N° 1 - Maggio 2002 - Tradizione
Francesco Sini
Università di
Sassari
Uomini e Dèi
nel sistema giuridico-religioso romano:
Pax deorum, tempo degli Dèi, sacrifici(*)
(*) Relazione presentata al
VIII Colloquio dei romanisti dell’Europa centro-orientale e d’Italia «Studio
e insegnamento del diritto romano. La persona nel sistema del diritto romano.
La difesa dei debitori» (Vladivostok 5-7 ottobre 2000), organizzato dal
«Juridi eskij Institut Dal’nevosto nogo Gosudarstvennogo Universiteta» (Istituto
Giuridico dell’Università Statale dell’Estremo Oriente) in collaborazione con
il Centro per gli studi su Diritto romano e sistemi giuridici del Consiglio
Nazionale delle Ricerche e il Gruppo di ricerca sulla diffusione del Diritto
Romano.
La traduzione russa di questo
testo, curata dalla dr.ssa Maria Celintseva, è stata pubblicata in Ius
Antiquum-Drevnee Pravo 8, 2001, pp. 8-30.
Sommario:
Questo
intervento, più che sulla nozione di uomo, verterà su alcuni aspetti dei rapporti
tra uomini e divinità in Roma antica. Tratterò in particolare della pax deorum,
del tempo degli Dèi e dei sacrifici.
La sapientia (teologica e giuridica) dei
sacerdoti romani, mediante la definizione del ne-fas, rivolgeva le sue prime e maggiori cautele proprio alla
regolamentazione dei rapporti tra uomini e Dèi; con lo scopo precipuo di
preservare la pax deorum, che
riposava sulla perfetta conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla; degli
atti che mai dovevano essere compiuti; delle parole che mai dovevano essere
pronunciate[1].
Nell'antitesi fas/nefas[2],
fondata in particolar modo sul sentimento che spazio e tempo appartenessero
agli Dèi, si manifestava compiutamente la peculiarità dei rapporti tra uomini e
divinità nel sistema giuridico-religioso romano: in un sistema, cioè, in cui la
distinzione tra il "divino" e l' "umano" rappresentava –
per dirla con Riccardo Orestano – «la più antica concezione romana del mondo»[3].
Va sottolineato, che su tale concezione del mondo, da cui risultano evidenti la
cautela definitoria della scienza sacerdotale e la tensione universalistica
della teologia pontificale[4],
appaiano fondate sia la definizione ulpianea di iurisprudentia, accolta nei Digesta
dell'Imperatore Giustiniano[5],
sia la summa divisio rerum della
giurisprudenza romana[6].
Ma, quasi sicuramente, anche il grande M. Terenzio Varrone faceva riferimento a
questa «più antica concezione romana del mondo» nella strutturazione delle sue Antiquitates[7]
in humanae e divinae[8].
Nelle elaborazioni teologiche e
giuridiche dei sacerdoti romani, tutte le manifestazioni significative della vita e della storia del Popolo romano
sono rappresentate in rapporto di imprescindibile causalità con la religio[9].
Teologia e ius divinum mostravano che
la volontà degli Dèi aveva concorso alla fondazione dell’Urbs Roma[10];
ne aveva sostenuto la prodigiosa “crescita” del numero dei cittadini (civitas augescens, per usare la felice espressione
del giurista Pomponio, conservata dai compilatori dei Digesta Iustiniani[11]);
infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la sua estensione sine fine[12].
I sacerdoti romani avevano
postulato, fin dalle prime attestazioni della memoria storica e documentaria
delle loro attività, un legame indissolubile tra la vita del Popolo romano e la sua religio
(parola da intendere nel senso di culto degli Dèi «religione, id est cultu deorum»)[13];
per questa ragione riti e culti della religione politeista risultavano finalizzati
al conseguimento e alla conservazione della pax
deorum[14]
(«pace degli Dèi», ma da intendere nel senso di «pace con gli Dèi»)[15].
Per la vita del Popolo romano
si riteneva indispensabile il permanere di una situazione di amicizia nei
rapporti uomini e Dèi[16],
considerati anch’essi una delle parti del sistema giuridico-religioso[17];
certo la più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che si riconosceva
alle divinità[18].
Dagli Dèi i Romani si aspettavano di
ricevere pace e perdono[19];
senza tuttavia ignorare che le loro colpe potevano essere punite da Iuppiter con gravissimi mali[20].
Emerge così la nozione di pax deorum,
che potrebbe essere addirittura «all'origine del concetto romano di pax», secondo una suggestiva ipotesi
avanzata da Marta Sordi[21];
per quanto, riguardo alla tesi della studiosa italiana, mi pare di poter
condividere alcuni rilievi formulati dallo storico delle religioni Enrico
Montanari[22].
L’espressione pax deorum è attestata ancora nella sua
forma arcaica, pax divom o deum, da Plauto (sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet adesse?)[23],
Lucrezio (non divom pacis votis adit, ac
prece quaesit)[24],
Virgilio (exorat pacem divom)[25]
e Tito Livio (His avertendis terroribus in triduum
feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum
mulierumque turba implebantur)[26].
Dal punto di vista umano
(cioè dello ius sacrum), il «legalismo religioso» («Legalismo religioso è l'insieme delle regole che insegnano
a mantenere la pax deorum»: P. Voci)[27] dei sacerdoti romani configurava la pax deorum come una somma di atti e comportamenti, ai quali
collettività e individui dovevano necessariamente attenersi per poter
conservare il favore degli Dèi. Questo spiega anche l'attenzione precisa e
minuziosa dell'annalistica romana, erede diretta dell'attività
"storiografica" del collegio dei pontefici[28],
nel documentare fatti e avvenimenti suscettibili di turbare la pax deorum, le conseguenze negative per la
vita comunitaria, i riti e le cerimonie posti in essere per espiare[29].
In questa prospettiva, può
ben comprendersi perché la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale[30]
e fosse considerato, al tempo stesso, l'elemento basilare del sistema
giuridico-religioso. Oggetto, quindi, dello ius
del Popolo romano (ius publicum), non
a caso tripartito secondo il giurista Ulpiano in sacra, sacerdotes, magistratus:
D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius studii
duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei
Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam
publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in
magistratibus consistit[31].
«Una suddivisione – ha
scritto Pierangelo Catalano – propria della giurisprudenza repubblicana,
tracciata in spontanea adesione ai documenti sacerdotali e magistratuali»[32].
Credo di aver dimostrato in un mio libro, intitolato Documenti sacerdotali di Roma antica, che la tripartizione ulpianea
(e ciceroniana[33])
dello ius publicum affonda le sue
radici in elaborazioni sacerdotali di età precedente al pareggiamento tra
patrizi e plebei, o di età appena successiva, e riflette una gerarchizzazione
delle parti dello ius publicum
sostanzialmente antiplebea[34].
Il conservatorismo rituale e il carattere prevalentemente sacerdotale della
giurisprudenza medio-repubblicana[35]
hanno consentito all'antica partizione dello ius publicum di affermarsi nella sistematica giurisprudenziale del
III e II secolo a. C.[36],
fino ad essere poi canonizzata in funzione politica nel I secolo da Cicerone.
Nelle pratiche cultuali
dell’antica religione romana[37],
finalizzate sempre alla conservazione della pax
deorum[38],
risulta invero assai evidente la
centralità del tempo (o più concretamente dei giorni
e delle stagioni). Uno dei doveri religiosi osservato con più scrupolo
dal Popolo romano era il rispetto del tempo degli Dèi: i dies festi o feriae; per la teologia (e per il diritto)
dei sacerdoti, da tale scrupolosa osservanza dipendeva massimamente l'esistenza
di buoni rapporti tra uomini e Déi.
Come apprendiamo da Macrobio, i dies festi
erano dedicati agli Dèi per l'intero arco della giornata (Festi dis dicati sunt):
Macrobius, Sat. 1.16.2-3: Numa ut in menses annum,
ita in dies mensem quemque distribuit, diesque omnes aut festos aut profestos
aut intercisos vocavit. Festi dis dicati sunt, profesti hominibus ob
administrandum rem privatam publicamque concessi, intercisi deorum hominumque
communes sunt. Festis insunt sacrificia epulae ludi feriae.
Si trattava di giorni in cui i cittadini
romani dovevano praticare le devozioni verso le divinità e celebrare i
sacrifici in loro onore; giorni sottratti alle altre attività umane, per essere
consacrati esclusivamente al culto degli Dèi.
Questo carattere
obbligatorio del rispetto delle feriae
doveva avere senza dubbio anche una fortissima valenza giuridica; che troviamo sottesa
nel linguaggio tecnico-giuridico utilizzato dal Servio Danielino per definire,
appunto, l’obbligatorietà del rispetto delle feriae, nel commento al verso 268 del primo libro delle Georgiche, in un contesto che sembra
estrapolato, quanto meno, da un trattato di ius
pontificium di qualità eccellente.
Servius Dan., in Verg. Georg. 1.268: Sunt enim aliqua,
quae si festis diebus fiant, ferias polluant: quapropter et pontifices
sacrificaturi praemittere calatores suos solent, ut, sicubi viderint opifices
adsidentes opus suum, prohibeant, ne pro negotio suo et ipsorum oculos et
caerimonias deum attaminent: feriae enim operae deorum creditae sunt. Sane
feriis terram ferro tangi nefas est, quia feriae deorum causa instituuntur,
festi dies hominum quoque.
Il commentatore di Virgilio
scrive che le feriae sono da
considerarsi a tutti gli effetti come operae
dovute agli Dèi (Feriae enim operae
deorum creditae sunt); e spiega il nefas
che inibisce i lavori agricoli durante le feriae
(feriis terram ferro tangi nefas est),
in ragione del fatto che «feriae deorum
causa instituuntur». Orbene, proprio nel ricorso alla nozione di opera, mi pare possa cogliersi l'esatto
senso giuridico degli obblighi gravanti sugli uomini per il rispetto del tempo
delle feriae. Tuttavia, al riguardo,
non credo di poter condividere la tesi formulata, più di quarant’anni orsono,
da Pierre Braun, in un suo saggio dedicato ai “Tabous des «feriae»”; lo
studioso francese ha sostenuto che i divieti imposti nelle feriae determinerebbero l’instaurarsi di una relazione tra uomini e
divinità del tutto simile «à celle de l’affranchi et de son patron»[39].
Su questi divieti, i pontefici avevano
elaborato regole di comportamento piuttosto complesse e minuziose, di cui tramandavano
la memoria e la dottrina nei libri
del collegio, come attesta ancora una volta Servio Danielino, nel suo commento
al verso 270 del primo libro delle Georgiche
virgiliane.
Servius Dan., in Verg. Georg.
1.270: Sed qui disciplinas pontificum interius agnoverunt, ea die festo sine
piaculo dicunt posse fieri, quae supra terra sunt, vel quae omissa nocent, vel
quae ad honorem deorum pertinent, et quidquid fieri sine institutione novi
operis potest: ut rivorum inductionem sic accipimus, per fossam vel pratum
purgatum deducere, id est emittere, quoniam cautum in libris sacris est feriis
denucalibus aquam in pratum ducere nisi legitimam non licet, ceteris feriis
omnes aquas licet deducere. Ergo hic, ut aliquibus videtur, ‘deducere’ purgare
est, et sordes emittere, quae praecludant aquam, ideo quia a pontificibus, ut
novum fieri non permittitur feriis, ita vetus purgeri permittitur. Alii hoc
sedundum augurale ius dictum tradunt, quod etiam in bello observetur, ne novum
negotium incipiatur. Ergo ‘rivos deducere’ non est novum negotium, et potest
hoc ad illud referri quique paludis collectum umorem bibula deducit harena. Sane
quae feriae a quo genere hominum vel quibus diebus observentur, vel quae festis
diebus fieri permissa sint, siquis scire desiderat, libros pontificales legat[40].
Sulla materia vi erano scrupoli e zone
d’ombra che richiedevano il costante conforto degli esperti. Regnava, per
esempio, una grande incertezza sulle opere agricole consentite durante i dies festi:
tema peraltro usuale fra gli scrittori di agricultura:
se ne erano occupati Catone il Censore[41]
e poi Virgilio[42],
infine se ne occuperà Columella[43],
ma senza pervenire ad una totale identità di vedute. Per quanto, ormai, le
prescrizioni pontificali dovessero essere improntate ad una pratica assai permissiva,
almeno fin dall’età di Quinto Mucio Scevola[44],
poiché, come insegnava il grande giurista e pontefice massimo, durante le ferie
poteva essere portato a compimento tutto ciò quod praetermissum noceret.
Macrobius, Sat. 1.16.9-11: Adfirmabant
autem sacerdotes pollui ferias si indictis conceptisque opus aliquod fieret.
Praeterea regem sacrorum flaminesque non licebat videre feriis opus fiere, et
ideo per praeconem denuntiabant ne quid tale ageretur: et praecepti neglegens
multabatur. Praeter multam vero adfirmabatur eum qui talibus diebus imprudens
aliquid egisset porco piaculum dare debere. Prudentem expiare non posse
Scaevola pontifex adseverabat, sed Umbro negat eum pollui qui opus vel ad deos
pentinens sacrorumve causa fecisset, vel aliquid ad urgentem vitae utilitatem
respiciens actitasset. Scaevola denique consultus, quid feriis agi liceret,
respondit: quod praetermissum noceret. Quapropter, si bos in specum decidisset
eumque pater familias adhibitis operis liberasset, non est visus ferias polluisse;
nec ille qui trabem tecti fractam fulciendo ab imminenti vindicavit ruina[45].
Tuttavia, lo stesso Quinto Mucio era,
invece, piuttosto rigoroso nell’escludere la possibilità di espiare le
violazioni volontarie del “tempo degli dei”.
Varro, De ling. Lat. 6.30: Contrarii horum
vocantur dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem ‘do, dico, addico’;
itaque non potest agi: necesse est aliquo <eorum> uti verbo, cum lege
qui<d> peragitur. Quod si tum imprudens id verbum emisit ac quem
manumisit, ille nihilo minus est liber, sed vitio, ut magistratus vitio creatus
nihilo setius magistratus. Praetor qui tum fa[c]tus est, si imprudens fecit,
piaculari hostia facta piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius a[b]i[g]ebat
eum expiari ut impium non posse[46].
Riferisce, al riguardo, M. Terenzio
Varrone che il pontefice massimo Scevola, a proposito della violazione da parte
del pretore dei dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem ‘do, dico, addico’, distingueva
nettamente la posizione di chi avesse violato il nefas fari
involontariamente (imprudens), e
dunque poteva espiare con un sacrificio, da quella di colui che a tale obbligo
era venuto meno volontariamente (prudens),
per il quale non vi era invece possibilità di espiazione: si prudens dixit, Quintus Mucius aiebat eum expiari ut impium non posse.
L’interpretatio (dispositiva, precettiva o rispondente) dei
pontefici, e degli altri sacerdoti, risultava massimamente finalizzata a
preservare nel tempo la pax deorum,
che si consolidava soprattutto attraverso il rispetto più rigoroso delle
prescrizioni cultuali previste nei giorni riservati agli Dèi. Era altresì necessaria da parte dei
sacerdoti un’intensa attività cautelare, in rapporto al tempo e alla natura, al
fine di evitare, prevenire o rimuovere, ogni accadimento suscettibile di
innescare il verificarsi del nefas[47]
(che l'opera della natura o l'azione degli uomini tendevano sempre a
provocare), con la sua dirompente turbativa dei rapporti tra uomini e divinità.
Ma la scienza sacerdotale, proprio mediante la riqualificazione religiosa a
favore degli Dèi di quote del tempo profano, che in tal modo diventavano giorni
di ferie e di preghiera per tutta la comunità, si mostrava quasi sempre in
grado di exposcere pacem deum nella maniera più efficace.
Livius 3.5.14: Ut Romam
reditum est, iustitium remissum est; caelum visum est ardere plurimo igni,
portentaque alia aut obversata oculis aut vanas exterritis ostentavere species.
His avertendis terroribus in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra
pacem deum exposcentium virorum mulierumque turba implebantur[48].
In queste azioni
rituali, la più antica teologia sacerdotale e le norme dello ius sacrum concretizzavano il legame
indissolubile tra la vita del popolo
romano e la sua religio, finalizzata
alla stabilizzazione della pax deorum: cioè al permanere di una
situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e Dèi. Si possono ben
comprendere le ragioni profonde dell’interpretatio
sacerdotale, che teorizzava la conservazione della pax deorum come l’elemento basilare del sistema giuridico-religioso
romano, in quanto fondamento teologico di tutti i riti.
La centralità dei sacrifici di
esseri animati (hostiae o victimae), per le pratiche cultuali
dell’antica religione politeista romana (e dunque per la conservazione della pax deorum),
risulta invero assai evidente in un notissimo passo di Tito Livio (1.20.5-7),
relativo all’istituzione del sacerdozio pontificale da parte del re Numa
Pompilio[49].
Livius 1.20.5-7:
Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium, ex patribus legit eique sacra
omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae
templa sacra fierent atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera
quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset, quo
consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque
adsciscendo turbaretur; nec celestes modo caerimonias, sed iusta quoque
funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia
fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur.
Riguardo al passo appena citato, mette conto sottolineare il fatto che nell’elenco delle
materie di competenze dei pontefici, il cui ordine non può ritenersi certo
casuale, proprio le hostiae vengano
collocate al primo posto; precedendo rispettivamente dies, templa, pecunia, cetera sacra, funebria e prodigia. Peraltro le potenzialità classificatorie e sistematiche insite nel testo
liviano non sono sfuggite alla parte più avvertita della dottrina
contemporanea, al cui interno coesistono però posizioni assai diversificate:
alcuni studiosi hanno ritenuto determinante la tripartizione: quibus hostiis, quibus diebus, ad quae
templa (così, ad esempio, il grande storico
francese Auguste Bouché-Leclercq[50]);
altri, come lo storico della religione romana Nicola Turchi, propugnano una
divisione della materia in cinque parti: controllo rituale, responsi
sull'attività circa le cose sacre e pubbliche, controllo sul culto degli Dèi
patri e sull'accettazione dei culti stranieri, controllo sul diritto funerario,
espiazione e neutralizzazione di fulmini e altri prodigi funesti[51];
altri ancora – è il caso del linguista Emilio
Peruzzi – ritengono di poter individuare anche il contenuto, o
almeno l’ordine di disposizione della materia, dei primitivi libri pontificum proprio sulla base del citato passo di Tito Livio, «da
cui traspare che la copia consegnata al pontefice era divisa in sette capitoli»[52].
Bisogna ricordare, poi, che le ricerche
del Peruzzi hanno dimostrato in maniera convincente la derivazione da documenti
sacerdotali del testo liviano; in esso si sarebbero conservati elementi di
autenticità assai risalenti, come la formula onomastica del pontifex[53].
Del resto, appare abbastanza credibile
che la riforma religiosa di Numa Pompilio[54]
abbia imposto l’esigenza di testi scritti, senza il cui ausilio doveva essere
ormai quasi impossibile osservare la complessità dei sacra e delle caerimoniae e
la minuziosa regolamentazione dei sacrifici, testimoniate a proposito della
religiosità di quell'epoca. Di alcune delle prescrizioni rituali pompiliane
abbiamo notizia nella ‘vita di Numa’ di Plutarco[55]: esse riguardavano l’obbligo di
sacrificare un numero dispari di vittime agli Dèi celesti ed un numero pari a
quelli inferi[56]; il divieto di libare agli Dèi con vino[57]; il divieto di sacrificare senza farina[58]; la necessità di pregare e adorare la
divinità compiendo un giro su sè stessi[59]; apprendiamo infine, da una
testimonianza di Arnobio, che gli antichi attribuivano a Numa Pompilio la
composizione degli indigitamenta[60], appellativi rituali delle divinità (nomina deorum et rationes ipsorum nominum)[61], raccolti in seguito dai sacerdoti in libris pontificalibus[62].
Alla luce di quanto si è
detto, nel passo di Tito Livio deve considerarsi particolarmente
affidabile l’elenco, o per meglio dire
l’ordine-gerarchia, delle materie di competenze dei pontefici (quibus hostiis, quibus diebus, ad quae
templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur), poiché esso ricalcava l’ordine degli antichissimi sacra omnia exscripta exsignataque
istitutivi del sacerdozio pontificale[63],
ritenuti dalla tradizione annalistica opera dello stesso Numa Pompilio. Infine,
non va dimenticato che secondo la tradizione antiquaria (Varrone) questi
libri Numae avevano costituito il nucleo primitivo dei libri pontifícum[64].
Torniamo, ora, agli aspetti
giuridici e rituali del sacrificio[65]
e alla valenza teologica delle hostiae[66]
per i rapporti tra uomini e Dèi. Voglio subito precisare, che non è mio
intendimento proporre qui di seguito una trattazione compiuta della materia: da
un lato, non lo consentirebbe lo spazio concesso a questo contributo;
dall’altro, bisogna pur convenire che sono validi ancora oggi molti pregevoli
studi del passato (penso in
particolare, ad opere come quelle di E. Lübbert[67],
A. Bouché-Leclercq[68],
C. Krause[69],
C. Blecher[70]),
mentre restano quasi insuperabili le sintesi manualistiche di J. Marquardt[71]
e G. Wissowa[72].
Il sacrificio (sacra facere), nella sua
accezione più generale, si presentava come un’azione rituale che permetteva
alle diverse aggregazioni comunitarie romane[73]
di stabilire, per mezzo della vittima immolata, forme di comunicazione con le
divinità destinatarie del sacrificio[74];
si può ben dire, usando le parole di Ileana Chirassi, che il sacrificio era
sentito dalla religiosità romana principalmente come «modalità
di scambio tra due posizioni, due dati che si fronteggiano dialetticamente e
dei quali uno viene a trovarsi in posizione mancante, quindi bisognoso
d’integrazione»[75].
A proposito delle forme di religiosità
romana, sarà bene ricordare che il vocabolo cultus
è un derivato del verbo colere,
utilizzato indifferentemente in riferimento alla terra, agli uomini, agli Dèi;
questo significa che anche i rapporti con le divinità, per produrre i frutti desiderati,
necessitavano di assidue cure e di particolari attenzioni. L’uomo doveva
impegnarsi in una incessante attività cultuale, poiché solo così poteva sperare
di ricevere benefici sempre maggiori dall’immenso potere degli Dèi; tuttavia,
come spiega con la consueta acutezza Robert Turcan, nella concezione romana dei
rapporti tra l’umano e il divino le azioni cultuali degli uomini (con
particolare riguardo al sacrificio) erano reputate indispensabili per la stessa
esistenza degli Dèi[76].
Teologia e ius divinum mostravano nei confronti del sacrificio un
atteggiamento bivalente: i sacerdoti romani, da un lato, ritenevano che le
azioni sacrificali costituissero i riti più idonei per attrarre la benevolenza
divina sulle vicende umane, volgendo in tal modo a beneficio degli uomini
l’immensa potenza degli Dèi; d’altro lato, consideravano i sacrifici
indispensabili per la sopravvivenza delle stesse divinità, le quali diventavano
tanto più potenti, quanto più numerose erano le vittime immolate sui loro
altari[77].
Di questa concezione romana del sacrificio, costituisce una prova
incontrovertibile l’uso linguistico corrente del verbo mactare: come insegnano i linguisti[78],
tale verbo, muovendo dal suo significato originario di «accrescere», «fare più
grande» (deriva infatti dalla stessa radice di magis), ha finito per acquisire il senso prevalente di
«sacrificare», «immolare»:
Servius, in Verg. Aen. 4.57: mactant verbum sacrorum, kat'eÙfhmismÒn
dictum, ut adolere; nam ‘mactare’ proprie est ‘magis augere’[79].
Nell’azione rituale del sacrificio,
percepito come vero e proprio nutrimento degli Dèi[80],
si perfeziona in tutta la sua dimensione bilaterale il rapporto di reciprocità
insito nella concezione romana di religio[81].
Certamente, aveva ben presente questa concezione della religio M. Tullio Cicerone, quando scriveva nel de legibus che gli Dèi e gli uomini
appartengono alla medesima societas,
alla medesima civitas[82]
e che la loro associazione riposa nella comunanza della legge: lege quoque consociati homines cum dis
putandi sumus[83].
La sapienza teologica e giuridica dei
sacerdoti romani aveva operato ab antiquo partizioni fondamentali in
materia di sacrifici (quibus hostiis
immolandum quoique deo, cui maioribus, cui lactentibus, cui maribus, cui
feminis)[84].
Essi potevano consistere in offerte incruente di prodotti della terra (libamina), oppure in sacrifici cruenti
di esseri animati (hostiae, victimae). Quanto al risultato che si
voleva conseguire, la pratica dei sacrifici cruenti erano ritenuta di gran
lunga superiore alla semplice offerta di libamina,
in ragione del radicato convincimento che il sangue delle vittime sacrificali,
versato nell’azione rituale, risultasse sommamente gradito alle divinità (e ai
defunti):
Servius Dan., in Verg. Aen. 3.67:
Ideo autem lactis et sanguinis mentio facta est, qui adfirmantur animae latcte
et sanguine delectari. Varro quoque dicit mulieres in exsequiis et luctu ideo
solitas ora lacerare, ut sanguine ostenso inferis satisfaciant, quare etiam
institutum est, ut apud sepulcra et victimae caedantur. Apud veteres etiam
homines interficiebantur, sed mortuo Iunio Bruto cum multae gentes ad eius
funus captivos misissent, nepos illius eos qui missi erant inter se composuit,
et sic pugnaverunt: et quod muneri missi erant, inde munus appellatum[85].
Nello stesso tempo, al fine di assicurare
ai fedeli la piena conoscenza delle modalità di celebrazione dei sacrifici, i
sacerdoti romani fissarono con estrema precisione sia le regole rituali, sia le
tipologie degli animali sacrificabili alle diverse divinità; in tal modo,
diventava possibile per i cittadini vincere ogni scrupolo religioso e associare
a ciascun Dio la vittima più idonea (Victimae
numinibus aut per similitudinem aut per contrarietatem immolantur):
Servius, in Verg. Georg. 2.380: Victimae numinibus
aut per similitudinem aut per contrarietatem immolantur: per similitudinem, ut
nigrum pecus Plutoni; per contrarietatem, ut porca, quae obest frugibus,
Cereri, ut caper, qui obest vitibus, Libero, item capra Aesculapio, qui est
deus salutis, cum capra numquam sine febre sit[86].
Si andarono elaborando classificazioni
sempre più rigorose delle vittime sacrificali, pur nella generale tendenza alla
semplificazione dei genera hostiarum.
Sul finire dell’età repubblicana, il grande giurista C. Trebazio Testa[87],
autore di un’opera intitolata de religionibus, aveva teorizzato che tali genera potessero ridursi sostanzialmente
a due (unum in quo voluntas dei per exta
disquiritur, alterum in quo sola anima deo sacratur)[88].
Venne così ad operarsi una distinzione
sempre più marcata tra hostiae e victimae, che però risultava ormai
lontana dalle motivazioni teologiche e giuridiche (ricordate ancora in età
tardo antica dal grammatico Servio), per quanto proprio queste motivazioni costituissero
il fondamento di tale distinzione[89].
In genere, nella pratica religiosa
corrente col termine hostiae si
designavano gli animali piccoli, quali maiali, capre, pecore; mentre erano
denominati victimae tutti gli animali
più grandi, soprattutto tori e vacche[90].
I pontefici poi, nella classificazione delle vittime, tenevano conto dell’età:
si chiamavano lactentes quando
avevano un determinato numero di giorni (cinque o dieci i porcellini, sette gli
agnelli e trenta i vitelli); erano invece maiores
o bidentes quando divenute adulte
avevano messo la doppia fila di denti; inoltre, gli animali da sacrificare
sovente venivano distinti sulla base del sesso[91]
e del colore, o anche dello scopo che si voleva conseguire con il sacrificio[92].
Naturalmente, le vittime dei sacrifici non dovevano avere difetti fisici (purae). Per questo, come leggiamo in un
passo di Macrobio, il quale cita letteralmente le quaestiones pontificales di Veranio[93]
Macrobis, Sat. 3.5.6: Eximii quoque in sacrificiis
vocabulum non poeticum ™p…qeton, sed sacerdotale nomen est. Veranius enim in
Pontificalibus quaestionibus docet eximias dictas hostias quae ad sacrificium
destinatae eximantur e grege, vel quod eximia specie quasi offerendae numinibus
eligantur[94],
prima del sacrificio era necessario procedere
ad una verifica che dichiarasse tali vittime electae (scelte), eximiae,
egregiae (separate dal gregge) e
quindi idonee all’immolazione.
Nel caso di sacrifici particolarmente
solenni, il rituale prescriveva che si offrissero insieme diverse specie di
animali; il più noto di questi sacrifici prendeva il nome di suovetaurilia e consisteva nell’offerta
alle divinità di un maiale, di una pecora e di un toro. I suovetaurilia, attestati anche negli inni vedici dell’antica India[95],
erano un’antichissimo sacrificio risalente alla “religione comune” dei popoli
indoeuropei; a Roma essi dovevano essere compiuti nelle cerimonie lustrali o di
purificazione: si offrivano al dio Marte in Campo Marzio nel corso della
cerimonia di purificazione del populus
Romanus, che aveva luogo ogni cinque
anni ad opera dei censori (lustrum condere)[96].
Lo stesso sacrificio, peraltro, era celebrato annualmente dal pater familias nella seconda parte del mese di maggio, in occasione degli
ambarvalia, cerimonia di purificazione
dei campi descritta da Catone, in cui ogni proprietario sacrificava i tre
animali condotti precedentemente in processione intorno ai confini del fondo
familiare[97].
Non posso addentrarmi ulteriormente nel
complesso rituale romano del sacrificio, le cui regole minuziose esigevano dal
fedele grande attenzione e notevole perizia; l’attività cautelare dei sacerdoti
romani fu pressoché incessante in materia, si elaborarono perfino modi di
espiazione anticipata degli eventuali scelera
determinati da omissioni involontarie del sacrificante. A tale scopo, i
sacerdoti prescrivevano di immolare, il giorno precedente a quello fissato per
il compimento di sacrifici solenni, una vittima espiatoria, chiamata appunto praecidanea «uccisa prima», per sanare
ogni infrazione rituale involontaria che si sarebbe potuta commettere durante
lo svolgimento della cerimonia[98].
Vorrei proporre un’ultima suggestione
riguardo ai sacrifici nella religione politeista romana. è noto che i giuristi romani, sulla base
dello ius naturale, hanno teorizzato l’esistenza di istituti giuridici comuni
a tutti gli animalia[99];
si riteneva, dunque, che il sistema giuridico-religioso romano fosse
caratterizzato da una comunanza di diritti tra (Dèi) uomini e animali, la cui
coerente traduzione nella sfera religiosa permetteva di considerare quali
possibili vittime sacrificali anche gli stessi esseri umani.
Col progredire della storia di Roma, i
sacrifici umani divennero del tutto eccezionali: per essi trovarono più
frequente applicazione sia il principio della sostituzione dell’uomo[100]
con gli animali (vigente nelle antichissime leges
regiae, per il colpevole di omicidio
involontario)[101],
sia la regola in sacris simulata pro
veris accipi, certamente elaborata dai sacerdoti in età arcaica, per quanto
attestata da una fonte piuttosto tarda.
Servius, in Verg. Aen. 2.116: virgine caesa non vere, sed ut
videbatur. Et sciendum in sacris simulata pro veris accipi: unde cum de
animalibus quae difficile inveniuntur est sacrificandum, de pane vel cera fiunt
et pro veris accipiuntur[102].
Tuttavia i sacrifici umani, nonostante il
Senato di Roma li avesse proibiti fin dal 97 a.C.[103],
continuarono ad essere praticati eccezionalmente fino all’età imperiale avanzata.
Depone in tal senso la testimonianza di Plinio il Vecchio, il quale tratta di
sacrifici umani (in forma di sepoltura rituale) nel libro ventottesimo della Naturalis historia, descrivendoli come cerimonie religiose ancora praticate
nel suo tempo (etiam nostra aetas vidit).
Plinius, Nat. hist. 28.12: Boario vero in foro
Graecum Graecamque defossos aut aliarum gentium, cum quibus tum res esset,
etiam nostra aetas vidit. Cuius sacri precationem, qua solet praeire XVvirum
collegii magister, si quis legat, profecto vim carminum fateatur, omnia ea
adprobantibus DCCCXXX annorum eventibus[104].
Altri episodi tramandati
dalle tradizione annalistica riguardano invece l’età repubblicana.
Livius 22.57.4-6: Hoc nefas cum inter tot, ut fit, clades in prodigium versum esset, decemviri libros adire iussi sunt et Q. Fabius Pictor Delphos ad oraculum missus est sciscitatum quibus precibus suppliciisque deos possent placare et quaenam futura finis tantis cladibus foret. Interim ex fatalibus libris sacrificia aliquot extraordinaria facta; inter quae Gallus et Galla, Graecus et Graeca in foro bovario sub terram vivi demissi sunt in locum saxo consaeptum, iam ante hostiis humanis, minime Romano sacro, inbutum[105].
Tito Livio riferisce la
notizia che nel 216 a.C. i libri fatales, consultati dopo la battaglia di
Canne, ordinarono ai Romani sacrificia
aliquot extraordinaria e che, sulla base di quelle prescrizioni, furono
sepolte vive nel Foro Boario una coppia (maschio e femmina) di Celti e una
coppia di Greci[106].
Peraltro lo stesso sacrificio, come si legge in Plutarco[107],
era già stato celebrato nell’anno 228 a.C., prima della guerra contro gli Insubri.
Allo stesso modo, si
potrebbe ritenere un vero e proprio sacrificio espiatorio l’interramento nel
Foro Boario della Vestale incestuosa[108];
similmente, sono da considerare sacrifici umani i riti della devotio[109]
e della “primavera sacra”[110].
Infine, il ricordo di un antichissimo sacrificio umano permane nel misterioso
rito degli Argei, che si celebrava il 14 o 15 maggio[111]:
mentre sfugge quasi totalmente il significato religioso del rito, risultano più
chiare le modalità della cerimonia, durante la quale le Vestali, operando alla
presenza dei pontefici e dei magistrati, gettavano nel Tevere dal Ponte
Sublicio 27 fantocci di paglia (il numero è indicato da Varrone), certo in sostituzione
delle vittime umane effettivamente sacrificate nell’età più antica alla
divinità del fiume[112].
[1] R.
Orestano, I fatti di normazione
nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967, p.
114: «In queste condizioni tutta la vita privata e quella pubblica erano
dominate dall'assillo ansioso e ininterrotto di operare in accordo con queste
"forze" o "deità", di procurarsi il loro ausilio, di
propiziarsi il loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro influenze ostili,
di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una loro reazione. La
paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o comportamento
potesse rompere la pax deorum da cui
dipendevano il benessere dell'individuo, della famiglia, della comunità, rendeva
il romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della natura i
segni della volontà divina».
[2] F.
Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto
internazionale antico", [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano
dell'Università di Sassari, 7] Sassari 1991, pp. 83 ss.
[3] R.
Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra
diritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano
46, 1939, p. 201: «Una siffatta concezione ci riporta a quella che è stata la
più antica concezione romana del mondo, rimasta costante in tutta la tradizione,
secondo la quale la totalità degli esseri ragionevoli si divideva in due
gruppi, gli Dei e gli uomini. Da essa scaturiva la suprema distinzione di tutti
i rapporti e delle pertinenze in "divina"
e "humana"».
[4] Cfr. la qualifica, certo antichissima,
attribuita al pontifex maximus nell'ordo sacerdotum: Festus, De verb
sign. pp. 198-200: Ordo sacerdotum
aestimatur deorum <ordine ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex,
dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex
maximus. Itaque in soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra
Martialem, et Quirinalem; Martialis supra proximum; omnes item supra
pontificem. Rex, quia potentissimus: Dialis, qui universi mundi sacerdos, qui
appallatur Dium; Martialis, quod Mars conditoris urbis parens; Quirinalis,
socio imperii Romani Curibus ascito Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque
arbiter habetur rerum divinarum humanarumque. Per la risalenza dell'ordo
sacerdotum attestato da Festo, vedi soprattutto G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed.,
Paris 1974, p. 155 [= Id., La religione romana arcaica, trad. it.
di F. Jesi, Milano 1977, pp. 138 s.]; sul testo cfr. anche F. D'Ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica, Roma-Bari 1986, pp. 91 s.; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, p. 108.
[5] D. 1.1.10.2 (Ulpianus libro primo regularum): Iuris prudentia
est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. Cfr. F. Senn,
Les origines de la notion de
jurisprudence, Paris 1926; F. Stella-Maranca,
Intorno alla definizione della
giurisprudenza, in Historia 8,
1934, pp. 640 ss.; F. Schulz,
Storia della giurisprudenza romana, trad.
it. a cura di G. Nocera, Firenze 1968, p. 242; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, p. 341 n. 543; G. Nocera, Iurisprudentia. Per una storia del pensiero giuridico
romano, cit., pp. 9 ss.; G. Crifò,
Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, pp. 708 s.
[6] Gaius, Inst. 2.2 (= D. 1.8.1 pr.): Summa itaque rerum divisio in duos articulos
diducitur: nam aliae sunt divini iuris, aliae humani. Sebbene nel manuale
gaiano questa summa divisio sia
preceduta dalla divisione tra cose quae
vel in nostro patrimonio sunt vel extra nostrum patrimonium habentur (Inst. 2, 1), non mi pare si possa
dubitare del carattere più risalente della partizione delle res tra ius divinum e ius humanum:
di ciò non dubitavano i compilatori dei Digesta
Iustiniani, i quali nel titolo VIII del primo libro, De divisione rerum et qualitate, hanno ripristinato tale priorità.
Su questa divisio vedi F. Fabbrini, v. Res divini iuris, in Novissimo
Digesto Italiano, XV, Torino 1968, pp. 510 ss., con ampia rassegna del dibattito
dottrinario precedente e della bibliografia; brevemente anche G. Grosso, Problemi sistematici del diritto romano. Cose-Contratti, Torino
1974, pp. 22 s. Riguardo al significato dell'espressione summa divisio, sempre in
riferimento a Gaio, vedi invece F. Goria,
Schiavi, sistematica delle persone e condizioni
economico-sociali nel principato, in AA.VV., Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, pp. 339 ss.;
sull'influenza dell'ideologia religiosa vedi, infine, L. Lantella, Il lavoro sistematico nel discorso giuridico romano (Repertorio di
strumenti per una lettura ideologica), Ibid.,
pp. 244 ss.
[7] Per la sistematica delle Antiquitates varroniane, risultano
fondamentali H. Dahlmann, v. M. Terentius Varro, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, Suppl. VI, Stuttgart 1935, coll. 1229 ss.; Id., Zu Varros antiquarisch-historischen Werken,
besonders den Antiquitates rerum humanarum et divinarum, in Atti del Congresso Internazionale di Studi
Varroniani, I, Rieti 1976, pp. 163 ss.; J.
Collart, Varron grammairien latin,
Paris 1954, pp. 275 ss. Più in particolare, sulle 'antichità divine': A. G. Condemi, Proemium a M. Terenti
Varronis Antiquitates rerum divinarum. Librorum I-II fragmenta, Bologna
1965, pp. VII ss.; B. Cardauns, M. Terentius Varro Antiquitates rerum
divinarum, II. Kommentar, Wiesbaden 1976, pp. 125 ss.; P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 446 ss.;
brevemente anche F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, [Pubblicazioni del
Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 2] Sassari 1983, pp.
210 ss.
[8] Augustinus, De civ. Dei 6.3: In divinis
identidem rebus eadem ab illo divisionis forma servata est, quantum attinet ad
ea quae diis exhibenda sunt. Exhibentur enim ab hominibus, in locis et
temporibus sacra. Haec quattuor, quae dixi, libris complexus est ternis: nam
tres priores de hominibus scripsit, sequentes de locis, tertios de temporibus,
quartos de sacris, etiam hic qui exhibeant, ubi exhibeant, quando exhibeant,
quod exhibeant, subtilissima distinctione commendans. Sed quia oportebat dicere
et maxime id expectabatur quibus exhibeant, de ipsis quoque diis tres
conscripsit extremos, ut quinquies terni quindecim fierent. Sunt autem omnes,
ut diximus, sedecim quia et istorum exordio unum singularem qui prius de
omnibus loqueretur, apposuit; quo absoluto consequenter ex illa quinquepartita
distributione tres praecedentes, qui ad homines petinent, ita subdivisit, ut
primus sit de pontificibus, secundus de auguribus, tertius de quindecemviris
sacrorum: secundos tres ad loca pertinentia ita, ut in uno eorum de sacellis,
altero de sacris aedibus, diceret, tertio de locis religiosis. Tres porro qui
illos sequentur, ad tempora pertinent, id est ad dies festos, ita, ut unum
faceret de feriis, alterum de ludis circensibus, de scenicis tertium. Quartorum
trium ad sacra pertinentia uni dedit consecrationes, alteri sacra privata,
ultimo publica. Hanc velut pompam obsequiorum in tribus, qui restant, dii ipsi
sequuntur extremi, quibus iste universus cultus impensus est, in primo dii
certi, in secundo incerti, in tertio cunctis novissimo dii praecipui atque
selecti.
[9] Per
significati e spettro semantico della parola, cfr. H. Fugier, Recherches sur
l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, pp. 172 ss.; é. Benveniste,
Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2. Pouvoir,
droit, religion, Paris 1969, pp. 265 ss.; H. Wagenvoort, Wesenzüge
altrömischer Religion, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 348 ss.
[ripubblicato col titolo Characteristic
Traits of Ancient Roman Religion, in Id., Pietas. Selected Studies in Roman Religion, Leiden 1980, pp. 223
ss.]; G. Lieberg, Considerazioni sull'etimologia e sul
significato di religio, in Rivista di
Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, pp. 34 ss.; R. Muth, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 290
ss.; R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin,
in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, Paris 1979, pp. 30 ss.; E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia
Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 423 ss.
[10] Già il poeta Ennio aveva cantato, in
questo modo, l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est (Svetonius, August. 7: cum, quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum
conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non solum novo
sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato
quid consecratur augusta dicatur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut
etiam Ennius docet scribens: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est.);
cfr. anche Livius 1.4.1: Sed debebatur,
ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii
principium. Le varie ‘fondazioni’, di cui Roma sarebbe stata oggetto in
epoche diverse, sono state studiate da A. Grandazzi,
La fondation de Rome. Réflexion sur
l’histoire, Paris 1991; di cui vedi, in part. p. 195, dove lo studioso
francese sostiene che i Romani ebbero piena coscienza di questo «recommencement
perpétuel» che aveva caratterizzato la storia della loro città.
[11] D. 1.2.2.7 (Pomponius libro singulari enchiridii): Augescente civitate quia deerant quaedam genera
agendi, non post multum temporis spatium Sextus Aelius alias actiones composuit
et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum. Le implicazioni
giuridiche e politiche del concetto di civitas
augenscens, con particolare riguardo
alla raccolta di iura ordinata
dall’imperatore Giustiniano, sono state ben delineate da P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano,
Torino 1990, pp. xiv s. Sulla
stessa linea interpretativa, vedi ora M. P. Baccari,
Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in
memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996], pp. 759 ss.; Ead., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI,
[Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 9]
Torino 1996, pp. 47 ss.
[12] Vergilius, Aen. 1.275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavortia
condet / moenia Romanosque suo de nomine dicet. / His ego
nec metas rerum nec tempora
pono: / imperium sine fine
dedi. La forte carica ideologica e la
precisa connotazione religiosa del passo non sono sfuggite a P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, p. 54, per il quale proprio
sull’annuncio Imperium sine fine dedi
«sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu suprême repose pour ainsi dire
toute l’œuvre». Già i commentari antichi (cfr. Servius, in Verg. Aen. 1.278) avevano stabilito un nesso ben preciso tra l’imperium sine fine e l’eternità di Roma;
lo stesso orientamento si registra nella maggior parte della dottrina
contemporanea. Tuttavia, ad un esame più attento, il verso non sembra avere
univoco senso temporale. Lo interpretano in senso spazio/temporale sia G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974, p.
209; sia R. Turcan, Rome éternelle et les conceptions
gréco-romains de l’éternité, in Roma
Costantinopoli Mosca [Da Roma alla Terza Roma, Studi I], Napoli 1983, p.
16; mentre A. Mastino, Orbis, kosmos, oikoumene: aspetti spaziali
dell’idea dell’impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e
profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”,
Studi III], Napoli 1986, p. 71, sostiene che nei due versi Aen. 1, 278-279 è attestata la propensione augustea a superare
tutti i limiti di spazio: «l’impero romano era almeno teoricamente un imperium sine fine, che non aveva
frontiere». Per la bibliografia sul poema virgiliano, mi pare utile
rinviare a W. Suerbaum, Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine
systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis,
in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, II.31.1, Berlin-New York 1980, pp. 3 ss. Quanto alla divini et humani iuris scientia di Virgilio, vedi invece F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il
problema del "diritto internazionale antico", cit., pp. 17 ss.
[13] Cicero, De nat. deor. 2.8: Nihil nos P. Clodi bello Punico primo temeritas movebit, qui etiam per
iocum deos inridens, cum cavea liberati pulli non pascerentur, mergi eos in aquam
iussit, ut biberent, quoniam esse nollent? Qui risus classe devicta multas ipsi
lacrimas, magnam populo Romano cladem attulit. Quid collega eius L. Iunius
eodem bello nonne tempestate classem amisit, cum auspiciis non paruisset?
Itaque Clodius a populo condemnatus est, Iunius necem sibi ipse conscivit. C.
Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum
magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem
publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus
nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur,
religione, id est cultu deorum, multo superiores. Cfr anche De nat. deor. 1.117 (religionem, quae deorum cultu pio continetur);
De leg. 1.60 (cum suis, omnesque natura
coniunctos suos duxerit, cultumque
deorum et puram religionem susceperit); 2.30 (Quod
sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum,
ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non
possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper
populum indigere. Discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus
praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint
sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset
infinitum, neque ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra
collegium nosset); ed ancora De har.
resp. 18 (Ego vero primum habeo
auctores ac magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta
fuisse sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum
prudentiam non dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint; qui statas
sollemnisque caerimonias pontificatu, rerum bene gerendarum auctoritates
augurio, fatorum veteres praedictiones Apollinis vatum libris, portentorum
expiationes Etruscorum disciplina contineri putaverunt).
Una diversa definizione di religio è data da Servius, in Verg. Aen. 8.349: religio
id est metus, ab eo quod mentem religet dicta religio). Sull'uso del
termine nelle opere di Virgilio, vedi E.
Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana, IV, cit., pp.
423 ss.
[14] Per la definizione di pax deorum, vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten
Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, pp. 186 ss.; ampi riferimenti alle fonti
attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla in P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
19, 1953, pp. 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova
1985, pp. 226 ss.]; ai quali sono da aggiungere: J. Bayet, La religion romaine. Histoire
politique et psychologique, (1957), 2a ed., Paris 1969 [rist. 1976], pp. 57 ss. [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G.
Pasquinelli, Torino 1959 (rist. 1992), pp. 59 ss.]; M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma,
in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di pax
e pax deorum, in Le concezioni della pace. VIII Seminario
Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma",
Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss.; Id., Mito e storia
nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 ss. (Appendice I:
"Tempo della città e pax deorum:
l'infissione del clavus annalis");
F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico",
cit., pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente); Id., Populus et religio dans la Rome
républicaine, in Archivio Storico e
Giuridico Sardo di Sassari 2, N. s., 1995 (ma 1996), pp. 77 ss.; Id., La negazione nel linguaggio precettivo dei sacerdoti romani, in Il Linguaggio dei Giuristi Romani. Atti del
Convegno Internazionale di Studi, Lecce, 5-6 dicembre 1994, a cura di O.
Bianco e S. Tafaro, [Università di Lecce – Dipartimento di Scienze
dell’Antichità. Studi di Filologia e Letteratura 5, 1999] Galatina 2000, pp.
176 ss.; infine, ma con qualche riserva, R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una
sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996,
pp. 167 ss.
[15] M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, p. 195: «La conception – d'ordre philosophique – du monde
romain est celle d'un ensemble de rapports ou de forces en équilibre: toute
action humaine affecte par définition cette harmonie naturelle et trouble
l'ordre voulu par les dieux. D'où la nécessité, avant (ou, au pire, après)
toute action, de se concilier l'accord des dieux témoignant leur adhésion. La
paix universelle est alors sauvegardée. La religion consiste ainsi à rester en
bons rapports avec les dieux, pour les avoir avec soi».
[16] Cfr. in tal senso, P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 49 [= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., p. 224].
[17] Ho utilizzato l’espressione «sistema
giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle
motivazioni offerte da P. Catalano,
Linee del sistema sovrannazionale romano,
Torino 1965, pp. 30 ss., in part. p. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali
del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia,
cit., pp. 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57; con il quale concorda, in
parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa.
Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis Humanae'', Roma 1991, pp. 34 s.
Contro, R. Orestano, Diritto. Incontri e scontri, Bologna
1981, pp. 395 ss.; Id., Le nozioni di ordinamento giuridico e di
esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, pp. 959 ss., in
part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano,
Bologna 1987, pp. 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3ª
ed., Torino 1996, pp. 10 ss.; e parzialmente da A. Guarino, L’ordinamento
giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, pp. 56 s.
[18] J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit
public à la fin de la République, in Aa.Vv.,
Des ordres à Rome, direction de C.
Nicolet, Paris 1984, pp. 269 s.: «La République
est effectivement une association de trois partenaires: les dieux, le peuple et
les magistrats»
[19] Cicero, Pro Rabir. per. 5: ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabus immortalibus, quorum ope et
auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio
gubernatur, pacem ac veniam peto; Ovidius, Amor. 1.2.21: veniam pacemque
rogamus; Livius 39.10.5: pacem
veniamque precata deorum dearumque. Cfr. Plautus, Merc. 678: Apollo, quaeso te
ut des pacem propitius; Livius 1.16.3: pacem
praecibus exposcunt; 3.7.8: veniam
irarum caelestium finem pesti exposcunt; Seneca, Med. 595: Parcite, o divi,
veniam precamur. Per una
più ampia raccolta delle fonti sul pacem
deum petere da parte degli uomini e sul pacem
dare degli dèi, rinvio al libro di H.
Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke, cit., pp. 186 ss.
[20] Vergilius, Aen. 12.849-852: Hae Iovis ad
solium saevique in limine regis / apparent acuuntque metum mortalibus aegris, /
si quando letum horrificum morbosque deum rex / molitur, meritas aut bello territat
urbes; per quanto nella teologia tradizionale Iuppiter non era legato alla morte, come possiamo leggere nel
commento a Virgilio del grammatico Servius, in
Verg. Aen. 12.851: letum horrificum volunt Iovem non esse
morti auctorem, sed posse mortis genere vel prodesse vel obesse mortalibus.
[21] M. Sordi, Pax deorum e la libertà
religiosa nella storia di Roma, cit.,
p. 147: «L'antichità della formula e la derivazione di pax dalla radice di pangere,
che si ritrova nell'uso arcaico di pangere
clavum, che Livio ricorda tra i piacula
destinati, durante la pestilenza del 364 e del 363 varr., "pacis deum exposcendae
causa" (Liv. VII, 2 e 3), mi induce ad avanzare l'ipotesi che pax deum sia addirittura all'origine del
concetto romano di pax».
[22] E. Montanari,
Il concetto originario di pax e la pax deorum, cit., p. 56: «In definitiva – scrive lo studioso – la
principale obiezione che riteniamo di muovere all’interpre-tazione della Sordi,
concerne il suo tentativo di dimostrare l’anteriorità genetica del concetto
religioso di pax deorum rispetto al
concetto giuridico-politico di pax.
Ci sembra più opportuno parlare di concomitanza: sia perché si rischierebbe altrimenti
di postulare una categoria a-priori di “religione”, anteriore e ben distinta
rispetto a quella di “diritto”, cosa difficilmente proponibile per la Roma
arcaica; sia perché, sovente, tanto le situazioni da espiare quanto gli
operatori scelti per l’espiazione implicano non soltanto un prodigium, segno della deorum ira, ma anche un elevato grado di
tensione politico-sociale; sia perché ogni pax
giuridica avente pubblica rilevanza è comunque pronunciata sotto la tutela dei di testes foederis ed, anzitutto, di
Giove» [= Id., “Tempo della città
e pax deorum”, cit., pp. 92 s.].
[23] Plautus, Poen. 252-2533: Ergo amo te. Sed hoc nunc responde [mihi]: /
Sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet adesse?.
[24] Lucretius, De rer. nat. 5.1226-1230: Summa etiam cum vis violenti per mare venti
/ induperatorem classis super aequora verrit / cum validis pariter legionibus
atque elephantis, / non divom pacem votis adit, ac prece quaesit / ventorum
pavidus paces animasque secundas?.
[25] Aen.
3.369-373: Hic Helenus caesis primum de
more iuvencis / exorat pacem divom vittasque resolvit / sacrati capitis, meque
ad tua limina, Phoebe, / ipse manu multo suspensum numine ducit, / atque haec
deinde canit divino ex ore sacerdos. Questo è anche l'unico testo di Virgilio in cui troviamo
esplicitamente menzionata l'espressione pax
deorum ; il contenuto, poi, è di particolare solennità rituale (cfr. C. Bailey, Religion in Virgil, Oxford 1935, p. 47; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto
internazionale antico", cit., p. 262), in quanto il verbo exorare nel linguaggio sacerdotale
significa impetrare, come del resto
aveva già spiegato il grammatico Servius, in
Verg. Aen. 3.370: exorat pacem divum aut de
sacrificantum more requirit, utrum tempus consulendi esset; nam et hoc vehementer
quaeritur, ut in sexto cum virgo poscere fata tempus ait; aut certe, quod et
melius est, de sacrificantum more ante nefas expiat ab harpyia praedictum, et
sic venit ad vaticinationem. Ut autem hic expiatam famem intellegamus sequens
efficit locus, ut aderitque vocatus Apollo, cum constet, nisi in hoc
intellexeris loco, famis causa nusquam invocatum esse Apollinis numen.
Dubitationem autem in hoc loco 'exorat' facit; nam 'orare' est petere,
'exorare' impetrare: ergo impetrat pacem aut ad inquirendum tempus, aut ad
mitigandum famis periculum.
[26] Livius 3.5.14; cfr. 7.2.2: nisi quod pacis deum exposcendae causa
tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit; 42.2.3: prodigia expiari pacemque deum peti
praecationibus, qui editi ex fatalibus libris essent, placuit.
[27] P. Voci,
Diritto sacro romano in età arcaica,
cit., p. 50 [= Id., Scritti di diritto
romano, cit., p. 225].
[28] B.
W. Frier, 'Libri Annales
pontificum Maximorum': the Origins of the Annalistic Tradition, Roma 1979
[2ª ed. Ann Arbor 1998]; J. Rüpke,
Livius, Priesternamen und die annales maximi, in Klio 75, 1993, pp. 155 ss.; M. Chassignet,
L’annalistique romaine, Tome I. Les
annales des pontifes et l’annalistique ancienne (fragments), Texte établi
et traduit par M. Ch., Paris 1996.
[29] Cfr. Livius 2.36.1; 3.5.14; 3.10.6;
4.9.3; 4.12.6; 4.21.5; 4.30.7; 5.13.4; 6.20.16; 7.2.2; 7.3.3; 7.27.1; 7.28.7;
8.6.9; 8.9.6-12; 8.25.1; 10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13; 22.3.11; 22.9.7;
22.36.6; 23.31.15; 23.36.10; 23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9; 25.7.7-9; 25.16.1;
25.17.3; 26.23.3-6; 26.45.9; 27.4.11; 27.11.1; 28.27.16; 30.2.9-13; 30.38.8.
Sul nutrito elenco di prodigi presenti nell'opera liviana, certo improntati -
direttamente o indirettamente - agli Annales
Maximi, vedi E. De Saint-Denis,
Les énumérations de prodiges dans l'œuvre
de Tite-Live, in Revue de Philologie
16, 1942, pp. 126 ss.; J. Ph. Packard, Official notices in Livy's fourth decade:
style and treatment, Ann Arbor 1970, pp. 125 ss.; E. Rawson, Prodigy list and the use of Annales Maximi, in The Classical Quarterly 21, 1971, pp. 158 ss.; infine il più
recente lavoro di B. MacBain, Prodigy and expiation: a study in religion
and politics in Republican Rome, Bruxelles 1982, pp. 82 ss. [Appendix A: index of prodigies].
[30] C. Bailey, Phases in the religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist.
Westport, Conn. 1972], p. 76: «Roman ritual, as it was later formulated in the ius divinum of the State-cult,
recognized four means (caerimoniae )
for securing and maintaining the pax
deorum, the relation of kindliness between gods and men».
[31] Riguardo al frammento di Ulpiano, mi
pare che possano ormai considerarsi superate sia affermazioni contrarie alla genuinità del
testo (F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, München
1934; qui cit. in trad. it.: I principii
del diritto romano, trad. it. a cura
di V. Arangio-Ruiz, Firenze 1949, p. 23 nt. 33; U. von Lübtow, Das
römische Volk. Sein Staat und sein
Recht, Frankfurt am Main 1955, p. 618: «Die merkwürdige Dreiteilung des ius publicum: in sacris, in sacerdotibus, in
magistratibus stammt sicherlich nicht von Ulpian»), sia dubbi e perplessità
(B. Albanese, Premessa allo studio del diritto privato
romano, Palermo 1978, p. 192 nt. 295). Favorevoli all'autenticità del
testo, fra gli altri: F. Stella Maranca,
Il diritto pubblico romano nella storia
delle istituzioni e delle dottrine politiche, in Id., Scritti vari di
diritto romano, Bari 1931, pp. 102 ss.; Silvio Romano, La distinzione fra ius publicum e ius
privatum nella giurisprudenza romana, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, IV, Padova 1940, pp.
157 ss.; G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla
ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946, pp. 152 ss.:
«Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (p. 161); Id., Il binomio pubblico-privato nella storia del
diritto, Napoli 1989, pp. 171 ss.; F. Wieacker,
Doppelexemplare der Institutionen
Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélenges
De Visscher, II, Bruxelles 1949, p. 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è una suddivisione di inconfondibile stampo
repubblicano; A. Carcaterra, L’analisi del ius e della lex come elementi
primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 46, 1980, pp. 272 ss.; G. Aricò Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 37, 1983,
pp. 447 ss., in part. 461 ss.; H. Ankum, La noción de ius publicum en derecho romano, in Anuario de Historia del Derecho Español
53, 1983, pp. 524 ss.; M. Kaser,
Ius publicum und ius privatum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte (R. A.) 103, 1986, pp. 6 ss.; F. Sini, Bellum nefandum.
Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., p. 223
nt. 112; P. Stein, Ulpian and the Distinction between ius
publicum and ius privatum, in Collatio
iuris Romani. études dédiées à
Hans Ankum à l’occasion de son 65ème anniversaire, II, Amsterdam 1995, pp.
499 ss.; V. Marotta,
Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000,
pp. 153 ss.
[32] P.
Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone),
in Studi in onore di Giuseppe Grosso,
VI, Torino 1974, p. 676; con adesione di C. Nicolet,
Notes complémentaires, in Polybe, Histoires, Livre VI, Paris 1977, pp. 149 ss.; e di J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, cit., pp.
269 ss.
[33] Cicero, De leg. 2.19 ss.; 3.6 ss. V. Marotta, Ulpiano e
l’impero, I, cit., p. 157, sostiene che «Ulpiano, scrivendo che "ius publicum in sacris, in sacerdotibus …
consistit", rinnova, nella peculiare situazione politica e religiosa
dei suoi tempi, il punto di vista tradizionale di derivazione ciceroniana: se
gli auspici di Romolo e i riti di Numa posero le fondamenta della res publica,
Roma appartiene ai suoi dèi in ogni momento e in ogni aspetto della vita
quotidiana».
[34] F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica, cit.,
213-214: «Questa simiglianza rappresenta un
fatto di notevole portata, in quanto consente di definire con precisione la
matrice ideologica della concezione ciceroniana e ulpianea del ius publicum. Essa trae le sue radici da
una gerarchizzazione assai antica delle parti del ius publicum, sostanzialmente antiplebea, risalente di certo alla
elaborazione sacerdotale di età precedente al pareggiamento dei due ordini, o
ad età immediatamente successiva: prova di ciò può trovarsi nel fatto che con
l’avvento dei plebei alle magistrature, questi introdussero la consuetudine non
solo di cumulare magistratura e sacerdozio, ma di anteporre gli honores ai sacerdotia (schema ancora conservato in Varrone, De ling. Lat. 5,80-86), che divenne
tipica dell’età medio-repubblicana».
[36] F. D'Ippolito, Giuristi e sapienti
in Roma arcaica, Roma-Bari 1986; F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C.,
[Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 8]
Torino (1992) 1995.
[37] Resta ancora valido, per molti versi, il
lavoro di W. W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the
Republic. An Introduction to the Study of the Religion of the Romans, 1899
(qui citato nella ristampa London 1925); da vedere anche P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, pp. 322 ss.; E. Vetter, Zum altrömischen Festkalender, in Rheinisches Museum für Philologie 103, 1960, pp. 90 ss.; M. Le Glay, La religion romaine, Paris 1971, pp. 13 ss.; A. Pastorino, La religione romana, Milano 1973, pp. 22 ss.; A. J. Pfiffig, Religio etrusca, Graz
1975, pp. 91 ss; G. Dumézil, Fêtes romaines d’été et d’automne, suivi de
dix questions romaines, Paris 1975 [= Id.,
Feste romane, trad. it. a cura di M.
Del Ninno, Genova 1989]; D. P. Harmon, The Public Festival of Rome, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
II.16.2, Berlin-New York 1978, pp. 1440 ss.; H. H. Scullard, Festivals and
Ceremonies of the Roman Republic, London 1981 pp. 51 ss. [= Id., Römische Feste. Kalender und Kult, trad. tedesca, Mainz am Rhein
1985, pp. 75 ss.].
[38] A. K.
Michels, The Calendar of the Roman
Republic, Princeton 1967, p. 5:
«The pax deorum, the absence of divine anger, is sought by all the great
religious ceremonies of the state on behalf of the populus Romanus Quiritium, the body of Roman citizens.
All the activities of the state, those which to us seem secular as well as
those which are clearly religious, must be carried out at times which meet with
the approval of the gods, as it is interpreted by the priests, because the
orderly conduct of public affairs is to the Roman both necessary for the
maintenance of the pax deorum, and also evidence that it has
been maintained. Disorder in the state is evidence that the gods are angry».
[39] P. Braun, Les tabous des
«feriae», in L’Année Sociologique,
3ª ser., 1959 [ma 1960], pp. 49 ss.; rilevava lo studioso francese come nella
pratica esplicazione delle operae il
liberto fosse tenuto ad un operare in positivo, mentre il dovere dell’uomo
verso gli Dèi era di astenersi dalle attività vietate: «Ce caractère
obligatoire du respect des feriae
avait une valeur juridique à laquelle les romanistes ne se sont guère
intéressés; les feriae étaient, en
effet, des operae dues aux dieux: Feriae … operae deorum creditae sunt,
affirme Deutero-Servius. On
pourrait évidemment considérer que operae
signifie ici journée de travail. Mais le texte du commentateur de Virgile est
bien plus précis; il s’agit d’operae
au sens juridique. Nous sommes en présence d’une relation entre les dieux et
l’homme semblable à celle de l’affranchi et de son patron. Le parallélisme du
concept d’operae dans les deux cas
est frappant; le devoir de l’homme envers les dieux rappelle la notion
l’obsequium». […] L’homme doit se tenir à la disposition des dieux comme
l’affranchi est obligé d’être au service de son ancien maître. Le pouvoir du
patron sur l’affranchi va jusqu’au droit de vie et de mort; il est évident que
les dieux ont un pourvoir semblable sur les hommes. Cette soumission se
matérialise dans l’officium qui
signifie étymologiquement la prestation de services ou l’exécution d’une tâche.
Le terme operae désigne ces services;
mais, alors que l’affranchi est tenu à une action positive, le devoir de
l’homme envers les dieux est de s’abstenir des activités interdites» (pp.
54-55).
[40] Sulle implicazioni di questo passo di
Servio Danielino nella prospettiva di una ricostruzione delle materie raccolte
ed elaborate nei libri pontificum, si vedano, pur nella
diversità di valutazioni, G. Rohde,
Die Kultsatzungen der römischen Pontifices,
Berlin 1936, pp. 40 s.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica,
cit., pp. 109 s.
[41] Cato, De agr. 4: Per ferias potuisse fossas veteres tergeri,
viam publicam muniri, vepres recidi, hortum fodiri, pratum purgari, virgas
vinciri, spinas eruncari, expinsi far, munditias fieri.
[42] Vergilius, Georg. 1.268-272: Quippe
etiam festis quaedam exercere diebus / fas et iura sinunt: rivos deducere nulla
/ religio vetuit, segeti praetendere saepem, / insidias avibus moliri,
incendere vepres / balantumque gregem fluvio mersere salubri. Su questi
versi risultano, per molti versi, ancora valide le riflessioni di W. W. Fowler, Roman Essays and Interpretations, Oxford 1920, pp. 79 ss.
[43] Columella, De re rust. 2.21 (Quae per ferias liceat agricolis et quae non liceat facere): Sed cum tam otuii quam negotii rationem
reddere maiores nostri censuerunt, nos quoque monendos esse agricolas
existimamus, quae feriis facere quaeque non facere debeant. Sunt enim, ut ait
poeta, quae «festis exercere diebus / fas et iura sinunt: rivos deducere nulla
/ religio vetuit, segeti praetendere saepem, / insidias avibus moliri,
incendere vepres / balantumque grege fluvio mersere salubri». Quamquam
pontifices negant segetem feriis saepiri debere; vetant quoque lanarum causa
lavari oves nisi propter medicinam. Vergilius, quos liceat feriis flumine
abluere gregem, praecipit et idcirco adicit «fluvio mersere salubri», id est
salutari; sunt enim vitia, quorum causa pecus utile sit lavare. Feriis autem
ritus maiorum etiam illa permittit: far pinsare, faces incidere, cadelas
sebare, vinea conductam colere, piscinas, lacus, fossas veteres tergere et
purgare, prata sicilire, stercora aequare, foenum in tabulata componere,
fructus oliveti conductos cogere, mala, pira, ficos pandere, caseum facere,
arbores serendi causa collo vel mulo clitellario adferre; sed iuncto advehere
non permittitur nec adportanda serere neque terram aperire neque arborem
conlucare, sed ne sementem quidem administrare, nisi prius catulo feceris, nec
faenum secare aut vincire aut vehere.Ac ne vindemiam quidem cogi per religiones
pontificum feriis licet nec ovis tondere, nisi si catulo feceris. Defructum
quoque facere et vinum defrutare licet. Uvas itemque olivas conditu legare
licet. Pellibus oves vestiri non licet. In horto quicquid holerum causa facias,
omne licet. Feriis publicis hominem mortuum sepeliri non licet. M. Porcius Cato
mulis, equis, asinis nullas esse farias ait, idemque boves permittit coniungere
lignorum frumentorum advehendorum causa. Nos apud pontifices legimus fereis
tantum denicalibus mulos iungere non licere, ceteris licere.
[44] Intorno all’elaborazione teologica e
giuridica di questo sommo giurista dell’età repubblicana, vedi fra gli altri:
G. Lepointe, Quintus Mucius Scaevola. I. Sa vie et son oeuvre juridique. Ses
doctrines sur le droit pontifical, Paris 1926, a cui rimando per la
bibliografia precedente; F. Schulz,
Storia della giurisprudenza romana,
cit., pp. 81 ss.]; O. Behrends, Die Wissenschaftslehre im Zivilrecht des Q.
Mucius Scaevola, in Nachrichten der
Akademie der Wissenschaften in Göttingen (Philologisch-Historische Klasse), 1976, pp. 265 ss.; M. Talamanca, Costruzione giuridica e strutture sociali fino a Quinto Mucio, in Aa.Vv., Società romana e produzione schiavistica. 3. Modelli etici, diritto e
trasformazioni sociali, Roma-Bari 1981, pp. 15 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics. A study of Roman jurists in their
political setting, 316-82 BC, München 1984, pp. 340 ss.; F. Bona, Cicerone e i “libri iuris civilis” di Quinto Mucio Scevola, in
Aa.Vv., Questioni di giurisprudenza
tardo-repubblicana. Atti di un Seminario (Firenze, 27-28 maggio 1983),
Milano 1985, pp. 205 ss.; A. Schiavone,
Giuristi e nobili nella Roma repubblicana,
Roma-Bari 1987, pp. 25 ss.; Id., Linee di storia del pensiero giuridico
romano, Torino 1994, pp. 47 ss.
Per quanto riguarda la teologia muciana, theologia tripertita, che notoriamente sta alla base del pensiero teologico
varroniano, vedi il saggio di G. Lieberg,
Die Theologia tripertita in Forschung und
Bezeugung, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt, I.4, Berlin-New York 1973, pp. 63 ss. (a pp. 107 ss.
sono raccolte le fonti fondamentali per la conoscenza della theologia tripertita), a cui rimando per la discussione della bibliografia
anteriore al 1970. Fra la dottrina più recente, sono da vedere: A. Schiavone, Quinto Mucio teologo, in Labeo
20, 1974, pp. 315 ss. [= Id., Nascita della giurisprudenza. Cultura
aristocratica e pensiero giuridico nella Roma repubblicana, 2ª ed., Bari
1977, pp. 5 ss.]; J. Pépin, Remarques sur les sources de la ‘theologia
tripertita’ de Varron, in Varron.
Grammaire antique et stylistique latine. Recueil offert à Jean Collart,
Paris 1978, pp. 127 ss.; G. Lieberg,
Die theologia tripertita als Formprinzip antiken
Denkens, in Rheinisches Museum für
Philologie 125, 1982, pp. 25 ss.; A. Dihle,
Die Theologia tripertita bei Augustin,
in Geschichte - Tradition - Reflexion. Festschrift für Martin Hengel zum 70. Geburtstag, II. Griechische und Römische Religion, hrg.
von H. Cancik, Tübingen 1996, pp. pp. 183 ss.
[45]. Ph. E. Huschke,
Iurisprudentiae Antejustinianae quae
supersunt, editio quinta, Lipsiae 1886, p. 15 fr. 12; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt. Par prior: Liberae
Reipublicae iuris consulti, Lipsiae 1896 [rist. an., Roma 1964], p. 57 fr.
2. Sul testo muciano vedi G. Lepointe,
Quintus Mucius Scaevola, cit., pp. 93
s.; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices,
cit., 41.
[46] Ovidius, Fast. 1, 47-48: Ille nefastus erit per quem tria verba silentur; / Fastus erit, per
quem lege licebit agi. Gaius, Inst.
4, 29: praeterea quod nefasto quoque die,
id est quod non licebat lege agere, pignus capi poterat. Cfr. inoltre Festus, p. 162 L.;
Macrobius, Sat. 1, 16, 14; Isidoro, Orig. 6, 18, 1.
[47] Per un primo approccio alla nozione di nefas, J. Paoli, Le monde juridique du paganisme romain. Introduction à l'étude du domaine interdit
des dieux dans le temps (nefas), in Revue Historique de Droit Français et Étranger 23, 1945, pp. 1 ss.;
H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris
1963, pp. 127 ss.; P. Cipriano, Fas e nefas, Roma 1978.
[48] Vedi anche Livius 3.7.6-8: Haud minor Romae fit morbo strages quam
quanta ferro sociorum facta erat. Consul qui unus supererat moritur; mortui et alii clari viri, M'. Valerius,
T. Verginius Rutulus augures, Ser. Sulpicius curio maximus. Et per ignota
capita late vagata est vis morbi, inopsque senatus auxilii humani ad deos
populum ac vota vertit: iussi cum coniugibus ac liberis supplicatum ire
pacemque exposcere deum. Ad id quod sua quemque mala cogebant
auctoritate pubblica evocati omnia delubra implent. Stratae passim matres,
crinibus templa verrentes, veniam irarum caelestium finemque pesti exposcunt. 42.2.3-7: Cum bellum Macedonicum in expectatione esset, priusquam id
susciperetur, prodigia expiari pacemque deum peti precationibus, qui editi ex
fatalibus libris essent, placuit. Lanuvi classis magnae species in caelo visa
dicebatur, et Priverni lana pulla terra enata, et in Veienti apud Rementem lapidatum;
Pomptinum omne velut nubibus lucustarum coopertum esse; in Gallico agro, qua
induceretur aratrum, sub existentibus glebis pisces emersisse. Ob haec prodigia
libri fatales inspecti, editumque ab decemviris est, et [ex] quibus diis
quibusque hostiis sacrificaretur, et ut supplicatio prodigiis expiandis fieret.
Alteraque, quae priore anno ualetudinis populi causa uota esset, ea uti fieret
feriaeque essent. Ita sacrificatum supplicatumque est, ut decemviri scriptum
ediderant.
[49] Sulla figura del primo sovrano sabino di
Roma, cfr. K. Glaser, v. Numa
Pompilius, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft, XV.1, Stuttgart 1936, coll. 1242 ss.; J.
Gagé, Apollon romain. Essai sur le culte d’Apollon et le développement du ritus
Graecus à Rome des origines à Auguste, Paris
1955, pp. 297 ss.; S. Accame, I re di Roma nella leggenda e nella storia,
Napoli s.d. (1965), pp. 206 ss.; R. M. Ogilvie,
A Commentary on
Livy. Books 1-5, Oxford 1965 [Reprinted 1998], pp. 90 ss.; J. Poucet, Recherches sur
la légende sabine des origines de Rome, Louvain-Kinshasa 1967, pp. 138 ss.;
A. Storchi Marino, C. Marcio Censorino, la lotta politica intorno al pontificato e la
formazione della tradizione liviana su Numa, in Aion (Archeol.) 14, 1992, pp. 105 ss.;
V. Buchheit, Numa-Pythagoras in der Deutung Ovids, in Hermes 121, 1993, pp. 77 ss.
[50] A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome. Étude historique sur les institution
religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], pp. 60-61: «La meilleure analyse des livres liturgiques serait donc l’étude
complète du culte romain. Mais notre plan est plus restreint. Oublions pour un
moment la variété des divers actes religieux, consécrations, vœux, expiations…
etc., dont nous aurons occasion de parler au chapitre suivant, et bornons-nous
à remplir avec quelques rares débris de textes mutilés le cadre indiqué par
Tite-Live: quibus hostiis, quibus diebus,
ad quae templa sacra fierent».
[52] E. Peruzzi,
Origini di Roma, II. Le lettere,
Bologna 1973, pp. 165 s. La divisione delle
materie prospettata dal Peruzzi è la seguente: A) caelestes caerimoniae,
comprendente i sacra dei collegi sacerdotali
maggiori e gli altri sacra pubblici e
privati, divise in cinque capitoli: 1 quibus
hostiis, 2 quibus diebus, 3 ad quae
templa, 4 unde in eos sumptus pecunia, 5 cetera
publica privataque sacra; B) 6 iusta
funebria et ad placandos manes; C) 7 prodigia
fulminibus aliove quo visu missa.
[53] E. Peruzzi,
Origini di Roma, II, cit., p. 162: «Tutti i precisi particolari di Liu. 1.20.5-7
sul pontefice, che, ripeto – scrive lo studioso –, è l’ultimo dei sacerdoti
elencati e tuttavia, unico fra tutti, è perfino rammentato con piena formula
onomastica, denotano che la fonte prima da cui deriva la notizia dello storico
patavino è un testo redatto dai pontefici: verosimilmente (poiché si tratta di
una notizia storica, non di norme religiose o giuridiche), gli annales maximi». Cfr. Id., Origini di Roma, I. La famiglia, Firenze
1970, pp. 142 ss.: «L’importanza di questo argomento e silentio è indubbia: la
principale fonte scritta degli storici di Roma sono gli annales maximi, e, come
è verosimile che dedicassero particolare attenzione a fatti di significato
religioso, così è assolutamente certo che essi erano il documento più preciso e
minuzioso della tradizione pontificale. Ora, il passo di Liu. 1.20.5 è una
scarna notizia, espressa non meno ieiune
di quelle degli annales, che reca un
elemento davvero singolare. Trattando della più antica età regia, non di rado
lo storico patavino indica la parentela dei personaggi, sia pure concisamente
(per esempio 1.22.1 “Tullum Hostilium nepotem Hostili”, 1.34.1-2 “Lucumo … Demerati
Corinthii filius erat”), però questo è l’unico caso in cui egli menziona un
individuo con la sua formula onomastica, quale doveva apparire in registrazioni
burocratiche: Numa Marcius Marci filius; formula, si
noti, dell’età di Numa Pompilio, poiché questo sovrano, come diceva il
sarcofago riportato alla luce nel 181 a.C., si chiamava ufficialmente Numa Pompilius
Pomponi filius rex Romanorum. Ritengo probabile che la
notizia di Livio risalga in ultima analisi agli annales» (pp. 144 s.).
[54] Per le fonti vedi
Livius 1.19-20; Dionysius Hal. 2.64-73; Plutarchus, Numa 9-14. Fra gli studiosi che si sono occupati delle riforme
religiose attribuite a Numa sono da vedere: F. Ribezzo, Numa Pompilio
e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti dell'Accademia dei Lincei,
ser. VIII, vol. 5, 1950, pp. 553 ss.; E. M. Hooker,
The Significance of Numa's Religious
Reforms, in Numen 10, 1963, pp.
87 ss.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia
26, 1974, pp. 3 ss.; M. A. Levi, Il re Numa e i penetralia pontificum, in
Rendiconti dell'Istituto Lombardo
115, 1981 (pubbl. 1984), pp. 161 ss.; J. Martinez Pinna, La reforma de
Numa y la formación de Roma, in Gerión
3, 1985, pp. 97 ss.; J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire, Bruxelles 1985, in part. pp. 194 ss., 219 ss.;
infine L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella
'Storia di Roma arcaica' di Dionigi d'Alicarnasso, I parte, Napoli 1988,
pp. 128 ss.; G. Capdeville, Les institutions religieuses de la Rome
primitive d'après Denys d'Halicarnasse, in Pallas, 39, 1993, pp. 153 ss.
[55]
Plutarchus, Num. 14.6-7. Per una
rapida esposizione dei problemi relativi alle fonti della ‘vita di Numa’, vedi
L. Piccirilli, Introduzione, in Plutarco, Le vite di Licurgo e di Numa, a cura di
M. Manfredini e L. Piccirilli, Milano 1980, pp. XLII ss.
[56] Servius, in Verg. Buc. 5.66: Sane quaeritur, cur duo altaria Apollini se positurum dicat, cum
constet supernos deos impari gaudere numero, infernos vero pari, ut numero deus
impare gaudet, quod etiam pontificales indicant libri (P. Preibisch,
Fragmenta librorum pontificiorum,
Tilsit 1878, p. 13 fr. 56. Commenti al testo: A. Bouché-Leclercq, Les pontifes
de l'ancienne Rome, cit., p. 113; G. Rohde,
Die Kultsatzungen der römischen Pontifices,
Berlin 1936, pp. 37 s.; F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica,
cit., p. 109). Cfr. anche Servius Dan., in Verg. Buc. 8.75; Macrobius, Sat. 1.13.5.
[57] Plinius, Nat. hist.
14.88: Romulum lacte, non vino libasse indicio sunt sacra ab eo instituta,
quae hodie custodiunt morem. Numae regis
proxumi lex est: "Vino rogum ne respargito". Quod
sanxisse illum propter inopiam rei nemo dubitet. Eadem lege ex imputata vite
libari vina diis nefas statuit, ratione excogitata ut putare cogerentur alias aratores
et pigri circa, pericula arbusti. M. Varro auctor est Mezentium Etruriae regem
auxilium Rutulis contra Latinos tulisse vini mercede quod tum in Latino agro
fuisset. Su tale
divieto, vedi G. Piccaluga,
Numa e il vino, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni
33, 1962, pp. 99 ss.; Ead., Bona Dea.
Due contributi all’interpretazione del suo culto, Ibidem 35 1964 pp. 195 ss. G. Dumézil,
Vin et souveraineté, in Id., Fêtes romaines d'été et d'automne, suivi de
Dix questions romaines, Paris 1975, pp. 87
ss. [= Id., Feste romane, trad. it. di M. Del Ninno, Genova 1989, pp. 91 ss.];
più in generale, sul vino in età arcaica, vedi L. Minieri, Vini
usus feminis ignotus, in Labeo 28,
1982, pp. 150 ss.; M. Gras, Vin et société à Rome et dans le Latium à
l’époque archaïque, in Forme di contatto
e processi di trasformazione nelle società antiche. Atti del convegno di Cortona (24-30 Maggio 1981), Pisa-Roma 1983,
pp. 1067 ss.; G. Pucci, I consumi alimentari, in A. Schiavone (direz.), Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, Torino 1989, pp. 372
ss.
[58] Plinius, Nat. hist. 18.7: Numa instituit deos fruge colere et mola salsa supplicare atque, ut
auctor est Hemina, far torrere, quoniam tostum cibo salubrius esset, id uno
modo consecutus, statuendo non esse purum ad rem divinam nisi tostum. Cfr.
Servius Dan., in Verg. Buc. 8.82. D. Sabbatucci,
La religione di Roma antica, dal
calendario festivo all'ordine cosmico, Milano
1988, p. 61: «All’importanza politico-sociale della riunione faceva riscontro
l’importanza economico-religiosa del farro. Importanza economica: il farro è il
più antico cereale coltivato dai Romani, e forse il solo cereale fino al 5°
secolo a.C. Importanza religiosa: la farina di farro mista a sale, la
cosiddetta mola salsa, era indispensabile per l’esecuzione di ogni sacrificio,
tanto che immolare (cospargere di mola salsa
la vittima) era diventato sinonimo di sacrificare;
il matrimonio solenne, quello che non ammetteva divorzio ed era prescritto per
alcuni sacerdozi, quello che veniva celebrato dal pontefice massimo alla
presenza di sei testimoni, era chiamato confarreatio
da una focaccia di farro offerta dalla sposa». Sul farro nella religione
romana, cfr. anche A Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini,
2ª ed., Roma 1976, pp. 126 ss.
[59] Cfr. Livius
5.21.16: Convertentem se inter hanc
venerationem traditur memoriae prolapsum cecidisse; idque omen pertinuisse
postea eventu rem coniectantibus visum ad damnationem ipsius Camilli, captae
deinde urbis Romanae, quod post paucos accidit annos, cladem; Svetonius, Vitell. 2: Idem miri in adulando genii, prius C. Caesarem adorare ut deum
instituit, cum reversus ex Syria non aliter adire ausus esset quam capite
velato circumvertensque se, deinde procumbens.
[60] Arnobius, Adv. Nat. 2.73.18: Non doctorum in litteris continetur, Apollinis nomen Pompiliana
indigitamenta nescire? Sui nomina deorum che si
invocavano negli indigitamenta,
risulta di qualche utilità il vecchio lavoro di I. A. Ambrosch, Über die
Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; ancora indispensabili, invece, sia il
bel libro di A. Bouché-Leclercq, Les Pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 24 ss.; sia il manuale
di J. Marquardt, Römische
Staatsverwaltung, III. Das
Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an.
New York 1975], pp. 7 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, trad. francese di M. Brissaud, Paris
1889, pp. 10 ss.]; più di recente, vedi l'importante
articolo di J. Bayet, Les feriae sementivae et les indigitations
dans le culte de Cérès et de Tellus, in Revue
d'Histoire des Religions 137, 1950, pp. 172 ss. (ora in Id., Croyances et rites dans la Rome antique, Paris 1971, pp. 175 ss.);
ma anche G. B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 45
ss.; A. Pastorino, La religione romana, Milano 1973, pp.
199 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp.
50 ss. [=
Id., La religione romana arcaica, cit., pp. 46 ss.]; R. Del Ponte,
La religione dei Romani, Milano 1992,
pp. 78 ss.
[61] Servius, in Verg. Georg. 1.21: Quod autem dicit ‘studium quibus arva
tueri’, nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris
pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum continent,
quae etiam Varro dicit. Nam, ut supra diximus, nomina numinum ex
officiis constant imposita, verbi causa ut ab occatione deus Occator dicatur, a
sarratione Sarritor, a stercoratione Sterculinus, a satione Sator. Seguo la lezione del testo serviano
offerta da B. Cardauns: M. Terentius Varro, Antiquitates rerum
divinarum, I. Die Fragmente, Wiesbaden 1976, p. 64 fr. 87; l'insigne
studioso ritiene, non senza ragione, che il passo di Servio sia in realtà un
frammento varroniano, tratto dal XIV libro delle Antiquitates rerum divinarum [Op.
cit. II. Kommentar, p. 184]. Vedi anche, brevemente, F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 108 s.
[62] Sull’archivio dei pontefici, ma senza
pretesa di completezza bibliografica, si vedano: J.-V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains, recherches
précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments
des journaux de l’ancienne Rome, Paris 1838, in part. pp. 127 ss.; I. A. Ambrosch: Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus,
Breslau 1839, in part. pp. 159 ss.; Id.,
Observationum de sacris Romanorum libris
particula prima, Vratislaviae 1840; E. Luebbertus,
Commentationes pontificales, Berolini
1859; A. Bouché-Leclercq, Les Pontifes de l’ancienne Rome, cit., pp. 19 ss.; P. Preibisch, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; Id.,
Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; J. Marquardt, Römische
Staatsverwaltung, III, cit., pp. 299 ss. [= Id., Le culte chez les
Romains, II, cit., pp. 358 ss.]; R. Peter,
De Romanorum
precationum carminibus, in Commentationes Philologae in honorem Augusti
Reifferscheidii, Vratislaviae 1884, pp. 67 ss.; Id., Quaestionum
pontificalium specimen, Argentorati 1886; W. Rowoldt, Librorum pontificiorum
Romanorum de caeremoniis sacrificiorum reliquiae, Halis Saxonum 1906; C. W.
Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College,
København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal Westrup nel quarto volume
della sua opera di maggiore impegno: Introduction
to early Roman Law. Comparative
sociological studies, IV. Sources and Methods,
London-Copenhagen 1950); G. Rohde,
Die
Kultsatzungen der römischen Pontifices,
cit., pp. 14 ss.; R. Besnier, Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois,
in Studi in memoria di Emilio
Albertario, II, Milano 1953, pp. 1
ss.; G. B. Pighi, La religione
romana cit., pp. 41 ss.; infine F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma
antica, cit., pp. 17 ss.; J. A. North, The books of the pontifices, in La
mémoire perdue. Recherches sur l’administration
romaine, Avant-propos de C. Moatti,
Rome 1998, pp. 45 ss.
[63] E. Peruzzi, Origini di Roma, II, cit., pp. 155 ss.: «E quindi si dovrà
attribuire a exscripta exsignataque un preciso valore tecnico;
e ciò a tanto maggior ragione in quanto lo stile arido e minuzioso della
notizia liviana esclude che si possa vedere in tale binomio un’espressione
ridondante, come invece presuppongono certe versioni […] è impossibile dire cosa significhi
propriamente exsignatus nel passo liviano
(munito di sigillo impresso con un anello, accompagnato da una formula di
approvazione, da un explicit, ecc.),
ma l’espressione exscripta exsignataque
non lascia dubbio che il testo affidato al pontefice era una copia, integrale o
parziale, autenticata dal rex, degli
stessi libri latini “iuris
pontificii” che si ritroveranno nel 181 a.C., cioè un esemplare che Numa aveva
debitamente dichiarato conforme all’originale o comunque pienamente valido»
(pp. 162-163).
[64] Cfr. Varro, in
Festus, v. Opima spolia, p. 204 L. Quanto al rapporto tra i sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio e i più antichi
libri dei pontefici, vedi ora F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. pp. 160 s.: «è noto che nelle fonti la compilazione
dei ‘primi’ libri sacerdotali si
presenta strettamente connessa con l’organizzazione voluta dal re Numa
Pompilio; anzi, … tale compilazione deve essere considerata, anche
materialmente, opera dello stesso re. Del resto appare ben comprensibile
l’esigenza di testi scritti che la riforma religiosa di Numa dovette imporre,
se solo si consideri la complessità dei sacra
e delle caerimoniae e la minuziosa
regolamentazione dei sacrifici, testimoniati a proposito della religiosità di
quell’epoca. Che poi questi libri Numae abbiano costituito il nucleo
primitivo dei libri pontificum è sostenuto anche dalla
tradizione antiquaria».
[65]
Fra la dottrina più recente, sono da vedere: N.
Turchi, La religione di Roma
antica, cit., pp. 119 ss.; J.
Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit.,
pp. 129 ss. [= Id., La religione romana. Storia politica e
psicologica, cit., pp. 142 s.]; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 209 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 549 ss. [= Id.,
La religione romana arcaica, cit.,
pp. 477 ss.]; E. Kadletz, Animal sacrifice in Greek and Roman religion,
Diss. Washington 1976, Univ. Microfilms Inter., Ann Arbor, Mich. 1983; S. R. F.
Price, Between Man and God: Sacrifice in the Roman Imperial Cult, in The Journal of Roman Studies 70, 1980,
pp. 28 ss.; Aa.Vv., Le sacrifice dans l’Antiquité
[Entretiens sur l’Antiquité classique, 27], Genève 1981; Aa.Vv., Sacrificio e società nel mondo antico, a cura di C. Grottanelli e
N. F. Parise, Roma-Bari 1988; R. Turcan,
Religion romaine. 2.
Le culte, Leiden - New
York - København - Köln 1988, pp. 4 ss.; da ultima,
A. V. Siebert, Instrumenta sacra. Untersuchungen zu römischen Opfer-, Kult-
und Priestergeräten, Berlin-New York 1999, pp. 11 ss.
[66] Sulla parola vedi la spiegazione, con
forti implicazioni teologiche, offerta da Servius Dan., in Verg. Aen. 2.156: hostia vero victima et dicta quod dii
per illam hostiantur, id est aequi et propitii reddantur, unde hostimentum
aequationem.
[69] C. Krause, De Romanorum hostiis quaestiones selectae,
Diss. Marpurgi 1894, pp. 9 ss.; Id., v. Hostia, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, Suppl. V, Stuttgart 1931, coll.
236 ss.
[70] C. Blecher, De extispicio capita tria, in Religionsgeschichtliche Versuche und
Vorarbeiten 2, 1903-1905 [Gissae 1905], pp. 171 ss.
[71] J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 170 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., pp.
205 ss.].
[73] Insiste, assai opportunamente, sul
carattere comunitario della religione politeista romana J. Scheid, Religione e società, in A. Schiavone
(direz.), Storia di Roma, 4. Caratteri e
morfologie, cit., pp. 631 ss.: «Per praticare una religione a Roma,
occorreva appartenere a una comunità. L’uomo entrava in relazione con gli dèi
nel quadro e per il tramite di una comunità. Famiglia, associazione, corpo
costituito o repubblica, ciascuna comunità aveva una propria vita religiosa,
con le sue regole, i suoi dèi, i suoi sacerdoti. Un cittadino apparteneva generalmente
a più di una comunità, e fra queste esistevano rapporti di complementarità
piuttosto che di esclusione. Gli dèi stessi erano “visibili” soltanto nel
quadro di una comunità, e d’altra parte erano essi stessi membri di tali
comunità» (p. 634).
[74] Cfr. in
questo senso É. Benveniste,
Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, p. 223: «ce sont
les offrandes, qui sont bien de “sacrifices”, des moyens de rendre sacré, de
faire passer l’humain dans le divin».
[75] I. Chirassi Colombo, v. Hostia, in Enciclopedia Virgiliana,
II (DE-IN), Roma, 1985, p. 862: «Una valutazione lessicale ed etimologica del
termine rivela invece il suo valore specifico, di notevole interesse nel
complesso sistema sacrificale romano. H(ostia)
in rapporto con hostire = aequare (nam hostire pro aequare
posuerunt, Fest. p. 334,9; 414,37
L.), di modo che ogni hostimentum è
un aequamentum (Paul.-Fest. 91,11 L.)
o meglio una beneficii pensatio, e il senso di hostire = ferire è esplicitamente secondario, ci propone una valutazione del
sacrificio come strumento, modalità di scambio tra due posizioni, due dati che
si fronteggiano dialetticamente e dei quali uno viene a trovarsi in posizione
mancante, quindi bisognoso d’integrazione. Come uomini e dèi, nel caso
specifico».
[76] R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, cit., p. 4: «Il faut les faire agir,
comme on fait valoir la Terre Mère. Mais les dieux ont aussi besoin des hommes.
Varron déclarait craindre de les voir périr civium
neglegentia, victimes de la
négligence cultuelle des citoyens… Pour profiter de leur puissance, les Romains
doivent entretenir celle-ci par les sacrifices qui sont censés revigorer les
dieux».
[77] J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit.,
p. 130: «Beaucoup plus essentielle à la nature première du sacrifice la
rinvigoration du dieu dont l’aide est attendue. Macte, lui dit-on en lui offrant la matière consacrée: et ce
vocatif équivaut à “Prends (ou reçois) un surcroît de force”. Le verbe qui en
dérive, mactare, après avoir eu les
sens successifs d’ “accroître” et d’ “honorer” finit même par signifier
“immoler la victime”» [= Id., La religione romana. Storia
politica e psicologica,
cit., p. 142].
[78] É. Benveniste,
Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2, cit., p. 225: «Ainsi le présent dénominatif mactare signifie “rendre grand,
accroître”, c’est l’opération qui met dans l’état mactus. Les emplois les plus anciens, tel mactare deum extis, comportent le nom du dieu à l’accusatif et le
nom du sacrifice à l’instrumental. C’est donc rendre le dieu plus grand,
l’exalter, et en même temps le renforcer par l’offrande. Puis, par un
changement de construction analogue à celui qu’on connaît dans sacrare, s’est établie l’expression mactare victimam “offrir en sacrifice une victime”».
[79] P. Preibisch,
Fragmenta librorum pontificiorum,
cit., p. 19 fr. 120. Cfr. Varro, De ling.
Lat. 5.112: Augmentum, quod ex
immolata hostia desectum in iecore <imponitur> in por<ric>iendo
a<u>gendi causa. Magmentum a magis, quod ad religionem magis pertinet:
itaque propter hoc <mag>mentaria fana constituta locis certis quo id
imponeretur.
[80] Cfr. R. Turcan, Le sacrifice mithriaque: innovations de sens et de modalités, in Le Sacrifice dans l'Antiquité, cit., p. 361: «A l’origine, si l’on s’en rapporte au
sens premier du verbe mactare et à
une réflexion attristée de Varron sur les dieux qui meurent faute de service
religieux, l’immolation visait peut-être à accroître, renforcer, revigorer les
dieux à qui l’on sacrifie».
[81] Per
R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, cit., p.
4, anche la parola pietas
connoterebbe una simile reciprocità: «A l’origine, est pius le fidèle en état de pureté rituelle, qui est en règle avec les
dieux moyennant les expiations requises (piacula).
Piare, c’est apaiser la colère divine
provoquée par un forfait ou une négligence en procédant aux cérémonies
appropriées. Le souci de réparer un manquement est une marque de révérence,
mais réciproquement les avertissements que donnent les prodiges ou les auspices
défavorables manifestent de la part des dieux une sorte de sollicitude envers
les hommes, qui les force à se racheter ou à éviter les conséquences d’une
entreprise maléfique. Cette affection mutuelle est parallèle à la pietas des enfants à l’égard des
parents, comme des parents à l’égard des enfants. Il y a une pietas des dieux envers les hommes,
comme des hommes envers les dieux. Cette solidarité impliquée dans le culte est
une des originalités majeures de la religion romaine».
[82] Cfr., al riguardo, le suggestive
riflessioni di P. Catalano, Una
civitas communis deorum atque hominum: Cicerone
tra temperatio reipublicae e rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et
Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di
Gabrio Lombardi, II, Roma 1996] pp. 723 ss.
[83] Cicero, De leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque est et in homine et
in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem ratio, inter
eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege quoque
consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis,
inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei
civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et potestatibus parent,
multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique divinae et
praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una civitas communis deorum
atque hominum existimanda. Et quod in civitatibus ratione quadam, de qua
dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur status, id in rerum
natura tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut homines deorum
agnatione et gente teneantur. Su questo passo ciceroniano, cfr. K. M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen
Interpretation von Ciceros Schrift de legibus, Wiesbaden 1983, pp. 135 ss.;
M. Ducos, Les Romains et la
loi. Recherches sur les rapports
de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la fin de la République,
Paris 1984, pp. 225 ss.
[84] Cicero, De leg. 2.29: Quod ad tempus ut sacrificiorum libamenta serventur fetusque pecorum
quae dicta in lege sunt, diligenter habenda ratio intercalandi est, quod
institutum perite a Numa, posteriorum pontificum neglegentia dissolutum est.
Iam illud ex institutis pontificum et haruspicum non mutandum est, quibus
hostiis immolandum quoique deo, cui maioribus, cui lactentibus, cui maribus,
cui feminis. Cfr. G. Wissowa,
Religion und Kultus der Römer, cit.,
p. 413; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices,
cit., p. 169; K. Latte,
Römische Religionsgeschichte, cit.,
p. 210.
[85] J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit.,
p. 131: «C’était le sang de la victime qui (comme en presque toutes les
religions) passait pour le plus puissant régénérateur des forces de vie: l’âge
classique conservait encore des traces de l’aspersion de la face de l’idole
avec ce sang consacré ou du renouvellement périodique de la peinture rouge qui
en restait le symbole» [= Id., La religione romana. Storia
politica e psicologica,
cit., p. 143].
[86] Cfr. Servius, in Verg. Aen. 3.118: meritos unique aptos; ratio enim
victimarum fit pro qualitate numinum: nam aut haec immolantur quae obsunt eorum
muneribus, ut porcus Cereri, quia obest frugibus, hircus Libero, quia vitibus
nocet: aut certe ad similitudinem, ut inferis nigras pecudes, superis albas
immolent, item tempestati atras, candidas serenitati.
G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 550-551: «Les animaux,
pris usuellement dans les trois espèces qui, réunies, forment les suouetaurilia, doivent avoir certaines
corrélations symboliques avec les divinités qui les reçoivent. Selon une règle
assez généralement respectée, les dieux veulent des mâles et les déesses des
femelles. Jupiter et Junon préfèrent les bêtes blanches, les Di Manes et le nocturne
Summanus les noires, Vulcain les rouges; Jupiter les mâles châtrés, Mars les
mâles entiers. A l’époque où la Terre est grosse de la moisson à venir, ce sont
des vaches pleines, fordae, qui lui
sont livrées. Suivant les circonstances, les animaux sont choisis adultes ou
bien tout jeunes, mais déjà parfaits: hostiae
maiores, hostiae lactentes» [= Id., La religione romana arcaica, cit., p. 478].
[87] Quanto alla figura e all’opera di questo
giurista, fra la dottrina più recente, vedi M. Talamanca, Trebazio
Testa fra retorica e diritto, in Questioni
di giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un Seminario. Firenze 27-28
maggio 1983, a cura di G. G. Archi, Milano 1985, pp. 29 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican
politics: a study of the Roman jurists in their political setting in the Late Republic and
Triumvirate, München 1985, pp. 123 ss.; M. d’Orta, La
giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa,
Napoli 1990.
[88] Macrobius, Sat. 3.5.1: Cum enim
Trebatius libro primo de Religionibus doceat hostiarum genera esse duo, unum in
quo voluntas dei per exta disquiritur, alterum in quo sola anima deo sacratur,
unde etiam haruspices animales has
hostias vocant (E. Luebbertus,
Commentationes pontificales, cit., p.
103; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I,
cit., p. 405 fr. 3; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B.
Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta, I,
Lipsiae 1908 [Reprint Leipzig 1988], p. 44 fr. 3). Nello stesso senso,
Servius Dan., in Verg. Aen. 4.56: duo enim genera hostiarum sunt: unum, in quo
voluntas dei per exta exquiritur; alterum, in quo sola anima deo sacratur: unde
etiam aruspices animales hostias appellant.
Il frammento di Trebazio è stato
riesaminato di recente da M. Talamanca,
Trebazio Testa fra retorica e diritto,
cit., pp. 47 s., per il quale la distinzione delle hostiae in duo genera «non si riporterebbe tanto al ius sacrum
ed all’elaborazione pontificale dello stesso quanto all’haruspicina, l’Etrusca
disciplina che avrebbe per l’appunto conosciuto queste due diverse specie
di hostiae»; col quale mostra di concordare,
nella sostanza, anche M. d’Orta, La giurisprudenza tra Repubblica e
Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa, cit., pp. 77 ss. Al riguardo,
tuttavia, mi pare più condivisibile la posizione assunta da R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa,
cit., p. 41: a suo avviso, infatti, non si può dubitare che nel frammento
citato il giurista riferisse «correttamente una dottrina di diritto pontificale
[…] verosimilmente piuttosto arcaica, visto che nei duo genera (che nel passo
sembrano esaurire i tipi di sacrificio) non è ricompreso l’holocaustum, di derivazione greca».
[89] Servius, in Verg. Aen. 1.334: hostia dextra hostiae dicuntur sacrificia quae ab his fiunt qui in
hostem pergunt, victimae vero sacrificia quae post victoriam fiunt. Sed haec
licenter confundit auctoritas. Sul passo, vedi I.
Chirassi Colombo, v. Hostia, in Enciclopedia Virgiliana, II (DE-IN), cit., p. 862
[90] E. Luebbertus,
Commentationes pontificales, cit.,
pp. 107 ss.; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit.,
pp. 171 s. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., pp. 206 s.]; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., p. 412; N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 121 s.
[91] Servius, in Verg. Aen. 8.641: Aut certe illud ostendit, quia in omnibus
sacris feminini generis plus valent victimae. Denique si per marem litare
non possent, succidanea dabatur femina; si autem per feminam non litassent,
succidanea adhiberi non poterat.
[92] Servius, in Verg. Aen. 12.170: nam in rebus,
quas volebant finiri celerius, senilibus et iam decrescentibus animalibus
sacrificabant, in rebus vero, quas augeri et confirmari volebant, de minoribus
et adhuc crescentibus inmolabant.
[93] Veranio Flacco (o Q. Veranio), giurista
di diritto sacro e antiquario dell’età augustea, scrisse anche un’opera sugli
auspici, intitolata probabilmente Auspiciorum
libri: così M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur,
I, 4ª ed., München 1927 [rist. an. 1966], p. 600. Più in generale, vedi E.
A. Gordon, v. Veranius, in
Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, VIII A 1, Stuttgart 1955, col. 937. I frammenti sono
stati raccolti da F. P. Bremer, Iurisprudentiae
Antehadrianae, II.1, Lipsiae 1898 [rist. an. Roma 1964], pp. 5 ss.; H. Funaioli,
Grammaticae Romanae Fragmenta, cit.,
pp. 429 ss.; Ph. E. Huschke
- E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., pp. 50 ss.
[94] P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 19 fr. 113; F. P. Bremer,
Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1,
cit., p. 8 fr. 8; H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, I, Lipsiae 1907 [rist. an. Roma
1964], p. 431 fr. 4; Ph. E. Huschke - E. Seckel
- B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., p. 51 fr. 4.
[95] Cfr. al riguardo soprattutto G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 248 ss. [= Id., La religione romana arcaica, trad. it., cit., pp. 216 ss.]; da
ultimo D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario
festivo all'ordine cosmico, cit., p. 174.
[96] Sul
significato di questa cerimonia, cfr. K. Latte,
Römische Religionsgeschichte, cit.,
p. 119; R. M. Ogilvie, Lustrum condere, in The Journal of Roman Studies 51, 1961, pp. 31 ss.; G. Piéri, L'histoire du cens jusqu’à la fin de la République romaine, Paris 1968,
pp. 77 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p.
241 [= Id., La religione romana arcaica,
trad. it., cit., p. 210]. Per le modalità del censimento e piú in generale sul significato
del census vedi: J. Suohlati, The Roman Censors, Helsinki
1963, pp. 20 ss.; C. Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome
républicaine, Paris 1976, pp. 72 ss. [= Id.,
Il mestiere di cittadino nell`antica
Roma, trad. it., Roma 1980, pp. 64 ss.].
[97] Cato, De agr. 141: [1] Agrum
lustrare sic oportet: impera suovitaurilia circumagi: ‘cum divis volentibus
quodque bene eveniat, mando tibi, Mani, uti illace suovitaurilia fundum agrum
terramque meam, quota ex parte sive circumagi sive circumferenda censeas, uti
cures lustrare’. [2] Ianum Iovemque vino praefamino, sic dicito:’Mars pater, te
precor quaesoque, uti sies volens propitius mihi domo familiaeque nostrae:
quoius rei ergo, agrum terram fundumque meum suovitaurilia circumagi iussi:;
uti tu morbos visos invisosque, viduertatem vastitudinemque, calamitates
intemperiasque prohibessis defendas averruncesque; utique tu fruges, frumenta,
vineta virgultaque grandire beneque evenire siris; [3] pastores pecuaque salva
servassis duisque bonam salutem valetudinemque mihi domo familiaeque nostrae. Harunce
rerum ergo, fundi terrae agrique mei lustrandi lustrique facendi ergo, sicuti
dixi, macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto: Mars pater,
eiusdem rei ergo, macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto’. [4]
Item [esto item] cultro facito struem et fertum uti adsiet: inde obmoveto. Ubi
porcum inmolabis, agnum vitulumque, sic oportet: ‘eiusque rei ergo macte
suovitaurilibus immolandis esto’. Nominare vetat Martem neque agnum vitulumque.
Si minus in omnis litabit, sic verba concipito: ‘Mars pater, quod tibi {in}
illisce suovitaurilibus lactentibus neque satisfactum est te hisce suovitaurilibus
piaculo’. Si uno duobus dubitabit, sic verba concipito: ‘Mars pater, quod tibi
illoc porco neque satisfactum est, te hoc porco piaculo". Per le
implicazioni teologiche connesse al testo catoniano, restano ancora valide le
considerazioni di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 71 ss.; quanto alla
cerimonia, cfr. da ultimo D. Sabbatucci,
La religione di Roma antica, dal
calendario festivo all'ordine cosmico, cit., pp.
174 ss.
[98] Gellius, Noctes Atticae 4.6.5-7: “Succidaneae”
autem “hostiae” dicuntur, “ae” littera per morem compositi vocabuli in
<“i”> litteram mutata, quasi “succaedaneae” appellatae, quoniam, si
primis hostiis litatum non erat, aliae post easdem ductae hostiae caedebantur;
quae quia prioribus iam caesis luendi piaculi gratia subdebantur et
succidebantur, “succidaneae” nominatae, <“i”> littera scilicet tractim
pronuntiata. Eadem autem ratione verbi "praecidaneae" quoque hostiae
dicuntur, quae ante sacrificia sollemnia pridie caeduntur.
[99] D. 1.1.1.3 (Ulpianus libro primo institutionum): Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani
generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur,
avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam
nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus
etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.
[100] Risulta, invero, troppo semplicistica
nella sequenza storica, e venata di influenze evoluzionistiche, la spiegazione
del fenomeno offerta dal grande storico francese A. Bouché-Leclercq, Les pontifes
de l’ancienne Rome, cit., pp. 98 s.: «Le principe de la substitution est
l’essence même et la raison d’être du sacrifice. Le sacrifice est
avant tout une expiation: or, l’expiation doit frapper le coupable, et c’est ainsi
que l’entendait, à Rome même, la religion primitive qui livrait aux dieux et
déclarait sacrés les criminels. Mais il dut arriver que des coupables étaient
assez puissants ou assez aimés pour se soustraire à l’expiation, que des
sociétés, croyant être en butte à la colère divine, voulaient se purifier sans
se détruire; alors, les uns et les autres imaginèrent de sacrifier à leur place
des hommes qui, par une fiction légale, endossaient la responsabilité des
crimes à expier. … Ce principe une fois admis, il n’y avait plus qu’un pas à faire
pour mettre la piété d’accord avec l’humanité; les dieux, de plus en plus
complaisants, se contentèrent du sang des animaux; ceux d’entre eux qui ne
voulurent pas renoncer à leurs anciennes habitudes lâchèrent la proie pour
l’ombre et laissèrent remplacer sur leurs autels les hommes par des poupées».
[101] Servius, in Verg. Buc. 4.43: Sane in Numae legibus cautum est, ut, siquis imprudens occidisset
hominem, pro capite occisi agnatis eius in contione [nei codici in cautione; la
correzione risale allo Scaligero]
offerret arietem (= C. G. Bruns, Fontes
Iuris Romani Antiqui, 6ª ed., Friburgi et Lipsiae 1893, p. 10 fr. 13; S. Riccobono, Fontes Iuris Romani Antejustiniani, Pars prima, Leges, 2ª ed.,
Florentiae 1941, p. 13 fr. 17). Sull’importante testo serviano, conserva ancora
la sua utilità l’ampio commento di M. Voigt,
Über die leges regiae, I. Bestand und
Inhalt der leges regiae, in Abhandlungen
der Königl. Sächsischen
Gesellschaft der Wissenschaften zu Leipzig. Philologisch-Historische
Classe, VII, 6, Leipzig
1876, pp. 618 ss.; mentre, fra la dottrina più recente, è veramente
fondamentale il lavoro di S. Tondo,
Leges regiae e paricidas, Firenze
1973, pp. 89 ss.; da consultare anche C. A. Melis, Arietem offerre. Riflessioni attorno all'omicidio involontario in età arcaica, in Labeo 34, 1988, pp. 135 ss.
[102] Ampia discussione del testo serviano,
con puntuali riferimenti agli aspetti fenomenici nel diritto pontificio del
principio generale ivi enunciato, nel recente lavoro di E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico
all’epoca augustea, Padova 1997, pp. 69 ss. Sul principio della
sostituzione cfr. A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 98-99; più di recente G.
Capdeville, Substitution de victimes dans les sacrifices d’animaux à Rome, in Mélanges de l’école Française de Rome (Antiquité) 83, 1971, pp. 283 ss.
[103] Plinius, Nat. hist. 30.12: Extant certe et apud Italas gentes vestigia eius in
xii
tabulis nostris aliisque argumentis, quae priore volumine exposui. dclvii demum
anno Urbis Cn. Cornelio Lentulo P. Licinio Crasso cos. senatusconsultum factum est, ne homo
immolaretur, palamque fit, in tempus
illud sacra prodigiosa celebrata.
[104] Per l’inquadramento del passo, vedi Th. Köves-Zulauf, Reden und Schweigen. Römische Religion bei
Plinius Maior, München 1972, p. 153 n. 159; quanto alla fonte, per F. Münzer, Beiträge zur
Quellenkritik der Naturgeschichte des Plinius, Berlin 1897, p. 177,
l’intero paragrafo deriverebbe da M. Terenzio Varrone.
[105] P. Fabre,
Minime Romano sacro. Note sur un passage de Tite-Live et les sacrifices
humains dans la religion romaine, in
Revue des Etudes Anciennes 42, 1940, pp. 419 ss.;
[106] Sull’origine e sulle finalità religiose di
questa e delle altre sepolture rituali della religione romana, vedi: H. Diels, Sibyllinische Blätter, Berlin 1890, pp. 85 ss.; C. Cichorius, Staatliche Menschenopfer, in Id., Römische Studien. Historisches
epigraphisches literargeschichtliches aus vier Jahrhunderten Roms,
Leipzig-Berlin 1922 [rist. an. Roma 1970], pp. 12 ss.; C. Bémont, Les enterrés
vivants du Forum Boarium. Essai d’interprétation, in Mélanges de l’école Française de Rome (Antiquité) 72, 1960, pp. 133
ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p.
256 ss.; S. Mazzarino,
Il pensiero storico classico, II.1,
Roma-Bari 1966, pp. 216 ss.; A. Fraschetti,
Le sepolture rituali nel Foro Boario,
in Le délit
religieux dans la cité antique (Table ronde, Rome, 6-7 avril 1978), Rome 1981, pp. 51 ss.; brevemente anche F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio
e il problema del "diritto internazionale antico", cit., pp. 67 s.
[108] Mi pare plausibile, in tal senso, la
tesi proposta nel recente saggio di Claire
Lovisi, Vestale, incestus et
juridiction pontificale sous la République romaine, in Mélanges de Ecole Française de Rome (Antiquité) 110, 1998, pp. 699 ss.: a suo avviso, nei momenti di
grave pericolo per la res publica, la condanna a morte della
vestale, riconosciuta colpevole di aver violato l'obbligo di castità, avrebbe
costituito un valido pretesto per compiere un sacrificio umano, altrimenti
impraticabile.
[109] La solenne formula della devotio si legge in Livius 8.9.4-8: In hac trepidatione Decius consul M.
Valerium magna uoce inclamat. "Deorum" inquit "ope, M. Valeri,
opus est; agedum, pontifex publicus populi Romani, praei uerba quibus me pro
legionibus devoveam." Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et
velato capite, manu subter togam ad mentum exserta, super telum subiectum
pedibus stantem sic dicere: "Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona,
Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, divi, quorum est potestas nostrorum
hostiumque, dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo
Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium
terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupavi, ita pro re
publica <populi Romani> Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi
Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum deis Manibus Tellurique
deuoueo". Per la ricostruzione ritmica vedi G. B. Pighi, La poesia
religiosa romana, Bologna 1958, pp. 60 ss. Fra la dottrina più
vedi H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la
langue latine, cit., pp. 45 ss.; di H. S. Versnel, Self-sacrifice, compensation and the anonimus gods, in Le sacrifice dans l'Antiquité, cit., pp.
135 ss.
[110] T. Trincheri,
La consacrazione di uomini in Roma.
Studio storico giuridico, Roma 1889, pp. 38 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I. La
conquista del primato in Italia, Torino 1907, qui citata nella nuova
edizione stabilita sugli inediti a cura di S. Accame, Firenze 1979, pp. 292 s.;
P.M. Martin, Contribution de Denys d’Halicarnasse à la connaissance du ver sacrum, in Latomus 32, 1973, pp. 23 ss.; E. Cantarella, I supplizi
capitali in Grecia e a Roma, Milano 1991, pp. 300 ss.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della
famiglia romana, 6ª ed., Napoli 1999, pp. 108 ss.
[111] D. Sabbatucci,
La religione di Roma antica, dal
calendario festivo all'ordine cosmico, cit., pp.
168 ss.
[112] Il Tevere era invocato sia nelle
preghiere degli auguri (Cicero, De nat. deor.
3.52: in augurum precatione Tiberinum,
Spinonem, Anemonem, Nodinum, alia propinquorum fluminum nomina videmus;
Servius Dan., in Verg. Aen. 8.95: quia Tiberim
libri augurum colubrum loquuntur, tamquam flexuosum); sia
negli indigitamenta dei pontefici (Servius,
in Verg. Aen. 8.72: sic enim
invocatur in precibus “adesto, Tiberine, cum tuis undis”;
cfr. Servio Dan., in Verg. Aen. 8.330). J. Le Gall, Recherches sur le culte du Tibre, Paris 1953; sul nome del fiume di
Roma, rinvio a C. De Simone, Il nome del Tevere. Contributo per la storia delle più antiche
relazioni tra genti latino-italiche ed etrusche, in Studi Etruschi 43, 1975, pp. 119 ss.