium specimen, Argentorati 1886; W. Rowoldt, Librorum pontificiorum Romanorum de caeremoniis sacrificiorum reliquiae, Halis Saxonum 1906; C. W. Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College, København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal Westrup nel quarto volume della sua opera di maggiore impegno: Introduction to early Roman Law. Comparative sociological studies, IV. Sources and Methods, London-Copenhagen 1950); G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit.,  pp. 14 ss.; R. Besnier, Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano 1953, pp. 1 ss.; G. B. Pighi, La religione romana cit., pp. 41 ss.; infine F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 17 ss.; J. A. North, The books of the pontifices, in La mémoire perdue. Recherches sur l’administration romaine, Avant-propos de C. Moatti, Rome 1998, pp. 45 ss.

 

[63] E. Peruzzi, Origini di Roma, II, cit., pp. 155 ss.: «E quindi si dovrà attribuire a exscripta exsignataque un preciso valore tecnico; e ciò a tanto maggior ragione in quanto lo stile arido e minuzioso della notizia liviana esclude che si possa vedere in tale binomio un’espressione ridondante, come invece presuppongono certe versioni […] è impossibile dire cosa significhi propriamente exsignatus nel passo liviano (munito di sigillo impresso con un anello, accompagnato da una formula di approvazione, da un explicit, ecc.), ma l’espressione exscripta exsignataque non lascia dubbio che il testo affidato al pontefice era una copia, integrale o parziale, autenticata dal rex, degli stessi libri latini “iuris pontificii” che si ritroveranno nel 181 a.C., cioè un esemplare che Numa aveva debitamente dichiarato conforme all’originale o comunque pienamente valido» (pp. 162-163).

 

[64] Cfr. Varro, in Festus, v. Opima spolia, p. 204 L. Quanto al rapporto tra i sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio e i più antichi libri dei pontefici, vedi ora F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. pp. 160 s.: «è noto che nelle fonti la compilazione dei ‘primi’ libri sacerdotali si presenta strettamente connessa con l’organizzazione voluta dal re Numa Pompilio; anzi, … tale compilazione deve essere considerata, anche materialmente, opera dello stesso re. Del resto appare ben comprensibile l’esigenza di testi scritti che la riforma religiosa di Numa dovette imporre, se solo si consideri la complessità dei sacra e delle caerimoniae e la minuziosa regolamentazione dei sacrifici, testimoniati a proposito della religiosità di quell’epoca. Che poi questi libri Numae abbiano costituito il nucleo primitivo dei libri pontificum è sostenuto anche dalla tradizione antiquaria».

 

[65] Fra la dottrina più recente, sono da vedere: N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 119 ss.; J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit., pp. 129 ss. [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, cit., pp. 142 s.]; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 209 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 549 ss. [= Id., La religione romana arcaica, cit., pp. 477 ss.]; E. Kadletz, Animal sacrifice in Greek and Roman religion, Diss. Washington 1976, Univ. Microfilms Inter., Ann Arbor, Mich. 1983; S. R. F. Price, Between Man and God: Sacrifice in the Roman Imperial Cult, in The Journal of Roman Studies 70, 1980, pp. 28 ss.; Aa.Vv., Le sacrifice dans l’Antiquité [Entretiens sur l’Antiquité classique, 27], Genève 1981; Aa.Vv., Sacrificio e società nel mondo antico, a cura di C. Grottanelli e N. F. Parise, Roma-Bari 1988; R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden - New York - København - Köln 1988, pp. 4 ss.; da ultima, A. V. Siebert, Instrumenta sacra. Untersuchungen zu römischen Opfer-, Kult- und Priestergeräten, Berlin-New York 1999, pp. 11 ss.

 

[66] Sulla parola vedi la spiegazione, con forti implicazioni teologiche, offerta da Servius Dan., in Verg. Aen. 2.156: hostia vero victima et dicta quod dii per illam hostiantur, id est aequi et propitii reddantur, unde hostimentum aequationem.

 

[67] E. Luebbertus, Commentationes pontificales, cit., pp. 99 ss.

 

[68] A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 98 ss.

 

[69] C. Krause, De Romanorum hostiis quaestiones selectae, Diss. Marpurgi 1894, pp. 9 ss.; Id., v. Hostia, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. V, Stuttgart 1931, coll. 236 ss.

 

[70] C. Blecher, De extispicio capita tria, in Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten 2, 1903-1905 [Gissae 1905], pp. 171 ss.

 

[71] J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 170 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., pp. 205 ss.].

 

[72] G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., München 1912, pp. 410 ss.

 

[73] Insiste, assai opportunamente, sul carattere comunitario della religione politeista romana J. Scheid, Religione e società, in A. Schiavone (direz.), Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, cit., pp. 631 ss.: «Per praticare una religione a Roma, occorreva appartenere a una comunità. L’uomo entrava in relazione con gli dèi nel quadro e per il tramite di una comunità. Famiglia, associazione, corpo costituito o repubblica, ciascuna comunità aveva una propria vita religiosa, con le sue regole, i suoi dèi, i suoi sacerdoti. Un cittadino apparteneva generalmente a più di una comunità, e fra queste esistevano rapporti di complementarità piuttosto che di esclusione. Gli dèi stessi erano “visibili” soltanto nel quadro di una comunità, e d’altra parte erano essi stessi membri di tali comunità» (p. 634).

 

[74] Cfr. in questo senso É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, p. 223: «ce sont les offrandes, qui sont bien de “sacrifices”, des moyens de rendre sacré, de faire passer l’humain dans le divin».

 

[75] I. Chirassi Colombo, v. Hostia, in Enciclopedia Virgiliana, II (DE-IN), Roma, 1985, p. 862: «Una valutazione lessicale ed etimologica del termine rivela invece il suo valore specifico, di notevole interesse nel complesso sistema sacrificale romano. H(ostia) in rapporto con hostire = aequare (nam hostire pro aequare posuerunt, Fest. p. 334,9; 414,37 L.), di modo che ogni hostimentum è un aequamentum (Paul.-Fest. 91,11 L.) o meglio una beneficii pensatio, e il senso di hostire = ferire è esplicitamente secondario, ci propone una valutazione del sacrificio come strumento, modalità di scambio tra due posizioni, due dati che si fronteggiano dialetticamente e dei quali uno viene a trovarsi in posizione mancante, quindi bisognoso d’integrazione. Come uomini e dèi, nel caso specifico».

 

[76] R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, cit., p. 4: «Il faut les faire agir, comme on fait valoir la Terre Mère. Mais les dieux ont aussi besoin des hommes. Varron déclarait craindre de les voir périr civium neglegentia, victimes de la négligence cultuelle des citoyens… Pour profiter de leur puissance, les Romains doivent entretenir celle-ci par les sacrifices qui sont censés revigorer les dieux».

 

[77] J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit., p. 130: «Beaucoup plus essentielle à la nature première du sacrifice la rinvigoration du dieu dont l’aide est attendue. Macte, lui dit-on en lui offrant la matière consacrée: et ce vocatif équivaut à “Prends (ou reçois) un surcroît de force”. Le verbe qui en dérive, mactare, après avoir eu les sens successifs d’ “accroître” et d’ “honorer” finit même par signifier “immoler la victime”» [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, cit., p. 142].

 

[78] É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2, cit., p. 225: «Ainsi le présent dénominatif mactare signifie “rendre grand, accroître”, c’est l’opération qui met dans l’état mactus. Les emplois les plus anciens, tel mactare deum extis, comportent le nom du dieu à l’accusatif et le nom du sacrifice à l’instrumental. C’est donc rendre le dieu plus grand, l’exalter, et en même temps le renforcer par l’offrande. Puis, par un changement de construction analogue à celui qu’on connaît dans sacrare, s’est établie l’expression mactare victimam “offrir en sacrifice une victime”».

 

[79] P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 19 fr. 120. Cfr. Varro, De ling. Lat. 5.112: Augmentum, quod ex immolata hostia desectum in iecore <imponitur> in por<ric>iendo a<u>gendi causa. Magmentum a magis, quod ad religionem magis pertinet: itaque propter hoc <mag>mentaria fana constituta locis certis quo id imponeretur.

 

[80] Cfr. R. Turcan, Le sacrifice mithriaque: innovations de sens et de modalités, in Le Sacrifice dans l'Antiquité, cit., p. 361: «A l’origine, si l’on s’en rapporte au sens premier du verbe mactare et à une réflexion attristée de Varron sur les dieux qui meurent faute de service religieux, l’immolation visait peut-être à accroître, renforcer, revigorer les dieux à qui l’on sacrifie».

 

[81] Per R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, cit., p. 4, anche la parola pietas connoterebbe una simile reciprocità: «A l’origine, est pius le fidèle en état de pureté rituelle, qui est en règle avec les dieux moyennant les expiations requises (piacula). Piare, c’est apaiser la colère divine provoquée par un forfait ou une négligence en procédant aux cérémonies appropriées. Le souci de réparer un manquement est une marque de révérence, mais réciproquement les avertissements que donnent les prodiges ou les auspices défavorables manifestent de la part des dieux une sorte de sollicitude envers les hommes, qui les force à se racheter ou à éviter les conséquences d’une entreprise maléfique. Cette affection mutuelle est parallèle à la pietas des enfants à l’égard des parents, comme des parents à l’égard des enfants. Il y a une pietas des dieux envers les hommes, comme des hommes envers les dieux. Cette solidarité impliquée dans le culte est une des originalités majeures de la religion romaine».

 

[82] Cfr., al riguardo, le suggestive riflessioni di P. Catalano, Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996] pp. 723 ss.

 

[83] Cicero, De leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque est et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una civitas communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in civitatibus ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur. Su questo passo ciceroniano, cfr. K. M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift de legibus, Wiesbaden 1983, pp. 135 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la fin de la République, Paris 1984, pp. 225 ss.

 

[84] Cicero, De leg. 2.29: Quod ad tempus ut sacrificiorum libamenta serventur fetusque pecorum quae dicta in lege sunt, diligenter habenda ratio intercalandi est, quod institutum perite a Numa, posteriorum pontificum neglegentia dissolutum est. Iam illud ex institutis pontificum et haruspicum non mutandum est, quibus hostiis immolandum quoique deo, cui maioribus, cui lactentibus, cui maribus, cui feminis. Cfr. G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., p. 413; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., p. 169; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 210.

 

[85] J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit., p. 131: «C’était le sang de la victime qui (comme en presque toutes les religions) passait pour le plus puissant régénérateur des forces de vie: l’âge classique conservait encore des traces de l’aspersion de la face de l’idole avec ce sang consacré ou du renouvellement périodique de la peinture rouge qui en restait le symbole» [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, cit., p. 143].

 

[86] Cfr. Servius, in Verg. Aen. 3.118: meritos unique aptos; ratio enim victimarum fit pro qualitate numinum: nam aut haec immolantur quae obsunt eorum muneribus, ut porcus Cereri, quia obest frugibus, hircus Libero, quia vitibus nocet: aut certe ad similitudinem, ut inferis nigras pecudes, superis albas immolent, item tempestati atras, candidas serenitati.

G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 550-551: «Les animaux, pris usuellement dans les trois espèces qui, réunies, forment les suouetaurilia, doivent avoir certaines corrélations symboliques avec les divinités qui les reçoivent. Selon une règle assez généralement respectée, les dieux veulent des mâles et les déesses des femelles. Jupiter et Junon préfèrent les bêtes blanches, les Di Manes et le nocturne Summanus les noires, Vulcain les rouges; Jupiter les mâles châtrés, Mars les mâles entiers. A l’époque où la Terre est grosse de la moisson à venir, ce sont des vaches pleines, fordae, qui lui sont livrées. Suivant les circonstances, les animaux sont choisis adultes ou bien tout jeunes, mais déjà parfaits: hostiae maiores, hostiae lactentes» [= Id., La religione romana arcaica, cit., p. 478].

 

[87] Quanto alla figura e all’opera di questo giurista, fra la dottrina più recente, vedi M. Talamanca, Trebazio Testa fra retorica e diritto, in Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un Seminario. Firenze 27-28 maggio 1983, a cura di G. G. Archi, Milano 1985, pp. 29 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting in the Late Republic and Triumvirate, München 1985, pp. 123 ss.; M. d’Orta, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa, Napoli 1990.

 

[88] Macrobius, Sat. 3.5.1: Cum enim Trebatius libro primo de Religionibus doceat hostiarum genera esse duo, unum in quo voluntas dei per exta disquiritur, alterum in quo sola anima deo sacratur, unde etiam haruspices animales has hostias vocant (E. Luebbertus, Commentationes pontificales, cit., p. 103; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit., p. 405 fr. 3; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta, I, Lipsiae 1908 [Reprint Leipzig 1988], p. 44 fr. 3). Nello stesso senso, Servius Dan., in Verg. Aen. 4.56: duo enim genera hostiarum sunt: unum, in quo voluntas dei per exta exquiritur; alterum, in quo sola anima deo sacratur: unde etiam aruspices animales hostias appellant.

Il frammento di Trebazio è stato riesaminato di recente da M. Talamanca, Trebazio Testa fra retorica e diritto, cit., pp. 47 s., per il quale la distinzione delle hostiae in duo genera «non si riporterebbe tanto al ius sacrum ed all’elaborazione pontificale dello stesso quanto all’haruspicina, l’Etrusca disciplina che avrebbe per l’appunto conosciuto queste due diverse specie di hostiae»; col quale mostra di concordare, nella sostanza, anche M. d’Orta, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa, cit., pp. 77 ss. Al riguardo, tuttavia, mi pare più condivisibile la posizione assunta da R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, cit., p. 41: a suo avviso, infatti, non si può dubitare che nel frammento citato il giurista riferisse «correttamente una dottrina di diritto pontificale […] verosimilmente piuttosto arcaica, visto che nei duo genera (che nel passo sembrano esaurire i tipi di sacrificio) non è ricompreso l’holocaustum, di derivazione greca».

 

[89] Servius, in Verg. Aen. 1.334: hostia dextra hostiae dicuntur sacrificia quae ab his fiunt qui in hostem pergunt, victimae vero sacrificia quae post victoriam fiunt. Sed haec licenter confundit auctoritas. Sul passo, vedi I. Chirassi Colombo, v. Hostia, in Enciclopedia Virgiliana, II (DE-IN), cit., p. 862

 

[90] E. Luebbertus, Commentationes pontificales, cit., pp. 107 ss.; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 171 s. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., pp. 206 s.]; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., p. 412; N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 121 s.

 

[91] Servius, in Verg. Aen. 8.641: Aut certe illud ostendit, quia in omnibus sacris feminini generis plus valent victimae. Denique si per marem litare non possent, succidanea dabatur femina; si autem per feminam non litassent, succidanea adhiberi non poterat.

 

[92] Servius, in Verg. Aen. 12.170: nam in rebus, quas volebant finiri celerius, senilibus et iam decrescentibus animalibus sacrificabant, in rebus vero, quas augeri et confirmari volebant, de minoribus et adhuc crescentibus inmolabant.

 

[93] Veranio Flacco (o Q. Veranio), giurista di diritto sacro e antiquario dell’età augustea, scrisse anche un’opera sugli auspici, intitolata probabilmente Auspiciorum libri: così M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed., München 1927 [rist. an. 1966], p. 600. Più in generale, vedi E. A. Gordon, v. Veranius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VIII A 1, Stuttgart 1955, col. 937. I frammenti sono stati raccolti da F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1, Lipsiae 1898 [rist. an. Roma 1964], pp. 5 ss.; H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, cit., pp. 429 ss.; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., pp. 50 ss.

 

[94] P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 19 fr. 113; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1, cit., p. 8 fr. 8; H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, I, Lipsiae 1907 [rist. an. Roma 1964], p. 431 fr. 4; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., p. 51 fr. 4.

 

[95] Cfr. al riguardo soprattutto G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 248 ss. [= Id., La religione romana arcaica, trad. it., cit., pp. 216 ss.]; da ultimo D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, cit., p. 174.

 

[96] Sul significato di questa cerimonia, cfr. K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 119; R. M. Ogilvie, Lustrum condere, in The Journal of Roman Studies 51, 1961, pp. 31 ss.; G. Piéri, L'histoire du cens jusqu’à la fin de la République romaine, Paris 1968, pp. 77 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p. 241 [= Id., La religione romana arcaica, trad. it., cit., p. 210]. Per le modalità del censimento e piú in generale sul significato del census vedi: J. Suohlati, The Roman Censors, Helsinki 1963, pp. 20 ss.; C. Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Paris 1976, pp. 72 ss. [= Id., Il mestiere di cittadino nell`antica Roma, trad. it., Roma 1980, pp. 64 ss.].

 

[97] Cato, De agr. 141: [1] Agrum lustrare sic oportet: impera suovitaurilia circumagi: ‘cum divis volentibus quodque bene eveniat, mando tibi, Mani, uti illace suovitaurilia fundum agrum terramque meam, quota ex parte sive circumagi sive circumferenda censeas, uti cures lustrare’. [2] Ianum Iovemque vino praefamino, sic dicito:’Mars pater, te precor quaesoque, uti sies volens propitius mihi domo familiaeque nostrae: quoius rei ergo, agrum terram fundumque meum suovitaurilia circumagi iussi:; uti tu morbos visos invisosque, viduertatem vastitudinemque, calamitates intemperiasque prohibessis defendas averruncesque; utique tu fruges, frumenta, vineta virgultaque grandire beneque evenire siris; [3] pastores pecuaque salva servassis duisque bonam salutem valetudinemque mihi domo familiaeque nostrae. Harunce rerum ergo, fundi terrae agrique mei lustrandi lustrique facendi ergo, sicuti dixi, macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto: Mars pater, eiusdem rei ergo, macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto’. [4] Item [esto item] cultro facito struem et fertum uti adsiet: inde obmoveto. Ubi porcum inmolabis, agnum vitulumque, sic oportet: ‘eiusque rei ergo macte suovitaurilibus immolandis esto’. Nominare vetat Martem neque agnum vitulumque. Si minus in omnis litabit, sic verba concipito: ‘Mars pater, quod tibi {in} illisce suovitaurilibus lactentibus neque satisfactum est te hisce suovitaurilibus piaculo’. Si uno duobus dubitabit, sic verba concipito: ‘Mars pater, quod tibi illoc porco neque satisfactum est, te hoc porco piaculo". Per le implicazioni teologiche connesse al testo catoniano, restano ancora valide le considerazioni di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 71 ss.; quanto alla cerimonia, cfr. da ultimo D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, cit., pp. 174 ss.

 

[98] Gellius, Noctes Atticae 4.6.5-7: “Succidaneae” autem “hostiae” dicuntur, “ae” littera per morem compositi vocabuli in <“i”> litteram mutata, quasi “succaedaneae” appellatae, quoniam, si primis hostiis litatum non erat, aliae post easdem ductae hostiae caedebantur; quae quia prioribus iam caesis luendi piaculi gratia subdebantur et succidebantur, “succidaneae” nominatae, <“i”> littera scilicet tractim pronuntiata. Eadem autem ratione verbi "praecidaneae" quoque hostiae dicuntur, quae ante sacrificia sollemnia pridie caeduntur.

 

[99] D. 1.1.1.3 (Ulpianus libro primo institutionum): Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.

 

[100] Risulta, invero, troppo semplicistica nella sequenza storica, e venata di influenze evoluzionistiche, la spiegazione del fenomeno offerta dal grande storico francese A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome, cit., pp. 98 s.: «Le principe de la substitution est l’essence même et la raison d’être du sacrifice. Le sacrifice est avant tout une expiation: or, l’expiation doit frapper le coupable, et c’est ainsi que l’entendait, à Rome même, la religion primitive qui livrait aux dieux et déclarait sacrés les criminels. Mais il dut arriver que des coupables étaient assez puissants ou assez aimés pour se soustraire à l’expiation, que des sociétés, croyant être en butte à la colère divine, voulaient se purifier sans se détruire; alors, les uns et les autres imaginèrent de sacrifier à leur place des hommes qui, par une fiction légale, endossaient la responsabilité des crimes à expier. … Ce principe une fois admis, il n’y avait plus qu’un pas à faire pour mettre la piété d’accord avec l’humanité; les dieux, de plus en plus complaisants, se contentèrent du sang des animaux; ceux d’entre eux qui ne voulurent pas renoncer à leurs anciennes habitudes lâchèrent la proie pour l’ombre et laissèrent remplacer sur leurs autels les hommes par des poupées».

 

[101] Servius, in Verg. Buc. 4.43: Sane in Numae legibus cautum est, ut, siquis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi agnatis eius in contione [nei codici in cautione; la correzione risale allo Scaligero] offerret arietem (= C. G. Bruns, Fontes Iuris Romani Antiqui, 6ª ed., Friburgi et Lipsiae 1893, p. 10 fr. 13; S. Riccobono, Fontes Iuris Romani Antejustiniani, Pars prima, Leges, 2ª ed., Florentiae 1941, p. 13 fr. 17). Sull’importante testo serviano, conserva ancora la sua utilità l’ampio commento di M. Voigt, Über die leges regiae, I. Bestand und Inhalt der leges regiae, in Abhandlungen der Königl. Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften zu Leipzig. Philologisch-Historische Classe, VII, 6, Leipzig 1876, pp. 618 ss.; mentre, fra la dottrina più recente, è veramente fondamentale il lavoro di S. Tondo, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, pp. 89 ss.; da consultare anche C. A. Melis, Arietem offerre. Riflessioni attorno all'omicidio involontario in età arcaica, in Labeo 34, 1988, pp. 135 ss.

 

[102] Ampia discussione del testo serviano, con puntuali riferimenti agli aspetti fenomenici nel diritto pontificio del principio generale ivi enunciato, nel recente lavoro di E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, pp. 69 ss. Sul principio della sostituzione cfr. A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 98-99; più di recente G. Capdeville, Substitution de victimes dans les sacrifices d’animaux à Rome, in Mélanges de l’école Française de Rome (Antiquité) 83, 1971, pp. 283 ss.

 

[103] Plinius, Nat. hist. 30.12: Extant certe et apud Italas gentes vestigia eius in xii tabulis nostris aliisque argumentis, quae priore volumine exposui. dclvii demum anno Urbis Cn. Cornelio Lentulo P. Licinio Crasso cos. senatusconsultum factum est, ne homo immolaretur, palamque fit, in tempus illud sacra prodigiosa celebrata.

 

[104] Per l’inquadramento del passo, vedi Th. Köves-Zulauf, Reden und Schweigen. Römische Religion bei Plinius Maior, München 1972, p. 153 n. 159; quanto alla fonte, per F. Münzer, Beiträge zur Quellenkritik der Naturgeschichte des Plinius, Berlin 1897, p. 177, l’intero paragrafo deriverebbe da M. Terenzio Varrone.

 

[105] P. Fabre, Minime Romano sacro. Note sur un passage de Tite-Live et les sacrifices humains dans la religion romaine, in Revue des Etudes Anciennes 42, 1940, pp. 419 ss.;

 

[106] Sull’origine e sulle finalità religiose di questa e delle altre sepolture rituali della religione romana, vedi: H. Diels, Sibyllinische Blätter, Berlin 1890, pp. 85 ss.; C. Cichorius, Staatliche Menschenopfer, in Id., Römische Studien. Historisches epigraphisches literargeschichtliches aus vier Jahrhunderten Roms, Leipzig-Berlin 1922 [rist. an. Roma 1970], pp. 12 ss.; C. Bémont, Les enterrés vivants du Forum Boarium. Essai d’interprétation, in Mélanges de l’école Française de Rome (Antiquité) 72, 1960, pp. 133 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 256 ss.; S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II.1, Roma-Bari 1966, pp. 216 ss.; A. Fraschetti, Le sepolture rituali nel Foro Boario, in Le délit religieux dans la cité antique (Table ronde, Rome, 6-7 avril 1978), Rome 1981, pp. 51 ss.; brevemente anche F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., pp. 67 s.

 

[107] Plutarchus, Marc. 3.6. Cfr. anche Orosio, Adv. pag. 4.13.3; Zonaras 8.19.9.

 

[108] Mi pare plausibile, in tal senso, la tesi proposta nel recente saggio di Claire Lovisi, Vestale, incestus et juridiction pontificale sous la République romaine, in Mélanges de Ecole Française de Rome (Antiquité) 110, 1998, pp. 699 ss.: a suo avviso, nei momenti di grave pericolo per la res publica, la condanna a morte della vestale, riconosciuta colpevole di aver violato l'obbligo di castità, avrebbe costituito un valido pretesto per compiere un sacrificio umano, altrimenti impraticabile.

 

[109] La solenne formula della devotio si legge in Livius 8.9.4-8: In hac trepidatione Decius consul M. Valerium magna uoce inclamat. "Deorum" inquit "ope, M. Valeri, opus est; agedum, pontifex publicus populi Romani, praei uerba quibus me pro legionibus devoveam." Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et velato capite, manu subter togam ad mentum exserta, super telum subiectum pedibus stantem sic dicere: "Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupavi, ita pro re publica <populi Romani> Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum deis Manibus Tellurique deuoueo". Per la ricostruzione ritmica vedi G. B. Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958, pp. 60 ss. Fra la dottrina più vedi H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, cit., pp. 45 ss.; di H. S. Versnel, Self-sacrifice, compensation and the anonimus gods, in Le sacrifice dans l'Antiquité, cit., pp. 135 ss.

 

[110] T. Trincheri, La consacrazione di uomini in Roma. Studio storico giuridico, Roma 1889, pp. 38 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I. La conquista del primato in Italia, Torino 1907, qui citata nella nuova edizione stabilita sugli inediti a cura di S. Accame, Firenze 1979, pp. 292 s.; P.M. Martin, Contribution de Denys d’Halicarnasse à la connaissance du ver sacrum, in Latomus 32, 1973, pp. 23 ss.; E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Milano 1991, pp. 300 ss.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana, 6ª ed., Napoli 1999, pp. 108 ss.

 

[111] D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, cit., pp. 168 ss.

 

[112] Il Tevere era invocato sia nelle preghiere degli auguri (Cicero, De nat. deor. 3.52: in augurum precatione Tiberinum, Spinonem, Anemonem, Nodinum, alia propinquorum fluminum nomina videmus; Servius Dan., in Verg. Aen. 8.95: quia Tiberim libri augurum colubrum loquuntur, tamquam flexuosum); sia negli indigitamenta dei pontefici (Servius, in Verg. Aen. 8.72: sic enim invocatur in precibus “adesto, Tiberine, cum tuis undis”; cfr. Servio Dan., in Verg. Aen. 8.330). J. Le Gall, Recherches sur le culte du Tibre, Paris 1953; sul nome del fiume di Roma, rinvio a C. De Simone, Il nome del Tevere. Contributo per la storia delle più antiche relazioni tra genti latino-italiche ed etrusche, in Studi Etruschi 43, 1975, pp. 119 ss.