L'età tardo imperiale
(*)
rassegna di Cristiana Rinolfi
(*) In
corso di stampa in Studi Romani.
Segnaliamo due recenti ricerche
dalle quali emerge chiaramente la tendenza, tipica del
tardo antico, a rendere ereditarie le funzioni considerate vitali per gli
interessi dell’impero: G. de Bonfils,
Omnes ... ad implenda munia teneantur. Ebrei curie e prefetture fra IV e V secolo, Cacucci, Bari 1998, e G. Giliberti, Servi della terra. Ricerche per una storia del colonato, Giappichelli, Torino 1999.
L’opera del de Bonfils si occupa della presenza
ebraica nell’amministrazione delle città dell’impero romano; a tal fine nel
primo capitolo (Introduzione: gli ebrei e
le curie nel IV secolo) l’A. delinea un quadro
della situazione in età costantiniana. Durante il suo
governo Costantino dovette affrontare sia la grave questione della fuga dalle
città, sia le alte proteste delle «nuove istanze
cristiane» contro i pesanti oneri derivanti dall’asservimento alle civitates. Il
problema venne fronteggiato dall’imperatore in maniera
differente nelle due partes imperii. In
Occidente egli trasse lo spunto dalle richieste di Colonia, importante centro
commerciale e punto strategico nella difesa del Reno, per emanare nel 321 una
costituzione di carattere generale (CTh.
16, 8, 3). Con tale norma per la prima volta si sancì che anche gli ebrei, tra
quelli che avevano raggiunto un certo tenore economico, potevano essere
chiamati al servizio curiale, in quanto «l’ansia cittadina non mancava di
assegnare incarichi amministrativi a chiunque fosse apparso
in grado di gestire un incarico». Nella costituzione si prevedeva l’esenzione
dai doveri cittadini per due o tre membri del clero ebraico: questa modesta
deroga deve essere intesa come «forma di ossequio
politico dell’imperatore verso quell’antico rispetto
riconosciuto» a questi esponenti religiosi. In Oriente la presenza giudea era
molto più intensa, e Costantino dovette affrontare problemi più urgenti e molto
più complessi di quelli affrontati nella pars Occidentis. Con una costituzione del 330 (CTh. 16, 8, 2) si riconobbe
l’esenzione, qui molto più ampia rispetto alla norma occidentale, dalle cariche
municipali per gli addetti ai Patriarchi e ai presbiteri della gerarchia
centrale residente in Palestina. Il testo normativo dava «assolutamente per
scontato» che gli ebrei senza alcun privilegio derivato da motivazioni
religiose potevano essere inseriti tra i curiali e dunque svolgere la funzione
di decurioni. Dopo il 324, anno in cui Costantino si pose a capo di tutto
l’impero, si deve supporre per l’Oriente l’estensione della legge occidentale;
probabilmente ciò comportò che anche in questa pars imperii gran parte del clero ebraico dovette, senza distinzioni, adempiere
agli oneri curiali, si facevano salve le esigue esenzioni della norma.
L’iniquità del precetto e «le immaginabili pressioni degli ambienti ebraici
orientali» devono aver dato impulso ad una norma
successiva dello stesso anno, raccolta in CTh. 16, 8,
4, che dispensava dai munera corporalia il
clero minore ebraico di tutto l’impero, accordando «un regime immunitario
inferiore» rispetto alla prima costituzione, in quanto si esentava solo «da
quelle prestazioni che comportando attività fisica anche degradante» potevano
deteriorare l’immagine della carica sacerdotale.
I
due capitoli successivi, Si qua est lege
cessante e Onorio e la politica
ebraica, sono dedicati alla normativa diretta ai giudei dell’imperatore
Onorio, di cui si registrano ben 12 costituzioni. La sua fu una legislazione
priva di organicità, «ispirata e dibattuta tra
tolleranza e persecuzione». In particolare sono significative
le norme del 398 emanate a Milano, CTh. 12, 1, 157 e 158, che sono «al centro di una serie di questioni che
– si propone il de Bonfils -
vanno chiarite singolarmente». Con la prima disposizione
il giovane imperatore sanciva l’impossibilità di sottrarsi agli
incarichi municipali per motivi religiosi. La seconda norma, chiarificatrice
della costituzione precedente, stabiliva che la presunta costituzione emanata
in Oriente sulla base della quale gli ebrei nelle civitates dell’Apulia et Calabria si sottraevano
ai munera,
non poteva essere estesa all’Occidente in quanto risultava chiaramente dannosa.
Il disposto particolare, che ripeteva il principio esposto dalla norma
precedente, è un indice delle difficoltà applicative del precetto teso a
rafforzare e salvaguardare le civitates dell’impero. Dopo la caduta di Stilicone
a Ravenna, nuova capitale, Onorio tra il 408 ed il 418 emanò un secondo gruppo
di norme relative all’etnia ebraica, nel quale ancora
una volta «mostra uno strano ed alterno carattere di tolleranza e
persecuzione»; tuttavia «nemmeno forse con la sua legge più severa per il
futuro degli ebrei, non contribuisce a segnare un passo avanti nella strada
della persecuzione ebraica» perpetrata negli anni
successivi.
Nella
parte orientale il fratello Arcadio continuò la politica del padre, Teodosio I, incentrata sulla tolleranza nei confronti dell’etnia
ebraica. Nella legislazione di Arcadio del periodo
396-404 «si ha l’impressione che il legislatore, la corte, i funzionari orientali
sentano l’esigenza di organizzare le forme di esistenza di questa etnia al fine
di una globale integrazione nell’impero».
Il terzo capitolo, Flavius Mallius Theodorus, ed il quarto, Il prefetto e la legislazione, sono dedicati al destinatario delle
due costituzioni occidentali di Onorio del 398,
appunto Flavio Mallio Teodoro. Questo personaggio
ricoprì i gradi più alti dell’amministrazione, a lui S. Agostino dedicò il de beata vita,
e Claudio Claudiano, il poeta ufficiale di Milano, scrisse un panegirico. Fl. Mallius Theodorus
fu autore dell’operetta de metris, ferrato in neoplatonismo, seguace di sant’Ambrogio e appartenente al circolo milanese. L’A. «con
cautela e grande circospezione» ipotizza «che a sovraintendere alla legislazione di quegli anni» vi fosse
unicamente un funzionario: Fl. Mallius
Theodorus, «per la funzione svolta al fianco
dell’imperatore e del reggente, per il ruolo politico che gli è attribuito, per
il bagaglio professionale e culturale che gli è riconosciuto».
La monografia di G. Giliberti, che fa luce sul colonato, particolare condizione
di semi-servitù affermatasi con l’avvento del Dominato, si articola in cinque
capitoli. Nel primo, dedicato a La formazione del colonato, si evidenzia come in materia, a causa delle
notevoli ambiguità delle fonti, sorgono numerosi problemi. La questione più
controversa concerne l’origine del colonato, in
quanto le testimonianze giuridiche in maniera del tutto ingiustificata, visto
l’interesse che lo stesso Giustiniano mostrava per il tema degli status personarum,
nulla dicono sul quando si ebbe il riconoscimento
giuridico dell’istituto. A tal proposito, sono presentati i tre principali
filoni di ricerca che si sono delineati in dottrina
sull’argomento. Secondo la prima linea di studio, che ha privilegiato
un’indagine “genealogica”, il colonato sarebbe
derivato dall’estensione di varie forme di dipendenza sociali e giuridiche
precedenti al Basso Impero. Il secondo filone vede il colonato
come un vincolo fiscale derivato dall’esigenza di garantire le entrate e la
coltivazione delle terre imperiali. Il terzo orientamento dottrinale ha posto
in rilievo la distinzione tra il colonato delle epoche precedenti e quello dell’età basso-imperiale,
periodo questo in cui si cercò di impedire l’abbandono delle terre e di
contrastare la grave crisi della produzione.
Nel secondo capitolo, La locazione agraria, si delineano i caratteri dell’agricoltura nell’età del
Principato. Nel primo impero il modello tipico dell’azienda agricola era
rappresentato dalla villa italica,
struttura produttiva di medie dimensioni ad alta intensità di capitali,
affermatasi nella tarda Repubblica. La villa
possedeva una complessa organizzazione fondata «su una gerarchia di schiavi
dirigenti e specializzati, la cui collaborazione col padrone era essenziale».
Il lavoro dei servi veniva integrato sia dalla
manodopera di salariati, sia attraverso la locazione di parcelle del fondo a
coloni liberi. Con l’andare del tempo si affermò il fenomeno della
concentrazione fondiaria, rallentata dalla politica imperiale tesa ad impedire
la scomparsa della piccola proprietà rurale e a contrastare, così, il crescente
potere dei latifondisti. A causa degli elevati costi di una gestione diretta le
grandi villae,
intorno al II e al III sec., vennero sostituite da
fattorie di piccole dimensioni. Inoltre, per evitare una dispersione degli
investimenti, si fece un ampio ricorso alla locazione
agraria ai coloni, ottenendo l’effetto di addossare all’affittuario i rischi
produttivi e quelli commerciali. Gli stessi imperatori si valsero della
locazione ai coloni, di numero sempre più esiguo, nei praedia Caesaris, attirandoli con l’offerta di alcuni privilegi, e ricorrendo, alle volte, a forme di
affittanza perpetua.
Nel capitolo seguente, Fra liberi e schiavi, si afferma che la
causa della decadenza del sistema schiavistico del III
sec. fu la forte denatalità dei contadini liberi. La scarsa crescita
demografica, infatti, provocò una contrazione dei mercati, ed un aumento del
costo del lavoro dei braccianti agricoli. Così, per
contrastare la penuria di coloni e di salariati, i latifondisti produssero
«“artificialmente” dei coltivatori pseudo-liberi: i servi coloni, i mercennarii di condizione servile, gli addicti, i Latini Iuniani», nonostante l’ideologia romana si basasse
sull’unica alternativa dell’essere liberi o schiavi.
Fu la plebe rustica a fornire la forza lavoro necessaria «a costo però di un
progressivo svuotamento della libertas». Infatti, nonostante
fosse scaduto il contratto di locazione, i coloni erano spesso trattenuti con
la forza. La legislazione imperiale cercò invano di opporsi a tali soprusi, ma
la grave crisi economica del periodo «aveva fatto maturare i presupposti per il
riconoscimento legale della servitù della gleba».
Il quarto capitolo, Membra terrae,
delinea un quadro del colonato
basso imperiale che emerge soprattutto dalle codificazioni di leges. Alla luce di numerose
costituzioni imperiali si può constatare come il colonato non determinasse solo un vincolo
pubblicistico di permanenza, ma anche una personale dipendenza nei confronti
del proprietario del fondo. Per questo motivo la legislazione imperiale fissava
dei principi generali, mentre la condizione dei coloni variava nelle diverse
realtà provinciali e nei singoli fondi. Secondo l’A., il riconoscimento
normativo del colonato fu strettamente connesso alla
riforma fiscale dioclezianea, con la quale i
contribuenti della capitatio plebeia
furono legati al luogo di residenza obbligatorio (origo). In questo modo i
fittavoli nullatenenti furono registrati nel fondo del proprietario: «il legame
al fondo rappresentava una strada diversa per legare i
contadini al fondo, ma molto più utile per il Fisco».
Dopo aver mostrato nell’ultimo
capitolo, La condizione del colono,
principalmente i vari modi di costituzione e di estinzione
del colonato, il Giliberti,
nell’Appendice, Note sul servaggio
medievale, si propone, in particolare, di offrire un breve excursus delle forme servili del
periodo, e i vari collegamenti operati dai giuristi del Medioevo tra tali forme
e la disciplina romana del colonato. La conclusione
cui egli giunge è che anche se nel periodo tardo romano «erano già presenti
molte premesse della società alto-medievale … Pochi,
fra i dotti del Medioevo, pensavano seriamente che i coloni, da un punto di
vista storico e giuridico, coincidessero con i servi del loro tempo, e che
quindi non ci fosse soluzione di continuità nel fenomeno della dipendenza, da
Costantino, a Federico Barbarossa ed oltre».
Attinenti alla materia processuale
del tardo antico sono i volumi di F. Pergami,
L’appello nella legislazione del tardo
impero, (Accademia Romanistica Costantiniana, Materiali per una
palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali, sotto la direzione
di M. Sargenti, serie terza 2), Giuffrè,
Milano 2000, e di L. Solidoro Maruotti, La
tutela del possesso in età costantiniana, Jovene, Napoli 1998.
La monografia del
Pergami si occupa della
ricca produzione legislativa in tema di appello dal IV ai primi decenni del VI
sec., di cui, come si sottolinea nell’Introduzione,
manca uno studio specifico. L’A. trova opportuno ricostruire l’istituto sotto
il profilo diacronico e quello sistematico per definire «da prima, i momenti
dello sviluppo dell’attività normativa dei vari imperatori nel decorso del
tempo e per tratteggiare, poi, la struttura dell’istituto quale era venuta
precisandosi attraverso quella attività». La ricerca è
divisa in due parti, la prima, Lo
sviluppo storico della legislazione sull’appello, è composta da tre capitoli, L’appello
alle soglie del IV secolo, L’appello
nella normativa del IV e del V secolo, La
disciplina delle impugnazioni dopo il Codice Teodosiano,
dove si ripercorrono le linee evolutive della legislazione in materia nel tardo
antico. Nel periodo precedente, l’epoca dei Severi, gli interventi imperiali,
che ribadiscono principi già sanciti, non paiono
essere significativi. Fu sotto Diocleziano che si ebbe la prima
regolamentazione normativa organica con l’editto dei Tetrarchi (C. 7, 62, 6).
La norma affermava fondamentali principi: dopo la decisione della causa non si
poteva rimettere l’esame al primo giudice (regola tuttavia, già sancita in
precedenza); in seconda istanza si potevano presentare
nuove eccezioni e nuovi elementi di prova utili per l’accertamento; nei
processi capitali si poteva appellare la sola sentenza definitiva e gli
imputati dovevano essere trattenuti in carcere in mancanza di fideiussori
idonei; inoltre si negavano gli appelli temerari, si ribadivano i termini per
appellare e venivano abolite le cautiones.
Successivamente anche Costantino affrontò il
complesso tema dell’appello e offrì un nuovo sistema giurisdizionale.
L’imperatore, infatti, regolò la delega di competenza ai funzionari superiori e
vietò l’appellabilità delle sentenze dei prefetti del pretorio, divenuti giudici supremi. Egli, inoltre,
affrontò il problema delle sentenze dei giudici inferiori rispetto all’appello,
regolando le diverse ipotesi di inammissibilità.
L’imperatore tentò anche di superare, ma solo incidentalmente, le incertezze
presenti nella legislazione dioclezianea intorno alle
forme dell’atto d’appello. La normativa di Costantino si chiude con l’editto ad universos provinciales del 331 (CTh. 11, 30, 16) che riguardava sotto vari aspetti il
processo, nel quale è prevista l’appellabilità
delle sentenze dei proconsoli, dei comites, e dei giudici qui
vice praefectorum cognoscunt.
Inoltre, qui si fa espresso divieto d’appello contro le sentenze dei prefetti
al pretorio. Tuttavia, nonostante gli innumerevoli provvedimenti costantiniani «è discutibile …- evidenzia il Pergami –
che in questo ricco materiale si possa ravvisare l’espressione di un’organica
ed esauriente opera riformatrice del regime dell’istituto». I provvedimenti di
Costantino, infatti, risultano in massima parte privi
del carattere della generalità, poiché si tratta soprattutto di disposizioni di
carattere particolare, e ciò forse perché molti provvedimenti sono anteriori al
324, data della riunificazione delle partes imperii.
Nella legislazione dei figli di
Costantino si riscontra una sostanziale continuità rispetto alla politica
legislativa del padre. Alcuni interventi di Costanzo e Costante furono tesi a
confermare la generale ammissibilità dell’appello e ad affrontare il fenomeno
della renitenza dei giudici inferiori ad ammetterlo. Altre norme ampliarono i
casi in cui si vietava il gravame avverso le sentenze di primo grado che
riguardavano, ad es., le
cause che coinvolgevano il fisco e la res
privata, costituzioni queste «ispirate ad una rigorosa tutela della utilitas publica e del
publicum commodum». In
seguito la materia venne sviluppata dalla legislazione
di Valentiniano, Valente e Graziano, con cui si
affrontavano nuovamente, e senza grandi mutamenti sostanziali, vari aspetti,
come il fenomeno dell’ostruzionismo dei giudici inferiori (CTh.
11, 29-30; 11, 30, 32-33), e la questione dell'inappellabilità della sentenza
(ad es. in CTh. 11, 36, 15).
Tuttavia, nella regolamentazione di questi imperatori appare rilevante ed
originale la parte dedicata all'istituto della reparatio appellationis attraverso cui una parte
poteva chiedere di essere rimessa nei termini per l'appello (CTh. 11, 31, 1-3 e 5-6). Successivamente, l'orientamento legislativo in materia di
Graziano, Valentiniano e Teodosio si mostra da un
lato ispirato «ad un criterio di maggiore larghezza per quanto concerne
l'ammissibilità dell'appello» e dall'altro, contrassegnato «dalla tendenza, non
priva, tuttavia, di incertezze e di contraddizioni, a spostare l'applicazione
delle sanzioni dall'accertamento dell'inammissibilità a quello
dell'infondatezza». Gli interventi successivi si uniformarono
ai principi espressi in passato, e con la pubblicazione del Codex Theodosianus la disciplina «sembra avere
perduto interesse per il legislatore»; si dovrà attendere Giustino e poi
Giustiniano per avere una «vivace ripresa dell'attività normativa in materia».
L'imperatore Giustino si occupò, infatti, della competenza per gli appelli
rivolti al tribunale imperiale, dell'inappellabilità delle sentenze interlocutorie, e del comportamento ostruzionistico dei
giudici. Questi principi assieme ai criteri della legislazione precedente, vennero modificati dal nipote Giustiniano il quale cercò di
«riorganizzare la competenza per i giudizi che si svolgevano, come egli dice more consultationum».
Ma la più ampia riforma giustinianea in materia si ebbe nel 530 (C. 7, 62, 39)
con l'introduzione dell'appello incidentale, che permetteva all'appellato, sulla base di alcuni presupposti, di impugnare il verdetto
che era stato precedentemente oggetto di gravame su istanza del soccombente.
Nella seconda parte del lavoro, Profilo sistematico dell'appello nella
legislazione tardoimperiale, si delineano le linee strutturali dell'istituto nel tardoantico, principalmente sulla base del materiale
normativo del Codex Theodosianus
e di quello Iustinianus.
L'A. avverte la difficoltà di tale ricostruzione a causa della mancanza nei due
codici di una disciplina completa ed organica dell'appello derivata
dall’assenza di una volontà legislativa ad esaurire la materia. Il quadro
sistematico è tracciato ripercorrendo in cinque capitoli argomenti essenziali: L’appello nel sistema delle impugnazioni, I soggetti, L’oggetto, Gli effetti, Il procedimento d’appello. Dall’analisi
emerge come il termine provocatio fosse usato come sinonimo di appellatio, in
base ad un senso di continuità con il passato che assimilava l’istituto
all’antica provocatio ad populum.
Questo riferimento alla concezione classica si evince dalla permanenza di alcuni principi come il carattere potestativo della
posizione soggettiva delle parti nell’esercizio dell’appello, e
l’inappellabilità delle pronunce precedenti alla sentenza definitiva. Tuttavia,
rispetto al periodo classico il legislatore del tardoantico
risulta avere una costante preoccupazione per le
continue manovre dilatorie nei procedimenti. A tal fine si procedette per
dichiarare inappellabili vari casi di sentenze, quali i verdetti emessi nei
processi criminali per reati puniti con la pena capitale, le pronunce in
materia fiscale e tributaria.
Nello studio della Solidoro Maruotti si sono privilegiate le fonti tecnico-giuridiche per far luce sulle
riforme di Costantino in materia di situazioni possessorie. Nel primo capitolo
si esaminano I modi della repressione
penale costantiniani, mezzi
tesi in particolare a reprimere la frequente pratica degli spossessamenti, causati sia da una notevole diffusione del
brigantaggio, sia «dall’avidità e dall’arroganza» dei facoltosi latifondisti i
quali annettevano illecitamente alle proprie terre i possedimenti viciniori. Il
fenomeno delle spoliazioni violente rappresentava un fattore destabilizzante
per la società, in quanto coinvolgeva in tali attività delittuose soprattutto
persone d’alto rango. La risposta imperiale fu una costituzione del 316 (CTh. 9, 1, 1)
che dispose i criteri da seguire per determinare la competenza degli organi
giudiziali nei processi penali a carico delle clarissimae personae. La legge stabiliva che i senatori accusati di crimini,
tra i quali gli spogli commessi in provincia, sarebbero stati sottoposti alla
giurisdizione comune, e quindi davanti al magistrato provinciale, senza potersi
avvalere del privilegio del domicilium dignitatis. In generale, Costantino cercò di reprimere
ogni manifestazione della vis,
ed ebbe particolare riguardo per le spoliazioni violente. Sotto il titolo Ad legem Iuliam de vi publica et privata
del Codice Teodosiano si sono conservate infatti tre
norme dell’imperatore attinenti all’invasio: CTh. 9, 10, 1-3. Le prime
due costituzioni, emanate intorno al 317-318, comminavano
la pena capitale per qualunque colpevole di spoliazioni violente, abrogando
l’antico privilegio del ius exilii, che sottraeva alla esecuzione della condanna di
morte le persone delle classi elevate. Questo regime risultava
di estrema severità non solo perché si comminò la pena capitale
indipendentemente dalla classe sociale, ma soprattutto in quanto si punirono
con la stessa sanzione differenti fattispecie di reato commesse durante il
compimento della violenza, come la minaccia e il tentativo di spossessamento che avessero provocato tumulti conclusosi
con la morte di un partecipante. Inoltre, Costantino stabilì che l’omicidio,
anche di un complice, verificatosi durante uno scontro connesso all’invasio, sarebbe
stato imputato, sulla base di una responsabilità
oggettiva, a chi dava inizio ai disordini. Inoltre, sulla
base di tale impronta più rigorista, con CTh. 9, 10, 1 si abolì la discrezionalità del giudice
nell’applicazione della condanna, e si abrogò l’efficacia sospensiva
dell’appello. Tale sistema, però, presentava notevoli disfunzioni, infatti l’aver previsto la pena capitale sia per una
spoliazione sine armis, sia per uno spoglio dove si fosse
sparso del sangue «avrebbe potuto incoraggiare gli invasores all’eliminazione fisica
di potenziali testimoni»; inoltre, veniva riconosciuto un incondizionato
diritto all’autodifesa. Nel 319, con la terza costituzione, CTh. 9, 10, 3, l’imperatore cercò di ovviare a tali
anomalie invitando le vittime di spossessamento ad adire le vie legali in sede civile e penale, ed evitare
così il ricorso alla pratica dell’autotutela. Nella
norma, tuttavia, in maniera originale venne regolata
la concorrenza delle due azioni processuali, in quanto se non si fosse concluso
il procedimento civile, considerato negotium principale,
il giudice della causa criminale non poteva emettere la sentenza. Nella
costituzione, pur senza eliminarla, si rese inefficace l’exceptio vitiosae possessionis
in maniera implicita, in quanto si faceva divieto alla vittima dello spossessamento di recuperare il bene con violenza. Secondo
l’A. nella costituzione del 319 si possono individuare «i primi elementi del
processo di unificazione» tra i due antichi
procedimenti interdittali Unde vi e De vi armata.
L’accertamento della causa civile doveva vertere sulla proprietà e non sul
possesso in quanto, se dopo l’accertamento l’autore
dello spoglio fosse stato dichiarato legittimato al possesso del bene, questo
perdeva metà della res litigiosa in
favore del fisco, perché comunque reo di vis,
ma tale sanzione poteva essere prevista solo per il proprietario. Invece
qualora le pretese nella causa civile dell’invasor risultassero
infondate, questi avrebbe subito la confisca generale dei beni e la
deportazione, normalmente riservata agli honestiores,
pena questa che Costantino estese a tutti i colpevoli indipendentemente dal
ceto. Il nuovo regime repressivo mitigava il sistema introdotto con le due
costituzioni precedenti, poiché si sostituiva la pena capitale con altre
sanzioni. Il motivo per tale svolta è, probabilmente, da ricercare nelle
resistenze operate dai giudici a causa delle pressioni da parte dei personaggi
altolocati coinvolti in procedimenti contro atti di violenza. Tuttavia,
nonostante le modifiche «il pur ingegnoso sistema repressivo ideato nel 319
dovette avere un riscontro concreto assai limitato», in quanto per evitare un
aumento delle liti temerarie si era stabilito che all’accusator, che non riusciva a provare il crimen violentiae, fosse
inflitta la pena prevista per il convenuto. Questo alto rischio fece preferire
agli spossessati l’adizione dell’azione civile.
Il capitolo seguente è dedicato a I modi della repressione civile
predisposti da Costantino, per lo studio dei quali riveste particolare
importanza CTh. 4, 22, 1 del
326. La norma, che rappresentava una risposta al dilagante assenteismo dei
latifondisti, modificò il regime civile della tutela degli assenti che venivano spossessati, potenziando la vigilanza dei
detentori. Si permise ai detentori, quali ad esempio i vicini, gli amici, i servi,
i coloni, spossessati vi di qualsiasi
tipo di bene, di agire per il recupero per conto di un terzo assente
per tutta la durata dell’assenza. L’indagine del giudice nell’istanza possessoria avrebbe dovuto accertare l’avvenuto
spoglio e in tal caso disporre solo il ripristino dello stato di fatto
antecedente allo spossessamento. Sebbene fosse
ritoccata la procedura tradizionale non si creò alcuna
nuova azione restitutoria. La norma del 326 faceva rinviare in seconda istanza sia l’accertamento sugli elementi di diritto, sia
l’esamina del titolo. Inoltre sulla base di un’altra
riforma dell’anno precedente (CTh. 2, 18, 3),
contrariamente alle regole classiche, si consentì che le questioni petitoria e
possessoria fossero trattate da uno stesso giudice, e attraverso un’altra
costituzione sempre del 325, CTh.
11, 39, 1, la controversia eventualmente poteva essere
risolta nel corso dello stesso giudizio. Con quest’ultima
norma, ispirata alla prassi ellenistica, si riformò il regime classico
sull’onere probatorio, stabilendo il dovere per entrambe le parti di fornire
validi elementi per la composizione della causa. In una situazione di vasta
varietà delle nuove forme di appartenenza, s’instaurò,
così, un giudizio comparativo, dove le parti si impegnavano a dimostrare i
titoli vantati, per permettere al giudice una graduazione delle pretese. In
seguito, ci furono ulteriori interventi costantiniani relativi al fenomeno degli spossessamenti. Nel 330 furono emanate tre costituzioni, CTh. 2, 26, 1-3,
dirette ai soli spogli fondiari e in particolare alle violazioni dei vicini.
Dall’analisi delle prime due leggi
Nell’ultimo capitolo, La legislazione di Costantino nel quadro della compilazione giustinianea, si
sottolinea come il notevole interesse dell’imperatore per i problemi relativi
alle situazioni possessorie, venne espresso con numerosi interventi attinenti
alla tutela processuale del possesso, a fronte di una totale carenza di norme
sostanziali che sistemassero la materia possessoria. L’unica costituzione di
Costantino che contiene «una enunciazione di carattere
teorico sul possesso» viene riportata in C. 7, 32, 10. La norma non è di facile
lettura, per cui ha richiesto sia una preventiva
analisi delle fonti classiche sulla terminologia di possessio, sia una particolare attenzione per le numerose
interpretazioni dottrinali. Il testo legislativo mostra un atteggiamento
tradizionalista sotto il profilo civilistico, mentre
dal punto di vista procedurale Costantino apportò rilevanti cambiamenti alla
tradizione. L’imperatore avrebbe confermato la totale differenza che
intercorreva tra possesso e semplice detenzione, quest’ultima
priva di effetti acquisitivi. In giudizio, quindi, non
si doveva dimostrare la sola detenzione materiale, ma anche l’animus rem sibi habendi: «Il ius possessionis,
oggetto della prova imposta al convenuto che opponesse la longi temporis praescriptio,
era pertanto, nello specifico contesto di CI. 7.32.10 essenzialmente l’esercizio
di una possessio suo
nomine».
Richiamiamo l’attenzione su due
monografie, entrambe edite nel 1999, che attengono a specifiche tematiche nella vasta disciplina del diritto privato:
L’elaborato di F. Briguglio, ‘Fideiussoribus succurri solet’, pubblicato a Milano per la casa editrice Giuffrè, attiene alle garanzie personali dell’obbligazione
e cerca di far luce sugli istituti del beneficium excussionis (o ordinis), e del beneficium cedendarum actionum,
introdotti da Giustiniano con
Nel primo capitolo si procede a
delle considerazioni introduttive, e si sottolinea
l’utilità, ai fini della ricerca, dell’analisi del differente regime di altre
forme di garanzia rispetto ai due istituti in oggetto. A tal fine, l’A. «in una
sorta di premessa isagogica» descrive il profilo
delle stipulazioni di garanzia, sponsio, fidepromissio e fideiussio; il
quadro che ne emerge spiega perché il beneficium excussionis
non venne introdotto prima della riforma giustinianea in materia. Infatti, illustra il Briguglio,
la sponsio e la fidepromissio si presentano come
obbligazioni solidali, e l’unica caratteristica dell’obbligazione solidale è
quella di porre su un piano paritetico il debitore principale ed il garante.
Questa proprietà fu presente anche nella fideiussio fino all’introduzione
del beneficium excussionis.
Inoltre, la sponsio e la fidepromissio accedevano
solo ad una obbligazione verbis contracta, mentre
la fideiussio
era relativa ad obbligazioni contratte in qualunque modo. Quindi, se nei primi
due istituti l’accessorietà era riferita agli atti, indipendentemente dalla
loro efficacia, la fideiussione produceva i propri effetti solo in presenza di un’obbligazione principale, assumendo così la
struttura, ab origine, di un’obbligazione
passivamente accessoria. Per mostrare appieno le caratteristiche di questo istituto, l’A. opta per un’analisi delle fonti ad
essa relative, «piuttosto che compiere un’astratta costruzione dogmatica».
Dall’esegesi dei passi appare che sia in epoca classica, sia nel periodo postclassico sussisteva un rapporto di solidarietà tra il
fideiussore ed il debitore principale, anche se si deve tener presente il
possibile rischio di interpolazioni giustinianee in seguito alla riforma del regime processuale
della fideiussio,
attuata nel 531 con C. 8, 40, 28, che eliminava l’effetto consuntivo della litis contestatio. Concludono il capitolo alcuni cenni circa l’evoluzione
storica del regime delle garanzie personali e il sistema presente negli odierni
ordinamenti.
Il secondo capitolo indaga sul Beneficium ordinis seu excussionis, e cerca di
stabilire sia l’esatta estensione e la portata dell’istituto, sia
l’individuazione dei suoi primordi storici. A tal fine il Briguglio procede ad un’analisi
esegetica della Nov. 4, con la quale si accordava il beneficium al fideiussore, al mandante o al
costituente un debito altrui, i quali garantivano un mutuo. Tale disciplina venne modificata con la successiva Nov.
136, che dettava regole differenti nel caso un soggetto del contratto fosse un
banchiere. Rispetto alla normativa generale, quando sorgeva la necessità di un
ordine di escussione, si stabilirono ex lege dei
particolari casi di responsabilità sussidiaria, in favore dei magistrati
municipali, dei curatori pubblici e dei tutori non gerenti, rispetto ai nominatores, cioè
le persone che li avevano designati. Nella Nov. 4
l’imperatore affermava di aver fatto rivivere un’antica norma che non veniva applicata a causa della sua scarsa comprensibilità.
L’argomento, dunque, si presentava complesso anche in passato, e la stessa
dottrina, esaminata dall’A., ha tentato di far
chiarezza sull’intricato argomento cercando di individuare quale fosse il
precedente della costituzione. Tuttavia, questo tentativo non ha portato a dei
risultati certi. Per fare luce sul punto, dopo aver stabilito come l’istituto
non fosse applicato nel diritto greco-egiziano, il Briguglio procede ad un’analisi
esegetica di varie fonti, essendo egli del parere che non bisogna escludere
l’esistenza dell’antica norma a cui la costituzione giustinianea faceva
riferimento. Da alcuni passi ciceroniani emerge come
la chiamata in giudizio del debitore principale prima del garante fosse sentita
come un obbligo morale; ciò può fondare l’ipotesi della presenza di un’istanza sociale che ottenne l’introduzione di una norma che
stabilisse la sussidiarietà dell’obbligazione di
garanzia. Tuttavia, qualora la norma fosse esistita sarebbe
stata disapplicata per l’effetto consuntivo della litis contestatio,
che liberava i garanti, e per il principio della libera electio attribuito al creditore,
che aveva la facoltà di scegliere chi convenire in giudizio. Si cerca comunque sulla base di un esame del prologo e del I capo
della Nov. 4 di ipotizzarne il suo contenuto. La
costituzione giustinianea afferma che già Papiniano
diede delle indicazioni sulla via da percorrere, ed in effetti, proprio da un
brano tratto dal IV libro delle Quaestiones del giurista (D. 45, 1,
116) si ricava che la scientia iuris aveva escogitato un sistema con
il quale si arrivava ai risultati del beneficium excussionis, con la sottoposizione dell’obbligazione
del garante ad una condizione di previa escussione del
debitore principale. Dalle note paoline al passo, si
evince che nella fideiussio indemnitatis,
con cui normalmente si eliminava la libera
electio, in caso di assenza
del debitore principale l’onere della ricerca spettava al creditore, mentre
nella Nov. 4 gravava sul garante entro un tempo utile
concesso dal magistrato. Si desume da questo fatto che l’antica norma aveva recepito dalla fideiussio indemnitatis soltanto il beneficium excussionis, «senza quella blindatura»
che consisteva nel credito condizionale, e dunque la disposizione si poteva
applicare solo in caso di compresenza del debitore principale e del suo
garante, per cui ebbe grande utilizzazione la fideiussione condizionale.
L’ultimo capitolo, Beneficium cedendarum actionum, vuole dimostrare, sulla base delle fonti,
l’inesistenza di un diritto di regresso insito nella struttura
dell’obbligazione solidale, indipendentemente da altri rapporti sottostanti.
Proprio in mancanza di tale diritto può operare il beneficium cedendarum actionum.
In passato vi era una differenza di regime tra il regresso legale previsto
dalla lex Publilia e
dalla lex Apuleia, per
la sponsio e per la fideipromissio, e il regresso
convenzionale della fideiussio,
solo sulla base di un rapporto di mandato tra debitore
principale ed il garante (Gaio 3, 127). Invece, il beneficium cedendarum actionum
si basa sul rapporto fra creditore e garante. Per conoscere appieno
l’estensione si deve inquadrare l’istituto sotto il profilo storico-dogmatico.
Infatti, tale beneficio appare il portato di un lungo percorso di elaborazione della giurisprudenza classica tesa a
risolvere il problema derivante dal fatto che il pagamento dell’intero da parte
di uno dei debitori estingueva le azioni dei condebitori. Si creò il meccanismo
della cessione delle azioni tramite l’espediente della vendita a credito,
contemporanea al pagamento del credito. Dalle fonti risulta «l’affermarsi di una prassi tendente a rendere
coattiva la cessione delle azioni», inoltre la giurisprudenza sottolineò come
fosse necessario un accordo sotteso ad essa. Infatti,
in mancanza di un’intesa le azioni si sarebbero estinte con il pagamento
dell’obbligazione. Con una certa cautela, non è da escludere l’affermarsi
dell’uso, non automatico, di ritenere il pagamento del garante come il prezzo
di una vendita del credito. Tuttavia, nonostante si debba
escludere l’automatismo di tale meccanismo, nella maggior parte degli
ordinamenti vigenti si trova tramandata dalla tradizione l’idea del
meccanico trapasso delle azioni in capo al garante che paga.
Il secondo elaborato che sviluppa
temi privatistici è di F. Pulitanò, Ricerche sulla “bonorum
possessio ab intestato” nell’età tardo-romana,
pubblicato a Torino dalla Giappichelli.
Nel
primo capitolo si sottolinea come l’evoluzione della bonorum possessio, oggetto dell’indagine,
rappresenti «un paradigma significativo» per la configurazione nella tardoantichità degli istituti di diritto privato. Con la
rassegna del materiale postclassico relativo
all’istituto si vuole trovare il ruolo che la bonorum possessio ebbe nello sviluppo del sistema ereditario conclusosi con Giustiniano. La dottrina, dalla quale non è
mai emersa una trattazione specifica, è tesa in maggioranza ad affermare
l’equiparazione fin dall’età postclassica tra hereditas e bonorum possessio, che portò ad un sistema
successorio unitario. Tuttavia, in I. 3, 9 e nei passi della sua Parafrasi
greca, vi è un ampio ricorso alla categoria della bonorum possessio: «Sorge, allora, il problema del coordinamento tra la
voce degli stessi protagonisti dell’età giustinianea e la dominante opinione
dottrinale in base alla quale la bonorum possessio sarebbe stata agonizzante già in età postclassica».
Le due fonti esaminate non procedono ad una netta distinzione tra il diritto
vigente e il diritto antico, ma per comprendere
appieno i risultati della loro esegesi bisogna soffermarsi sulle età
precedenti, per cogliere l’origine della commistione tra ius civile e ius honorarium,
che presuppone l’equiparazione tra bonorum possessio
e hereditas.
Così,
nel secondo capitolo si studia l’istituto nell’articolata, ma
frammentaria, disciplina dioclezianea, le cui
costituzioni del periodo 290-296 presentano «un campione di casi concreti,
legati alle esigenze ed ai peculiari problemi dei richiedenti». L’analisi delle
varie leggi mira a capire se l’applicazione dell’istituto avesse carattere
sostanziale, oppure rappresentasse un residuo formale.
Le norme dioclezianee sono state comparate con i
testi dei Basilici e gli Scholia per porre
in luce l’interpretazione di tale materiale da parte dei commentatori giustinianei. L’analisi esegetica, comunque,
non porta a dei risultati univoci, la bonorum possessio
appare con funzioni differenti: «talvolta per indicare specificatamente
l’istituto pretorio; talvolta come apparente “relitto storico” di un’epoca
ormai passata; talvolta, infine, come implicito presupposto delle soluzioni
casistiche, modellate su un sistema successorio - di fatto - unico».
Nel terzo capitolo si procede
all’esegesi di passi relativi del Codex Theodosianus, anche se i dati che ne derivano non sono
completamente attendibili a causa della incompletezza
nella quale l’opera compilatoria ci è pervenuta. Nel
suo complesso il Teodosiano risulta
«molto più avaro di notizie» rispetto al Codice di Giustiniano, dato che
nessuna costituzione appare emanata espressamente per disciplinare l’istituto
in esame. Anche nel Codex Theodosianus si rilevano i diversi
aspetti della bonorum possessio già emersi dall’analisi delle
costituzioni dell’età di Diocleziano. Il titolo 4, 1 De cretione vel bonorum possessione rappresenta il portato
dell’evoluzione dell’istituto. Non appare chiaro l’accostamento tra cretio, modo di accettazione dell’eredità, e la bonorum possessio, poiché entrambi venivano considerati strumenti equivalenti
che portavano alla disponibilità di un patrimonio ereditario. L’assimilazione
dei due istituti ebbe carattere pratico, e la bonorum possessio non perdette la sua natura di sistema di principi
successori. Anche se le vicende della cretio risultano parallele a quelle
della bonorum possessio, l’individualità di quest’ultima non scomparve. La normativa giustinianea sul
punto si discostava dal diritto romano-barbarico, questo aveva eliminato
l’istituto, fatta eccezione del titolo unde liberi mantenuto
in maniera tralatizia per indicare in generale la
successione dei figli. Secondo l’A. la norma contenuta
in CTh. 4, 1, 1, apriva
verosimilmente ad una trattazione sull’argomento di un istituto che continuava
a sopravvivere, anche se non si hanno testimonianze dirette. L’ipotesi della
fine della bonorum possessio sarebbe frutto della
«sfortunata trasmissione del Teodosiano». L’indagine
delle testimonianze giustinianee, fatta nel quarto
capitolo, mostra come l’istituto continuasse a
possedere l’originaria funzione «di strumento ordinatore del subingresso mortis causa in un
patrimonio», nonostante avesse perso alcune sue caratteristiche. La bonorum possessio s’inserì nella lunga
evoluzione di tutto il diritto successorio, per essa
si mantenne una terminologia classica, ma furono rielaborati i concetti
essenziali, dovuti appunto alle trasformazioni della materia, e andò così ad
assumere il ruolo di strumento per regolare i gradi della successione. Si
mantennero nel Codice nella loro individualità i titoli unde liberi e unde vir et uxor, mentre furono accorpate le classi unde legitimi e unde cognati. Se nel Teodosiano
la bonorum possessio venne «ridotta
all’essenziale», con una diversa prospettiva rispetto alle trattazioni dei
classici, nel Codice giustinianeo si ritrova «una
“selezione ragionata” degli istituti classici», differente rispetto all’ampia
trattazione presente nel Digesto, «come se nel primo fosse intervenuta una
mediazione ad opera di principi nuovi».
Nell’ultimo
capitolo si traggono le conclusioni per cui l’opinione
comune in base alla quale «la bonorum possessio
sarebbe stata una zavorra da eliminare progressivamente» risulta
ridimensionata, in quanto ha «contribuito a fornire materia di riflessione
giuridica anche alle cancellerie imperiali dei secoli successivi al III»;
infatti, «la sua costante espansione» influenzò i compilatori. Se la
successione non era più dei genera separati bisognava equiparare l’hereditas alla bonorum possessio, ma tenendo pur ben separati
i due istituti. Si considerò come successio l’ingresso di un soggetto nelle posizioni
giuridiche precedentemente in capo ad un altro
soggetto, elemento questo comune ai sistemi civilistico
e pretorio.
Per ciò che riguarda le raccolte di saggi relative alla materia di questa rassegna se ne segnalano
in particolare due apparse di recente:
L’opera Legislazione, cultura giuridica, prassi
dell’impero d’Oriente in età giustinianea tra passato e futuro. Atti del convegno, Modena, 21-22 maggio
Il lavoro che apre l’opera è di P. Garbarino,
La “praescriptio
fori” nei secoli V e VI: aspetti procedurali, nel quale si analizza il
mezzo procedurale attraverso cui si faceva valere l’incompetenza del giudice
adito nei processi civili e penali tardo-imperiali. Seguono poi, sempre in tema
processuale - argomento prevalente - diverse relazioni:“Officium iudicis” e certezza del diritto in età giustinianea di S. Puliatti, dove si mostrano le
disposizioni con cui Giustiniano tentava di armonizzare la funzione creativa
della potestà imperiale, unica fonte di diritto, con la funzione subordinata e
applicativa dell’organo giudicante; F. Goria,
Ricusazione del giudice e “iudices electi” da Costantino a
Giustiniano, il quale analizza la normativa imperiale sulla possibilità di
ricusare l’organo giudicante, fino alla concessione alle parti, nel VI sec.,
della possibilità di scelta del giudice, con un ritorno agli antichi principi
dell’ordo iudiciorum; L. Migliardi Zingale, L’“ekbibastes” in
età giustinianea tra normazione e prassi: riflessioni in margine ad un papiro ossirinchita di recente pubblicazione, la quale
partendo dall’analisi di un documento dell’eparchia di Arcadia, risalente al VI sec., dimostra il rilievo dato da Giustinano all’ekbibastes nelle controversie tra privati; F. Sitzia, D. 39.2.24.1a e la legittimazione all’“actio
damni infecti”, nel cui
lavoro esamina una controversa testimonianza ulpianea inserita nell’ambito della problematica relativa
alla cautio damni infecti; F. Botta,
L’iniziativa processualcriminale
delle “personae publicae” nelle fonti giuridiche di
età giustinianea, studio che analizza la complessa questione
dell’introduzione dei procedimenti penali da parte di soggetti che ricoprono
una funzione pubblica. Ad altri argomenti è dedicata la relazione di P. E. Pieler, Die justinianische Kodifikation
in der juristischen Praxis des 6. Jahrhunderts, che afferma
l’effettivo vigore della legislazione giustinianea nella prassi. Due
indagini sono dedicate a temi di diritto successorio nel regno di Giustiniano: J. Beaucamp, Le droit successoral
relatif aux curiales: Procope et Justinien, che studia la legislazione giustinianea
sulla trasmissione mortis causa dei beni dei curiali sulla base degli Anecdota di Procopio; R. Lambertini, La radice normativa della riforma giustinianea in tema di fedecommesso
universale, analisi volta ad individuare l’origine del nuovo regime
stabilito da Giustiniano in tema di fideiscommissus di eredità. Privilegia
argomenti di carattere amministrativo L’amministrazione
dell’Egitto bizantino secondo l’Editto XIII, di A. M. Demicheli, la quale si sofferma sulla norma
giustinianea volta alla riorganizzazione dell’Egitto. Al termine, il Discorso conclusivo di M. Amelotti offre una sintesi particolareggiata
e unificante delle relazioni svolte.
Segnaliamo il volume curato da R. Soraci, degli Atti del Convegno
internazionale su Corruzione, repressione
e rivolta morale nella tarda antichità, svoltosi a Catania dall’11 al 13 dicembre 1995, CULC, Catania 1999, che ha
riunito per un’indagine comune antichisti, romanisti,
positivisti, pratici, visto lo stretto rapporto che intercorre tra l’età
contemporanea e il mondo classico. Il Convegno - a detta del curatore – «si
propone di puntualizzare i vari aspetti del fenomeno della corruzione che, pur
riferito ad un passato così lontano, quale è l’età tardoantica, trova, purtroppo, una chiara correlazione con
il nostro presente». L’opera vuole tracciare uno spaccato «diacronico e
omnicomprensivo» del fenomeno della corruzione che nel periodo tardoantico ebbe la «sua fase più acuta», in quanto
l’Impero «oppresso anche da nemici esterni, non riuscì più ad arginare il
processo di progressivo sfaldamento militare, politico, sociale e morale».
Tuttavia, bisogna sottolineare che, nonostante la sua
notevole estensione, «la società tardoantica non
conobbe, una corruzione organizzata chiamata governo, o in forma assoluta o in
maschera istituzionale». La prima relazione presentata è di
L. Cracco Ruggini, Clientele e violenze urbane a Roma tra IV e VI secolo, nella quale
si mostra l’ambiente urbano dell’Urbe nel tardoantico.
Segue poi Giustiniano e lo Stato di
diritto. Mito e realtà nella legislazione e nella prassi, di M. Balzarini, in cui si delinea il preciso disegno di restaurazione dell’imperatore
con la riproposizione di fondamentali principi della
tradizione. M. Mazza, “Sileat omnibus
perpetuo divinandi curiositas”.
Sulle basi culturali della repressione religiosa nella Tarda
Antichità, ricerca le motivazioni ideologiche
sulle quali gli imperatori hanno basato la repressione della divinazione.
I problemi normativi causati dalla mancata definizione giuridica della
corruzione sono oggetto di riflessione in “In
unam insulam congregare”: ‘corruzione’ e strategie preventive nel IV secolo d. C.,
di S. A. Fusco, per quanto
attiene al IV secolo, e in Concussione e
corruzione: un intreccio complicato, di C.
Venturini, dove si pone in risalto come in età giustinianea la concussio non acquisì una sufficiente autonomia
in campo teorico. Tre relazioni hanno posto in risalto, sulla base in
particolare dell’opera del presbitero Salviano di
Marsiglia, il processo di disgregazione della parte occidentale dell’impero,
dovuta soprattuto al malgoverno e al diffuso sistema della corruzione: C. Molè Ventura, Rivolta morale e rivolta sociale nella Tarda Antichità; D. Lassandro, “Exhaustae provinciae…
praesidentium rapinis”.
Corruzione e rivolta morale nella Gallia tardoantica (nei “Panegyrici” e
in Salviano); F. P. Rizzo, Il “De gubernatione Dei” di Salviano nel quadro della problematica di fine impero. Indagano
sui casi di malversazioni ad opera della pubblica
amministrazione nel tardo impero R.
Soraci, «Consuetudo
fraudium» e «rigor iuris»: repressione a “corrente
alternata” e a direzione variabile, il quale esamina le fraudes pregiudizievoli per le
pubbliche finanze; A. Manfredini,
Gli ufficiali terribili e i doni dei
rurali (CTh. 11,11,1),
che analizza il frequente fenomeno del ricorso al terrore a scopo d’estorsione
a danno dei villici; F. Elia, CTh. 11, 11, 1: spartiacque
fra liceità ed illiceità dei “munuscula” e degli “xenia”, analisi della
costituzione del 368 di Valentiniano I in cui si
diffidava qualsiasi officialis di approfittarsi delle liberalità altrui.
Dopo che B. Saitta, La ‘carcerazione preventiva’
del pretore Libertino e l’intervento di papa Gregorio Magno, rileva i
principi ispiratori, giustizia, diritto e libertà, del pontefice che si indignò in seguito all’imprigionamento e alla
fustigazione subite dal pretore di Sicilia accusato di malversazione. Sottolineano invece il diffuso fenomeno della corruzione
nell’ambito dell’organizzazione ecclesiastica: R. Teja; “Se transformaron en otras personas”: La captación de votos y voluntades por Cirilo de Alejandría en el Concilio de Efeso (431), e L. De Salvo, Simonia e
malversazioni nell’organizzazione ecclesiastica. (IV-V
secolo). B.
Santalucia, Costantino e i
«libelli famosi», tratta dei provvedimenti costantiniani
in materia di scritti anonimi diffamatori, che rappresentavano una grave
turbativa per il buon funzionamento della giustizia. Una riflessione
sulla Crisi morale e decadenza politica
della repubblica romana: la rilettura agostiniana di Sallustio viene offerta da M.
Marin, il quale rileva il richiamo di Agostino, nel De civitate Dei, all’auctoritas della fonte antica come base per le sue argomentazioni «polemico-apologetiche» contro degli aristocratici pagani i
quali imputavano la caduta di Roma del 410 all’abbandono dei culti precristiani. Questioni in materia attinenti al vigente
ordinamento sono trattate da B. Giordano,
I reati contro la pubblica
amministrazione: varie riflessioni e poche prospettive, e da A. Condorelli, Questione morale e controllo di legalità nella magistratura e nella
pubblica amministrazione. Da ultimo, spetta a G. Crifò trarre
le Conclusioni e fare il bilancio dei
lavori del Convegno.
Cristiana Rinolfi