N° 1 - Maggio 2002 - Tradizione
FRANCESCO SINI
Università di Sassari
Libri e commentarii nella tradizione documentaria dei grandi collegi sacerdotali romani*
(*) Excerptum ex Studia
et Documenta Historiae et Iuris LXVII, 2001, pp. 375-415.
Sommario: 1. La tradizione
documentaria dei collegi sacerdotali come “memoria” delle istituzioni
giuridiche e politiche. – 2. Una questione di metodo: la gerarchia delle fonti. – 3. Evoluzione semantica ed uso linguistico
corrente del termine libri.
– 4. Libri nelle attestazioni
epigrafiche. – 5. Libri pontificii nell’orazione de domo sua di Cicerone. – 6. Scrittura, documenti sacerdotali e materiali
scrittorii in età arcaica. – 7. Dai libri ai commentarii: prescrizioni cultuali e attività interpretativa dei
sacerdoti. – 8. Tradizione
documentaria dei collegi sacerdotali e archivi tardo-repubblicani. – 9. Dalla terminologia ai contenuti. – 10. “Sistema” ordinatorio dei libri augurum.
Vorrei formulare
inizialmente, seppure in maniera schematica, alcune considerazioni
sull'attendibilità e sulla rilevanza della tradizione documentaria riferibile
agli archivi dei grandi collegi sacerdotali romani[1];
specialmente per quanto attiene alla ricostruzione delle istituzioni giuridiche
e politiche di Roma arcaica. è
noto che i materiali religiosi e giuridici degli archivi sacerdotali[2]
(e quindi il lessico e i concetti elaborati [376] dai sacerdoti)[3]
rappresentano le evidenze più autentiche e le prime riflessioni sistematiche
dell’antica giurisprudenza romana[4].
Questi materiali costituiscono altresì il nucleo più risalente e affidabile
della storiografia romana, poiché in essi è possibile trovare gli elementi
basilari, le caratteristiche originarie e la dialettica dello sviluppo delle
istituzioni, pubbliche e private. I documenti sacerdotali sono da considerare,
dunque, strumenti indispensabili per un riesame complessivo dell'organizzazione
'politica' romana, a cominciare dalla ridefinizione dello ius publicum in chiave
non "statualista"[5];
il ricorso a tali documenti consente, inoltre, di superare l’inadeguatezza
delle moderne categorie giuridiche a [377] rappresentare pienamente le caratteristiche
più significative del "sistema giuridico-religioso"[6]
dei Romani.
Nella tradizione
documentaria dei collegi sacerdotali, possono individuarsi due linee di
tendenza, in qualche misura complementari. Da una parte, si riscontra un
formalismo assai rigoroso (cioè conservazione del testo originario, o di quello
ritenuto tale) per quanto riguarda gli antichissimi carmina[7],
recitati ancora in età imperiale avanzata in una forma linguistica molto
antica, ormai mal compresi dagli stessi sacerdoti.
Quint. Inst. orat. 1.6.39-41: Verba a vetustate repetita non solum magnos adsertores habent, sed etiam adferunt orationi maiestatem aliquam non sine delectatione: nam et auctoritatem antiquitatis habent, et, quia intermissa sunt, gratiam novitati similem parant. Sed opus est modo, ut neque crebra sint haec nec manifesta, quia nihil est odiosius adfectatione; nec utique ab ultimis et iam oblitteratis repetita temporibus, qualia sunt «topper» et «antegerio» et «exanclare» et «prosapia» et Saliorum carmina vix sacerdotibus suis satis intellecta. Sed illa mutari vetat religio et consecratis utendum est.
L’autorevole testimonianza
di Quintiliano chiarisce le ragioni di un simile comportamento da parte dei
sacerdoti romani: illa mutari vetat
religio et consecratis utendum est. A questo proposito, mi pare da
condividere la suggestiva interpretazione del tradizionalismo rituale delle
società antiche, elaborata nel secolo scorso da Numa Denis Fustel de Coulanges:
«Toutes ces [378] formules et ces pratiques avaient été léguées par les
ancêtres qui en avaient éprouvé l’efficacité. Il n’y
avait pas à innover. On devait se reposer sur ce que ces ancêtres avaient fait,
et la suprême piété consistait à faire comme eux. Il importait assez peu que la
croyance changeât: elle pouvait se modifier librement à travers les âges et
prendre mille formes diverses, au gré de la réflexion des sages ou de
l’imagination populaire. Mais il était de la plus grande importance que les
formules ne tombassent pas en oubli et que les rites ne fussent pas modifiés»[8].
D'altra parte i sacerdoti,
mentre con prassi documentaristica costante e minuziosa registravano gli atti
significativi del loro operare quotidiano, [379] procedevano nel
contempo all'aggiornamento linguistico dei testi riguardanti regole rituali e
forme di culto. Così, di generazione in generazione, si vennero accumulando
negli archivi sacerdotali numerosi documenti – per la maggior parte costituiti
da decreta e responsa[9]
– che attraverso revisioni e sistemazioni periodiche pervennero sostanzialmente
integri ai sacerdoti-giuristi e agli antiquari degli ultimi due secoli dell'età
repubblicana[10].
Le fonti attestano, infatti,
almeno quattro interventi ordinatori, susseguitisi con sorprendente
periodicità: il primo, raffigurato nella forma di compilazione originaria, è
attribuito a Numa Pompilio[11],
del quale la tradizione conosceva gli antichissimi sacra omnia exscripta exsignataque[12]
istitutivi [380] del sacerdozio pontificale; il secondo ci è
presentato come opera di Anco Marcio[13];
il terzo, datato nei primissimi anni della repubblica, è costituito dalla
raccolta di leges regiae del
pontefice Papirio[14];
l’ultimo intervento ordinatorio si deve collocare nel periodo immediatamente
successivo all’incendio gallico[15].
Infine, per completare il
quadro delle possibili modalità di trasmissione dei documenti sacerdotali fino
alla seconda metà del II secolo a.C., occorre menzionare altri due avvenimenti,
che ebbero senza dubbio rilevanti riflessi sugli archivi dei sacerdoti romani.
Certo, un serio problema di sistemazione degli archivi dovette porsi già
all’inizio del III secolo, dopo che la lex
Ogulnia aveva sanzionato l’ammissione
dei plebei nei principali collegi sacerdotali[16].
Allo stesso modo, dobbiamo considerare una [381] ulteriore sistemazione
degli archivi (almeno di quello dei pontefici) la raccolta in forma definitiva
degli annales pontificum per opera del pontefice massimo P. Mucio Scevola[17],
il quale intorno al
Gli archivi sacerdotali
dovevano presentarsi riordinati in maniera organica già alla fine del III
secolo a.C., quando il materiale in essi raccolto cominciò ad essere oggetto di
studio e di sistematizzazione da parte di sacerdoti-giuristi e antiquari, i
quali negli ultimi due secoli della repubblica ricavarono dai documenti
sacerdotali più antichi, o da copie fedeli di essi, gli elementi basilari per
comporre le loro opere sugli iura (divinum, publicum, privatum),
sulla religio (id est cultu deorum)[19]
e sulle antiquitates del Populus [382] Romanus Quirites[20].
Le importanti indicazioni
ricavate dall’analisi delle fonti non saranno pienamente utilizzabili, se prima
non si risolve una questione più generale di critica delle fonti: si tratta di
accertare il grado di attendibilità – riguardo ai materiali d’archivio – delle
fonti che citano i documenti sacedotali; di stabilire, cioè, fra quelle fonti
una sorta di “gerarchia”, che consenta di valutare le testimonianze antiche in
ragione di intrinseche qualità, opportunamente individuate sul piano
metodologico. Sarà bene comunque chiarire, in via preliminare, che porsi il
problema dell’attendibilità e del valore di queste fonti non significa
necessariamente ripercorrere la strada della “Quellenforschung”, praticata con
particolare predilezione dagli studiosi tedeschi dell’Ottocento; né significa,
altresì, ridiscutere il grado di approssimazione storica della tradizione
annalistica[21], sviscerando i differenti [383]
filoni storiografici confluiti in tale tradizione[22]. A questo proposito appare
più che sufficiente aver accertato la sostanziale credibilità della tradizione
annalistica e antiquaria, quando riferisce di fonti giuridico-religiose più
antiche. Ciò non elimina, tuttavia, la necessità di valutare caso per caso il
singolo testo, poiché bisogna tenere in massimo conto la profonda differenza
e quindi il diverso grado di attendibilità esistente tra la notizia
che lo scrittore antico ci tramanda su istituzioni giuridico-religiose più
risalenti e l’interpretazione che egli propone di tale notizia; in sede di
intepretazione, infatti, è molto difficile per l’autore prescindere dalla sua
ideologia o non dipendere dal suo grado di approfondimento scientifico[23].
Un problema metodologico di
questa portata non si presta ad essere trattato nelle poche pagine di un
paragrafo, né sono del tutto sicuro che gli strumenti concettuali del giurista
siano sufficienti da soli a farci pervenire alla corretta soluzione di esso;
eppure, la possibilità di acquisire qualche ragionevole certezza in merito alla
distinzione tra libri e commentarii sacerdotali appare legata,
in maniera indissolubile, all’impostazione conseguente di questo problema.
Tuttavia, la determinazione di una “gerarchia” fra le diverse fonti che citano
materiali tratti dagli archivi sacerdotali costituisce l’unico modo corretto di
superare l’opinione della dottrina dominante, contraria alla distinzione tra
generi di documenti; [384] poiché, in tal modo, si mette in discussione
l’impostazione metodologica di questa parte della dottrina, che consiste
appunto nell’utilizzare fonti diverse senza avere prima determinato la qualità
intrinseca di ciascuna di esse[24]. Questi studiosi, proprio
per aver mescolato fonti con differente grado di attendibilità, hanno ricavato
un quadro assai confuso circa la determinazione dei materiali contenuti nei libri e nei commentarii dei sacerdoti, maturando una profonda incertezza
perfino sulle questioni terminologiche relative alla denominazione dei diversi
generi di documenti sacerdotali[25].
Non è senza significato,
peraltro, che simili atteggiamenti siano andati emergendo nell'ambito di quel
più generale processo di revisione critica delle fonti, proprio della seconda
metà dell'Ottocento: processo che ha condotto, come sappiamo, a radicali
rifiuti della tradizione annalistica e ad effimeri tentativi di ricostruzioni
“alternative” delle vicende storiche della più antica Roma[26].
Per quanto
attiene alla “gerarchia” delle fonti, va subito evidenziato come fra i testi che
citano libri e commentarii sacerdotali si trovino sia fonti [385] primarie
sia fonti secondarie[27]. Ecco, dunque, individuato
un primo livello di differenziazione. Da una parte abbiamo "fonti
primarie": documenti ufficiali dei collegi sacerdotali o loro frammenti
pervenutici direttamente, cioè, senza altra mediazione al di fuori del
materiale scrittorio che li ha conservati[28]; dall’altra stanno le
“fonti secondarie”: l’insieme del materiale riferibile agli archivi sacerdotali
contenuto in opere, di vario genere, scritte tra l’ultimo secolo della
repubblica e l’ottavo secolo d.C.[29]
Per quanto riguarda
l’attendibilità, le fonti primarie, fatto salvo l’accertamento del carattere
autentico, si presentano pressoché omogenee. Assai più complessa è invece la
situazione delle fonti secondarie, poiché fra queste fonti possono essere
individuati almeno quattro ulteriori livelli di differenziazione: il primo
livello è costituito dalle citazioni testuali di formule solenni o di altri
documenti di sicura provenieza sacerdotale; al secondo livello sono da
collocare tutte quelle notizie riferibili ai collegi sacerdotali e alla loro
tradizione documentaria, contenute in opere di sacerdoti, giuristi e antiquari,
comunque pervenuteci; il terzo livello consiste nelle importanti testimonianze
dell'annalistica; d) infine, sono da classificare al quarto livello le
informazioni ricavabili dalle restanti opere letterarie.
L'utilizzazione di questa
“gerarchia” delle fonti (che non dovrà naturalmente essere meccanica,
considerato l’intreccio che sovente diversi livelli di differenziazione
presentano nello stesso passo[30], né priva [386]
dell'apporto specialistico della filologia e della lessicografia[31]), in quanto permette di
graduare l’attendibilità dei testi che citano libri e commentarii,
consentirà dunque di eliminare, attraverso un motivato giudizio di merito, gli
effetti negativi delle incongruenze e delle confusioni pur presenti in alcuni
di questi testi.
La dottrina contraria alla
distinzione di contenuto tra libri e commentarii sacerdotali, affermatasi
come si è detto nella seconda metà dell’Ottocento, sulla base delle ricerche di
Auguste Bouché-Leclercq[32] e [387] Paul Regell[33], ha sempre insistito e
non senza qualche ragione sul fatto che spesso nel linguaggio degli
autori antichi libri e commentarii si presentano come termini
reciprocamente fungibili[34].
Questa affermazione ha un
suo valore generale innegabile; poiché è certamente vero che nel I secolo a.C.
sia il termine libri, sia il temine commentarii avevano nell'uso linguistico
corrente significati molteplici, ed erano utilizzati in accezioni più ampie e
generiche rispetto all’originario significato[35]. Esemplare in questo senso
appare, il caso di liber, la cui evoluzione semantica ha condotto
il vocabolo assai lontano dal primitivo significato:
Isid. Orig. 6.13: De
librorum vocabulis. Codex multorum librorum est; liber unius voluminis. Et dictus
codex per translationem a codicibus arborum seu vitium, quasi caudex, quod ex
se multitudinem librorum quasi ramorum contineat. Volumen liber est a volvendo
dictus, sicut apud Hebraeos volumina Legis, volumina Prophetarum. Liber est
interior tunica corticis, quae ligno cohaeret. De quo Vergilius sic: ‘Alta
liber haeret in ulmo’. Unde et liber dicitur in quo scribimus, quia ante usum
chartae vel membranarum de libris arborum volumina fiebant, id est
conpaginabantur[36].
[388] Dal primitivo
significato di liber (interior tunica corticis), si è passati
ad indicare genericamente con liber il
materiale scrittorio (in quo scribimus)
ed infine qualsiasi opera letteraria o parte compiuta di essa; come ci è
attestato con meticolosa precisione nelle Sententiae
tradizionalmente attribuite al giurista Paolo:
Pauli sent. 3.6.87: Libris legatis tam chartae volumina vel membranae et philyrae continentur: codices quoque debentur: librorum enim appellatione non volumina chartarum, sed scripturae modus qui certo fine concluditur aestimatur[37].
Ma in quale epoca può dirsi
concluso questo processo evolutivo del termine liber? Di certo in età precedente rispetto a quella di Varrone e
Cicerone (nei cui passi si trovano le più risalenti citazioni testuali di libri e commentarii sacerdotali)[38] poiché sia l’antiquario sia
l’oratore utilizzano sovente nei loro scritti il termine libri nelle sue varie e generiche accezioni. Forse, tali accezioni
erano ormai comuni nell’uso linguistico corrente già nell’età di Plauto, come
sembrano suggerire alcuni versi della commedia Bacchides:
Plaut. Bacch. 431-434: Inde de hippodromo et palaestra ubi revenisses domum, / cincticulo praecinctus in sella apud magistrum adsideres: / cum librum legeres, si | unam peccavisses sy1labam, / fieret corium tam maculosum quamst nutricis pallium[39].
Si direbbe confermata
l’opinione di Paul Regell, secondo il quale «commentariorum nomen non minus
late pertinere quam librorum et utroquo promiscue nomine veteres, nullo certo
discrimine usos esse»[40]. Tuttavia, prima di
giungere a conclusioni di questo tipo, conviene soffermare l’attenzione su un
altro punto: le nuove e comuni accezioni del termine liber, pur imponendosi largamente nelle diverse sfere della lingua
corrente, non hanno condotto affatto alla totale obliterazione del significato
originario, ancora presente nella coscienza colta dell’età di Isidoro di
Siviglia (VII sec. d.C.). A maggior [389] ragione si può presumere che
esse non abbiano avuto facile recezione in un linguaggio “specialistico”
fortemente conservativo, qual era appunto il lessico religioso-giuridico dei
documenti sacerdotali romani.
Merita più attenta
riflessione la terminologia utilizzata nelle titolature ufficiali (o
definizioni ufficiali delle funzioni) del personale ausiliario dei collegi
sacerdotali; terminologia attestata in epigrafi d’epoca imperiale. Proprio il
carattere relativamente tardo di tali iscrizioni – lungi dal renderle sospette
– costituisce motivo di conferma del perdurare in seno agli archivi sacerdotali di una differenziazione fra
generi di documenti: alcuni denominati libri, altri denominati commentarii.
Sicuramente, si riferisce a
questi ultimi documenti le qualifiche a
commentariis o commentarienses,
attribuite ad alcuni funzionari. Qualifiche, peraltro, attestate nelle epigrafi
non solo per il personale dipendente dei collegi sacerdotali[41], ma anche per quello di
altri importanti uffici[42].
Per quanto riguarda il
termine libri il discorso è più complesso,
sebbene alcune iscrizioni di carattere ufficiale lascino intravvedere un uso
non generico di esso. Dall’esame di questi testi si possono, forse, ricostruire
le specifiche caratteristiche, di quel genere di documenti sacerdotali
denominati libri. Piuttosto preciso
appare il significato di libri nel
linguaggio legislativo del testo epigrafico della lex Acilia (?) repetundarum[43]:
[390]
C.I.L. I2, 583.34-35: [De testibus tabulisque custodiendis. Is quei petet, sei quos ad testimonium deicundum evocari]t secumve duxerit dum taxat homines IIL earum re[rum causa, de quibus id ioudicium fiet... e]a, quai ita conquaesiverit et sei qua tabulas libros leiterasve pop[licas preivatasve produ]cere proferrequ[e volet][44];
dove libri, tabulae e litterae vengono usati insieme per indicare le tipologie di
documenti scritti prodotti a conferma di testimonianze.
Lo stesso può dirsi di quei libri menzionati nella Tabula Heracleensis, iscrizione solitamente identificata con una lex Iulia municipalis databile tra gli anni 80 e
[391] Quest’ultima
ipotesi troverebbe ulteriore conferma sulla base di altre due iscrizioni
(notevolmente più tarde), contenenti atti ufficiali dell’Imperatore e del
Senato, in cui si menzionano un liber
libellorum rescriptorum:
C.I.L. III, 2, 12336: Bona Fortuna. Fulvio Pio et [P]o[n]tio Proculo cons(ulibus) XVII kal(endas) Ian(uarias) descriptum [e]t reco[g]nitum factum [e]x [li]bro [li]bellorum rescript[o]rum a domino n(ostro) imp(eratore) Ca[e] s(are) M. Antonio Gordiano pio felice Aug(usto);
ed un liber
sententiarum in senatu dictarum[47]:
C.I.L. VIII, 23246: S(enatus) c(onsultum) de nundinis saltus Beguensis in t(erritorio) Casensi. Descriptum et recognitum ex libro sententiarum in senatu dictarum Kani Iuni Nigri, C. Pomponi Camerini co[n]s(ulum), in quo scripta erant A[fr]icani iura et id quod i(nfra) s(criptum) est.
Come appare evidente siamo
di fronte a veri e propri registri in cui venivano trascritti i senatus consulta e il testo delle
richieste rivolte all’imperatore con il relativo rescritto.
Non si deve però pensare che
l’aver individuato una utilizzazione del termine particolarmente simigliante in
tre iscrizioni, così distanti fra loro nel tempo, abbia di per sé risolto il
problema; anche se può apparire motivo di interesse la corrispondenza di
significato tra questi libri (=
elenchi/registri) e quei libri pontificii
in cui erano contenuti gli indigitamenta:
cioè i nomina deorum (Cic. De nat. deor. 1.84) et rationes ipsorum nominum (Varr. in Serv. Dan. Georg. 1.21)[48].
In diverso modo va inteso,
ad esempio, in un passo degli acta
fratrum [392] Arvalium il termine libellus: termine che spesso si sostituiva nell'uso a liber in ragione della sua forma o del
suo contenuto[49]. Negli acta Arvalium del 218
d.C. si legge che i sacerdoti arvali nel compimento delle loro sacre cerimonie
ricorrevano ad appositi libelli per recitare l’antichissima ed ormai quasi
incomprensibile invocazione del carmen
arvale:
C.I.L. VI, 2104.31-38: aedes clusa e(st), omnes foris exierunt. Ibi sacerdotes clusi, succincti, libellis acceptis, carmen descindentes tripodaverunt in verba haec: enos Lases iuvate [...] triumpe, triumpe, triumpe, trium[pe, tri]umpe! Post tripodationem deinde signo dato publici introier(unt) et libellos receperunt[50].
La notizia di fonte
sacerdotale, secondo cui la vetusta formula del carmen degli arvali si tramandava in libellis (cioè in libri
di piccolo formato) presso l'archivio del sodalizio, costituisce conferma
autorevolissima del fatto che si raccogliessero e si conservassero da parte dei
collegi sacerdotali antichissimi testi di formule solenni, preghiere e regolamenti
del rituale; ma anche un importante indizio circa la denominazione ufficiale di
queste raccolte[51].
Alcuni passi dell'orazione
ciceroniana de domo sua[52] , in cui si tratta
dell’archivio del collegio dei pontefici, costituiscono una significativa
conferma [393] delle indicazioni offerte dalla testimonianza epigrafica
dei fratres Arvales.
Le vicende della casa di
Cicerone, la cui area era stata fatta consacrare dal tribuno Clodio, con
l’intenzione di innalzarvi un tempio alla Libertas[53], sono troppo conosciute per
doverle ricordare; semmai, conviene sottolineare ancora una volta il valore
giuridico e religioso dell'orazione: fonte attendibilissima, e certo ben
documentata, in tema di ius publicum e di ius pontificium[54]. Al riguardo, non devono
trarre in inganno le affermazioni dello stesso Cicerone circa la sua non
profonda padronanza della scientia pontificale
e del absconditum pontificium ius:
De dom. 121: Nihil loquor de pontificio iure, nihil de ipsius verbis dedicationis, nihil de religione et caerimoniis, non dissimulo me nescire ea quae, etiamsi scirem, dissimularem, ne aliis molestus, vobis etiam curiosus viderer, etsi effluunt multa ex vestra disciplina, quae etiam ad nostras aures saepe permanant.
Si tratta, infatti, di
affermazioni che appaiono rivolte – come lascia ben intendere la seconda parte
del passo citato – principalmente a blandire i pontefici, al fine di non
presentarsi immodesto e presuntuoso proprio agli occhi di questi esperti
ufficiali, i quali dovevano peraltro decidere sulla richiesta dell’oratore di
riottenere l’area della sua casa.
Nel corso dell'orazione, per
contestare la validità della dedicatio della
superfice ricavata dalla demolizione della casa, Cicerone adduce, fra gli altri
motivi, anche l’imperizia rituale del giovane pontefice L. Pinario Natta,
cognato di Clodio ed unico sacerdote che si prestò al compimento della
cerimonia; ma è il tenore dell’argomentazione che appare particolarmente
significativo:
De dom. 139: Quae si omnia e Ti. Coruncani scientia, qui peritissimus pontifex fuisse dicitur, acta esse constarent, aut si M. Horatius ille Pulvillus, qui, cum eum multi propter invidiam fictis religionibus impedirent, restitit et constantissima mente Capitolium dedicavit, huiusmodi alicui dedicationi praefuisset, tamen in scelere religio non valeret; ne valeat id quod imperitus adulescens, novus sacerdos, sororis precibus, matris minis adductus, ignarus, invitus, sine collegis, sine libris, sine auctore, sine fictore, furtim, mente ac lingua titubante fecisse dicatur, praesertim cum iste [394] impurus atque impius hostis omnium religionum qui contra fas et inter viros saepe mulier et inter mulieres vir fuisset, ageret illam rem ita raptim et turbulente, uti neque mens neque vox neque lingua consisteret?
Come risulta dal passo
citato, fra le contestazioni mosse al giovane pontefice Pinario Natta vi era
anche quella di aver operato: ignarus,
invitus, sine collegis, sine libris, sine auctore, sine fictore, furtim, mente
ac lingua titubante fecisse dicatur. Dunque, il pontefice Pinario Natta
quasi sicuramente aveva consacrato l’area della casa di Cicerone in maniera non
rituale, poiché aveva operato anche sine
libris. Ma questi libri che altro potevano contenere se
non le formule solenni e le procedure relative alla dedicatio-consecratio?
Dall’orazione ciceroniana si
ricava una precisa indicazione sul contenuto dei libri pontificii: da essi si traevano sia i solenni verba dedicationis, sia
l’insieme del procedimento rituale di esclusiva competenza dei pontefici: Illa interiora iam vestra sunt, quid dici,
quid praeiri, quid tangi, quid teneri ius fuerit (De dom. 138). Una parte
non trascurabile della dottrina ha però
obiettato che, nel citare libri e commentarii sacerdotali, Cicerone
avrebbe utilizzato questi termini in senso generico, intendendo con tale
terminologia indicare non tanto generi di documenti diversi per contenuto,
quanto piuttosto la complessità dell’intero archivio pontificale[55]. L'obiezione, a ben vedere,
appare scarsamente fondata sulla corretta analisi dei passi; inoltre, riesce
veramente difficile, a fronte del carattere tecnico-giuridico dell’intera
orazione, che non si dimentichi fu pronunciata davanti ai pontefici[56], immaginare una simile
improprietà terminologica proprio riguardo alla denominazione dei documenti
ufficiali del loro archivio: ciò farebbe torto, non solo all’abituale
precisione dell’esperto consolare, ma soprattutto alla strategia oratoria,
tutta orientata ad ottenere il consenso dei suoi autorevoli interlocutori.
Per concludere, possiamo
sostenere che dall’analisi del testo dell’orazione si ricavano spunti notevoli,
sia per l’individuazione/ricostruzione di quali materiali dell’archivio dei
pontefici fossero raccolti in libri (a
questo proposito mi pare particolarmente importante l’elencazione che Cicerone
ne fornisce al paragrafo 33: religio, res
divinae, caerimoniae, sacra[57]); sia per quanto riguarda
una possibile distinzione tra questi libri
ed i commentarii del [395]
collegio, citati in un altro passo dell’orazione come documenti in cui si
trascrivevano le raccolte di responsa pontificali.
De dom. 136: Sed, ut revertar ad ius publicum dedicandi, quod ipsi pontifices semper non solum ad suas caerimonias, sed etiam ad populi iussa accommodaverunt, habetis in commentariis vestris C. Cassium censorem de signo Concordiae dedicando ad pontificum collegium rettulisse eique M. Aemilium pontificem maximum pro collegio respondisse, nisi eum populus Romanus nominatim praefecisset atque eius iussu faceret, non videri eam posse recte dedicari. Quid? cum Licinia, virgo Vestalis summo loco nata, sanctissimo sacerdotio praedita, T. Flaminino Q. Metello consulibus aram et aediculam et pulvinar sub Saxo dedicasset, nonne eam rem ex auctoritate senatus ad hoc collegium Sex. Iulius praetor rettulit? cum P. Scaevola pontifex maximus pro collegio respondit: «quod in loco publico Licinia Gai filia iniussu Populi dedicasset, sacrum non viderier»[58].
Le argomentazioni di
Cicerone confermano l’esistenza in seno ai collegi sacerdotali di una
consolidata tradizione documentaria e la prassi ormai usuale di
utilizzare i materiali degli archivi nell’espletamento delle funzioni religiose
e giuridiche di ciascun sacerdozio[59]. Dal contesto
dell’orazione, risulta peraltro evidente come ai Romani di età
tardo-repubblicana, per avere la certezza del corretto esercizio delle funzioni
religiose e giuridiche legate al sacerdozio, doveva apparire quasi
indispensabile che i sacerdoti ricorressero all’ausilio dei documenti
conservati nei loro archivi.
Era questa, dunque, la
situazione nell’ultimo secolo della repubblica. è possibile ricavare da essa indicazioni per l’età più
antica? Ed ancora: quali ragioni possono giustificare questo carattere
“sostanziale” della scrittura/documento nella celebrazione di sacra e caerimoniae basati essenzialmente sulla “gestualità” e sulla
declamazione di solenni verba concepta[60]? La rilevanza delle
questioni poste appare del tutto evidente: si tratta [396] non solo di
individuare le origini di queste compilazioni da un punto di vista cronologico,
ma anche di chiarire quali motivazioni teologiche e culturali, oltre che
pratiche, possano spiegare l’elaborazione e la raccolta, fin da epoca assai
antica, di tutti quei materiali, che le fonti di età tardo-repubblicana ed
imperiale attestano contenuti negli archivi sacerdotali. Ho già avuto modo di
esporre in altro luogo le ragioni che mi inducono a datare l’inizio delle
compilazioni sacerdotali in epoca assai antica della storia cittadina[61]. Al riguardo, conviene
soffermarsi brevemente sul testo epigrafico del carmen Arvale, in quanto esso offre utili precisazioni circa
l'adozione di tale cronologia per le "prime" elaborazioni religiose e
giuridiche dei sacerdoti romani.
Sebbene attestato da una
epigrafe piuttosto tarda (però attendibilissima, poiché si tratta pur sempre di
un documento ufficiale della sodalità dei fratres
Arvales), il testo in questione ci è pervenuto in forma linguistica arcaica[62] (basti pensare alla
struttura sintattica e grammaticale del discorso ed all’assenza del rotacismo
della grafia) forse addirittura coeva alla stessa composizione[63].
C.I.L. VI, 2104. 33-38: Enos Lases iuvate / neve lue rue Marmar sins incurrere in pleores / satur fu fere Mars limen sali sta berber / semunis alternei advocapit conctos / enos Marmor iuvato / triumpe triumpe triumpe triumpe triumpe[64].
Questo vetustissimo carmen[65], l’unico che, per una
fortunata combinazione, siamo in grado di leggere in forma assai vicina a
quella originaria, conferma l’antichità dell’impiego della scrittura a scopo
rituale da parte dei sacerdoti romani; testimonia inoltre la persistenza tenace
delle forme arcaiche, sia nelle pratiche cultuali, sia nel linguaggio
religioso. La religione romana tradizionale, nel corso della sua storia
secolare, ha sempre [397] condizionato la validità di un rito, o
l’efficacia di una formula, all’esatta pronuncia delle parole solenni, al
preciso compimento degli atti prescritti. I sacerdoti, a differenza di
antiquari e annalisti, in genere rifuggivano dall’attualizzare nella forma
linguistica gli antichi documenti giuridico-religiosi[66]; col rischio, a volte, di
non comprendere gli antichissimi carmina che
recitavano per i propri culti[67].
Ad una datazione assai
risalente dell'inizio delle compilazioni sacerdotali fanno pensare, seppure in
maniera indiretta, le nuove testimonianze archeologiche provenienti dai recenti
scavi dell'area laziale; attraverso queste testimonianze, sempre di più in
sorprendente sintonia con la tradizione antica[68], emergono dai secoli VIII e
VII a.C. le immagini vive di comunità umane assai articolate dal punto di vista
produttivo, socialmente stratificate e dotate di organizzazioni politiche per
niente elementari. Insomma, immagini di comunità capaci di esprimere quella
“sapienza”[69] comprensiva di “cose umane
e divine” (teologica, giuridica, tecnica), che fu tipica dei collegi
sacerdotali romani in età arcaica[70]; sia di utilizzare [398]
diffusamente l'arte della scrittura, quanto meno per atti ufficiali e pratiche
cultuali[71].
Del resto, fra gli studiosi
dell’ideologia romana arcaica ormai da tempo si sostiene con maggiore
convinzione il carattere complesso delle “prime” elaborazioni religiose e
giuridiche dei grandi collegi sacerdotali. Valga per tutti l’esempio di G.
Dumézil, massimo sostenitore dell’eredità indoeuropea a Roma, il quale inizia
quel suo libro intitolato Idées romaines con queste significative
parole: «La pensée des plus anciens Romains regagne l’estime qu'elle mérite»[72]. Analizzando diversi
aspetti della “idéologie romaine ancienne”, l’illustre studioso francese
sostiene che essa, pur mancando di significative espressioni letterarie
paragonabili agli inni vedici, si presenta non per questo meno ricca e
strutturata di quella indiana; comunque, già in questa fase, appare
perfettamente in grado di fornire alla comunità romana una giustificazione
filosofica sia dell'organizzazione sociale, sia dell’ordine dell’universo[73].
Potenzialità cosmica
dell’ideologia (religiosa e giuridica) romana arcaica, elevato livello della
civiltà materiale[74], assoluta necessità di
precisione nelle pratiche del culto: questi sono i principali elementi che
rendono credibili le notizie relative a compilazioni e raccolte di documenti
sacerdotali fin dall'età più antica della storia cittadina.
Veniamo, ora, alla
configurazione materiale di questi antichissimi documenti. Anche a non voler
ammettere che il papiro fosse già conosciuto nella Roma dei secoli VIII e VII
a.C., come il Peruzzi ritiene di poter dimostrare[75], le fonti danno notizie
precise sui materiali scrittorii in uso prima [399] della diffusione
della carta, avvenuta in epoca ellenistica: davvero preziose appaiono, al
riguardo, le informazioni contenute nella Naturalis
historia di Plinio il Vecchio, il quale si avvale è bene
sottolinearlo della vasta erudizione antiquaria e “scientifica” di
Varrone[76]:
Plin. Nat. hist. 13.68-70: Prius tamen quam digrediamur ab Aegypto, et papyri natura dicetur, cum chartae usu maxime humanitas vitae constet, certe memoria. Et hanc Alexandri Magni victoria repertam auctor est M. Varro, condita in Aegypto Alexandria. Antea non fuisse chartarum usum: in palmarum foliis primo scriptitatum, dein quarundam arborum libris. Postea publica monumenta plumbeis voluminibus, mox et privata linteis confici coepta aut ceris; pugillarium enim usum fuisse etiam ante Troiana tempora invenimus apud Homerum, illo vero prodente ne terram quidem ipsam, quae nunc Aegyptus, intellegitur, cum in Sebennytico et Saite eius nomo omnis charta nascatur, postea adaggeratam Nilo.
Secondo Varrone si scrisse,
dunque, dapprima su foglie di palma, poi su “libri” (corteccia) di alcune
piante, ed in seguito su altro materiale: lamine di piombo[77], lino[78], tavole cerate[79]. L’elenco (cronologico?)
delle materie scrittorie esposto da Varrone sembra riferirsi, piuttosto che ai
soli Romani, all’intera umanità; quindi, non tutti questi materiali saranno
stati utilizzati nell’antichissimo Lazio. La tradizione romana non pare
conoscere, ad esempio, l’uso scrittorio delle foglie di palma riferito alla
propria cultura, anche se non ignora il caso della Sibilla cumana, che scriveva
le risposte appunto su foglie[80]. è certo invece, almeno per quanto riguarda l’opinione degli
antichi, il collegamento della fase iniziale della scrittura romana con l’uso
del liber (=corteccia interiore
d'albero).
Su questa ultima questione
fra gli studiosi moderni si hanno per la verità opinioni meno unanimi. Per
alcuni la genuinità della tradizione latina sull’uso arcaico del liber trova l'argomento più valido proprio nello stesso
[400] significato del termine[81]; per altri è motivo di
dubbio il non disporre di testimonianze materiali di tale uso[82]; per altri ancora il
rifiuto è più drastico: tale è il caso del linguista Emilio Peruzzi, il quale
sostiene che nella Roma delle origini «liber
è il papiro», e che quindi «la tradizione dell’uso primitivo di scrivere
sul liber “quarundam arborum” ha
origine eziologica dal significato proprio di liber “lamina fra il legno e il cortex”,
e l’uso di tilia o philura attestato in epoca tarda non
sarà la sopravvivenza di una consuetudine remotissima, bensì un falso
arcaicismo» [83]. Ma, in tal modo, la tesi
del Peruzzi si oppone a tutta la tradizione antica: ciò costituisce,
ovviamente, la debolezza intrinseca di essa, che non potrebbe essere del tutto
superata anche se risultasse esatto il dato linguistico da cui la tesi si
sviluppa: cioè, la supposta derivazione del termine liber, sia pure attraverso un arcaico *libros, dal vocabolo greco b…bloj
o bÚbloj[84]. Mi sembra, invece, da
condividere quanto ha scritto Salvatore Tondo, a proposito del materiale
scrittorio dei libri regii: «Più in
particolare, siccome è la tilia o philyra a essere comunemente adoperata
per indicare tanto la corteccia (Rindenbast) quanto il materiale scrittorio, mi
pare legittimo argomentare che giusto di corteccia interiore di tiglio fossero
fatti quegli antichi libri. D’altra parte, è noto che le liste ricavate
dal tiglio si prestavano facilmente a essere congiunte l’una con l’altra (si
noti l’uso costante del plur. libri)
ed erano sufficientemente pieghevoli, in modo cioè che il tutto potesse essere
sistemato nella forma d’un rotolo»[85].
A questo punto, sarebbe
inutile proseguire nella discussione di queste differenti tesi; poiché tutte
indistintamente confermano un dato fondamentale: l’univoco riferimento del
termine liber, nel suo originario
significato, al materiale scrittorio. Il dato in questione consente anche di
precisare altri due importanti elementi. Da una parte risulta, infatti,
confermato che i sacerdoti dell'età arcaica avevano la possibilità di scrivere
testi religiosi e giuridici su materie abbastanza maneggevoli per l’uso, non
difficilmente reperibili e per di più confezionabili dell’estensione richiesta.
D’altra parte, si precisa meglio, anche tecnicamente, e perciò diventa
credibile, la tradizione romana che tramanda il ricordo sia dell’esistenza di
antichissimi libri dei sacerdoti[86], sia di una prassi
documentaria sacerdotale pressoché originaria.
[401]
Questi antichissimi libri avevano, dunque, pregnante riferimento
(più che a contenuti determinati) a particolari materiali scrittorii, da cui
traevano la loro stessa denominazione e la specifica individualità rispetto ad
altri documenti (e ad altri materiali scrittorii), presenti anch’essi negli
archivi sacerdotali[87]. Tuttavia, i contenuti dei libri possono essere facilmente intuiti:
dovevano consistere per la grandissima parte in solenni formule religiose ed in
prescrizioni rituali, tutte scritte in forma di carmina[88].
Diversa si presenta, invece,
la situazione per quanto riguarda il termine commentarii:
Isid. Orig. 6.8.5: Commentaria dicta, quasi cum mente. Sunt enim interpretationes, ut commenta iuris, commenta Evangelii.
Dal testo di Isidoro, che
per quanto tardo è però conforme alla precedente tradizione latina[89], emergono elementi
sufficienti per la definizione di questo genere di documento (o di opera
letteraria): in particolare viene posta in evidenza l’attività intellettuale,
speculativa, che presiede alla composizione dei commentarii; i quali si caratterizzavano, soprattutto, per il
contenuto e lo scopo dell’opera, senza riguardo alcuno al materiale scrittorio.
Proprio la mancanza di
riferimento al materiale scrittorio lascia intravvedere il carattere più
recente dei commentarii rispetto ai libri. Con ciò non voglio negare, in
alcun modo, l’esistenza di commentarii fra
i materiali dei più antichi archivi sacerdotali, poiché la stessa tradizione
annalistica conosce commentarii
rituali riferiti all’età regia[90]; in essi venivano
trascritti casi esemplari dell’attività interpretativa dei collegi sacerdotali,
la quale formalmente si basava pur sempre sull’autorità dei testi più antichi
contenuti nei libri. Si può così
delineare quale rapporto intercorresse tra libri
e commentarii sacerdotali: a fronte
della necessità rituale di tramandare fedelmente di generazione in generazione
(trascritti in forma originaria o supposta tale) i sacri testi dei libri, stavano le esigenze concrete
della realtà [402] sociale, che richiedevano spesso innovazioni cultuali
considerevoli, recepite nei commentarii.
Ma torniamo al carattere più
recente di questi ultimi. A ben vedere, la stessa tradizione annalistica
suffraga uno stacco cronologico fra libri
e commentarii. Nelle fonti, infatti,
la compilazione dei “primi” libri
sacerdotali si presenta strettamente connessa con l’organizzazione religiosa
voluta dal re Numa Pompilio[91]; anzi, tale compilazione
viene considerata da Tito Livio opera dello stesso re, anche dal punto di vista
materiale.
Liv. 1.20.5-6: Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium, ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur[92].
Del resto, appare ben
comprensibile l’esigenza di testi scritti che la riforma religiosa di Numa
dovette imporre, se solo si consideri la complessità dei sacra e delle caerimoniae e
la minuziosa regolamentazione dei sacrifici, testimoniate a proposito della
religiosità di quell'epoca[93]. Che poi questi [403]
libri Numae abbiano costituito il nucleo primitivo dei libri pontifícum è attestato anche dalla
tradizione antiquaria[94].
Se invece poniamo mente alle
prime menzioni di commentarii,
dobbiamo arrivare ad un'età più recente: esattamente all'ultimo anno del regno
di Tullio Ostilio ed al primo di Anco Marzio. I fatti sono narrati, ancora una
volta, da Tito Livio e riguardano l’oscura vicenda della morte del re Tullo
Ostilio:
Liv. 1.31.8: Ipsum regem tradunt volventem commentarios Numae, cum ibi quaedam occulta sollemnia sacrificia Iovi Elicio facta invenisset, operatum iis sacris se abdidisse; sed non rite initum aut curatum id sacrum esse, nec solum nullam ei oblatam caelestium speciem, sed ira Iovis sollicitati prava religione fulmine ictum cum domo conflagrasse;
ed il successivo ripristino e pubblicazione scritta
dei sacra pompiliani da parte del
nuovo re Anco Marcio:
Liv. 1.32.2: Qui ut regnare coepit, et avitae gloriae memor et quia proximum regnum, cetera egregium, ab una parte haud satis prosperum fuerat, aut neglectis religionibus aut prave cultis, longe antiquissimum ratus sacra publica, ut ab Numa instituta erant, facere, omnia ea ex commentariis regis pontificem in album relata proponere in publico iubet.
In entrambi gli episodi
abbiamo a che fare con dei documenti chiamati commentarii (Numae o regii). Saranno stati gli stessi
documenti altrove denominati libri?
Oppure, è possibile un'altra spiegazione? Ritengo che l’analisi del dato
testuale consenta di prospettare una soluzione assai plausibile. I commentarii Numae, così malamente
utilizzati dal re Tullo Ostilio, e quelli citati nel caso del re Anco Marcio,
non sono da identificare con gli originali sacra
omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio; si trattava, piuttosto, di
altri documenti di fattura sacerdotale, esplicativi dei libri Numae (cioè dei sacra
omnia exscripta exsignataque) e quindi di veri e propri commentarii Numae, laddove la
specificazione non indicava un genitivo di possesso, ma la definizione del
contenuto di quei documenti[95]. Che poi questi commentarii, finalizzati ad una maggiore
esplicazione dei rituali numani, fossero stati composti da mani sacerdotali in
età successiva a quella di Numa, o su istruzione dello stesso re sabino, come
sembra suggerire un passo [404] di Plutarco[96], nulla toglie al fatto che
essi si configurassero come documenti diversi ed autonomi rispetto ai sacra omnia exscripta exsignataque (cioè
ai libri autografi) di Numa Pompilio;
i quali, consegnati al collegio dei pontefici, avevano costituito il nucleo
primitivo dei libri pontificum.
Scopo di questa indagine è
quello di precisare i generi di documenti e le articolazioni sistematiche del
materiale confluito negli archivi sacerdotali: si tratta quindi di precisare,
per quanto possibile, in “quale” fase dell’esperienza dei più antichi Romani
l’attività speculativa ed intepretativa dei sacerdoti abbia acquisito quella
struttura (forma e contenuti) con la quale si caratterizzò poi in età storica.
La questione fu affrontata
da Georges Dumézil, grandissimo comparatista e storico della religione romana,
in alcune penetranti pagine delle “Remarques préliminaires” del suo libro
intitolato Idées romaines[97]. La risposta del Dumézil è
– detta in sintesi che tale epoca vada collocata nella tarda età regia, o
anche in età precedente; considerando come dato ormai acquisito dalla ricerca:
«la constatation que des techniques aussi complexes que l’augurale ius et le ius ciuile
étaient constituées dès la fin des temps royaux, avec la réglementation
rigoureuse que nous leur connaissons au seuil de l'Empire»[98].
Non bisogna tuttavia
dimenticare, che perfino fra la sospettosa dottrina ottocentesca, v'erano già
alcuni studiosi che ritenevano le prime compilazioni sacerdotali databili in
età regia: così, ad esempio, Auguste Bouché-Leclercq, pur rifiutando la
tradizione annalistica a proposito della legislazione di Numa e dei suoi “libri
sacri”, pensava che la composizione scritta della «loi religieuse» si dovesse
attribuire all’epoca caratterizzata dalla figura di Anco Marcio, o all'età
immediatamente successiva, ma in [405] ogni caso «longtemps avant que
les XII Tables eussent fixé de la même manière la loi civile»[99].
Significative conferme a
queste ipotesi si ricavano dalla controversa tradizione sulla raccolta di leges regiae, compilata dal pontefice Papirio nei primi anni della libera respublica: raccolta meglio conosciuta come ius Papirianum[100]. Anzi, quella stessa
tradizione acquista un pregnante significato intrinseco. Sulla base del vero
titolo della raccolta, de ritu sacrorum[101], si possono perfino
prospettare le probabili ragioni che indussero i pontefici a quella
compilazione. Si trattava, come lo stesso titolo sembra suggerire, di dar
risposta ad esigenze di carattere cultuale (ma non per questo esclusivamente
“religiose”) legate forse ad una duplice motivazione. Da una parte vi era la
necessità di attribuire diverso fondamento a ciò che si riteneva opportuno
conservare dell'attività normativa dei reges.
Dall’altra stava invece la preoccupazione, certo impellente in quegli anni
cruciali, di ridefinire il ruolo del rex
(quasi certamente in rapporto allo ius
augurale ed allo ius civile), il quale
restava pur sempre il più eminente personaggio dell’ordo sacerdotum, nonostante
i recenti mutamenti politici della città lo avessero relegato esclusivamente ad sacra[102]. Alla
stessa raccolta di tali leges sembra
alludere anche il noto passo di Tito Livio 6.1.9-10, relativo alla
riorganizzazione degli archivi sacerdotali operata dopo l’incendio gallico: in
quella occasione furono reperiti ed esposti in pubblico i foedera, le XII Tavole e quaedam
regiae leges; mentre i documenti che più strettamente ad sacra pertinebant furono raccolti e tenuti segreti negli archivi
dei pontefici. In entrambi gli episodi, insomma, il racconto annalistico mostra
chiaramente di conoscere la precedente esistenza di materiale documentario
riferibile agli archivi sacerdotali.
L'aver individuato la
probabile fase storica, in cui la tradizione documentaria dei collegi
sacerdotali si venne a precisare, non elimina di per sè le difficoltà della
ricerca, le quali consistono, soprattutto, nel carattere relativamente tardo
delle fonti che citano libri e commentarii sacerdotali. Sarà
necessario, quindi, formulare una “gerarchia delle fonti” fra tutti i testi [406]
che tramandano materiali contenuti in libri
e commentarii sacerdotali, o ad
esse comunque riferibili; ma, al tempo stesso, si dovrà anche riflettere
maggiormente sulle possibili modalità di trasmissione di questi documenti
sacerdotali.
Cominciamo proprio da
quest'ultimo problema. Ciò implica la necessità di muoversi almeno su due
piani: il primo attiene all’aspetto esteriore dei documenti (alla materia
scrittoria ed alla sua conservazione); il secondo verte su contenuti e forma
linguistica. Per quanto riguarda il primo, abbiamo già prospettato quali
fossero i materiali utilizzabili per la scrittura in età arcaica e quali
difficoltà dovessero essere affrontate per conservarli, almeno fino alla
diffusione della charta.
Appare assai più difficile,
invece, precisare la trasmissione degli arcaici documenti sacerdotali quanto a
forma linguistica e contenuti. Al riguardo, abbiamo già evidenziato il fatto
che copie di antichissimi carmina sono
state tramandate, in forma linguistica pressoché originaria, fino alla tarda
età imperiale; abbiamo altresì motivato le ragioni teologiche e giuridiche, per
cui il conservatorismo ed il formalismo dei sacerdoti preservasse l’integrità
formale di documenti assai antichi (seppure trascritti in copie più recenti).
Tuttavia, altri testi
dovettero sicuramente subire ammodernamenti linguistici e adattamenti del
contenuto, affinché le regole rituali e le altre forme di culto fossero rese
praticabili dai contemporanei. Lo stesso carattere “aperto” degli archivi
favoriva questo processo, attraverso la recezione della prassi documentaria con
cui i sacerdoti registravano gli atti più significativi del loro operare
quotidiano. Così, di generazione in generazione, negli archivi si accumulava
sempre nuovo materiale, gran parte del quale costituito (almeno in età
ciceroniana) dai testi dei decreta e responsa resi dai collegi sacerdotali[103].
Tutto ciò legittima la
convinzione che i sacerdoti-giuristi e gli antiquari degli ultimi secoli della
repubblica, nel comporre le loro opere, abbiano attinto a materiali d'archivio
di prim'ordine, proprio perché ancora in quel tempo si potevano leggere copie
fedeli di documenti più antichi.
è stata già menzionata
parecchie volte la rilevanza veramente fondamentale delle fonti epigrafiche per
la distinzione tra libri e commentarii[104]. [407] Del resto,
anche le fonti letterarie (le quali citano con particolare rilievo i commentarii degli auguri e dei pontefici)
confermano l’impressione che i commentarii
costituissero una sorta di guida per il compimento delle funzioni dei
collegi: vi erano cioè trascritti i rendiconti e le memorie di un’attività, che
sovente si concretizzavano in decreta e
responsa[105].
Su questo punto, assume
particolare valore la testimonianza di Cicerone, il quale nelle sue opere, più
volte, mostra di conoscere personalmente sia i commentarii del suo collegio (auguri), sia i commentarii dei pontefici[106]. Dai primi trascrive nel De divinatione un noto decreto augurale:
Cic. De div. 2.42-43: Nonne perspicuum est ex prima admiratione hominum, quod tonitrua iactusque fulminum extimuissent, credidisse ea efficere rerum omnium praepotentem Iovem? Itaque in nostris commentariis scriptum habemus: "Iove tonante, fulgurante comitia populi habere nefas". Hoc fortasse rei publicae causa constitutum est; comitiorum enim non habendorum causas esse voluerunt. Itaque comitiorum solum vitium est fulmen, quod idem omnibus rebus optumum auspicium habemus, si sinistrum fuit [107].
Con il decreto augurale «Iove tonante, fulgurante comitia populi
habere [408] nefas»[108], siamo in presenza di una
citazione testuale, che Cicerone, augure dal
Dei commentarii pontificum
tratta invece sia in materia di dedicationes
(De domo 136), per ricordare ai
pontefici che nei loro commentarii si leggeva il caso di un precedente
responso del collegio, avente per oggetto la controversa dedicatio della statua della Concordia da parte del censore C.
Cassio; sia a proposito dell’attività giurisprudenziale ed oratoria del grande
giurista Tiberio Coruncanio (Brut. 55),
primo pontefice massimo plebeo, i cui [409] responsa erano conosciuti ancora al tempo di Cicerone ex pontifícum commentariis[111].
Conformi alla testimonianza
di Cicerone i dati delle altre fonti che citano testualmente i commentarii sacerdotali. Così è per il
passo di Plinio il Vecchio (Nat. hist.
18.14), in cui si citano i commentarii
pontifícum, per riferire testualmente un decreto del collegio pontificale
sui tempi dell'augurio canario[112]. Ugualmente credibile si
presenta il riferimento ai commentarii degli
auguri per la specificazione delle aves
augurales in un tormentato passo di Sesto Pompeo Festo (v. Sanqualis, p.
Alla
individuazione/ricostruzione delle materie attinenti ai commentarii, non sono di ostacolo neppure quelle fonti in cui il
termine ha un significato meno precisabile, al punto da sembrare ad alcuni
studiosi generico o addirittura controverso. Fra questi passi, mette conto
esaminare uno fra i più utilizzati dalla dottrina contraria alla distinzione:
Liv. 4.3.9: Obsecro vos, si non ad fastos, non ad commentarios pontificum admittimur, ne ea quidem scimus, quae omnes peregrini etiam sciunt, consules in locum regum sucessisse nec aut iuris aut maiestatis quicquam habere, quod non in regibus ante fuerit?
Sulla base del testo
liviano, si è voluto sostenere da una parte della dottrina[115] l’impossibilità di distinguere
tra libri e commentarii; in quanto, il senso del termine commentarii sarebbe in questo caso assolutamente generico, [410]
utilizzato cioè in accezione significante l’intero archivio dei pontefici.
Tuttavia, un’analisi più approfondita offre anche un’altra soluzione; in
particolare, va meditata con maggiore attenzione la contrapposizione tra fasti e commentarii rilevabile nel testo liviano. In tale contrapposizione
è possibile cogliere la vera distinzione concettuale e di contenuto nell’uso
dei due termini: per fasti[116] si intende la compilazione
dell’arcaico calendario mobile[117] (le cui regole stavano
secondo altre fonti nei libri pontificales[118]), mentre il termine commentarii appare distinto e
contrapposto a quel genere di documenti e quindi contenutisticamente
differente. Non voglio certo negare che, nel contesto liviano, il tribuno
Canuleio volesse alludere effettivamente all’esclusione dei plebei dalla
conoscenza dell’insieme dei documenti conservati negli archivi pontificali.
Voglio però notare, che l’annalista per designare la totalità dell’archivio non
utilizza soltanto il termine commentarii,
ma l’insieme di fasti e commentarii: quindi, con un riferimento
sia alle regole relative alla divisione e numerazione del tempo, definite nei [411]
libri, sia ai canoni interpretativi e
alle precedenti memorie dell’attività pontificale, oggetto per l’appunto dei commentarii.
Altro dato da tenere in
considerazione, a proposito della distinzione tra commentarii e libri sacerdotali,
è la conclamata antichità dei libri.
Mentre, infatti, dei commentarii (pontificum) è stata talvolta evidenziata
dagli autori antichi l’obscuritas delle parole[119], che ne rendeva il
linguaggio, non solo differente da quello comune, ma addirittura di difficile
comprensione; dei libri, invece, si
evidenziava soprattutto la straordinaria risalenza, o meglio, per usare le
parole di Cicerone, la antiquitatis
effigies:
Cic. De orat. 1.193: Nam sive quem haec Aeliana studia delectant, plurima est et in omni iure civili et in pontificum libris et in XII tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum vetustas prisca cognoscitur et actionum genera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant.
L'antiquitas e la vetustas prisca[120], rimarcate nel passo,
costituiscono elementi di grande rilevanza per la definizione dei materiali
raccolti nei libri pontificum; i cui contenuti originari
erano identificati dalla tradizione antica con i sacra omnia exscripta exsignataque, attribuiti all’opera di Numa, e con le vetuste leges regiae.
Il carattere assai risalente
è attestato anche per i libri del
collegio degli auguri: da essi
l’augure Cicerone traeva l’antica denominazione del dictator[121] chiamato in quei libri magister populi; mentre l’antiquario Varrone vi leggeva la parola terra «scripta cum R uno»[122].
Fra i collegi sacerdotali, a
parte un passo di Varrone in cui si menzionano i libri Saliorum[123], le citazioni testuali
riguardano i libri degli auguri e [412]
dei pontefici[124]. Tuttavia, per dimostrare
la diversità di contenuto rispetto ai commentarii,
sarà sufficiente esaminare o gli uni o gli altri; infatti, per superare tutte
le obiezioni metodologiche, basterà verificare la possibilità di distinguere
tra libri e commentarii nell’archivio di un collegio. Esaminerò quindi, anche
per evidenti ragioni di spazio, solo i libri
augurum, individuandone i contenuti
peculiari rispetto ai commentarii e
le implicazioni sistematiche delle materie in essi raccolte.
Dai testi discussi finora,
si ricava l’impressione che nei libri
fossero confluiti in prevalenza materiali riguardanti le regole della
disciplina augurale. La quale, nell’insieme di precetti e procedure, si
presentava strutturata per parte considerevole in un sistema organico, già alla
fine dell’età regia o nei primissimi anni della repubblica[125].
La stessa epoca risulta
indicata dalla definizione degli agrorum
genera in De lingua Latina 5.33[126], in cui il rilievo
attribuito all’ager Gabinus è
totalmente immotivato per l’età storica più recente; mentre acquista
particolare senso nell'ambito di quella tradizione che identificava nella città
di Gabii un importante centro culturale del Lazio arcaico[127].
Di certo, risale allo stesso
periodo la composizione delle liste dei nomina
deorum[128], o almeno della maggior
parte di essi, che Cicerone conosceva [413] raccolti nei libri del collegio[129]. Erano le divinità per le
quali gli auguri celebravano cerimonie e sacrifici[130]; alle quali indirizzavano
quelle precationes augurales citate
dai tardi grammatici, con punte di compiacimento erudito, per i loro verba ormai desueti[131].
Uguale discorso può farsi a
proposito delle formule solenni che gli auguri, fino alla estinzione della
religione romana, continuarono a pronunziare nel compimento delle inaugurationes[132], o nel rito di definizione
del templum augurale[133]; così come più antica delle
XII Tavole sembra essere stata la regolamentazione del tempus augurii[134], cioè del tempo utile per
l’osservazione dei signa auguralia.
Dei libri augurum è infine ipotizzabile
con buona approssimazione il “sistema” ordinatorio, cioè la sistematica
elaborata dai sacerdoti per i materiali ivi contenuti. Ciò si rende possibile
seguendo la descrizione delle [414] funzioni augurali che l’augure
Cicerone traccia nella parte del De
1egibus [135] dedicata a questi
sacerdoti:
Cic. De leg. 2.20-21: Interpretes autem Iovis optumi maxumi, publici augures, signis et auspiciis postera vidento, disciplinam tenento sacerdotesque vineta virgetaque et salutem populi auguranto; quique agent rem duelli quique popularem, auspicium praemonento ollique obtemperanto. Divorumque iras providento sisque apparento, caelique fulgura regionibus ratis temperanto, urbemque et agros et templa liberata et efflata habento. Quaeque augur iniusta nefasta vitiosa dira deixerit, inrita infectaque sunto; quique non paruerit, capital esto[136].
Quasi inutile sottolineare
l’estrema attendibilità del testo, anche se le vicende tormentate della
tradizione manoscritta[137]
rendono il passo citato di non facile lettura. Tuttavia, pur non superando
tutte le difficoltà interpretative, si ha la netta sensazione di trovarsi di
fronte a «dispositions précises puissées certainement à un recueil officiel
redigé en terme de profession»[138]; si tratterebbe, insomma,
di un testo trascritto da una raccolta ufficiale, destinata probabilmente agli
stessi auguri[139]. Orbene, poiché la
partizione delle funzioni augurali, sottesa al testo ciceroniano, risulta
tracciata in naturale adesione ad un testo ufficiale del collegio, le
possibiltà che essa riflettesse «des divisions authentiques»[140] dei materiali raccolti nei libri augurum sono davvero notevoli.
Tale sistema può essere
schematizzato come segue: 1. Signa e auspicia in generale («Interpretes autem Iovis optumi maximi,
publici augures, signis et auspicis postera vidento»); 2. Disciplina augurale («disciplinam tenento»); 3. Inaugurationes («sacerdotesque vineta virgetaque et salutem populi auguranto»); 4. Auspicia dei magistrati («quique agent rem duelli quique popularem,
auspicium praemonento ollique obtemperanto»); 5. Nomina deorum e precationes augurales («divorumque iras
providento sisque apparento»); 6. Definizioni degli spazi celesti e
terrestri («caelique fulgura regionibus
ratis temperanto, urbemque et agros et templa liberata et efflata habento»).
[415] La restante
parte del testo, «quaeque augur iniusta
nefasta vitiosa dira deixerit, inrita infectaque sunto; quique non paruerit,
capital esto», riguarda la pratica esplicazione delle funzioni
precedentemente indicate; quest'attività dava luogo all’emanazione di decreta e responsa, atti raccolti, piuttosto, nei commentarii. Non appare, quindi, senza significato la collocazione
di questa parte alla fine del testo; cioè nettamente separata, anche se
concettualmente dipendente, dalle materie attribuibili ai libri augurum[141].
Sassari,
ottobre 1999.
* Relazione presentata al Seminario russo-italiano di studi storici e giuridici «Sacra e iura. Sacerdozi, documenti sacerdotali, formule solenni e lessico giuridico nella storiografia russa e italiana su Roma antica», tenutosi a Sassari, nei giorni 18-19 dicembre 1998, per iniziativa della Facoltà di Giurisprudenza e del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Sassari, con la collaborazione del “Zentr Isucenija Rimskogo Prava” (Centro per lo Studio del Diritto romano) di Mosca.
[1] Per l'archivio dei pontefici, a parte le opere di
I. A. Ambrosch citate nella nota seguente, vedi (ma senza pretesa di
completezza): J.-V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains, recherches
précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments
des journaux de l’ancienne Rome, Paris
[2] Le basi per la
ricostruzione critica del materiale contenuto negli archivi sacerdotali erano già
state poste, nella prima metà dell’Ottocento, dalle opere di I. A. Ambrosch: Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus,
Breslau
[3] F. Sini, Documenti sacerdotali e lessico politico-religioso di Roma arcaica,
in Atti del Convegno sulla lessicografia
politica e giuridica nel campo delle scienze dell'antichità (Torino, 28-29
aprile 1978), a cura di I. Lana - N. Marinone, [Suppl. al vol. 113, Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino,
II. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche], Torino 1980, 127 ss.; più in generale vedi C. Nicolet, Lexicographie politique et histoire romaine: problèmes de méthode et
directions de recherches, ibid.,
19 ss.
[4] Cfr., in tal senso, le «Remarques préliminaires
sur la dignité et l’antiquité de la pensée romaine» di G. Dumézil, Idées
romaines, Paris 1969, 9 ss.; in quelle pagine l’illustre studioso francese
ha dimostrato, in maniera peraltro assai convincente, che «des techniques aussi
complexes que l’augurale ius et le ius civile étaient constituées dès la
fin des temps royaux, avec la réglementation rigoureuse que nous leur
connaissons au seuil de l’Empire» (25).
Già negli studi sulla giurisprudenza romana di P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, I. Bis auf die Catonen, Berlin 1888, 15 ss., si dedicava ampio spazio all’analisi della «pontificale Jurisprudenz» e al ruolo insostituibile dei suoi «Ritualvorschriften», intesi non senza ragione come modelli della successiva elaborazione giurisprudenziale. Nello stesso senso, vedi G. Nocera, Iurisprudentia. Per una storia del pensiero giuridico romano, Roma 1973, 11 ss.; ma soprattutto F. Wieacker, Altrömische Priesterjurisprudenz, in Iuris professio. Festg. Kaser, Wien-Graz-Köln 1986, 347 ss.; Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I, München 1988, 310 ss. Più di recente, sono tornati su questi temi M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, 107 ss.; A. Schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, 4 s.; e C. A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, I. Dalle origini a Labeone, Torino 1997, 33 ss.
[5] Per la critica all'interpretazione "statualista'' del sistema giuridico-religioso romano, rinvio ad alcuni studi di P. Catalano: Populus Romanus Quirites, Torino 1974, 41 ss. (con ampia analisi [52 ss.] dei motivi di opposizione nei confronti della «Staatslehre» mommseniana, presenti nella cultura giuspubblicistica italiana dell’Ottocento); La divisione del potere in Roma repubblicana, in P. Catalano - G. Lobrano, Il problema del potere in Roma repubblicana, Sassari 1974, 9 ss. = Id., La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi Grosso, 6, Torino 1976, 673 ss. Da vedere anche J. Bleicken, Lex publica. Gesetze und Recht in der römischen Republik, Berlin-New York 1975, 16 ss. («Kritik der Staatsrechtslehre von Th. Mommsen»). Più di recente, tutta questa problematica è stata riaffrontata, con importanti contributi critici e metodologici, da G. Lobrano: Note su «diritto romano» e «scienze di diritto pubblico» nel XIX secolo, in Index 7 (1977) [pubbl. 1979] 66 s.; Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982, 6 ss.; Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari 1990, 81 ss.; Res publica res populi. La legge e le limitazioni del potere, Torino (1994) 1996, 42 ss.
[6] Utilizzo l’espressione «sistema giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle motivazioni offerte da P. Catalano (Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 30 ss., in part. 37 n. 75; Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 445 s.; Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 57), con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis Humanae'', Roma 1991, 34 s.
La validità del concetto di «ordinamento giuridico» viene ancora riaffermata negli ultimi scritti di R. Orestano, Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, 395 ss.; Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4 (1985) 959 ss., in part. 964 ss.; Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, Torino 19963, 10 ss. Assai più pragmatica, e non sempre in linea con le tesi dell’Orestano, appare invece la posizione di A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, Napoli 19905, 56 s.
[7] Per il significato e l'antichità del termine vedi A. Rostagni, Storia della letteratura latina, 1, Torino 19643, 41. Derivano certamente dagli archivi dei sacerdoti sia il carmen saliare (frammenti in: C. M. Zander, Carminis saliaris reliquiae, Lundae 1888; B. Maurenbrecher, Carminum Saliarium reliquiae, in Jahrbücher für classische Philologie, Suppl. 21, 1894, 315 ss.; W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et liricorum praeter Ennium et Lucilium, Stutgardiae 19272 [rist. 1963], 1 ss.) sia il carmen arvale (sul quale vedi: M. Nacinovich, Carmen arvale, 2 voll., Roma 1933-1934; E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern cit. 99 ss.; G. Radke, Archaisches Latein, Darmstadt 1981, 100 ss.; I. Paladino, Fratres Arvales. Storia di un collegio sacerdotale romano, Roma 1988, 195 ss.); ma anche le solenni formule giuridico-religiose di cui le fonti ci hanno conservato i testi: Inauguratio, in Liv. 1.18.6 ss.; foedus, in Liv. 1.24.3 ss.; indictio belli, in Liv. 1.32.11-13; deditio, in Liv. 1.38.2; devotio, in Liv. 8.9.16; evocatio, in Macr. Sat. 3.9.7. Cfr. C. M. Zander, Versus Italici antiqui, Lundae 1890; C. Thulin, Italische sakrale Poesia und Prosa. Eine metrische Untersuchung, Berlin 1906; G. Appel, De Romanorum precationibus, Gissae 1909 [Rist. an. New York 1975]; G. B. Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958.
[8] N.
D. Fustel de Coulanges, La cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de
L’influenza
sulla scienza romanistica francese di questo grande storico e comparatista, con
il quale «si percepisce oggi il caratteristico inizio di quella che è la
caratteristica storiografia francese del mondo antico nei suoi elementi
distintivi dalla storiografia tedesca del mondo antico» (A. Momigliano, La città antica di Fustel de Coulanges, in Rivista Storica Italiana 82 [1970] 81 = Id., Quinto contributo alla storia degli studi
classici e del mondo antico, 1,
Roma 1975, 159), è stata ben evidenziata da J.
Gaudemet, Tendances et méthodes en
droit romain, in Revue Philosophique 145
(1955) 151: «On sait les excés de la thèse de Fustel. Mais ce n’est pas ici en cause. C’est l’esprit qui
l’anime, le refus d’isoler le droit des autres manifestations d’une
civilisation. Par de voies différentes, l’historien Fustel rejoignait le
juriste Jhering. Pour l’un
comme pour l’autre, le droit romain n’était pas un amas de règles désuètes,
mais le témoin d’une civilisation»; e da A.
Fernández-Barreiro, Los estudios de
derecho romano en Francia después del código de Napoleón, Roma-Madrid 1970, 54, il quale ha
sottolineato che la «Cité antique
estaba destinada a influir poderosamente en la concepción sociológica de
Naturalmente non mancarono le critiche già
nell’Ottocento: cfr., ad esempio, H.
D’arbois de Jubainville, Réponse à
M. Fustel de Coulanges, in Id.,
Recherches sur l’origine de la propriété
foncière, et des Noms de lieux habités en
France, Paris 1890, xxiii-xxxi, in part. xxviii: «La cité antique n’est pas
exclusivement une institution religieuse: c’est la conquête à main armée et ce
n’est pas la religion qui est l’origine de la propriété foncière
indo-européenne. Si le père, le mari, le frère ont une situation si
exclusivement dominante dans la famille antique, ils ne le doivent pas
seulement à une conception religieuse; leur rôle sacerdotal n’est que
l’accessoire de leur superiorité guerrière sur l’enfant, la femme et la soeur.
[…] M. Fustel de Coulanges, en écrivant
In altra prospettiva vedi, più di recente,
C. Ampolo, Le origini di Roma e la «Cité antique», in Mélanges de l'École Française
de Rome 92, 1980, 567 ss.; C. Warnke, Antike Religion und antike Gesellschaft: wissenschaftshistorische
Bemerkungen zu Fustel de Coulanges “La cité antique”, in Klio 68 (1986) 287 ss.
[9] La distinzione tra i decreta e i responsa sacerdotali non risulta del tutto chiara in dottrina: per tutti, P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik cit. 29 ss.; E. De Ruggiero, v. Decretum, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, 2.2, Roma 1910, 1497 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, München 19122, 541 s., 527 ss., 551; F. Schulz, History of Roman Legal Science, Oxford 19532, 15 ss. [= Id., Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera, Firenze 1968, 37 ss.]. Nell’ambito di uno studio più ampio sulla normativa decretale in Roma repubblicana, si occupa dei decreta pontificum G. Mancuso, Studi sul decretum nell’esperienza giuridica romana, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 40 (1988) 78 ss.; infine L. L. Cohee, Responsa and decreta of Roman priesthoods during the Republic, Dissertation University of Colorado at Boulder 1994.
Per quanto riguarda i responsa, non è neppure certo se, e in che misura, essi vincolassero il magistrato, il senato o il privato che li avevano richiesti; tuttavia il prestigio dei sacerdoti era tale da far sì che raramente venissero disattesi. Cfr. Cic. De har. res. 6.12: Quae tanta religio est qua non in nostris dubitationibus atque in maximis superstitionibus unius P. Servili ac M. Luculli responso ac verbo liberemur? De sacris publicis, de ludis maximis, de deorum penatium Vestaeque matris caerimoniis, de illo ipso sacrificio quod fit pro salute populi Romani, quod post Romam conditam huius unius casti tutoris religionum scelere violatum est quod tres pontifices statuissent, id semper populo Romano, semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum esse visum est.
[10] Mi permetto di rinviare a quanto ho già trattato in un mio precedente lavoro (F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 163 ss.), dove credo di aver dimostrato la sostanziale continuità della tradizione documentaria sacerdotale, individuando, anche, alcune probabili revisioni o sistemazioni dei materiali degli archivi nel corso della storia di Roma.
[11] Liv. 1.20.1-7: Tum sacerdotibus creandis animum adiecit, quamquam ipse plurima sacra obibat, ea maxime quae nunc ad Dialem flaminem pertinent. […] Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium, ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset, quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec caelestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Commento al passo in R. M. Ogilvie, Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965 [Reprinted 1998], 101.
[12] Sul particolare
significato da attribuire all'espressione exscripta
exsignataque, nonché per la ricostruzione dei materiali in essi contenuti,
vedi E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le lettere, Bologna
1973, 155 ss.: «E quindi si dovrà attribuire a exscripta exsignataque un
preciso valore tecnico; e ciò a tanto maggior ragione in quanto lo stile arido
e minuzioso della notizia liviana esclude che si possa vedere in tale binomio
un’espressione ridondante, come invece presuppongono certe versioni […] è impossibile dire cosa significhi
propriamente exsignatus nel passo
liviano (munito di sigillo impresso con un anello, accompagnato da una formula
di approvazione, da un explicit,
ecc.), ma l’espressione exscripta
exsignataque non lascia dubbio che il testo affidato al pontefice era una
copia, integrale o parziale, autenticata dal rex, degli stessi libri
latini “iuris pontificii” che si ritroveranno nel
[13] Liv. 1.32.1-2: Mortuo Tullo res, ut institutum iam inde ab
initio erat, ad patres redierat, hique interregem nominaverant. Quo comitia
habente Ancum Marcium regem populus creavit; patres fuere auctores. Numae
Pompili regis nepos, filia ortus, Ancus Marcius erat. Qui ut regnare coepit et
avitae gloriae memor et quia proximum regnum, cetera egregium, ab una parte
haud satis prosperum fuerat, aut neglectis religionibus aut prave cultis, longe
antiquissimum ratus sacra publica ut ab Numa instituta erant, facere, omnia ea
ex commentariis regis pontificem in album relata proponere in publico iubet. Inde
et civibus otii cupidis et finitimis civitatibus facta spes in avi mores atque
instituta regem abiturum. Per la critica al testo liviano rinvio al commento di R. M. Ogilvie, Commentary on Livy. Books 1-5 cit. 126 s.
[14] Pomp. D. 1.2.2.2: Et ita leges quasdam et ipse curiatas ad populum tulit: tulerunt et
sequentes reges. Quae omnes conscriptae exstant in libro Sexti Papirii, qui
fuit illis temporibus, quibus Superbus Demarati Corinthii filius, ex
principalibus viris. Is liber, ut diximus, appellatur ius civile Papirianum,
non quia Papirius de suo quicquam ibi adiecit, sed quod leges sine ordine latas
in unum composuit. Cfr. Macr. Sat.
3.11.5; Paul. D. 50.16.144.
[15] Liv. 6.1.9-10:
Hi ex interregno cum extemplo magistratum inissent, nulla de re prius quam de
religionibus senatum consuluere. In primis foedera ac leges erant autem
eae duodecim tabulae et quaedam regiae leges conquiri, quae comparerent,
iusserunt. Alia ex eis edita etiam in volgus; quae autem ad sacra pertinebant,
a pontificibus maxime, ut religione obstrictos haberent multitudinis animos
suppressa. Per un recente commento al testo liviano, vedi S. Oakley, A commentary on Livy, Books vi-x,
1. Introduction and Book vi, Oxford 1997, 393 ss.
[16] Liv. 10.6.3-6: Tamen, ne undique tranquillae res essent, certamen iniectum inter
primores civitatis, patricios plebeiosque, ab tribunis plebis Q. et Cn.
Ogulniis, qui undique criminandorum patrum apud plebem occasionibus quaesitis,
postquam alia frustra temptata erant, eam actionem susceperunt qua non infimam
plebem accederent, sed ipsa capita plebis, consulares triumphalesque plebeios,
quorum honoribus nihil praeter sacerdotia, quae nondum promisqua erant,
deesset. Rogationem ergo promulgarunt, ut, cum quattuor augures, quattuor
pontifices ea tempestate essent placeretque augeri sacerdotum numerum, quattuor
pontifices, quinque augures de plebe omnes adlegerentur. 10.9.1-2: Vocare tribus extemplo populus iubebat,
apparebatque accipi legem; ille tamen dies intercessione est sublatus; postero
die deterritis tribunis ingenti consensu accepta est. Pontifices creantur
suasor legis P. Decius Mus, P. Sempronius Sophus, C. Marcius Rutilus, M. Livius
Denter; quinque augures item de plebe: C. Genucius, P. Aelius Paetus, M.
Minucius Faesus, C. Marcius, T. Publilius. Ita octo pontificum, novem augurum numerus factus. Su questo
plebiscito cfr., fra gli altri, G.
Rotondi, Leges publicae populi
Romani, Milano 1912 [rist. Hildeshem - Zürich - New York 1990], 236; G. Niccolini, I fasti dei tribuni della plebe, Milano 1934, 77; K. J. Hökelkamp, Die Plebiscitum
Ogulnium de sacerdotibus. Überlegungen zu Authentizität
und Interpretation der livianischen Überlieferung, in Rheinisches Museum 131 (1988) 51 ss.
[17] Il riferimento a P. Mucio Scevola si legge in Cic. De orat. 2.52: Erat enim historia nihil aliud nisi annalium confectio; cuius rei memoriaeque publicae retinendae causa ab initio rerum Romanarum usque ad P. Mucium pontificem maximum res omnis singulorum annorum mandabat litteris pontifex maximus efferebatque in album et proponebat tabulam domi, potestas ut esset populo cognoscendi: ei qui etiam nunc annales maximi nominantur. Cfr. Serv. Dan. Aen. 1.373: Ita autem annales conficiebantur: tabulam dealbatam quotannis pontifex maximus habuit, in qua praescriptis consulum nominibus et aliorum magistratuum digna memoratu notare consueverat domi militiaeque terra marique gesta per singulos dies. Cuius diligentiae annuos commentarios in octaginta libros veteres retulerunt, eosque a pontificibus maximis a quibus fiebant annales maximos appellarunt.
Sull’attività
di giurista e di uomo politico del grande pontefice, vedi fra gli altri: E. S. Gruen, The Political Allegience of the P. Mucius Scaevola, in Athenaeum 43 (1965) 321 ss.; G. Grosso, P. Mucio Scevola tra politica e diritto, in Archivio Giuridico 175 (1968) 204 ss.; R. Seguin, Sacerdoces
et magistratures chez les Mucii Scaevolae, in Revue des études
Anciennes 72 (1970) 90 ss.; F.
Wieacker, Die römischen Juristen
in der politischen Gesellschaft des zweiten vorchristlichen Jahrhunderts,
in Sein und
Werden im Recht. Festg. von Lübtow, Berlin 1970, 183 ss., 204
ss.; Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung,
Jurisprudenz und Rechtsliteratur, 1 cit. 547 ss.; O. Behrends, Tiberius
Gracchus und die Juristen seiner Zeit - die römische Iurisprudenz gegenüber der
Staatskrise des Jahres 133 v. Chr., in Das
Profil des Juristen in der europäischen Tradition. Symposion Wieacker,
hrsg. von K. Luig und D. Liebs, Ebelsbach am Main 1980, 25 ss., 51 ss.; A. Guarino, La coerenza di Publio Mucio, Napoli 1981; M. Bretone, Tecniche e
ideologie dei giuristi romani, Napoli 19822, 255 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in
their political setting, 316-82 BC, München 1983, 230 ss.; A. Schiavone, Giuristi e nobili nella repubblica romana, Roma-Bari 1987, 3 ss.; Id., Linee di storia del pensiero giuridico romano cit. 41 ss.
[18] Per i frammenti
superstiti, vedi J.-V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains cit. 344
ss.; H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, 1,
Stutgardiae 19142 [editio stereotypa 1967], 3 s. Le più recenti raccolte di
frammenti sono opera di B. W. Frier, Libri Annales pontificum Maximorum. The Origins of the
Annalistic Tradition,
Rome 1979; e di M. Chassignet, L’annalistique romaine, 1. Les annales des pontifes et l’annalistique
ancienne (fragments), Texte établi et traduit par M. Ch., Paris 1996.
[19] Questo significato
di religio è attestato da Cic. De nat. deor. 2.8: C. Flaminium
Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei
publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam
amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum
externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione,
id est cultu deorum, multo superiores. Sul passo, vedi fra gli altri
C. Bailey, Phases in the religion of ancient Rome, Berkeley 1932, rist. Westport, Conn. 1972, 274 s.; R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden-New York-København-Köln 1988,
5 s.: «C'est à la piété collective et institutionnelle, aux religiones de la cité que les Romains
attribuaient le succès de leur politique et leur hégémonie universelle. [...] A
cet égard, les Romains pouvaient à bon droit se targuer de l'emporter sur tous
peuples religione, id est cultu deorum»;
da ultimo, M. Humbert, Droit et religion dans
Nello stesso senso, anche altri testi ciceroniani: De nat. deor. 1.117: religionem, quae deorum cultu pio continetur. De leg. 1.60: cum [animus] suis omnisque natura coniunctos suos duxerit cultumque deorum et puram religionem susceperit. De leg. 2.30: Quod sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum, ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper populum indigere. Discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset infinitum, neque ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra collegium nosset. De har. resp. 18: Ego vero primum habeo auctores ac magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta fuisse sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum prudentiam non dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint; qui statas sollemnisque caerimonias pontificatu, rerum bene gerendarum auctoritates augurio, fatorum veteres praedictiones Apollinis vatum libris, portentorum expiationes Etruscorum disciplina contineri putaverunt.
Più in generale, sul significato di religio cfr. H. Fugier, Recherches
sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 172 ss.; é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir,
droit, religion, Paris
1969, 265 ss.; H. Wagenvoort, Wesenzüge altrömischer Religion, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
I.2, Berlin-New York 1972, 348 ss. (ripubblicato col titolo Characteristic Traits of Ancient Roman
Religion, in Id., Pietas. Selected studies in Roman Religion,
Leiden 1980, 223 ss.); G. Lieberg,
Considerazioni sull'etimologia e sul
significato di Religio, in Rivista di
Filologia e di Istruzione Classica 102 (1974) 34 ss.; R. Muth, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 290 ss.; R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in Id., Rites, cultes, diex de Rome, Paris 1979, 30 ss.; E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia
Virgiliana, 4, Roma 1988, 423 ss. Quanto invece all'antitesi religio/superstitio, vedi il lavoro
ormai classico di W. F. Otto, Religio und Superstitio, in Archiv für Religionswissenschaft 14
(1911) 406 ss.; e il recente saggio di M.
Sachot, Religio/superstitio. Histoire
d'une subversion et d'un retournement, in Revue de l'Histoire des
Religions 208 (1991) 355 ss.
[20] Sul valore da attribuire a questa espressione giuridico-religiosa, «certo antichissima, che indica l’insieme dei cittadini romani», mi sembrano del tutto convincenti le tesi di P. Catalano: Populus Romanus Quirites cit. in part. 97 ss.
[21] La validità della
tradizione annalistica ed il valore storiografico delle fonti letterarie sono
ormai generalmente confermati dagli studi più recenti: vedi, ad esempio, R. Bloch, Le origini di Roma,
trad. it., Milano 1961 [19774], 42 ss., 89 ss.; R. M. Ogilvie, Early
Rome and the Etruscans, Hassocks
1976, 15 ss. [cfr. anche la traduzione italiana, seppure edita con titolo
diverso: Le origini di Roma, Bologna
1986, 13 ss.]; J. Gagé, La chûte des Tarquins et les débuts de
[22] Per un riesame dei «filoni di tradizione», ma più in particolare «dell’antietruschismo e del filoetruschismo nella tradizione storiografica su Roma», vedi la ricerca di D. Musti, Tendenze nella storiografía romana e greca su Roma arcaica. Studi su Tito Livio e Dionigi d'Alicarnasso, Urbino 1970.
[23] Un caso esemplare di notizie del tutti diseguali dal punto di vista dell’attendibilità, pur essendo riportate nello stesso testo, ci è offerto dal passo Cic. De re publ. 1, 63: Nam dictator quidem ab eo appellatur, quia dicitur, sed in nostris libris vides eum, Laeli, magistrum populi appellari. Dal passo si ricavano, dunque, due informazioni: la prima riguarda una proposta di etimologia del termine dictator (quia dicitur); la seconda attiene invece all’arcaica denominazione ufficiale del dittatore (magister populi). Mi pare del tutto evidente, che la ragione del diverso valore delle due notizie sia da ricercare nella differente qualità delle fonti da cui Cicerone ha tratto a sua volta le informazioni: per l’etimologia si è certamente avvalso di un’opera della scienza filologico-antiquaria del suo secolo, mentre ha ricavato la denominazione arcaica del magistrato direttamente dai libri degli auguri. Cfr. F. SINI, A proposito del carattere religioso del dictator (note metodologiche sui documenti sacerdotali), in Studia et Documenta Historiae et Iuris 42 (1976) 419.
[24] Così, soprattutto, A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome cit. 19 ss.; M. Voigt, über die Leges regiae, II. Quellen und Authentie der Leges regiae, in Abhandlungen der philologisch-historischen Classe der königlich sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften 7 (1873-79) 647 ss. P. Regell, De augurum publicorum libris cit. 30 ss.; R. Bonghi, Storia di Roma, 2, Milano 1888, 222 ss.; G. Rohde, Die KuItsatzungen der römischen Pontifíces cit. 16 ss.
[25] Si può ragionevolmente dubitare che nella più antica tradizione giuridico-religiosa dei sacerdoti romani vi fosse un precipuo interesse ad ordinare per "generi" i materiali da conservare negli archivi. D’altra parte, un marcato disinteresse per i generi letterari si riscontra nelle diverse fasi della cultura giuridica romana (in particolare per quanto riguarda «l'assenza, entro la cultura giuridica romana, di una sistematica delle opere letterarie in campo giuridico», vedi L. Lantella, Le opere della giurisprudenza romana nella storiografia, Torino 1979, 63 ss.), che a buon diritto si è soliti considerare erede diretta di quella tradizione: cfr. P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik cit. 15 ss.
Dello
stretto legame fra tradizione sacerdotale e cultura giurisprudenziale (G. Nocera, Iurisprudentia cit. 9 ss.; A.
Schiavone, Nascita della
giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero giuridico nella Roma
tardorepubblicana, Bari 1976) resta, peraltro, ancora coscienza sia nella
qualifica di iudex atque arbiter rerum
divinarum humanarumque che Verrio Flacco attribuisce al Pontefice Massimo
(Fest. v. ordo, p.
[26] Una convincente critica dei più significativi fra questi moderni tentativi di ricostruzione "alternativa" delle vicende storiche della più antica Roma, si trova nel lavoro, ormai classico, di C. Barbagallo, Il problema delle origini di Roma da Vico a noi, Milano 1926 [rist. anast. Roma 1970]; sulla questione è però da vedere anche il contributo, ormai altrettanto classico, di S. Mazzarino, Storia romana e storiografía moderna, Napoli 1954.
[27] Per la terminologia,
nonché per la definizione più generale di fonti primarie e secondarie, seguo A. Guarino, Esegesi delle fonti del diritto romano,
[28] Le fonti epigrafiche, che menzionano testualmente libri e commentarii sacerdotali, sono state discusse da F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 111 ss.
[29] Per le fonti letterarie si vedano: G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer cit. 4 ss.; N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, 337 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte cit. 4 ss.; G. B. Pighi, La religione romana cit. 27 ss., 41 ss.; cfr. inoltre G. Dumézil, La religion romaine archaïque cit. 111 ss. [= Id., La religione romana arcaica, trad. it., cit. 99 ss.].
[30] A titolo esemplificativo, oltre il già citato Cic. De re publ. 1.63, vedi anche Macr. Sat. 1.12.21-22: Auctor est Cornelius Labeo huic Maiae id est terrae aedem kalendis Maiis dedicatam sub nomine Bonae Deae et eandem esse Bonam Deam et terram ex ipso ritu occultiore sacrorum doceri posse confirmat. Hanc eandem Bonam Faunamque, Opem et Fatuam pontificum libris indigitari: Bonam quod omnium nobis ad victum bonorum causa est, Faunam quod omni usui animantium favet, Opem quod ipsius auxilio vita constat, Fatuam a fando quod, ut supra diximus, infantes partu editi non prius vocem edunt quam attigerint terram. R. Agahd, Antiquitates rerum divinarum. Libri i xiv xv xvi. Praemissae sunt quaestiones varronianae, in Jahrbücher für classische Philologie, Supplementband 24, (Leipzig) 1898, 116 s., attribuiva il passo al xvi libro delle Antiquitates di Varrone; cfr. anche G. Rohde, Die KuItsatzungen der römischen Pontifíces cit. 44 s. Nega, invece, che questo frammento dei Fastorum libri di Cornelio Labeone possa essere di derivazione varroniana P. Mastandrea, Un neoplatonico latino, Cornelio Labeone (testimonianze e frammenti), Leiden 1979, 51 s.: «In relazione a questo passo fu condotta in passato una ricerca di supposte “Zwischenquellen” labeoniane, ma senza che si siano raggiunti risultati apprezzabili; in particolare, mi sembra si possa respingere con sicurezza il nome di Varrone, suggerito dal Kahl e dall’Agahd»; per questo studioso, i materiali da cui aveva attinto il neoplatonico erano ben più significativi delle “antichità divine” del grande Reatino: «La fonte cui ricorreva Labeone in questa circostanza erano dunque i Libri pontificales, gli archivi dei pontefici romani ove si conservavano gelosamente le norme e gli ordinamenti del rito e del culto».
Il culto
di Bona Dea è stato studiato, fra gli altri, da E. Caetani Lovatelli, L’antico
culto di Bona dea in Roma, in
[31] Sull’apporto specialistico della filologia, vedi G. Pascucci, Diritto e filologia, in Romanitas 9 (1970) [= Annales I Colloqui Internationalis de iure Romano lingua litterisque Latinis] 53 ss.; H. Le Bonniec, La philologie latine au service de l’histoire de la religion romaine, in Bulletin de l’Association G. Budé (1979) 389 ss. Per quanto riguarda invece gli studi lessicografici, vedi Atti del Convegno sulla lessicografía politica e giuridica nel campo delle scienze dell'antichità cit.: particolarmente stimolante la relazione di C. Nicolet, Lexicographie politique et histoire romaine: problèmes de méthode et directions de recherches (19 ss.).
[32] A.
Bouché-Leclercq, Les
Pontifes de l’ancienne Rome cit. 21-22; lo studioso francese
mostrava di non ritenere affidabile la terminologia con cui le fonti indicano i
documenti sacerdotali: «La multiplicité et le peu de précision de ces termes
recueillis çà et là dans des auteurs qui se contentent d’indiquer le genre de
sources où ils puisent, sans prétention à l’exactitude, nous avertissent assez
qu’il est impossible d’établir sur des renseignements aussi vagues une
classification rigoureuse. […] Si la comparaison des textes donnés comme
extraits des Libri pontificales prouve quelque chose, c’est
l’extension de ce titre, extension qui permet d’en faire le synonyme d’Archives pontificales et de l’appliquer à la collection entière des
documents émanant du collège ou confiés à sa garde. Les Commentarii, à cause de
leur double caractère historique et religieux, tiennent d’un côté aux rituels,
de l’autre aux annales, et se substituent perpétuellement, sous la plume des
auteurs, aux uns et aux autres». Sull’opera storico-giuridica del
Bouché-Leclercq (autore fra l’altro della Histoire
de la divination dans l’Antiquité, 4 voll., Paris 1879-1882 [ristampa an. Bruxelles 1963] e di un famoso Manuel des institutions romaines, Paris
1886) vedi, per tutti, A.
Fernández-Barreiro, Los estudios
de derecho romano en Francia después del código de Napoleón cit. 76 ss.
(ivi la bibliografia precedente).
[33] P. Regell, De
augurum publicorum libris cit. 34: «Adlatis exemplis scriveva il
Regell satis, opinor, dilucide comprobatur, commentariorum nomen non
minus late pertinere quam librorum et utroquo promiscue nomine veteres, nullo
certo discrimine usos esse».
[34] Fra gli studiosi
che sostengono queste tesi, anche con esplicite critiche alla mia impostazione,
vedi J. Linderski, The ‘Libri Reconditi’, in Harvard Studies in Classical Philology
89 (1985) 207 ss., in part. 218
(«They demonstrated that there was no difference between the libri and commentarii: the two terms were used interchangeably. This new
intepretation was endorsed by Wissowa and extensively corroborated by Rohde;
now it forms the communis opinio»); Id., The Augural Law
cit. 2243 («According to Regell, whose opinion was emphatically endorced by
Wissowa and Rohde, there was no difference between the libri and commentarii;
the two terms were used interchangeably»); J.
Rüpke, Livius, Priesternamen und
die annales maximi, in Klio 75
(1993) 155 ss., in part. 171
(«Dieser Vielfalt entspricht die Unverbindlichkeit in der Terminologie der
Titel, die sich nicht in der lagen und noch immer anhaltenden Kontroverse, ob commentarii und libri pontificum dasselbe bezeichnen, niedergeschlagen hat. Diese
Frage muss trotz des erneuten Versuchs Francesco Sinis, die schwankende
Terminologie der Titel inhaltlichen Differenzen zu verbinden, als entschieden
betrachtet werden. Veschiedene Dissertationen der Breslauer Schule (Ambrosch,
Reifferscheid, Wissowa) haben sich dem Problem gewidmet, und schon in der
ersten Arbeit konnte Paul Preibisch die Unhaltbarkeit der Differenzierung
demonstrieren»); J. Scheid, L’écrit et l’écriture dans la religion
romaine: mythe et rèalité, in Lire
l’écrit. Textes, archives, bibliothèques dans l’Antiquité, études
réunies par B. Gartien et R. Hanoune = «Ateliers».
Cahiers de
[35] Per una rapida ed esauriente verifica si vedano W. Bannier, v. Commentarius, in Thesaurus linguae Latinae, 3, 1911, coll. 1856 ss.; J. von Kamptz, v. Liber, ibidem, 7.2, 1974, coll. 127 ss.
[36] Cfr. Serv. Aen. 11.554: ‘Libro’ liber dicitur interior corticis pars, quae ligno cohaeret: alibi alta liber aret in ulmo. Unde et liber dicitur in quo scribimus, quia ante usum chartae vel membranae de libris arborum volumina fiebant, id est conpaginabantur. Ecl. 10.67: Liber corticis pars interior.
[37] Testo in Fontes iuris Romani antejustiniani, II (Auctores), ed. J. Baviera, Firenze 19402
[rist. 1968], 369 s. è assai
dubbio che l’autore delle Sententiae sia
proprio il giurista Paolo; l’opinione prevalente nella dottrina moderna
ritiene, infatti, che l’opera fu sicuramente composta da uno sconosciuto
giurista postclassico, il quale però si sarebbe giovato per il suo lavoro
soprattutto di scritti paolini: in questo senso vedi, fra gli altri, F. Schulz, Histoy of Roman Legal Science cit. 176 ss. [= Storia della giurisprudenza romana cit. 312 ss.]; L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts cit. 518, ivi n. 307 ampia
rassegna della bibliografia precedente; F.
Wieacker, Textstufen klassischer
Juristen, Göttingen 1960, 453; B.
Santalucia, I legati ad effetto
liberatorio nel diritto romano, Milano 1964, 148 n. 74; C. A. Maschi, La conclusione della giurisprudenza classica all’età dei Severi. Iulius
Paulus, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
II.15, Berlin-New York 1976, 680.
[38] Cfr. F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 91 ss.
[39] Cfr. G. Lodge, Lexikon Plautinum, 1, Leipzig 1924 [rist. an. Hildesheim-New York 1971], 893. Più in generale, sull’opera di Plauto e sulla sua epoca: M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, 1, München 19274, 55 ss.; E. Sonnenburg, v. Maccius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 14.1, Stuttgart 1928, coll. 95 ss.; I. Lana, Aspetti della vita quotidiana e della società romana nel teatro di Plauto, Torino 1960; F. Della Corte, Da Sarsina a Roma: ricerche plautine, Firenze 19672.
[40] P.
Regell, De augurum
publicorum libris cit. 34.
[41] C.I.L. 6,1, 2104 b 30: Primus Corne[lianus pub]l(icus) [a c]omm(entariis) fratr(um) Arv(alium).
6, 2312: Dis Manibus Myrini Domitiani
publici a commentaris XV vir(um) s(acris) f(aciundis) Arruntia Doliche fecit coniugi
carissimo. 6, 2319 b: …lianus
Flavianus a comme[nt(ariis) sa]cerdoti VII virum epulonu(m). Gu. Henzen,
Acta fratrum arvalium quae supersunt,
Berolini 1874, 134; A. von Premerstein,
v. Commentarii, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft
4.1, Stuttgart 1900, col. 731; più in generale, su questi publici vedi J. Marquardt,
Römische Staatsverwaltung, 3, cit.
224 s. [= Id., Le culte chez les Romains, 1, cit. 269
ss.]; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer cit. 496
s.; appena un cenno in K. Latte, Römische Religionsgeschichte cit. 409 n.
5. Per una recente messa a punto sulla questione, rinvio al bel lavoro
di W. Eder, Servitus publica. Untersuchungen zur Entstehung, Entwicklung
und Funktion der öffentlichen Sklaverei in Rom, Wiesbaden 1980, 41 ss.
[42] Le testimonianze epigrafiche riguardano, invero, soprattutto il periodo imperiale, durante il quale la qualifica a commentariis o commentarienses si trova attribuita a funzionari di numerosi uffici, sia dell’amministrazione centrale che di quella periferica. Per l’enumerazione, vedi E. De Ruggiero, v. Commentarii, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane 2.1 [rist. an. Roma 1961], 539 ss.
[43] Il testo
epigrafico in questione, a partire dal Sigonio, venne per lungo tempo identificato
con la legge di C. Servilio Glaucia; così ancora il primo editore
dell'Ottocento: Fragmenta legis Serviliae
repetundarum ex tabulis aeneis primum coniunxit restituit illustravit C. A. C. Klenze, Berolini 1825. Th. Mommsen, in C.I.L. 1, Berolini 1863,
49 n.
Alcuni, come J. Carcopino (Autour des Gracques [1928], Paris 19672, 230 ss.) e H. B. Mattingly (The two Republican Laws of the Tabula Bembina, in The Journal of Roman Studies 59 (1969) 129 ss.; The Extortion Law of the Tabula Bembina, ibidem 60 [1970] 154 ss.; The Extortion Law of Servilius Glaucia, in Classical Quarterly 25 [1975] 255 ss.) ritornano alla vecchia tesi ed identificano il testo con la lex Servilia repetundarum.
L'opinione ora
prevalente fra gli studiosi riconosce nel testo epigrafico la lex iudiciaria di C. Gracco: in tal
senso vedi, fra gli altri, G. Tibiletti,
Le leggi “de iudiciis repetundarum” fino
alla guerra sociale, in Athenaeum
31(1953) 5 ss.; F. Serrao, Appunti sui “patroni” e sulla legittimazione
attiva all`accusa nei processi “repetundarum”, in Studi De Francisci, 2, Milano 1954, 480 ss. [= Id., Classi partiti e legge nella repubblica romana, Pisa 1974, 212 ss.]; Id.,
v. Repetundae, in Novissimo Digesto Italiano 15, Torino
1968, 454 ss. [= Id., Classi partiti e legge cit. 240 ss.]; C. Nicolet, L’ordo
équestre à l’époque républicaine (312 43 av. J. C.), 1. Définitions juridiques et structures sociales, Paris 1966, 487 ss.; A. N. Shervin-White, The Date of the Lex Repetundarum and its
Consequences, in The Journal of Roman
Studies 62 (1972) 83 ss.; C.
Venturini, Studi sul “crimen
repetundarum” in età repubblicana, Milano 1979, 1 ss.
[44] Mi pare convincente l'affermazione di F. R. Rossi, v. Libri, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane 4, Roma 1958, 966, per il quale: «Libri, in particolare, è adoperato già qui per scritti su rotoli di qualsiasi materiale e non solo di papiro».
[45] C.I.L. 12, 2, 482 n. 593, 142-156; Fontes iuris Romani antejustiniani, I, cit. 140 n. 13; per il testo seguo quello accolto in: Les lois des Romains [7e édition des «Textes de droit romain», Tome II, de F. Girard et F. Senn], a cura di V. Giuffrè, Camerino 1977, 83 ss.
[46] Sulle modalità del
censimento e più in generale sul significato del census vedi: J. Suohlati,
The Roman Censors, Helsinki
1963, 20 ss.; G. Piéri, L'histoire du cens jusqu’á la fin de
[47] Di senatus consulta raccolti in libri abbiamo invero notizia anche per
la tarda età repubblicana: cfr. Cic. Ad
Att. 13.33.3: Reperiet ex eo libr, in
quo sunt senatus consulta Cn. Cornelio L. (Mummio) consulibus. Sulla
ragione di questa nuova e singolare denominazione, vedi Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, 3, rist.
Basel-Stuttgart 1963, 1009-1010: «In dieser Weise ist der Senatsbeschluss bis
in die Kaiserzeit hinein niedergeschrieben worden. Unter Hadrian und Pius aber
wird dem angenommenen Beschlussvorschlag der Name des Vorschlagenden (sententia dicta ab illo) beigefügt, wie
denn auch das Beschlussbuch jezt liber sententiarum in senatu dictarum
genannt wird» [= Id., Droit public romain, 7, Paris 1891,
205].
[48] Serv. Dan. Georg. 1.21: 'Dique deaeque omnes' post specialem invocationem transit ad generalitatem, ne quod numen praetereat, more pontificum, (per) quos ritu veteri in omnibus sacris post speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod fiebat, necesse erat invocari, generaliter omnia numina invocabantur. Quod autem dicit "studium quibus arva tueri", nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum continent, quae etiam Varro dicit. Nam, ut supra diximus, nomina numinibus ex officiis constat inposita, verbi causa ut ab occatione deus Occator dicatur, a sarritione Sarritor, a stercoratione Sterculinius, a satione Sator. Seguo la lezione del testo serviano offerta da B. Cardauns: M. Terentius Varro, Antiquitates rerum divinarum, 1. Die Fragmente, Wiesbaden 1976, 64 fr. 87; l'insigne studioso ritiene, non senza ragione, che il passo di Servio sia in realtà un frammento varroniano, tratto dal xiv libro delle Antiquitates rerum divinarum [Op. cit., 2. Kommentar, 184]. Brevemente, vedi anche F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 108 s.; Id., Dai peregrina sacra alle pravae et externes religiones dei baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 60 (1994) [= Studi Lombardi, 1, Roma 1996] 59, per il quale il passo costituisce una testimonianza preziosa sia della «rigorosa propensione del collegio pontificale a determinare esattamente i nomina deorum»; sia della cautela rituale delle formule di preghiera elaborate dai sacerdoti romani, «i quali, quasi ad esorcizzare l’umana impossibilità di conoscere il numero degli dèi, prescrivevano al fedele di rivolgersi sempre ad generalitatem, ne quod numen praetereat, una volta pronunciata l’invocazione alle divinità particolari onorate nella cerimonia».
[49] Isid. Orig. 6.12.1: Quaedam nomina librorum apud gentiles certis modulis confíciebantur. Breviori forma carmina atque epistolae. At vero historiae maiori modulo scribebantur; A. von Premerstein, v. Libellus cit. 27: «L(ibellus) ist Deminutiv zu liber, ob es wie dieses ursprünglich die Bedeutung von “Bast” haben kann [...] ist unsicher. Die gewöhnliche Bedeutung ist die eines kleineren Papyrusstückes»; G. Samonati, v. Libellus, in Dizionario Epigrafíco di Antichità Romane 4, Roma 1957, 801: «Libellus è parola di molteplici significati, che si possono ridurre al concetto materialmente fondamentale di foglio o fogli scritti». Cfr. J. von Kamptz, v. Libellus cit. 1262 ss.
[50] Gu. Henzen, Acta fratrum Arvalium cit. cciv; E. Norden, Aus altrömischen Priesterbuchern cit.
109 ss.; J. Scheid, Romulus et ses frères. Le
collège des frères arvales, modèle du culte public dans
[51] Non posso certo
condividere, su questo punto, la posizione di J.
Scheid, L’écrit et l’écriture dans
la religion romaine: mythe et rèalité cit. 103, il quale sottovaluta senza
fondate argomentazioni l’importanza dell’utilizzazione dei libelli da parte dei sacerdoti arvali: «Jamais non plus les
commentaires ne mentionnent un Ritualtext,
un document où seraient exposés les règles rituelles régissant ce culte. Les arvales utilisaient à l’occasion des libelli, des livrets de prière, mais
ceux-ci étaient des accessoires du culte plutôt que des livres proprement
dits».
[52] Per valutazioni
storico-giuridiche, letterarie e bibliografia precedente sull’orazione ciceroniana,
rimando alle introduzioni dell'edizione francese curata da P. Wuilleumier, Ciceron, Discours, 13, Paris 1952, e di quella italiana curata da G. Bellardi, Le orazioni di M. Tullio Cicerone, 3, Torino 1975. Cfr., inoltre, R. J. Goar, Cicero and the State Religion,
[53] Altre fonti: Cic. De leg. 2.42; Plut. Cic.
33; Cass. Dio 38.17.6. Sull'episodio, da ultimo, vedi B. Berg,
Cicero's Palatine home and Clodius'
shrine of liberty: alternative emblems of the Republic in Cicero's De domo sua,
in Studies in Latin literature and Roman
history,
Il culto della Libertas ebbe ufficialmente inizio nella seconda metà del III secolo a.C.; proprio in quegli anni, infatti, fu dedicato a questa divinità un tempio nell'Aventino da parte di Ti. Sempronio Gracco, console dell'anno 238 (Liv. 24.16.19). Cfr. G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer cit. 138 s.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte cit. 256; C. Koch, v. Libertas, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 13.1, Stuttgart 1926, 101 ss.; R. F. Rossi, v. Libertas Dea, in Dizionario Epigrafíco di Antichità Romane 4, Roma 1958, 903.
[54] Alle molteplici problematiche religiose e giuridiche affrontate nell’orazione ciceroniana ha dedicato una sua recente monografia la studiosa tedesca Claudia Bergemann, Politik und Religion im spärepublikanischen Rom, Stuttgart 1992. Quanto al valore dei testi citati per la distinzione tra libri e commentarii dei pontefici, vedi F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 96 ss., 172.
[55] Questa tesi è stata sostenuta, fra gli altri, da G. Rohde, Die KuItsatzungen der römischen Pontifíces cit. 15 ss.
[56] Cfr. Cic. De
dom. 127; Ad Att. 4.2.2; Cass. Dio
39.11. Per la lista dei pontefici del
[57] Cic. De dom. 33: Quid est enim aut tam adrograns quam de religione, de rebus divinis, caerimoniis, sacris pontificum collegium docere conari, aut tam stultum quam, si quis quid in vestris libris invenerit, id narrare vobis, aut tam curiosum quam ea scire velle, de quibus maiores nostri vos solos et consuli et scire voluerunt?
[58] P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum cit. 9 fr. 41 e 42; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, Pars prior: Liberae Rei Publicae iuris consulti, Lipsiae 1896 [Ediz. an. Roma 1964], 33 fr. 6; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, Editione sexta aucta et emendata, Volumen prius, Reprint der Originalausgabe (6. Aufl.) von 1908, Leipzig 1988, 8 fr. 5. Cfr. G. Lepointe, Quintus Mucius Scaevola, 1. Sa vie et son oeuvre juridique. Ses doctrines sur le Droit pontifical, Paris 1926, 85 ss.; S. Tondo, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, 43 ss. Da ultimo, in altra prospettiva, ribadisce che «le testimonianze ciceroniane sono degne di fede», F. Bona, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, in La certezza del diritto nell'esperienza giuridica romana, Padova 1987, 117 ss.
[59] Sul problema dell'utilizzazione di testi scritti, conservati negli archivi sacerdotali, per l’espletamento di funzioni cultuali, vedi G. Appel, De Romanorum precationibus cit. 206; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices cit. 64 ss.
[60] Riguardo alla declamazione dei verba concepta, rinvio alle considerazioni assai penetranti del linguista E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, 172: «Pregare solennemente, in latino, è concipere verba. L’espressione significa ‘recitare parole tratte da una fonte scritta’ (verba concepta, cfr. Lucr. 6.628 “umorem magno conceptum ex aequore”), secondo la pratica di verba (verbis, carmen, carminibus, precationem ecc.) praeire (o praefari) alicui (de scripto) per opera di un sacerdote o di uno scriba addetto a leggere il testo che dovrà essere ripetuto ad alta voce senza la minima difformità, ciò che un altro assistente è appunto incaricato di controllare».
[61] Cfr. F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 15 ss.
[62] Per l’analisi
linguistica, metrica e strutturale del carmen
dei sacerdoti arvali, rimando allo studio ormai classico di E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern cit. 229 ss. Su quest’opera e
sulla sua collocazione nel quadro dell’antichistica tedesca del Novecento, vedi
ora il recente saggio di J. Rüpke,
Römische Religion bei Eduard Norden. Die
“Altrönischen Priesterbücher” im wissenschaftlichen Kontext der dreissiger
Jahre, Marburg 1993, 11
ss.
[63] In dottrina si è soliti collocare la datazione del carmen Arvale tra il VI secolo (per tutti, G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Roma 1940, 72; A. Rostagni, Storia della letteratura latina, 1. La repubblica, Torino 19643, 30) e il IV secolo a.C. (G. B. Pighi, La poesia religiosa romana cit. 49). Mette conto evidenziare il fatto che l’arcaico testo doveva risultare ormai incomprensibile ai Romani dell’età imperiale (l’iscrizione è datata 218 d.C.), come attestano sia gli errori di copiatura, sia le incertezze interpretative che si rilevano nell’iscrizione: così, ad esempio, una medesima parola, ripetuta per tre volte nel testo epigrafico, viene scritta in tre forme differenti.
[64] Ho trascritto i versi una sola volta, senza seguire in questo l’iscrizione, dove invece ciascun verso è ripetuto per tre volte. Quanto al testo, ho seguito quello accettato da E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern cit. 114 s.
[65] Per una rapida visione della bibliografia essenziale sul carmen Arvale, con l’indicazione dei lavori più significativi, rinvio a J. Scheid, Romulus et ses frères cit. 644 ss.
[66] Questa ragione spiega il perché la lingua dei documenti sacerdotali appare, di norma, più conservativa dello stesso linguaggio giuridico; si legga in proposito quanto scrive E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo cit. 173: «Vi è una differenza essenziale fra la lingua dei carmina sacerdotali e la lingua delle leggi. La prima è immutabile nel tempo, sì che la formula deve recitarsi come è scritta anche se più non la si intende. Il latino giuridico, invece, vive nella scuola e nella pratica, e muta seguendo, se pur con ritmo più lento, la naturale evoluzione della lingua comune. Anche le più vetuste leges regiae trascritteci da Festo presentano qualche arcaismo, ma sono linguisticamente moderne rispetto al latino del cippo del Foro, più prossimo all’indoeuropeo che alla lingua di Cicerone».
[67] Cfr. Quint. Instit. orat. 1.6.39-41. Nello stesso senso, vedi N. D. Fustel de Coulanges, La cité antique cit. 197 [= La città antica cit. 202].
[68] Per il quadro
archeologico basterà citare, fra la vastissima bibliografia, i cataloghi di due
delle più importanti mostre organizzate negli ultimi decenni: Enea nel Lazio.
Archeologia e mito, [Bimillenario
Virgiliano. 22 settembre - 31 dicembre 1981], Roma 1981; La grande Roma dei Tarquini, catalogo della mostra a cura di Mauro
Cristofani, Roma 12 giugno - 30 settembre 1990. Su questa sintonia fra
tradizione antica e nuove scoperte archeologiche, «purché sagacemente
intepretate», ha insistito con particolare autorevolezza M. Pallottino, Lo sviluppo socio-istituzionale di Roma arcaica alla luce dei nuovi
documenti epigrafici, in Studi Romani
27 (1979) 1 ss.; cfr. Id., Origini e storia primitiva di Roma,
Milano 1993, 36 ss. Si mostra invece
assai cauto J. Poucet, Archéologie, tradition et histoire: les
origines et les premiers siècles de Rome, in Les études Classiques
47 (1979) 201 ss. e 347 ss., in part. 352 ss.; Id., Les origines de
Rome. Tradition et histoire, Bruxelles 1985, 116 ss.
[69] Utilizzo il termine, per quanto non usuale in riferimento ai sacerdoti, basandomi sul significato più risalente del vocabolo latino sapientia, il quale, come del resto il verbo sapere, si riferiva quasi esclusivamente alla sfera dell’attività pratica, o si presentava comunque collegato a tale sfera in maniera diretta; così ancora nella lingua di Plauto «sapiens è colui che sa vivere e la sapientia è intesa come ars vivendi»: G. Garbarino, Evoluzione semantica dei termini ‘sapiens’ e ‘sapientia’ nei secoli III e II a. C., in Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino, II. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche 100 (1965-66) 254.
[70] Non si deve dimenticare che a Roma la “sapienza” sacerdotale aveva anche funzioni tecniche e pratiche, soprattutto per quanto riguardava le attività produttive più antiche: cfr., giusto a titolo esemplificativo, E. Pais, I pontefici, l’agricoltura e l’annona. Leges regiae e leges sumptuariae, in Id., Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, 1, Roma 1915, 423 ss. Sullo strettissimo rapporto esistente nella religione romana arcaica tra feste, stagioni e ciclo produttivo, mi pare sufficiente richiamare il lavoro di G. Dumézil, Fêtes romaines d'été et d'automne suivi de Dix questions romaines, Paris 1975 [= Feste romane, trad. it. di M. Del Ninno, Genova 1989].
[71] Cfr., più in generale, M. Cristofani, La scrittura e i documenti, in La grande Roma dei Tarquini cit. 16 s.
[72] G.
Dumézil, Idées
romaines cit. 9.
[73] G.
Dumézil, Idées
romaines cit. 10: «L’ideologie romaine ancienne qui s'est dégagée de ces
enquêtes est d'une bonne qualité intellectuelle. Si ceux qui la pratiquaient,
aux premiers siècles de la ville et jusqu'assez avant dans les temps
républicains, n'ont pas éprouvé le besoin ou n'ont pas eu le talent de lui
donner une expression littéraire du niveau des hymnes védiques, elle n'en était
pas moins riche, nuancée, structurée, habile à la distinction et à
l’agencement, apte à fournir à l’organisme social une justification déjà
philosophique de lui-même et aussi du monde, dans la mesure limitée où le monde
l’intéressait».
[74] Per la definizione di «civilisation matérielle ou vie matérielle» è veramente illuminante ciò che scriveva F. Braudel: «La vie matérielle, ce sont des hommes et des choses, des choses et des hommes. Étudier les choses les nourritures, les logements, les vêtements, le luxe, les outils, les instruments monétaires, les cadres du village ou de la ville , en somme tout ce dont l’homme se sert, n'est pas la seule façon de prendre la mesure de son existence quotidienne»: Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVe-XVIIe siécle, 1. Les structures du quotidien: le possible et l’impossible, Paris 1979, 15 (peraltro, questo primo tomo della monumentale opera dell'eminente storico francese era già apparso nel 1967: Cívilisation matérielle et capitalisme = Capitalismo e civiltá materiale, trad. it. di C. Vivanti, Torino 1977).
[75] E. Peruzzi, Origini di Roma, 2, cit. 141-142: «*Libros è il nome specifico del papiro, cioè l’adattamento latino di b…bloj, e poi, scomparso il papiro, ha denominato genericamente ogni materia scrittoria che formava il volumen e quindi l’opera stessa che vi si conteneva». Quasi inutile dire che l’opinione della dottrina dominante rifiuta una datazione così risalente: cfr., per tutti, G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1954, 24; H. Foester, Abriss der lateinischen Paläographie, Stuttgart 1963, 45.
[76] Sull'argomento vedi, F. Della Corte, Il debito di Plinio verso Varrone, in Varron, grammaire antique et stylistique latine, Paris 1978, 149 ss.
[77] Per le lamine di piombo e gli altri metalli usati come materiali scrittorii, si veda L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1954, 65 ss.
[78] Il lino come supporto per la scrittura (ancora presente in età tardoantica, vedi le linteae mappae menzionate in una costituzione di Costantino contenuta nel Codice Teodosiano: C.Th. 11.27.1; o i libri lintei dell'imperatore Aureliano, in quibus ipse cotidiana sua scribi praeceperat: Vopisc. Aurel. 1.6-7) dovette avere larga utilizzazione non solo a Roma, ma in tutta l'area italica, prima della diffusione del papiro. Anzi, stando alle fonti, è da ritenere che fosse materia ordinaria per gli scritti ufficiali di una certa estensione (Liv. 4.7.12; 4.20.8; 4.23.2; 10.38.6).
[79] Cfr. Liv. 1.24.7: Legibus deinde recitatis «audi» inquit, «Iuppiter, audi, pater patrate populi Albani, audi tu, populus Albanus: ut illa palam prima, postrema ex illis tabulis cerave recitata sunt sine dolo malo utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prior non deficiet». Sull'antichità dell’espressione tabulis cerave contenuta nella formula dei feziali riportata da Livio (e quindi sulla sicura utilizzazione di queste tabulae già in età arcaica) si veda E. Peruzzi, Origini di Roma, 2, cit. 45 ss.
[80] Cfr. in tal senso Serv. Aen. 3.444; 6.74.
[81] Th.
Birt, Das antike
Buchwesen, Berlin 1882, 13-14.
[82] G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura romana cit. 18: «mentre di foglie scritte, se pure orientali e non greche o romane – scrive al riguardo il Cencetti qualche esemplare ce ne è pervenuto, nessun esempio abbiamo di scrittura su corteccia».
[83] E. Peruzzi, Origini di Roma, 2, cit. 142.
[84] E. Peruzzi, Origini di Roma, 2, cit. 140 e nn. 93, 94.
[85] S. Tondo, Leges regiae e paricidas cit. 22 s.
[86] Del resto, per la
vicina area etrusca, l’osservazione di alcuni monumenti figurati databili nel V
secolo fornirebbe «una prova dell’estensione allora raggiunta dagli usi giuridico-amministrativi
della scrittura»: così G. Colonna,
Scriba cum rege sedens, in L’Italie
préromaine et
[87] L’esempio più significativo è costituito dagli annales pontificum, i quali secondo Cicerone (De orat. 2, 52) datavano ab initio rerum Romanarum, ed erano confezionati utilizzando tabulae dealbatae, che venivano poi conservate negli archivi del collegio: cfr. Serv. Dan. Aen. 1.373: Ita autem annales conficiebantur: tabulam dealbatam quotannis pontifex maximus habuit, in qua praescriptis consulum nominibus et aliorum magistratuum digna memoratu notare consueverat domi militiaeque terra marique gesta per singulos dies.
[88] Sul significato di carmen in età arcaica, vedi A. Rostagni, Storia della letteratura latina, 1, cit. 41; A. Ronconi, «Malum Carmen» e «malus poeta», in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, 959; R. Schilling, Religion et magie à Rome, in Id., Rites, cultus, dieux de Rome cit. 201 s.
[89] Cfr. W.
Bannier, v. Commentarius cit.
1856.
[90] Liv. 1.31.8.
[91] Fra gli studiosi che si sono occupati delle riforme religiose attribuite a Numa (a parte i vecchi lavori di J. B. Carter, The Religion of Numa, and other Essays on the Religion of Ancient Rome, London 1906, 1 ss.), sono da vedere: F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti dell’Accademia dei Lincei, serie VIII, 5 (1950) 553 ss.; P. Boyancé, Fides et le serment, in Hommages à A. Grenier, 1, Bruxelles 1962, 329 ss. [= Id., Études sur la religion romaine, Rome 1972, 91 ss.]; E. M. Hooker, The Significance of Numa’s Religious Reforms, in Numen 10 (1963) 87 ss.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia 26 (1964) 3 ss.; M. A. Levi, Il re Numa e i «penetralia pontificum», in Rendiconti dell’Istituto Lombardo 115 (1981) [pubbl. 1984] 161 ss.; Id., Fides, Terminus, familia e le origini della città, in Aa.Vv., Religione e città nel mondo antico, Roma 1984, 361 ss.; J. Martínez Pinna, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3 (1985) 97 ss.; J. Poucet, Les origines de Rome cit. 194 ss., 219 ss.; infine, L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella “Storia di Roma arcaica” di Dionigi d’Alicarnasso, I parte, Napoli 1988, 128 ss.
[92] Riguardo al testo
liviano, E. Peruzzi, Origini di Roma, 1. La famiglia, Firenze
1970, 142 ss., ha dimostrato in maniera particolarmente convincente che si
tratta di un documento di autentica derivazione sacerdotale: «L’importanza di
questo argomento e silentio è
indubbia: la principale fonte scritta degli storici di Roma sono gli annales maximi, e, come è verosimile che dedicassero particolare attenzione
a fatti di significato religioso, così è assolutamente certo che essi erano il
documento più preciso e minuzioso della tradizione pontificale. Ora, il passo
di Liu. 1.20.5 è una scarna notizia, espressa non meno ieiune di quelle degli annales,
che reca un elemento davvero singolare. Trattando della più antica età regia,
non di rado lo storico patavino indica la parentela dei personaggi, sia pure
concisamente, però questo è l’unico caso in cui egli menziona un individuo con
la sua formula onomastica, quale doveva apparire in registrazioni burocratiche:
Numa Marcius Marci filius; formula,
si noti, dell’età di Numa Pompilio, poiché questo sovrano, come diceva il
sarcofago riportato alla luce nel
[93] Di alcune delle prescrizioni rituali pompiliane abbiamo notizia da Plut. Num. 14.6-7; esse riguardano: l’obbligo di sacrificare un numero dispari di vittime agli dèi celesti ed un numero pari a quelli inferi (cfr. Serv. Ecl. 5.66; Serv. Dan. Ecl. 8.75; Macr. Sat. 1.13.5); il divieto di libare agli dèi con vino (sul quale vedi G. Piccaluga, Numa e il vino, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 33 (1962) 99 ss.); il divieto di sacrificare senza farina; la necessità di pregare e adorare la divinità compiendo un giro su sè stessi (cfr. Liv. 5.21.16; Svet. Vit. 2). Si aggiunga a ciò l'attribuzione a Numa della composizione degli indigitamenta, testimoniata da Arnob. Adv. Nat. 2.73.17-18: Non doctorum in litteris continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire?
[94] Cfr. Varr. in
Fest. v. opima spolia,
[95] Sul genitivo
definitivo vedi, per tutti, M. Leumann -
J. B. Hofmann - A. Szantyr, Lateinische
Grammatik, 2. Lateinische Syntax und Stilistik, München 1972, 62 ss.
[96] Plut. Num.
22.2.
[97] G.
Dumézil, Idées
romaines cit. 11: «Peut-on
déterminer si domandava l'illustre studioso à quelle époque la
pensée romaine, par la combinaison de l'héritage indo-européen et des produits
de son génie propre, a pris la forme originale que nous lui connaissons dès les
premiers textes littéraires et qui, jusq'au temps d'Auguste, n'a guère varié?
En particulier à quelle époque le droit romain, droit religieux et droit
civil et aussi, par les fétiaux, droit international qui parâit bien être
l'ouvrage le plus caractéristique de Rome quand on la compare aux autres
sociétés indo-européennes, s’est-il constitué, avec sa casuistique déliée, ses
règles raisonnées, colorant de proche en proche toute activité publique et
privée?».
[98] Idées romaines cit. 25. Sempre dello stesso autore, cfr. La religione romana arcaica cit. 88 ss.; Mariages indo-européens, suivi de quinze questions romaines, Paris 1979, 259 ss. Lo studioso francese era pervenuto a questo convincimento sulla base di un'originale interpretazione di due fra le più antiche iscrizioni latine (quella del cippo arcaico del Foro e la cosiddetta iscrizione di Duenos), nelle quali aveva ritenuto di poter identificare testi attinenti a precetti dello ius augurale e a pratiche dello ius civile ancora esistenti in età tardo-repubblicana. Queste pagine del Dumézil sono di notevolissimo interesse per i problemi di datazione della tradizione documentaria dei collegi sacerdotali romani.
[99] A.
Bouché-Leclercq, Les
pontifes de l’ancienne Rome cit. 40.
[100] Le principali fonti sono costituite da Dion. Hal. 3.36.4; e da Pomp. D. 1.2.2.2; 1.2.2.36.
[101] Sul significato
di ritus vedi Fest. p.
[102] F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 165. Su questa mia interpretazione dello ius Papirianum, vedi ora l’adesione di D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrecht. Die Bronzetafel von Alcántara, München 1989, 28 n. 5.
[103] Un'opinione simile era già stata espressa da F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 16; e P. Regell, De augurum publicorum libris cit. 24.
[104] La stessa diversità terminologica in esse utilizzata non troverebbe alcuna giustificazione se non sottendesse una diversità di materie raccolte nei due generi di documenti. Inoltre, proprio dalle fonti epigrafiche si possono ricavare gli esempi più significativi di commentarii sacerdotali: si tratta, com’è noto, dei commentarii della sodalità degli arvali, più conosciuti con la denominazione di acta fratrum Arvalium, e di quelli relativi ai ludi saeculares (estratti dei commentarii dei quindecimviri sacris faciundis). I pur estesi frammenti di tali commentarii interessano invero più lo storico della religione che il giurista, poiché nel caso, alla generale decadenza del ruolo politico e giuridico dei principali collegi sacerdotali in età imperiale, deve aggiungersi la funzione prevalentemente cultuale dei due sacerdozi; tuttavia i materiali contenuti nei citati commentarii fanno pensare a veri e propri rendiconti dell'attività pratica di quei sacerdoti, compilati a testimonianza di avvenimenti, azioni e cerimonie talmente importanti dal punto di vista rituale da dover essere tramandati in forma scritta. Quanto alla loro trascrizione su tavole marmoree, non le riterrei motivate tanto dall’esigenza di conservazione durevole dei testi (per questo c’erano di certo altri materiali più accessibili del marmo), ma piuttosto dall’uso invalso appunto nei secoli del principato di glorificare, sempre e comunque, l’imperatore e la famiglia imperiale. Se dunque si può ritenere che la forma di pubblicità di questi commentarii sia in parte estranea all'età repubblicana, non appare invece possibile dubitare del fatto che la struttura ed i contenuti fossero conformi alla prassi documentaria più antica.
[105] Esempi soprattutto in Tito Livio, il quale riporta decreta e responsa, sia degli auguri: 4.31.4; 8.15.6; 23.31.13; 41.18.8; sia dei pontefici: 5.23.8-10; 5.25.7; 27.37.4; 27.37.7; 31.9.8; 32.1.9; 34.45.8; 39.22.4; 40.45.2; sia dei decemviri sacris faciundis: 22.1.16-19; 38.44.7; 41.21.10-11; sia infine dei feziali: 31.8.2-3; 36.3.7-12.
[106] Basterà ricordare alcuni fra i numerosi decreta e responsa sacerdotali che Cicerone riporta nelle sue opere: De div. 2.73; De leg. 2.31; De dom. 39-40; In Vat. 20. Peraltro, Cicerone quasi sicuramente potè accedere di persona anche a documenti del collegio dei pontefici: così già F. D. Sanio, Varroniana in den Schriften der römischen Juristen, Leipzig 1867, 162; ed ora vedi F. D’Ippolito, Sul pontificato massimo di Tiberio Coruncanio, in Labeo 23 (1977) 129 [= Id., I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della repubblica, Napoli 1978 (pubbl. 1979), 41]; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 96 s., 121; F. Bona, Ius pontificium e ius civile nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza repubblicana [Atti del Convegno di diritto romano e di presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina], a cura di F. Milazzo, Napoli 1990, 214.
[107] F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 44 fr. I (cfr. ibidem, 38); P. Regell, Fragmenta auguralia cit. 21 fr. 17; Id., Auguralia cit. 63; Id., Commentarii in librorum auguralium fragmenta cit. 18; A. S. Pease, M. Tulli Ciceronis De divinatione, libri duo [rist. dell’edizione 1920-1923], Darmstadt 1968, 424 s.; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 96; J. Linderski, The Augural Law cit. 2170, 2243 s. Per l’analisi del passo, risultano per qualche verso ancora utili G. Wissowa, v. Augures, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, 2.2, Stuttgart 1896, 2335; Id., Religion und Kultus der Römer cit. 533.
[108] Conformemente alla sua teoria sulla distinzione per materie tra libri e commentarii degli auguri, ne aveva già dimostrato il carattere di decreto augurale F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 44 fr. 1 (cfr. ibidem, 38); ora, vedi anche F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 96. Si orientava, invece, in altro senso P. Regell, De augurum publicorum libris cit. 40 s.; Fragmenta auguralia cit. 21 fr. 17; Auguralia cit. 63; Commentarii in librorum auguralium fragmenta cit. 18; seguito, più di recente, da J. Linderski, The Augural Law cit. 2243 s.
[109] Cfr. Plut. Cic.
36; Cic. Brut. 1; Phil. 2.4; T. R. S. Broughton, The
Magistrates of the
[110] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, 44, sostiene che siamo di fronte a una «frase tecnica testimoniataci da Cicerone a significare una particolare situazione sfavorevole». Il divieto augurale è attestato anche da altri testi ciceroniani (cfr. In Vat. 20: Sed quaero, si ad cetera vulnera, quibus rem publicam putasti deleri, hanc quoque mortiferam plagam inflixisses auguratus tui, utrum decreturus fueris, id quod augures omnes usque ab Romulo decreverunt, Iove fulgente cum populo agi nefas esse, an, quia tu semper sic egisses, auspicia fueris augur dissoluturus; Phil. 5.7: Illa auspicia non egent interpretatione. Iove enim tonante cum populo agi non esse fas quis ignorat?; De nat. deor. 2.64: Hunc igitur Ennius, ut supra dixi, nuncupat ita dicens ‘Aspice hoc sublime candens, quem invocant omnes Iovem’ planius quam alio loco idem ‘cui quod in me est exsecrabor hoc quod lucet quicquid est’ ; hunc etiam augures nostri cum dicunt ‘Iove fulgente tonante’: dicunt enim ‘caelo fulgente et tonante’) e da Liv. 40.42.10 (Cum plures iam tribus intro vocatae dicto esse audientem pontifici duumvirum iuberent multamque remitti, si magistratu se abdicasset, vitium de caelo, quod comitia turbaret, intervenit. Religio inde fuit pontificibus inaugurandi Dolabellae). La funzione dei signa coelestia ai fini del corretto svolgimento dei comizi romani è assai bene evidenziata da G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, Milano 1940, 180 ss., per il quale rappresenterebbero quasi una sorta di intercessio degli dèi: «L’importanza dei signa coelestia per le assemblee comiziali sta in questo che l’opposizione della divinità opera sullo svolgimento dei comizi nella stessa guisa in cui opera la intercessio. Infatti, così la intercessio come l’annuncio formale di un fenomeno oblativo non possono essere fatti che quando l’assemblea è in atto: entrambi hanno effetti proibitori e rescissori a un tempo a seconda appunto, come si disse, che il magistrato aderisca o meno alla opposizione; entrambi esigono che il nunciante e l’intercedente facciano valere di persona l’opposizione alla tenuta dei comizi» (182).
Da ultimo, vedi J. Vaahtera, “On the Religious Nature of
the Place of Assembly”, in Aa.Vv., Senatus Populusque Romanus. Studies in Roman
Republican Legislation,
[111] In tale senso può intendersi anche Pomp. D. 1.2.2.38: Post hos fuit Tíberius Coruncanius, ut dixi, qui primus profiteri coepit: cuius tamen scriptum nullum exstat, sed responsa complura et memorabilia eius fuerunt. Sulla figura del grande giurista plebeo, e sui frammenti a lui attribuiti, mi permetto di rinviare a F. SINI, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino 1995, 81 ss.
[112] Plin. Nat. hist.
18.14: Equidem ipsa etiam verba priscae
significationis admiror; ita enim est in commentariis pontificum: «Augurio
canario agendo dies constituantur, priusquam frumenta vaginis exeant nec
antequam in vaginas perveniant». Sul frammento vedi P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum cit. 8 fr. 34; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices cit. 26; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 104 e nn. 78-
[113] F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 44 fr. 12, individuava nel frammento un’ulteriore riprova della diversità di contenuti tra libri e commentarii augurali: «Etiam hoc fragmento discrimen quod intercedit inter libros et commentarios valde confirmatur». In altro senso, si era invece orientato P. Regell, De augurum publicorum libris cit. 39 s.; Fragmenta auguralia cit. 13 fr. 1; Commentarii in librorum auguralium fragmenta cit. 14 fr. 1 Per l’analisi dei passi in questione, vedi ora F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 101.
[114] F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 35 fr. 18; P. Regell, Fragmenta auguralia cit. 13 fr. 2; Commentarii in librorum auguralium fragmenta cit. 16 fr. 2; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 107.
[115] Cfr., fra gli altri, P. Regell, De augurum publicorum libris cit. 33: «Hoc quoque loco commentariorum nomine etiam libros quos vocant comprehendi adparet»; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices cit. 21.
[116] Tito Livio utilizza il termine fasti, a parte il passo citato, altre tre volte: cfr. D. W. Packard, A Concordance to Livy, 2, Cambridge Mass. 1968, 546. Per due volte tale termine è riferito alla divisione del tempo e al calendario giudiziario (Liv. 1.19.7: Idem [Numa Pompilio] nefastos dies fastosque fecit, quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat; 9.46.5: [Gneo Flavio] civile ius, repositum in penetralibus pontificum, evulgavit fastosque circa forum in albo proposuit, ut quando lege agi posset sciretur).
[117] Per un rapido
elenco dei calendari superstiti, vedi N.
Turchi, La religione di Roma
antica, Bologna 1939, 320 s.; D.
Sabbatucci, La religione di Roma
antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, 8; frammenti epigrafici in A. Degrassi, Inscriptiones
Italiae, 13. Fasti et elogia, Roma 1963. Fra gli studi più recenti
sull’antico calendario romano (ma, ancora oggi è da consultare il vecchio
lavoro di Ph. E. Huschke, Das alte Römische Jahr und seine Tage. Eine
chronologisch-rechtsgeschichtliche Untersuchung in zwei Büchern, Breslau 1869, rist. an. Vaduz 1986),
mette conto ricordare: L. van Johnson,
The prehistoric Roman Calendar, in American Journal of Philology 83 (1962)
28 ss.; Agnes K. Michels, The Calendar
of the Roman Republic, Princeton 1967 (su cui vedi la recensione di J.-C. Richard, Le calendrier préiulien, in Revue
des études latines 46 (1968) 54 ss.); Ch. Guittard, Le calendrier romaine des origines au milieu du Ve siècle avant J. C.,
in Bulletin de l'Association G. Budé
(1973) 203 ss.; H. Hauben, Some Osservations on the Early Roman
Calendar, in Ancient Society 11-12 (1980-1981) 241 ss.; A. J. Holleman, Zur
Schaltung im vorjulianischen römischen Kalendar, in Rheinisches Museum für Philologie 124 (1981) 55 ss.; Ed. Liénard, Calendrier
de Romulus. Les débuts du calendrier romain, in L’Antiquité Classique 50 (1981) 469 ss.; P. Brind'amour, Le
calendrier romain. Recherches chronologiques, Ottawa 1983; W. Bergmann, Der
römische Kalender: zur sozialen Konstruktion der Zeitrechnung. Ein Beitrag zur
Soziologie der Zeit, in Saeculum
35 (1984) 1 ss; G. Radke, Fasti Romani. Betrachtungen zur
Frühgeschichte des römischen Kalenders, Münster 1990; infine, J. Rüpke, Kalender und öffentlichkeit.
Die Geschichte der Repräsentation und religiösen Qualification von Zeit in Rom, Berlin-New York 1995.
[118] Serv. Dan. Georg. 1.270: Sed qui disciplinas
pontificum interius agnoverunt, ea die festo sine piaculo dicunt posse fieri,
quae supra terram sunt, vel quae omissa nocent, vel quae ad honorem deorum
pertinent, et quidquid fieri sine institutione novi operis potest: ut rivorum
inductionem sic accipiamus, per fossam vel pratum purgatum deducere, id est
emittere, quoniam cautum in libris sacris est feriis denicalibus aquam in
pratum ducere nisi legitimam non licet, ceteris feriis omnes aquas licet
deducere. Ergo hic, ut aliquibus videtur, ‘deducere’ purgare est et sordes
emittere, quae praecludant aquam, ideo quia a pontificibus, ut novum fieri non
permittitur feriis, ita vetus purgari permittitur. Alii hoc secundum augurale
ius dictum tradunt, quod etiam in bello observetur, ne novum negotium
incipiatur. Ergo ‘rivos deducere’ non est novum negotium, et potest hoc ad
illud referri quique paludis collectum umorem bibula deducit harena. Sane quae
feriae a quo genere hominum vel quibus diebus observentur, vel quae festis
diebus fieri permissa sint, siquis scire desiderat, libros pontificales legat.
[119] Quint. Inst. orat. 8.2.12.
[120] Del resto, altre fonti confermano che la tradizione documentaria sacerdotale
conosceva e conservava arcaismi linguistici (cfr. Fest. vv. Praeceptat e Pilumnoe poploe, pp. 222,
[121] Cic. De re publ. 1.63: Nam dictator quidem ab eo appellatur quia dicitur,sed in nostris libris vides eum Laeli magistrum populi appellari. F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 42 fr. 28; P. Regell, Fragmenta auguralia cit. 21 fr. 17. Cfr. F. SINI, A proposito del carattere religioso del dictator (Note metodologiche sui documenti sacerdotali) cit. 420; Id., Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 96.
[122] Varr. De ling. Lat. 5.21: Terra dicta ab eo, ut Aelius scribit, quod teritur. Itaque tera in augurum libris scripta cum R uno. F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 37 fr. 22; P. Regell, Fragmenta auguralia cit. 16 fr. 6; B. Cardauns, M. Terentius Varro Antiquitates rerum divinarum. 2. Kommentar cit. 164; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 98.
[123] Varr. De ling. Lat. 6.14: In libris Saliorum quorum cognomen Agonensium forsitam hic dies ideo appelletur potius Agonia. Su questo passo, vedi A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, Milano 1973, 42 fr. 123; B. Cardauns, M. Terentius Varro Antiquitates rerum divinarum, 2, cit. 176; cfr. anche W. Morel, Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et liricorum praeter Ennium et Lucilium, 19272 [rist. Stutgardiae 1963], 5: carmen saliare fr. 20.
[124] Enumerazione ed esame analitico di queste fonti in F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 91 ss.
[125] F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 10: «Porro si quaerimus quibus temporibus libri augurum orti sint compositique, origo quarundam partium ex regum tempore mihi videtur esse repetenda. Deinde etiam formula regum inaugurandorum quae sine dubio libris auguralibus vindicanda est ad regni tempora pertinet. Sed turpiter erraremus si iam regum temporibus totum corpus iuris auguralis ut ita dicam conscriptum esse arbitraremur». P. Regell, De augirum publicorum libris cit. 21: «Quodsi originem in regum saecula iure reiecimus, non ita multum a vero aberrabimus quod sub XII tabularum aetatem totam fere disciplinam libris contentam fuisse statuimus: qua aetate scribendi legendique artem satis fuisse celebrem supra indicavimus».
[126] Vedi, in tal senso, le potenzialità universalistiche della teologia augurale, insite nella divisione dello spazio terrestre sottesa alla distinzione dei genera agrorum: Varr. De ling. Lat. 5.33: Ut nostri augures publici dixerunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus. Romanus dictus unde Roma ab Rom<ul>o; Gabinus ab oppido Gabis; peregrinus ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his servantur auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo [quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur: quocirca Gabinus quoque peregrinus, sed quod auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus dictus ab hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur. Sulla divisione augurale degli agrorum genera e, più in generale, sul valore giuridico dell’ager, vedi P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano cit. 492 ss.
[127] Di questa tradizione si ha notizia in Dion. Hal. 1.84.5, e Plut. Rom. 6.1. Essa è peraltro considerata attendibile in buona misura perfino da un critico come A. Schwegler, Römische Geschichte, 1.1, Tübingen 18672, 399. Per un riesame più recente in maniera ancora problematica, vedi D. Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso cit. 18 ss. In senso decisamente favorevole, E. Peruzzi, Origini di Roma, 2, cit. 10 ss.; con il quale concorda anche S. Tondo, Profílo di storia costituzionale romana, 1, Milano 1981, 42.
[128] Per quanto
attiene ai nomina deorum, che si
invocavano negli indigitamenta,
risulta di qualche utilità il vecchio lavoro di I. A. Ambrosch, Über
die Religionsbücher der Römer cit. in n. 2; ancora indispensabili, invece,
sia il bel libro di A. Bouché-Leclercq,
Les pontifes de l'ancienne Rome cit.
24 ss.; sia il manuale di J. Marquardt,
Römische Staatsverwaltung, 3. Das
Sacralwesen cit. 7 ss. [=
Le culte chez les Romains, 2, cit. 10
ss.]; più di recente vedi J. Bayet,
Croyances et rites dans
[129] Cic. De nat. deor. 1.84: At primum quot hominum linguae tot nomina deorum; non enim ut tu Velleius quocumque veneris sic idem in Italia Volcanus idem in Africa idem in Hispania. Deinde nominum non magnus numerus ne in pontificiis quidem nostris, deorum autem innumerabilis. Nello stesso senso, Gell. Noct. Att. 13.23.1 (Conprecationes deum inmortalium, quae ritu Romano fiunt, expositae sunt in libris sacerdotum populi Romani et in plerisque antiquis orationibus) e August. De civ. Dei 4.8.
Per A. S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum, 1, Darmstadt 1968 [rist. della
1ª ed. 1955], 426, nel passo ciceroniano «The word libris is understood, as often with annales»; cfr. anche l’edizione curata da M. van den Bruwaene, Ciceron,
De natura deorum. Livre premier, Bruxelles 1970, 146: «dans nos livres pontificaux».
G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices cit. 18-19, formula
invece l’ipotesi che Cicerone abbia attinto alle Antiquitates rerum divinarum di Varrone: «Woher diese Vorstellung
stammt, ist nicht zu sagen; doch darf nicht vegessen werden, dass zur Zeit, als
Cicero seine philosophischen Schriften abfasste, Varros Antiquitates bereits an
das Licht getreten waren, und dass Cicero dieses Werk kannte».
[130] Su cerimonie e sacrifici vedi, per tutti, P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale cit. 335 ss.
[131] Le fonti di tali precationes sono discusse in F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 17 ss.; cfr. anche P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale cit. 354 ss.; J. Linderski, The Augural Law cit. 2251 ss. Per la raccolta completa delle preghiere romane, con importanti precisazioni sul concetto di precatio, vedi invece G. Appel, De Romanorum precationibus cit. 8 ss.
[132] Quanto alla necessità dell’inauguratio per la piena assunzione delle funzioni sacerdotali, gli autori antichi sono pressoché concordi. Cfr., a proposito del rex sacrorum: Liv. 27.36.5; 40.42.8-10; Gell. Noct. att. 15.17.1; per le inaugurationes dei flamines maiores: Gai. Inst. 1.130; 3.114; Liv. 27.8.4; 41.28.7; 29.38.6; 45.15.10; Macr. Sat. 3.13.11; Liv. 37.47.8; per i pontefici e gli auguri: Cic. Brut. 1; Liv. 27.36.5; 30.26.10; Dion. Hal. 2.73.3.
[133] Varr. De ling. Lat. 7.8. Sulla testimonianza di Varrone e sul formulario varroniano, vedi per tutti P. Cipriano, Templum, Roma 1983, 12 ss.; 49 ss. Sul valore religioso e giuridico del templum, vedi invece P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano cit. 467 ss.
[134] Varr. De ling. Lat. 7.51: Itaque duodecim tabulis dicunt: ‘solis occasu diei suprema tempestas esto’. Libri Augurum pro tempestate tempestutem dicunt supremum augurii tempus. F. A. Brause, Librorum de disciplina augurali cit. 37 fr. 21; P. Regell, Fragmenta auguralia cit. 16 fr. 7; A. Cenderelli, Varroniana cit. 56 fr. 239.
[135] Sull’opera
ciceroniana vedi, fra gli altri, E.
Rawson, The Interpretation of
Cicero’s De legibus, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, I.4, Berlin-New York 1973, 334 ss.; K. M. Girardet, Die Ordnung der Welt. Ein Beitrag zur philosophischen und
politischen Interpretation von Ciceros Schrift De Legibus, Wiesbaden 1983.
[136] Per la discussione e il commento dell’importante testo ciceroniano, a parte la bibliografia citata nelle note seguenti, vedi ora il contributo di J. Linderski, The Augural Law cit. 2148 ss., con ampia rassegna della dottrina precedente.
[137] Sulle vicende della tradizione manoscritta, rinvio all’introduzione di G. De Plinval a Ciceron, Traité des lois, Paris 1959, xlviii ss.; cfr. inoltre N. Zorzetti, Nota critica al De legibus, in Opere politiche e filosofiche di M. Tullio Cicerone. 2. Lo Stato, Le leggi, I doveri, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, 19742, ristampa Torino 1978, 107 ss.
[138] La citazione è tratta dal saggio di M. van den Bruwaene, Précision sur la loi religieuse du de leg. II 19-22 de Cicéron, in Helikon 1 (1961) 89.
[139] Per una convincente dimostrazione, vedi P. Regell, De augurum publicorum libris cit. 24 s.; M. van den Bruwaene, Précision sur la loi religieuse du de leg. II 19-22 de Cicéron cit. 90.
[140] G. Dumézil, Idées romaines cit. 97.
[141] Le potenzialità sistematiche del testo ciceroniano erano già state studiate da P. Regell, De augurum publicorum libris cit. 25 n., il quale, tuttavia, aveva proposto una partizione sistematica non esente da rilievi critici: cfr. F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica cit. 205 s. n. 151.