2 - Marzo 2003 – Strumenti - Rassegne

 

Diritto Romano

L'età tardo imperiale (*)

rassegna di Cristiana Rinolfi

(*) In corso di stampa in Studi Romani.

 

Segnaliamo due recenti ricerche dalle quali emerge chiaramente la tendenza, tipica del tardo antico, a rendere ereditarie le funzioni considerate vitali per gli interessi dell’impero: G. de Bonfils, Omnes ... ad implenda munia teneantur. Ebrei curie e prefetture fra IV e V secolo, Cacucci, Bari 1998, e G. Giliberti, Servi della terra. Ricerche per una storia del colonato, Giappichelli, Torino 1999.

L’opera del de Bonfils si occupa della presenza ebraica nell’amministrazione delle città dell’impero romano; a tal fine nel primo capitolo (Introduzione: gli ebrei e le curie nel IV secolo) l’A. delinea un quadro della situazione in età costantiniana. Durante il suo governo Costantino dovette affrontare sia la grave questione della fuga dalle città, sia le alte proteste delle «nuove istanze cristiane» contro i pesanti oneri derivanti dall’asservimento alle civitates. Il problema venne fronteggiato dall’imperatore in maniera differente nelle due partes imperii. In Occidente egli trasse lo spunto dalle richieste di Colonia, importante centro commerciale e punto strategico nella difesa del Reno, per emanare nel 321 una costituzione di carattere generale (CTh. 16, 8, 3). Con tale norma per la prima volta si sancì che anche gli ebrei, tra quelli che avevano raggiunto un certo tenore economico, potevano essere chiamati al servizio curiale, in quanto «l’ansia cittadina non mancava di assegnare incarichi amministrativi a chiunque fosse apparso in grado di gestire un incarico». Nella costituzione si prevedeva l’esenzione dai doveri cittadini per due o tre membri del clero ebraico: questa modesta deroga deve essere intesa come «forma di ossequio politico dell’imperatore verso quell’antico rispetto riconosciuto» a questi esponenti religiosi. In Oriente la presenza giudea era molto più intensa, e Costantino dovette affrontare problemi più urgenti e molto più complessi di quelli affrontati nella pars Occidentis. Con una costituzione del 330 (CTh. 16, 8, 2) si riconobbe l’esenzione, qui molto più ampia rispetto alla norma occidentale, dalle cariche municipali per gli addetti ai Patriarchi e ai presbiteri della gerarchia centrale residente in Palestina. Il testo normativo dava «assolutamente per scontato» che gli ebrei senza alcun privilegio derivato da motivazioni religiose potevano essere inseriti tra i curiali e dunque svolgere la funzione di decurioni. Dopo il 324, anno in cui Costantino si pose a capo di tutto l’impero, si deve supporre per l’Oriente l’estensione della legge occidentale; probabilmente ciò comportò che anche in questa pars imperii gran parte del clero ebraico dovette, senza distinzioni, adempiere agli oneri curiali, si facevano salve le esigue esenzioni della norma. L’iniquità del precetto e «le immaginabili pressioni degli ambienti ebraici orientali» devono aver dato impulso ad una norma successiva dello stesso anno, raccolta in CTh. 16, 8, 4, che dispensava dai munera corporalia il clero minore ebraico di tutto l’impero, accordando «un regime immunitario inferiore» rispetto alla prima costituzione, in quanto si esentava solo «da quelle prestazioni che comportando attività fisica anche degradante» potevano deteriorare l’immagine della carica sacerdotale.

       I due capitoli successivi, Si qua est lege cessante e Onorio e la politica ebraica, sono dedicati alla normativa diretta ai giudei dell’imperatore Onorio, di cui si registrano ben 12 costituzioni. La sua fu una legislazione priva di organicità, «ispirata e dibattuta tra tolleranza e persecuzione». In particolare sono significative le norme del 398 emanate a Milano, CTh. 12, 1, 157 e 158, che sono «al centro di una serie di questioni che – si propone il de Bonfils - vanno chiarite singolarmente». Con la prima disposizione il giovane imperatore sanciva l’impossibilità di sottrarsi agli incarichi municipali per motivi religiosi. La seconda norma, chiarificatrice della costituzione precedente, stabiliva che la presunta costituzione emanata in Oriente sulla base della quale gli ebrei nelle civitates dell’Apulia et Calabria si sottraevano ai munera, non poteva essere estesa all’Occidente in quanto risultava chiaramente dannosa. Il disposto particolare, che ripeteva il principio esposto dalla norma precedente, è un indice delle difficoltà applicative del precetto teso a rafforzare e salvaguardare le civitates dell’impero. Dopo la caduta di Stilicone a Ravenna, nuova capitale, Onorio tra il 408 ed il 418 emanò un secondo gruppo di norme relative all’etnia ebraica, nel quale ancora una volta «mostra uno strano ed alterno carattere di tolleranza e persecuzione»; tuttavia «nemmeno forse con la sua legge più severa per il futuro degli ebrei, non contribuisce a segnare un passo avanti nella strada della persecuzione ebraica» perpetrata negli anni successivi.

       Nella parte orientale il fratello Arcadio continuò la politica del padre, Teodosio I, incentrata sulla tolleranza nei confronti dell’etnia ebraica. Nella legislazione di Arcadio del periodo 396-404 «si ha l’impressione che il legislatore, la corte, i funzionari orientali sentano l’esigenza di organizzare le forme di esistenza di questa etnia al fine di una globale integrazione nell’impero».

Il terzo capitolo, Flavius Mallius Theodorus, ed il quarto, Il prefetto e la legislazione, sono dedicati al destinatario delle due costituzioni occidentali di Onorio del 398, appunto Flavio Mallio Teodoro. Questo personaggio ricoprì i gradi più alti dell’amministrazione, a lui S. Agostino dedicò il de beata vita, e Claudio Claudiano, il poeta ufficiale di Milano, scrisse un panegirico. Fl. Mallius Theodorus fu autore dell’operetta de metris, ferrato in neoplatonismo, seguace di sant’Ambrogio e appartenente al circolo milanese. L’A. «con cautela e grande circospezione» ipotizza «che a sovraintendere alla legislazione di quegli anni» vi fosse unicamente un funzionario: Fl. Mallius Theodorus, «per la funzione svolta al fianco dell’imperatore e del reggente, per il ruolo politico che gli è attribuito, per il bagaglio professionale e culturale che gli è riconosciuto».

La monografia di G. Giliberti, che fa luce sul colonato, particolare condizione di semi-servitù affermatasi con l’avvento del Dominato, si articola in cinque capitoli. Nel primo, dedicato a La formazione del colonato, si evidenzia come in materia, a causa delle notevoli ambiguità delle fonti, sorgono numerosi problemi. La questione più controversa concerne l’origine del colonato, in quanto le testimonianze giuridiche in maniera del tutto ingiustificata, visto l’interesse che lo stesso Giustiniano mostrava per il tema degli status personarum, nulla dicono sul quando si ebbe il riconoscimento giuridico dell’istituto. A tal proposito, sono presentati i tre principali filoni di ricerca che si sono delineati in dottrina sull’argomento. Secondo la prima linea di studio, che ha privilegiato un’indagine “genealogica”, il colonato sarebbe derivato dall’estensione di varie forme di dipendenza sociali e giuridiche precedenti al Basso Impero. Il secondo filone vede il colonato come un vincolo fiscale derivato dall’esigenza di garantire le entrate e la coltivazione delle terre imperiali. Il terzo orientamento dottrinale ha posto in rilievo la distinzione tra il colonato delle epoche precedenti e quello dell’età basso-imperiale, periodo questo in cui si cercò di impedire l’abbandono delle terre e di contrastare la grave crisi della produzione.

Nel secondo capitolo, La locazione agraria, si delineano i caratteri dell’agricoltura nell’età del Principato. Nel primo impero il modello tipico dell’azienda agricola era rappresentato dalla villa italica, struttura produttiva di medie dimensioni ad alta intensità di capitali, affermatasi nella tarda Repubblica. La villa possedeva una complessa organizzazione fondata «su una gerarchia di schiavi dirigenti e specializzati, la cui collaborazione col padrone era essenziale». Il lavoro dei servi veniva integrato sia dalla manodopera di salariati, sia attraverso la locazione di parcelle del fondo a coloni liberi. Con l’andare del tempo si affermò il fenomeno della concentrazione fondiaria, rallentata dalla politica imperiale tesa ad impedire la scomparsa della piccola proprietà rurale e a contrastare, così, il crescente potere dei latifondisti. A causa degli elevati costi di una gestione diretta le grandi villae, intorno al II e al III sec., vennero sostituite da fattorie di piccole dimensioni. Inoltre, per evitare una dispersione degli investimenti, si fece un ampio ricorso alla locazione agraria ai coloni, ottenendo l’effetto di addossare all’affittuario i rischi produttivi e quelli commerciali. Gli stessi imperatori si valsero della locazione ai coloni, di numero sempre più esiguo, nei praedia Caesaris, attirandoli con l’offerta di alcuni privilegi, e ricorrendo, alle volte, a forme di affittanza perpetua.

Nel capitolo seguente, Fra liberi e schiavi, si afferma che la causa della decadenza del sistema schiavistico del III sec. fu la forte denatalità dei contadini liberi. La scarsa crescita demografica, infatti, provocò una contrazione dei mercati, ed un aumento del costo del lavoro dei braccianti agricoli. Così, per contrastare la penuria di coloni e di salariati, i latifondisti produssero «“artificialmente” dei coltivatori pseudo-liberi: i servi coloni, i mercennarii di condizione servile, gli addicti, i Latini Iuniani», nonostante l’ideologia romana si basasse sull’unica alternativa dell’essere liberi o schiavi. Fu la plebe rustica a fornire la forza lavoro necessaria «a costo però di un progressivo svuotamento della libertas». Infatti, nonostante fosse scaduto il contratto di locazione, i coloni erano spesso trattenuti con la forza. La legislazione imperiale cercò invano di opporsi a tali soprusi, ma la grave crisi economica del periodo «aveva fatto maturare i presupposti per il riconoscimento legale della servitù della gleba».

Il quarto capitolo, Membra terrae, delinea un quadro del colonato basso imperiale che emerge soprattutto dalle codificazioni di leges. Alla luce di numerose costituzioni imperiali si può constatare come il colonato non determinasse solo un vincolo pubblicistico di permanenza, ma anche una personale dipendenza nei confronti del proprietario del fondo. Per questo motivo la legislazione imperiale fissava dei principi generali, mentre la condizione dei coloni variava nelle diverse realtà provinciali e nei singoli fondi. Secondo l’A., il riconoscimento normativo del colonato fu strettamente connesso alla riforma fiscale dioclezianea, con la quale i contribuenti della capitatio plebeia furono legati al luogo di residenza obbligatorio (origo). In questo modo i fittavoli nullatenenti furono registrati nel fondo del proprietario: «il legame al fondo rappresentava una strada diversa per legare i contadini al fondo, ma molto più utile per il Fisco».

Dopo aver mostrato nell’ultimo capitolo, La condizione del colono, principalmente i vari modi di costituzione e di estinzione del colonato, il Giliberti, nell’Appendice, Note sul servaggio medievale, si propone, in particolare, di offrire un breve excursus delle forme servili del periodo, e i vari collegamenti operati dai giuristi del Medioevo tra tali forme e la disciplina romana del colonato. La conclusione cui egli giunge è che anche se nel periodo tardo romano «erano già presenti molte premesse della società alto-medievale … Pochi, fra i dotti del Medioevo, pensavano seriamente che i coloni, da un punto di vista storico e giuridico, coincidessero con i servi del loro tempo, e che quindi non ci fosse soluzione di continuità nel fenomeno della dipendenza, da Costantino, a Federico Barbarossa ed oltre».

 

Attinenti alla materia processuale del tardo antico sono i volumi di F. Pergami, L’appello nella legislazione del tardo impero, (Accademia Romanistica Costantiniana, Materiali per una palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali, sotto la direzione di M. Sargenti, serie terza 2), Giuffrè, Milano 2000, e di L. Solidoro Maruotti, La tutela del possesso in età costantiniana, Jovene, Napoli 1998.

La monografia del Pergami si occupa della ricca produzione legislativa in tema di appello dal IV ai primi decenni del VI sec., di cui, come si sottolinea nell’Introduzione, manca uno studio specifico. L’A. trova opportuno ricostruire l’istituto sotto il profilo diacronico e quello sistematico per definire «da prima, i momenti dello sviluppo dell’attività normativa dei vari imperatori nel decorso del tempo e per tratteggiare, poi, la struttura dell’istituto quale era venuta precisandosi attraverso quella attività». La ricerca è divisa in due parti, la prima, Lo sviluppo storico della legislazione sull’appello, è composta da tre capitoli, L’appello alle soglie del IV secolo, L’appello nella normativa del IV e del V secolo, La disciplina delle impugnazioni dopo il Codice Teodosiano, dove si ripercorrono le linee evolutive della legislazione in materia nel tardo antico. Nel periodo precedente, l’epoca dei Severi, gli interventi imperiali, che ribadiscono principi già sanciti, non paiono essere significativi. Fu sotto Diocleziano che si ebbe la prima regolamentazione normativa organica con l’editto dei Tetrarchi (C. 7, 62, 6). La norma affermava fondamentali principi: dopo la decisione della causa non si poteva rimettere l’esame al primo giudice (regola tuttavia, già sancita in precedenza); in seconda istanza si potevano presentare nuove eccezioni e nuovi elementi di prova utili per l’accertamento; nei processi capitali si poteva appellare la sola sentenza definitiva e gli imputati dovevano essere trattenuti in carcere in mancanza di fideiussori idonei; inoltre si negavano gli appelli temerari, si ribadivano i termini per appellare e venivano abolite le cautiones.

Successivamente anche Costantino affrontò il complesso tema dell’appello e offrì un nuovo sistema giurisdizionale. L’imperatore, infatti, regolò la delega di competenza ai funzionari superiori e vietò l’appellabilità delle sentenze dei prefetti del pretorio, divenuti giudici supremi. Egli, inoltre, affrontò il problema delle sentenze dei giudici inferiori rispetto all’appello, regolando le diverse ipotesi di inammissibilità. L’imperatore tentò anche di superare, ma solo incidentalmente, le incertezze presenti nella legislazione dioclezianea intorno alle forme dell’atto d’appello. La normativa di Costantino si chiude con l’editto ad universos provinciales del 331 (CTh. 11, 30, 16) che riguardava sotto vari aspetti il processo, nel quale è prevista l’appellabilità delle sentenze dei proconsoli, dei comites, e dei giudici qui vice praefectorum cognoscunt. Inoltre, qui si fa espresso divieto d’appello contro le sentenze dei prefetti al pretorio. Tuttavia, nonostante gli innumerevoli provvedimenti costantiniani «è discutibile …- evidenzia il Pergami – che in questo ricco materiale si possa ravvisare l’espressione di un’organica ed esauriente opera riformatrice del regime dell’istituto». I provvedimenti di Costantino, infatti, risultano in massima parte privi del carattere della generalità, poiché si tratta soprattutto di disposizioni di carattere particolare, e ciò forse perché molti provvedimenti sono anteriori al 324, data della riunificazione delle partes imperii.

Nella legislazione dei figli di Costantino si riscontra una sostanziale continuità rispetto alla politica legislativa del padre. Alcuni interventi di Costanzo e Costante furono tesi a confermare la generale ammissibilità dell’appello e ad affrontare il fenomeno della renitenza dei giudici inferiori ad ammetterlo. Altre norme ampliarono i casi in cui si vietava il gravame avverso le sentenze di primo grado che riguardavano, ad es., le cause che coinvolgevano il fisco e la res privata, costituzioni queste «ispirate ad una rigorosa tutela della utilitas publica e del publicum commodum». In seguito la materia venne sviluppata dalla legislazione di Valentiniano, Valente e Graziano, con cui si affrontavano nuovamente, e senza grandi mutamenti sostanziali, vari aspetti, come il fenomeno dell’ostruzionismo dei giudici inferiori (CTh. 11, 29-30; 11, 30, 32-33), e la questione dell'inappellabilità della sentenza (ad es. in CTh. 11, 36, 15). Tuttavia, nella regolamentazione di questi imperatori appare rilevante ed originale la parte dedicata all'istituto della reparatio appellationis attraverso cui una parte poteva chiedere di essere rimessa nei termini per l'appello (CTh. 11, 31, 1-3 e 5-6). Successivamente, l'orientamento legislativo in materia di Graziano, Valentiniano e Teodosio si mostra da un lato ispirato «ad un criterio di maggiore larghezza per quanto concerne l'ammissibilità dell'appello» e dall'altro, contrassegnato «dalla tendenza, non priva, tuttavia, di incertezze e di contraddizioni, a spostare l'applicazione delle sanzioni dall'accertamento dell'inammissibilità a quello dell'infondatezza». Gli interventi successivi si uniformarono ai principi espressi in passato, e con la pubblicazione del Codex Theodosianus la disciplina «sembra avere perduto interesse per il legislatore»; si dovrà attendere Giustino e poi Giustiniano per avere una «vivace ripresa dell'attività normativa in materia». L'imperatore Giustino si occupò, infatti, della competenza per gli appelli rivolti al tribunale imperiale, dell'inappellabilità delle sentenze interlocutorie, e del comportamento ostruzionistico dei giudici. Questi principi assieme ai criteri della legislazione precedente, vennero modificati dal nipote Giustiniano il quale cercò di «riorganizzare la competenza per i giudizi che si svolgevano, come egli dice more consultationum». Ma la più ampia riforma giustinianea in materia si ebbe nel 530 (C. 7, 62, 39) con l'introduzione dell'appello incidentale, che permetteva all'appellato, sulla base di alcuni presupposti, di impugnare il verdetto che era stato precedentemente oggetto di gravame su istanza del soccombente.

Nella seconda parte del lavoro, Profilo sistematico dell'appello nella legislazione tardoimperiale, si delineano le linee strutturali dell'istituto nel tardoantico, principalmente sulla base del materiale normativo del Codex Theodosianus e di quello Iustinianus. L'A. avverte la difficoltà di tale ricostruzione a causa della mancanza nei due codici di una disciplina completa ed organica dell'appello derivata dall’assenza di una volontà legislativa ad esaurire la materia. Il quadro sistematico è tracciato ripercorrendo in cinque capitoli argomenti essenziali: L’appello nel sistema delle impugnazioni, I soggetti, L’oggetto, Gli effetti, Il procedimento d’appello. Dall’analisi emerge come il termine provocatio fosse usato come sinonimo di appellatio, in base ad un senso di continuità con il passato che assimilava l’istituto all’antica provocatio ad populum. Questo riferimento alla concezione classica si evince dalla permanenza di alcuni principi come il carattere potestativo della posizione soggettiva delle parti nell’esercizio dell’appello, e l’inappellabilità delle pronunce precedenti alla sentenza definitiva. Tuttavia, rispetto al periodo classico il legislatore del tardoantico risulta avere una costante preoccupazione per le continue manovre dilatorie nei procedimenti. A tal fine si procedette per dichiarare inappellabili vari casi di sentenze, quali i verdetti emessi nei processi criminali per reati puniti con la pena capitale, le pronunce in materia fiscale e tributaria.

Nello studio della Solidoro Maruotti si sono privilegiate le fonti tecnico-giuridiche per far luce sulle riforme di Costantino in materia di situazioni possessorie. Nel primo capitolo si esaminano I modi della repressione penale costantiniani, mezzi tesi in particolare a reprimere la frequente pratica degli spossessamenti, causati sia da una notevole diffusione del brigantaggio, sia «dall’avidità e dall’arroganza» dei facoltosi latifondisti i quali annettevano illecitamente alle proprie terre i possedimenti viciniori. Il fenomeno delle spoliazioni violente rappresentava un fattore destabilizzante per la società, in quanto coinvolgeva in tali attività delittuose soprattutto persone d’alto rango. La risposta imperiale fu una costituzione del 316 (CTh. 9, 1, 1) che dispose i criteri da seguire per determinare la competenza degli organi giudiziali nei processi penali a carico delle clarissimae personae. La legge stabiliva che i senatori accusati di crimini, tra i quali gli spogli commessi in provincia, sarebbero stati sottoposti alla giurisdizione comune, e quindi davanti al magistrato provinciale, senza potersi avvalere del privilegio del domicilium dignitatis. In generale, Costantino cercò di reprimere ogni manifestazione della vis, ed ebbe particolare riguardo per le spoliazioni violente. Sotto il titolo Ad legem Iuliam de vi publica et privata del Codice Teodosiano si sono conservate infatti tre norme dell’imperatore attinenti all’invasio: CTh. 9, 10, 1-3. Le prime due costituzioni, emanate intorno al 317-318, comminavano la pena capitale per qualunque colpevole di spoliazioni violente, abrogando l’antico privilegio del ius exilii, che sottraeva alla esecuzione della condanna di morte le persone delle classi elevate. Questo regime risultava di estrema severità non solo perché si comminò la pena capitale indipendentemente dalla classe sociale, ma soprattutto in quanto si punirono con la stessa sanzione differenti fattispecie di reato commesse durante il compimento della violenza, come la minaccia e il tentativo di spossessamento che avessero provocato tumulti conclusosi con la morte di un partecipante. Inoltre, Costantino stabilì che l’omicidio, anche di un complice, verificatosi durante uno scontro connesso all’invasio, sarebbe stato imputato, sulla base di una responsabilità oggettiva, a chi dava inizio ai disordini. Inoltre, sulla base di tale impronta più rigorista, con CTh. 9, 10, 1 si abolì la discrezionalità del giudice nell’applicazione della condanna, e si abrogò l’efficacia sospensiva dell’appello. Tale sistema, però, presentava notevoli disfunzioni, infatti l’aver previsto la pena capitale sia per una spoliazione sine armis, sia per uno spoglio dove si fosse sparso del sangue «avrebbe potuto incoraggiare gli invasores all’eliminazione fisica di potenziali testimoni»; inoltre, veniva riconosciuto un incondizionato diritto all’autodifesa. Nel 319, con la terza costituzione, CTh. 9, 10, 3, l’imperatore cercò di ovviare a tali anomalie invitando le vittime di spossessamento ad adire le vie legali in sede civile e penale, ed evitare così il ricorso alla pratica dell’autotutela. Nella norma, tuttavia, in maniera originale venne regolata la concorrenza delle due azioni processuali, in quanto se non si fosse concluso il procedimento civile, considerato negotium principale, il giudice della causa criminale non poteva emettere la sentenza. Nella costituzione, pur senza eliminarla, si rese inefficace l’exceptio vitiosae possessionis in maniera implicita, in quanto si faceva divieto alla vittima dello spossessamento di recuperare il bene con violenza. Secondo l’A. nella costituzione del 319 si possono individuare «i primi elementi del processo di unificazione» tra i due antichi procedimenti interdittali Unde vi e De vi armata. L’accertamento della causa civile doveva vertere sulla proprietà e non sul possesso in quanto, se dopo l’accertamento l’autore dello spoglio fosse stato dichiarato legittimato al possesso del bene, questo perdeva metà della res litigiosa in favore del fisco, perché comunque reo di vis, ma tale sanzione poteva essere prevista solo per il proprietario. Invece qualora le pretese nella causa civile dell’invasor risultassero infondate, questi avrebbe subito la confisca generale dei beni e la deportazione, normalmente riservata agli honestiores, pena questa che Costantino estese a tutti i colpevoli indipendentemente dal ceto. Il nuovo regime repressivo mitigava il sistema introdotto con le due costituzioni precedenti, poiché si sostituiva la pena capitale con altre sanzioni. Il motivo per tale svolta è, probabilmente, da ricercare nelle resistenze operate dai giudici a causa delle pressioni da parte dei personaggi altolocati coinvolti in procedimenti contro atti di violenza. Tuttavia, nonostante le modifiche «il pur ingegnoso sistema repressivo ideato nel 319 dovette avere un riscontro concreto assai limitato», in quanto per evitare un aumento delle liti temerarie si era stabilito che all’accusator, che non riusciva a provare il crimen violentiae, fosse inflitta la pena prevista per il convenuto. Questo alto rischio fece preferire agli spossessati l’adizione dell’azione civile.

Il capitolo seguente è dedicato a I modi della repressione civile predisposti da Costantino, per lo studio dei quali riveste particolare importanza CTh. 4, 22, 1 del 326. La norma, che rappresentava una risposta al dilagante assenteismo dei latifondisti, modificò il regime civile della tutela degli assenti che venivano spossessati, potenziando la vigilanza dei detentori. Si permise ai detentori, quali ad esempio i vicini, gli amici, i servi, i coloni, spossessati vi di qualsiasi tipo di bene, di agire per il recupero per conto di un terzo assente per tutta la durata dell’assenza. L’indagine del giudice nell’istanza possessoria avrebbe dovuto accertare l’avvenuto spoglio e in tal caso disporre solo il ripristino dello stato di fatto antecedente allo spossessamento. Sebbene fosse ritoccata la procedura tradizionale non si creò alcuna nuova azione restitutoria. La norma del 326 faceva rinviare in seconda istanza sia l’accertamento sugli elementi di diritto, sia l’esamina del titolo. Inoltre sulla base di un’altra riforma dell’anno precedente (CTh. 2, 18, 3), contrariamente alle regole classiche, si consentì che le questioni petitoria e possessoria fossero trattate da uno stesso giudice, e attraverso un’altra costituzione sempre del 325, CTh. 11, 39, 1, la controversia eventualmente poteva essere risolta nel corso dello stesso giudizio. Con quest’ultima norma, ispirata alla prassi ellenistica, si riformò il regime classico sull’onere probatorio, stabilendo il dovere per entrambe le parti di fornire validi elementi per la composizione della causa. In una situazione di vasta varietà delle nuove forme di appartenenza, s’instaurò, così, un giudizio comparativo, dove le parti si impegnavano a dimostrare i titoli vantati, per permettere al giudice una graduazione delle pretese. In seguito, ci furono ulteriori interventi costantiniani relativi al fenomeno degli spossessamenti. Nel 330 furono emanate tre costituzioni, CTh. 2, 26, 1-3, dirette ai soli spogli fondiari e in particolare alle violazioni dei vicini. Dall’analisi delle prime due leggi la Solidoro Maruotti pone in evidenza l’emersione di due elementi, quali l’utilizzo di termini impropri nel qualificare le controversie e nel designare le situazioni possessorie, nonché il proposito legislativo di sanzionare civilmente e penalmente ogni forma di violazione di confine.

Nell’ultimo capitolo, La legislazione di Costantino nel quadro della compilazione giustinianea, si sottolinea come il notevole interesse dell’imperatore per i problemi relativi alle situazioni possessorie, venne espresso con numerosi interventi attinenti alla tutela processuale del possesso, a fronte di una totale carenza di norme sostanziali che sistemassero la materia possessoria. L’unica costituzione di Costantino che contiene «una enunciazione di carattere teorico sul possesso» viene riportata in C. 7, 32, 10. La norma non è di facile lettura, per cui ha richiesto sia una preventiva analisi delle fonti classiche sulla terminologia di possessio, sia una particolare attenzione per le numerose interpretazioni dottrinali. Il testo legislativo mostra un atteggiamento tradizionalista sotto il profilo civilistico, mentre dal punto di vista procedurale Costantino apportò rilevanti cambiamenti alla tradizione. L’imperatore avrebbe confermato la totale differenza che intercorreva tra possesso e semplice detenzione, quest’ultima priva di effetti acquisitivi. In giudizio, quindi, non si doveva dimostrare la sola detenzione materiale, ma anche l’animus rem sibi habendi: «Il ius possessionis, oggetto della prova imposta al convenuto che opponesse la longi temporis praescriptio, era pertanto, nello specifico contesto di CI. 7.32.10 essenzialmente l’esercizio di una possessio suo nomine».

 

Richiamiamo l’attenzione su due monografie, entrambe edite nel 1999, che attengono a specifiche tematiche nella vasta disciplina del diritto privato:

L’elaborato di F. Briguglio, Fideiussoribus succurri solet’, pubblicato a Milano per la casa editrice Giuffrè, attiene alle garanzie personali dell’obbligazione e cerca di far luce sugli istituti del beneficium excussionis (o ordinis), e del beneficium cedendarum actionum, introdotti da Giustiniano con la Nov. 4 del 535. Il primo istituto concedeva ai garanti di una obbligazione di venire escussi dopo il debitore principale, e s’inseriva nello storico conflitto tra la tutela dei creditori e quella dei garanti, mentre il beneficium cedendarum actionum consisteva nella cessione delle azioni contro il debitore da parte del creditore al garante che aveva onorato il debito.

Nel primo capitolo si procede a delle considerazioni introduttive, e si sottolinea l’utilità, ai fini della ricerca, dell’analisi del differente regime di altre forme di garanzia rispetto ai due istituti in oggetto. A tal fine, l’A. «in una sorta di premessa isagogica» descrive il profilo delle stipulazioni di garanzia, sponsio, fidepromissio e fideiussio; il quadro che ne emerge spiega perché il beneficium excussionis non venne introdotto prima della riforma giustinianea in materia. Infatti, illustra il Briguglio, la sponsio e la fidepromissio si presentano come obbligazioni solidali, e l’unica caratteristica dell’obbligazione solidale è quella di porre su un piano paritetico il debitore principale ed il garante. Questa proprietà fu presente anche nella fideiussio fino all’introduzione del beneficium excussionis. Inoltre, la sponsio e la fidepromissio accedevano solo ad una obbligazione verbis contracta, mentre la fideiussio era relativa ad obbligazioni contratte in qualunque modo. Quindi, se nei primi due istituti l’accessorietà era riferita agli atti, indipendentemente dalla loro efficacia, la fideiussione produceva i propri effetti solo in presenza di un’obbligazione principale, assumendo così la struttura, ab origine, di un’obbligazione passivamente accessoria. Per mostrare appieno le caratteristiche di questo istituto, l’A. opta per un’analisi delle fonti ad essa relative, «piuttosto che compiere un’astratta costruzione dogmatica». Dall’esegesi dei passi appare che sia in epoca classica, sia nel periodo postclassico sussisteva un rapporto di solidarietà tra il fideiussore ed il debitore principale, anche se si deve tener presente il possibile rischio di interpolazioni giustinianee in seguito alla riforma del regime processuale della fideiussio, attuata nel 531 con C. 8, 40, 28, che eliminava l’effetto consuntivo della litis contestatio. Concludono il capitolo alcuni cenni circa l’evoluzione storica del regime delle garanzie personali e il sistema presente negli odierni ordinamenti.

Il secondo capitolo indaga sul Beneficium ordinis seu excussionis, e cerca di stabilire sia l’esatta estensione e la portata dell’istituto, sia l’individuazione dei suoi primordi storici. A tal fine il Briguglio procede ad un’analisi esegetica della Nov. 4, con la quale si accordava il beneficium al fideiussore, al mandante o al costituente un debito altrui, i quali garantivano un mutuo. Tale disciplina venne modificata con la successiva Nov. 136, che dettava regole differenti nel caso un soggetto del contratto fosse un banchiere. Rispetto alla normativa generale, quando sorgeva la necessità di un ordine di escussione, si stabilirono ex lege dei particolari casi di responsabilità sussidiaria, in favore dei magistrati municipali, dei curatori pubblici e dei tutori non gerenti, rispetto ai nominatores, cioè le persone che li avevano designati. Nella Nov. 4 l’imperatore affermava di aver fatto rivivere un’antica norma che non veniva applicata a causa della sua scarsa comprensibilità. L’argomento, dunque, si presentava complesso anche in passato, e la stessa dottrina, esaminata dall’A., ha tentato di far chiarezza sull’intricato argomento cercando di individuare quale fosse il precedente della costituzione. Tuttavia, questo tentativo non ha portato a dei risultati certi. Per fare luce sul punto, dopo aver stabilito come l’istituto non fosse applicato nel diritto greco-egiziano, il Briguglio procede ad un’analisi esegetica di varie fonti, essendo egli del parere che non bisogna escludere l’esistenza dell’antica norma a cui la costituzione giustinianea faceva riferimento. Da alcuni passi ciceroniani emerge come la chiamata in giudizio del debitore principale prima del garante fosse sentita come un obbligo morale; ciò può fondare l’ipotesi della presenza di un’istanza sociale che ottenne l’introduzione di una norma che stabilisse la sussidiarietà dell’obbligazione di garanzia. Tuttavia, qualora la norma fosse esistita sarebbe stata disapplicata per l’effetto consuntivo della litis contestatio, che liberava i garanti, e per il principio della libera electio attribuito al creditore, che aveva la facoltà di scegliere chi convenire in giudizio. Si cerca comunque sulla base di un esame del prologo e del I capo della Nov. 4 di ipotizzarne il suo contenuto. La costituzione giustinianea afferma che già Papiniano diede delle indicazioni sulla via da percorrere, ed in effetti, proprio da un brano tratto dal IV libro delle Quaestiones del giurista (D. 45, 1, 116) si ricava che la scientia iuris aveva escogitato un sistema con il quale si arrivava ai risultati del beneficium excussionis, con la sottoposizione dell’obbligazione del garante ad una condizione di previa escussione del debitore principale. Dalle note paoline al passo, si evince che nella fideiussio indemnitatis, con cui normalmente si eliminava la libera electio, in caso di assenza del debitore principale l’onere della ricerca spettava al creditore, mentre nella Nov. 4 gravava sul garante entro un tempo utile concesso dal magistrato. Si desume da questo fatto che l’antica norma aveva recepito dalla fideiussio indemnitatis soltanto il beneficium excussionis, «senza quella blindatura» che consisteva nel credito condizionale, e dunque la disposizione si poteva applicare solo in caso di compresenza del debitore principale e del suo garante, per cui ebbe grande utilizzazione la fideiussione condizionale.

L’ultimo capitolo, Beneficium cedendarum actionum, vuole dimostrare, sulla base delle fonti, l’inesistenza di un diritto di regresso insito nella struttura dell’obbligazione solidale, indipendentemente da altri rapporti sottostanti. Proprio in mancanza di tale diritto può operare il beneficium cedendarum actionum. In passato vi era una differenza di regime tra il regresso legale previsto dalla lex Publilia e dalla lex Apuleia, per la sponsio e per la fideipromissio, e il regresso convenzionale della fideiussio, solo sulla base di un rapporto di mandato tra debitore principale ed il garante (Gaio 3, 127). Invece, il beneficium cedendarum actionum si basa sul rapporto fra creditore e garante. Per conoscere appieno l’estensione si deve inquadrare l’istituto sotto il profilo storico-dogmatico. Infatti, tale beneficio appare il portato di un lungo percorso di elaborazione della giurisprudenza classica tesa a risolvere il problema derivante dal fatto che il pagamento dell’intero da parte di uno dei debitori estingueva le azioni dei condebitori. Si creò il meccanismo della cessione delle azioni tramite l’espediente della vendita a credito, contemporanea al pagamento del credito. Dalle fonti risulta «l’affermarsi di una prassi tendente a rendere coattiva la cessione delle azioni», inoltre la giurisprudenza sottolineò come fosse necessario un accordo sotteso ad essa. Infatti, in mancanza di un’intesa le azioni si sarebbero estinte con il pagamento dell’obbligazione. Con una certa cautela, non è da escludere l’affermarsi dell’uso, non automatico, di ritenere il pagamento del garante come il prezzo di una vendita del credito. Tuttavia, nonostante si debba escludere l’automatismo di tale meccanismo, nella maggior parte degli ordinamenti vigenti si trova tramandata dalla tradizione l’idea del meccanico trapasso delle azioni in capo al garante che paga.

Il secondo elaborato che sviluppa temi privatistici è di F. Pulitanò, Ricerche sulla “bonorum possessio ab intestato” nell’età tardo-romana, pubblicato a Torino dalla Giappichelli.

       Nel primo capitolo si sottolinea come l’evoluzione della bonorum possessio, oggetto dell’indagine, rappresenti «un paradigma significativo» per la configurazione nella tardoantichità degli istituti di diritto privato. Con la rassegna del materiale postclassico relativo all’istituto si vuole trovare il ruolo che la bonorum possessio ebbe nello sviluppo del sistema ereditario conclusosi con Giustiniano. La dottrina, dalla quale non è mai emersa una trattazione specifica, è tesa in maggioranza ad affermare l’equiparazione fin dall’età postclassica tra hereditas e bonorum possessio, che portò ad un sistema successorio unitario. Tuttavia, in I. 3, 9 e nei passi della sua Parafrasi greca, vi è un ampio ricorso alla categoria della bonorum possessio: «Sorge, allora, il problema del coordinamento tra la voce degli stessi protagonisti dell’età giustinianea e la dominante opinione dottrinale in base alla quale la bonorum possessio sarebbe stata agonizzante già in età postclassica». Le due fonti esaminate non procedono ad una netta distinzione tra il diritto vigente e il diritto antico, ma per comprendere appieno i risultati della loro esegesi bisogna soffermarsi sulle età precedenti, per cogliere l’origine della commistione tra ius civile e ius honorarium, che presuppone l’equiparazione tra bonorum possessio e hereditas.

       Così, nel secondo capitolo si studia l’istituto nell’articolata, ma frammentaria, disciplina dioclezianea, le cui costituzioni del periodo 290-296 presentano «un campione di casi concreti, legati alle esigenze ed ai peculiari problemi dei richiedenti». L’analisi delle varie leggi mira a capire se l’applicazione dell’istituto avesse carattere sostanziale, oppure rappresentasse un residuo formale. Le norme dioclezianee sono state comparate con i testi dei Basilici e gli Scholia per porre in luce l’interpretazione di tale materiale da parte dei commentatori giustinianei. L’analisi esegetica, comunque, non porta a dei risultati univoci, la bonorum possessio appare con funzioni differenti: «talvolta per indicare specificatamente l’istituto pretorio; talvolta come apparente “relitto storico” di un’epoca ormai passata; talvolta, infine, come implicito presupposto delle soluzioni casistiche, modellate su un sistema successorio - di fatto - unico».

Nel terzo capitolo si procede all’esegesi di passi relativi del Codex Theodosianus, anche se i dati che ne derivano non sono completamente attendibili a causa della incompletezza nella quale l’opera compilatoria ci è pervenuta. Nel suo complesso il Teodosiano risulta «molto più avaro di notizie» rispetto al Codice di Giustiniano, dato che nessuna costituzione appare emanata espressamente per disciplinare l’istituto in esame. Anche nel Codex Theodosianus si rilevano i diversi aspetti della bonorum possessio già emersi dall’analisi delle costituzioni dell’età di Diocleziano. Il titolo 4, 1 De cretione vel bonorum possessione rappresenta il portato dell’evoluzione dell’istituto. Non appare chiaro l’accostamento tra cretio, modo di accettazione dell’eredità, e la bonorum possessio, poiché entrambi venivano considerati strumenti equivalenti che portavano alla disponibilità di un patrimonio ereditario. L’assimilazione dei due istituti ebbe carattere pratico, e la bonorum possessio non perdette la sua natura di sistema di principi successori. Anche se le vicende della cretio risultano parallele a quelle della bonorum possessio, l’individualità di quest’ultima non scomparve. La normativa giustinianea sul punto si discostava dal diritto romano-barbarico, questo aveva eliminato l’istituto, fatta eccezione del titolo unde liberi mantenuto in maniera tralatizia per indicare in generale la successione dei figli. Secondo l’A. la norma contenuta in CTh. 4, 1, 1, apriva verosimilmente ad una trattazione sull’argomento di un istituto che continuava a sopravvivere, anche se non si hanno testimonianze dirette. L’ipotesi della fine della bonorum possessio sarebbe frutto della «sfortunata trasmissione del Teodosiano». L’indagine delle testimonianze giustinianee, fatta nel quarto capitolo, mostra come l’istituto continuasse a possedere l’originaria funzione «di strumento ordinatore del subingresso mortis causa in un patrimonio», nonostante avesse perso alcune sue caratteristiche. La bonorum possessio s’inserì nella lunga evoluzione di tutto il diritto successorio, per essa si mantenne una terminologia classica, ma furono rielaborati i concetti essenziali, dovuti appunto alle trasformazioni della materia, e andò così ad assumere il ruolo di strumento per regolare i gradi della successione. Si mantennero nel Codice nella loro individualità i titoli unde liberi e unde vir et uxor, mentre furono accorpate le classi unde legitimi e unde cognati. Se nel Teodosiano la bonorum possessio venne «ridotta all’essenziale», con una diversa prospettiva rispetto alle trattazioni dei classici, nel Codice giustinianeo si ritrova «una “selezione ragionata” degli istituti classici», differente rispetto all’ampia trattazione presente nel Digesto, «come se nel primo fosse intervenuta una mediazione ad opera di principi nuovi».

       Nell’ultimo capitolo si traggono le conclusioni per cui l’opinione comune in base alla quale «la bonorum possessio sarebbe stata una zavorra da eliminare progressivamente» risulta ridimensionata, in quanto ha «contribuito a fornire materia di riflessione giuridica anche alle cancellerie imperiali dei secoli successivi al III»; infatti, «la sua costante espansione» influenzò i compilatori. Se la successione non era più dei genera separati bisognava equiparare l’hereditas alla bonorum possessio, ma tenendo pur ben separati i due istituti. Si considerò come successio l’ingresso di un soggetto nelle posizioni giuridiche precedentemente in capo ad un altro soggetto, elemento questo comune ai sistemi civilistico e pretorio.

 

Per ciò che riguarda le raccolte di saggi relative alla materia di questa rassegna se ne segnalano in particolare due apparse di recente:

L’opera Legislazione, cultura giuridica, prassi dell’impero d’Oriente in età giustinianea tra passato e futuro. Atti del convegno, Modena, 21-22 maggio 1998, a cura di S. Puliatti e A. Sanguinetti, Giuffrè, Milano 2000, rappresenta la conclusione di un’indagine triennale svolta da alcuni romanisti dell’Università di Cagliari, Genova, Modena e Torino. Lo scopo di tale lavoro, come indica nella Prefazione F. Goria, quale coordinatore nazionale della ricerca, «era di porre al centro dell’indagine l’età giustinianea». Tale periodo non è stato considerato solamente come il «punto di arrivo di un secolare sviluppo», ma è stato valutato altresì sia in sé «nelle sue complete problematiche, le quali hanno prodotto un enorme sforzo di riassetto normativo», sia come importante riferimento per il posteriore sviluppo del diritto nell’impero d’Oriente. Lo stesso Goria sottolinea che le materie trattate nel convegno non coprono il vasto campo della ricerca, «né sul piano tematico né su quello cronologico», ed inoltre, i singoli approfondimenti presentano livelli differenti, tuttavia, «si è creduto di compiere un non inutile lavoro preparatorio di materiali per future più organiche sintesi», ed in particolar modo «si è voluto tener vivo un discorso».

Il lavoro che apre l’opera è di P. Garbarino, La “praescriptio fori” nei secoli V e VI: aspetti procedurali, nel quale si analizza il mezzo procedurale attraverso cui si faceva valere l’incompetenza del giudice adito nei processi civili e penali tardo-imperiali. Seguono poi, sempre in tema processuale - argomento prevalente - diverse relazioni:Officium iudicis” e certezza del diritto in età giustinianea di S. Puliatti, dove si mostrano le disposizioni con cui Giustiniano tentava di armonizzare la funzione creativa della potestà imperiale, unica fonte di diritto, con la funzione subordinata e applicativa dell’organo giudicante; F. Goria, Ricusazione del giudice e “iudices electi” da Costantino a Giustiniano, il quale analizza la normativa imperiale sulla possibilità di ricusare l’organo giudicante, fino alla concessione alle parti, nel VI sec., della possibilità di scelta del giudice, con un ritorno agli antichi principi dell’ordo iudiciorum; L. Migliardi Zingale, L’“ekbibastes” in età giustinianea tra normazione e prassi: riflessioni in margine ad un papiro ossirinchita di recente pubblicazione, la quale partendo dall’analisi di un documento dell’eparchia di Arcadia, risalente al VI sec., dimostra il rilievo dato da Giustinano all’ekbibastes nelle controversie tra privati; F. Sitzia, D. 39.2.24.1a e la legittimazione all’“actio damni infecti, nel cui lavoro esamina una controversa testimonianza ulpianea inserita nell’ambito della problematica relativa alla cautio damni infecti; F. Botta, L’iniziativa processualcriminale delle “personae publicae” nelle fonti giuridiche di età giustinianea, studio che analizza la complessa questione dell’introduzione dei procedimenti penali da parte di soggetti che ricoprono una funzione pubblica. Ad altri argomenti è dedicata la relazione di P. E. Pieler, Die justinianische Kodifikation in der juristischen Praxis des 6. Jahrhunderts, che afferma l’effettivo vigore della legislazione giustinianea nella prassi. Due indagini sono dedicate a temi di diritto successorio nel regno di Giustiniano: J. Beaucamp, Le droit successoral relatif aux curiales: Procope et Justinien, che studia la legislazione giustinianea sulla trasmissione mortis causa dei beni dei curiali sulla base degli Anecdota di Procopio; R. Lambertini, La radice normativa della riforma giustinianea in tema di fedecommesso universale, analisi volta ad individuare l’origine del nuovo regime stabilito da Giustiniano in tema di fideiscommissus di eredità. Privilegia argomenti di carattere amministrativo L’amministrazione dell’Egitto bizantino secondo l’Editto XIII, di A. M. Demicheli, la quale si sofferma sulla norma giustinianea volta alla riorganizzazione dell’Egitto. Al termine, il Discorso conclusivo di M. Amelotti offre una sintesi particolareggiata e unificante delle relazioni svolte.

Segnaliamo il volume curato da R. Soraci, degli Atti del Convegno internazionale su Corruzione, repressione e rivolta morale nella tarda antichità, svoltosi a Catania dall’11 al 13 dicembre 1995, CULC, Catania 1999, che ha riunito per un’indagine comune antichisti, romanisti, positivisti, pratici, visto lo stretto rapporto che intercorre tra l’età contemporanea e il mondo classico. Il Convegno - a detta del curatore – «si propone di puntualizzare i vari aspetti del fenomeno della corruzione che, pur riferito ad un passato così lontano, quale è l’età tardoantica, trova, purtroppo, una chiara correlazione con il nostro presente». L’opera vuole tracciare uno spaccato «diacronico e omnicomprensivo» del fenomeno della corruzione che nel periodo tardoantico ebbe la «sua fase più acuta», in quanto l’Impero «oppresso anche da nemici esterni, non riuscì più ad arginare il processo di progressivo sfaldamento militare, politico, sociale e morale». Tuttavia, bisogna sottolineare che, nonostante la sua notevole estensione, «la società tardoantica non conobbe, una corruzione organizzata chiamata governo, o in forma assoluta o in maschera istituzionale». La prima relazione presentata è di L. Cracco Ruggini, Clientele e violenze urbane a Roma tra IV e VI secolo, nella quale si mostra l’ambiente urbano dell’Urbe nel tardoantico. Segue poi Giustiniano e lo Stato di diritto. Mito e realtà nella legislazione e nella prassi, di M. Balzarini, in cui si delinea il preciso disegno di restaurazione dell’imperatore con la riproposizione di fondamentali principi della tradizione. M. Mazza, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas”. Sulle basi culturali della repressione religiosa nella Tarda Antichità, ricerca le motivazioni ideologiche sulle quali gli imperatori hanno basato la repressione della divinazione. I problemi normativi causati dalla mancata definizione giuridica della corruzione sono oggetto di riflessione in “In unam insulam congregare”:corruzione’ e strategie preventive nel IV secolo d. C., di S. A. Fusco, per quanto attiene al IV secolo, e in Concussione e corruzione: un intreccio complicato, di C. Venturini, dove si pone in risalto come in età giustinianea la concussio non acquisì una sufficiente autonomia in campo teorico. Tre relazioni hanno posto in risalto, sulla base in particolare dell’opera del presbitero Salviano di Marsiglia, il processo di disgregazione della parte occidentale dell’impero, dovuta soprattuto al malgoverno e al diffuso sistema della corruzione: C. Molè Ventura, Rivolta morale e rivolta sociale nella Tarda Antichità; D. Lassandro, Exhaustae provinciaepraesidentium rapinis”. Corruzione e rivolta morale nella Gallia tardoantica (nei “Panegyrici” e in Salviano); F. P. Rizzo, Il “De gubernatione Dei” di Salviano nel quadro della problematica di fine impero. Indagano sui casi di malversazioni ad opera della pubblica amministrazione nel tardo impero R. Soraci, «Consuetudo fraudium» e «rigor iuris»: repressione a “corrente alternata” e a direzione variabile, il quale esamina le fraudes pregiudizievoli per le pubbliche finanze; A. Manfredini, Gli ufficiali terribili e i doni dei rurali (CTh. 11,11,1), che analizza il frequente fenomeno del ricorso al terrore a scopo d’estorsione a danno dei villici; F. Elia, CTh. 11, 11, 1: spartiacque fra liceità ed illiceità dei “munuscula” e degli “xenia, analisi della costituzione del 368 di Valentiniano I in cui si diffidava qualsiasi officialis di approfittarsi delle liberalità altrui. Dopo che B. Saitta, La ‘carcerazione preventiva’ del pretore Libertino e l’intervento di papa Gregorio Magno, rileva i principi ispiratori, giustizia, diritto e libertà, del pontefice che si indignò in seguito all’imprigionamento e alla fustigazione subite dal pretore di Sicilia accusato di malversazione. Sottolineano invece il diffuso fenomeno della corruzione nell’ambito dell’organizzazione ecclesiastica: R. Teja; “Se transformaron en otras personas”: La captación de votos y voluntades por Cirilo de Alejandría en el Concilio de Efeso (431), e L. De Salvo, Simonia e malversazioni nell’organizzazione ecclesiastica. (IV-V secolo). B. Santalucia, Costantino e i «libelli famosi», tratta dei provvedimenti costantiniani in materia di scritti anonimi diffamatori, che rappresentavano una grave turbativa per il buon funzionamento della giustizia. Una riflessione sulla Crisi morale e decadenza politica della repubblica romana: la rilettura agostiniana di Sallustio viene offerta da M. Marin, il quale rileva il richiamo di Agostino, nel De civitate Dei, all’auctoritas della fonte antica come base per le sue argomentazioni «polemico-apologetiche» contro degli aristocratici pagani i quali imputavano la caduta di Roma del 410 all’abbandono dei culti precristiani. Questioni in materia attinenti al vigente ordinamento sono trattate da B. Giordano, I reati contro la pubblica amministrazione: varie riflessioni e poche prospettive, e da A. Condorelli, Questione morale e controllo di legalità nella magistratura e nella pubblica amministrazione. Da ultimo, spetta a G. Crifò trarre le Conclusioni e fare il bilancio dei lavori del Convegno.

 

 

Cristiana Rinolfi