LEGISLAZIONE
NEL TARDO ANTICO (*)
rassegne di Cristiana Rinolfi
(*)
Rassegne pubblicate in Studi Romani XLVIII (1-2, 1997) e L (1-2, 2002).
È stato
pubblicato nell’ambito dell’Accademia Romanistica Costantiniana, in Materiali
per una palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali, sotto la direzione
di Manlio Sargenti (serie prima 5), il volume a cura di M. Navarra, Riferimenti normativi e
prospettive giuspubblicistiche nelle Res Gestae di Ammiano Marcellino, Giuffrè,
Milano 1994. Nella premessa il Sargenti evidenzia come un’analisi attenta delle
Res Gestae di Ammiano Marcellino presenti “una messe di dati di interesse
giuridico assai più ricca di quanto si è fin qui ritenuto”. Inoltre, tale
lettura “offre, soprattutto, un insegnamento, suggerisce un criterio di
valutazione che, mentre consente di trarre dalle pagine dello storico un frutto
quasi insperato, può fornire, più in generale, una guida appropriata per lo
studio dei fenomeni giuridici, del modo di essere giuridico, del tardo Impero”.
Tale lettura ci fa comprendere “quanto possa essere fuorviante” considerare il
fatto normativo nel suo ristretto significato di legge generale ed astratta, e
ci offre un criterio di metodo per la ricostruzione della normativa
tardo-imperiale “ammonendo che le sue componenti vanno ricercate non solo nelle
costituzioni di carattere generale, ma in tutta la complessa attività di
governo, nel senso più ampio, che l’imperatore svolge”.
Nella Introduzione
Il maggior
numero dei dati riguardanti la produzione normativa imperiale è relativo
“all’attività di Giuliano, che agli occhi dello storico costituisce il modello
ideale del buon principe e di cui viene, perciò, particolarmente valorizzata, a
parte qualche spunto critico, l’opera di governo”. Così, nell’opera di Ammiano
sono presenti i provvedimenti di Giuliano “che, dato il contenuto
anticristiano, o per il loro carattere contingente, non sono stati conservati
nei Codici”. Va sottolineata inoltre l’importanza delle Res Gestae per
la conoscenza della attività dei funzionari sia centrali, sia periferici, ed
importanti sono anche i dati circa i rapporti tra l’amministrazione centrale e
gli organi provinciali. Un altro aspetto giuridicamente rilevante riguarda “la
conclusione dei trattati, in particolare nei numerosi conflitti con le
formazioni germaniche e sarmate che premono sul Reno e sul Danubio ai confini
dell’Impero. Le notizie che Ammiano fornisce a questo riguardo consentono di
constatare il persistere di forme consuete ai rapporti di Roma con le
organizzazioni politiche straniere, il loro adattamento ad una realtà nuova e
mutevole ed il realizzarsi di istituzioni come quelle originate dallo
stanziamento nei territori dell’Impero di contingenti di popolazioni vinte o
pacificate”.
Le Res Gestae,
inoltre, consentono di ricostruire le linee di tendenza dell’assetto giuspubblicistico
del IV secolo, con particolare riguardo a tre aspetti: i criteri di
legittimazione del potere dell’imperatore, la nomina e i poteri dei Cesari, il
processo criminale. Per quanto riguarda il primo problema, le linee di tendenza
del periodo “sono ravvisabili nello sforzo di conciliare l’esistenza di un dato
fattuale, il peso della volontà dei militari, che non può essere né eliminato
né ignorato, con l’esigenza di attribuire al potere imperiale un crisma di
legittimità”. Tale contemperamento viene ricercato “nel concorso tra
designazione ed acclamazione, che è, poi, a ben guardare, un principio
profondamente radicato nella tradizione romana”. Per ciò che attiene al secondo
punto, la posizione dei Cesari, si ottiene dalle “Storie” “un quadro ben più
complesso e variato, consentendo di riconoscere alla figura dei Cesari, per lo
meno in questo periodo storico, un rilievo costituzionale di fondamentale
importanza nel sistema di governo dell’Impero”. Circa il terzo aspetto Ammiano
mostra un notevole interesse per la materia criminale e per le vicende
processuali a sfondo politico, desideroso come è di denunciare gli abusi e le
ingiustizie. Senza soffermarsi su particolari tecnico-giuridici, lo storico
ricorda processi giudiziali, relativi in particolare al crimen maiestatis,
alle pratiche magiche, al veneficio, al peculato, al falso, all’adulterio e
allo stupro. Inoltre, sono forniti dal racconto dati circa gli organi ai quali
si deferivano i processi, per lo più organi straordinari a cui l’imperatore
affidava il giudizio. Un interessante dato dell’attività processuale “è quello
originato dalle relationes e consultationes degli organi
normalmente investiti della giurisdizione, nonché quello degli appelli,
eventualmente ante sententiam, o delle istanze altrimenti a loro
rivolte da privati”. Vi sono anche parecchi rinvii all’attività giurisdizionale
sia del praefectus urbi, sia del vicarius urbis Romae, “riguardo
alla quale Ammiano costituisce la fonte più informata e ricca di notizie per il
periodo che va dal 350 al
All’Introduzione
della Navarra seguono i Testi Annotati tratti dall’edizione di W.
Seyfart, Ammiani Marcellini Rerum Gestarum libri qui supersunt, Leipzig
1978: i passi vengono raggruppati secondo gli imperatori (o i Cesari) a cui si
riferiscono, inclusi gli “usurpatori” Silvano e Procopio, in relazione agli
specifici argomenti trattati.
In tema
di diritto postclassico e giustinianeo segnaliamo una raccolta di saggi di G.
G. Archi, Scritti di Diritto
romano, vol. IV, Il lascito dell’esperienza giuridica del V e VI
secolo, Giuffrè, Milano 1995, saggi già pubblicati in altri luoghi o
allora in corso di stampa.
Nel primo
saggio, I principî generali del diritto. Compilazione teodosiana e
legislazione giustinianea, l’A. definisce l’entrata in vigore del
Codice Teodosiano il 1° gennaio 439 come “il risultato di uno sforzo
consapevole ed estremamente significativo della cancelleria imperiale di
Costantinopoli, della prima metà del V secolo, al fine di superare la crisi
della giuridicità dell’epoca”. L’Archi si pone così in contrapposizione con
l’opinione generale della romanistica precedente, secondo la quale la
compilazione teodosiana, presentando una sistematica non innovativa, sarebbe un
semplice aggiornamento del Codice Gregoriano e di quello Ermogeniano. Tale
convincimento non consentiva di accertare se la scelta di un nuovo codice fosse
dettata dall’emergere di “specifiche esigenze giuridiche e metagiuridiche, che
si imponevano come di per sé determinanti a una decisione di tanto impegno”.
L’A. dunque intende far luce sui “reali intendimenti” della cancelleria
imperiale, malgrado “la non felice tradizione manoscritta” attraverso la quale
il codice Teodosiano ci è giunto. L’Archi sottolinea tre dati peculiari: “la
radicalità innovativa” nell’esposizione delle fonti del diritto; “la vastità
della parte dedicata alla normativa concernente le strutture
dell’organizzazione dello Stato e della società, come pure la parte connessa
con le nuove funzioni assunte dall’apparato statale”; e da ultimo “la presa di
coscienza dell’avvento della Chiesa cristiana cattolica come istituzione
religiosa, della quale i fatti impongono di prendere atto”.
Nell’affrontare
l’analisi della compilazione giustinianea l’A. afferma che nel Codice
Giustinianeo “rispetto al Teodosiano, religione, politica e diritto nei loro
reciproci rapporti, e quindi anche nelle loro finalità, si pongono su posizioni
nuove, e che sono intelligibili solo con la nuova situazione dell’inizio del VI
secolo”. Secondo l’Archi l’opera giustinianea è stata, nella quasi totalità dei
casi, “valutata secondo un metro confacente alle convinzioni personali degli
interpreti condizionati dalle esigenze del loro tempo”. Al contrario l’A.
propone un’analisi tesa ad inserire “Giustiniano nel momento storico, nel quale
egli operava e nelle condizioni, nelle quali gli era consentito di operare”,
dalla quale emerge che l’imperatore “non pensa affatto di far rivivere un
passato, che a volte nelle sue costituzioni riformatrici non si perita di
criticare e anzi di ridicolizzare. Ciò nonostante, e questo è il suo merito
imperituro, egli è in grado d’ammirare gli insegnamenti della tradizione in
quanto in essa vi è di ‘utile’ (la parola è del suo linguaggio) per lo sviluppo
futuro”.
Nel
secondo saggio, La critica romanistica attuale e l’esegesi del ‘Corpus iuris’,
l’Archi sottolinea come “il prevalere sempre maggiore dell’interesse
storico ha enfatizzato ancora di più la necessità dell’esegesi. Infatti,
volendo rimanere fedeli a questo interesse, il giurista deve proporsi di
acquisire la conoscenza più esatta possibile in merito al come la funzione
della giuridicità viene intesa nel periodo di tempo, che è alla sua
attenzione”. L’A. intende dunque prospettare nuovi spunti per l’analisi
esegetica della compilazione giustinianea “quale espressione del mondo giuridico
del VI secolo” in base alla convinzione che il Codice, le Istituzioni ed il
Digesto presentano ciascuno problematiche proprie. Una esegesi, quindi, non più
astratta dalla realtà storica, ma “inerente all’iter storico delle varie
parti del Corpus”. Infatti solo procedendo alla storicizzazione
del periodo “si avrà la possibilità di afferrare in pieno il vero significato
dell’opera di Giustiniano, e cioè l’essere questa, nell’ambito della
giuridicità, il lascito di una esperienza umana coinvolta in un memorabile
incontro-scontro tra civiltà diverse”.
Nella
terza ricerca, Le ‘Institutiones’ di Giustiniano e l’unità del ‘Corpus
iuris’, l’Archi sottolinea la rilevanza del manuale istituzionale
giustinianeo per la storia della scientia iuris, rilevanza che nel
tempo “ha variato a seconda del modo con il quale l’aggancio fra la tradizione
romana e le esigenze dei periodi storici interessati al richiamo trovava la sua
giustificazione”. L’A. si chiede con quali interessi attualmente, in un periodo
di crisi della giuridicità, i cultori del diritto possano accostarsi alle
Istituzioni di Giustiniano: secondo l’Archi “la dottrina romanistica attuale
non dovrebbe limitarsi a considerare il lascito romano racchiuso nel Corpus
Iuris come si considera un passato irripetibile. Valido come modello, ma
solo per gli aspetti tecnici. Il lascito di Giustiniano legislatore, invece, è
ancora vivo e degno di studi proprio per la sua aderenza a quanto avveniva
nella storia degli anni suoi e per il tentativo, in detta opera espresso, di
dominare eventi di portata raramente verificabile nel corso della storia”.
Nello
studio successivo, Per il rinnovamento della didattica, l’A.
afferma che “la didattica del docente di Istituzioni di diritto romano non ha
per oggetto il mondo del diritto attuale, entro il quale i giovani sono
coinvolti e sono in qualche modo interessati ad apprendere, ma un mondo del
passato, del quale spetta all’insegnante per l’appunto far intendere le
connessioni con il presente e, si dica pure, almeno per chi condivide l’idea
della continuità del diritto, con il futuro”. Essendo il corso di Istituzioni
di diritto romano parallelo a quello di Istituzioni di diritto privato, l’Archi
si chiede se “non sarebbe giunto il momento di utilizzare questa
contemporaneità a un fine diverso da quello usualmente accettato secondo la
tradizione”. L’A. è persuaso “che sia dovere del giurista in quanto ricco di
esperienza storica e ... in quanto fa professione di educatore, uscire da un
distacco di comodo. Egli deve compromettersi con il presente”. L’Archi dunque,
condivide “l’opinione di quanti pensano essenziale il conoscere l’esperienza
giuridica romana come maestra nell'adeguare il vivere secundum leges di
una società umana degna di questo nome al perenne evolversi strutturale della
medesima”.
In I codici civili moderni e
la tradizione romanistica l’A. osserva che il lavoro della nostra scientia
iuris dopo l’Unità d’Italia “è rimasto in gran parte ignoto al mondo della
cultura italiana, in particolare a quella nei cui confronti questo silenzio può
destare meraviglia”, riferendosi in particolare a quella storiografia politica
dalla quale vennero dati importanti contributi per respingere l’idea di storia
considerata soltanto “come storia di battaglie”. Mentre l’Italia unita si
inseriva “ad alto livello nella problematica europea”, la scientia iuris si
dedicava ad una elaborazione che “non in altro si sostanziava se non nella
presa di coscienza che la società italiana stava mutando in consonanza con
quanto avveniva in quella Europa, entro la quale era ormai necessario
inquadrare il nostro futuro”. Nel lavorio scientifico del decennio precedente
il Codice civile del 1942, il problema più rilevante “fu quello di chiarire per
prima cosa la funzione, e quindi il potere, dello Stato legislatore nei
confronti di quello che ancora si chiamava la materia civilistica”.
Attualmente, se si volesse redigere un nuovo codice conforme ai principi
affermati nel secondo dopoguerra “il primo dovere di ogni giurista sarebbe
quello di meditare a fondo sulla formula ... hominum causa omne ius
constitutum est. Parole che debbono essere intese non nel loro
riferimento a un uomo fuori della storia, come piaceva ai giuristi dell’epoca
illuministica, ma all’homo inteso nella sua condicio humana, come
invece piaceva dire ai maestri bizantini di Giustiniano”. L’Archi invita dunque
“a considerare per il futuro della privatistica l’affermarsi dei diritti umani
come una svolta del nostro tempo” in quanto “non siamo di fronte a nuove
astrazioni. Dobbiamo essere convinti della necessità di prendere atto,
nell’ambito dell’esperienza giuridica, di una realtà che, impostasi attraverso
un tragico evento, non può essere ignorata”.
Il tema
del rapporto fra legislazione imperiale e legislazione canonica forma oggetto
del volume di E. Dovere, “Ius
principale” e “catholica lex”. Dal Teodosiano agli editti su Calcedonia,
Jovene, Napoli 1995. Nella Prefazione l’A. dichiara che lo studio è
“una sorta di tentativo approfondito e documentato di riassumere e proporre
talune ‘letture’ di certi fatti interni alla realtà culturale tardoromana vista
in uno dei suoi tanti aspetti giuridici”. Per tale analisi saranno necessari
ulteriori studi “non foss’altro che per estendere la profondità temporale” e
ottenere così un quadro più consistente.
Nel primo
capitolo, Prolegomeni, il Dovere sottolinea come nel
periodo che va da Teodosio II fino a Giustiniano vi sia un problema di
“deficit” documentario, per cui assai preziose risultano le testimonianze non
tradizionali per il giurista, come il materiale riguardante gli Atti dei
concili ecumenici e le antiche informazioni degli storici-ecclesiastici. Per
l’A. con riferimento diretto “a certi anni tardoantichi, assai complessi sotto
l’angolo visuale delle coeve esperienze culturali, solo prescindendo da aprioristiche
e convenzionali delimitazioni documentarie, e facendo astrazione da quella
sorta di condizione separata in cui per più motivi versa tuttora, lo studio
storico del diritto pubblico romano potrebbe trovare un vero arricchimento di
sostanza: un arricchimento tale da coinvolgere sia nuovi e mai troppo numerosi
apporti testuali sia, ma in una luce diversa, le ordinarie fonti giuridiche”.
Scopo della ricerca sarà quello di tratteggiare un quadro del ius che riguarda
il tema della fede e la posizione del principe nel rapporto tra la sua
normazione e il mondo religioso cristiano. A tale fine il Dovere opta per “un
approccio strettamente documentario”, che analizzerà il ius principale in
relazione alla lex catholica nello spazio temporale che va dal Codex Theodosianus
fino agli editti di Marciano coevi al IV concilio ecumenico di Calcedonia.
In tale periodo vi è da rilevare un’ampia “reciproca influenza fra le tante
attività degli ambienti ecclesiastici e quelle, pur esse non meno intense,
degli officia legislativi del principe, quasi che ormai si andasse
coniugando in via definitiva una sorta di vita parallela fra le istituzioni
civili e quelle ecclesiastiche”.
Nel secondo
capitolo (L’evento-Teodosiano) l’A. analizza la compilazione di
Teodosio II, la quale “sembra che apparisse con le caratteristiche di un
ordinamento giuridico pienamente consapevole di rappresentare lo speculum potenzialmente
omnicomprensivo di una ben determinata e vasta situazione sociale, quand’anche
molto sfaccettata, in un ben preciso momento storico”, in cui
Dai titoli
citati emerge lo stretto legame tra il legislatore ed il vescovo circa l’attività
normativa riguardante la materia religiosa. I sacerdoti “rimanevano gli unici
referenti che il principe consentiva alla propria volontà normativa
nell’individuare i contenuti della professione di fede”. Tale rapporto del ius
principale con l’argomento religioso si trova anche in diversi testi
teodosiani ed in altro materiale documentario più o meno contemporaneo a
questi, come gli scritti patristici a cavallo tra il IV ed il V secolo. Dati
preziosi emergono dall’epistolario di Ambrogio, il pastore di Milano. Ad
esempio in una epistola ambrosiana del 386 inviata a Valentiniano II si
ribadiva che l’imperium era estraneo alla materia religiosa di
competenza esclusiva dei vescovi, riferendosi ad una norma con la quale
Valentiniano I si sarebbe dichiarato espressamente incompetente rispetto ai
fatti della catholica lex. Anche nella “Storia” di Sozomeno si
ritrova la stessa linea di pensiero. Qui si ricorda infatti come Valentiniano
avrebbe dichiarato di essere un cattolico laico, e di non poter quindi intervenire
nelle questioni in materia di fede, di autonoma competenza vescovile.
Nel
quarto capitolo, Da Teodosio II a Marciano, l’A. analizza le
tarde norme teodosiane d’argomento religioso “sia quelle codificate, sia le
successive ‘sfuggite’ ai florilegî romanistici”. In esse “andrebbe intravisto
il primo e decisivo tratto di passaggio fra due diversi e caratteristici
orientamenti del tardo ius principale sull’argomento della catholica
fides: dalla smaccata considerazione, quale esclusivo referente
normativo, del ‘momento episcopale’ singolarmente inteso, alla piena ed
altrettanto esclusiva considerazione, in funzione sostanzialmente e formalmente
analoga, del concilio ecumenico e dei suoi deliberati canonici”. Questo
indirizzo risulta rigorosamente affermato nella legislazione di Marciano, i cui
editti emanati negli anni 451-452 rappresentano una sorta di “corpus conciliare”,
“ispirato alla massima difesa della ortodossia del Credo calcedonese”.
L’analisi di tale legislazione consente al Dovere di concludere che “proprio
l’opzione conciliare tanto coerente ed estesa che aveva contraddistinto la
normazione marcianea avrebbe costituito, a cavaliere fra V e VI secolo, ben più
che un exemplum significativo per gli operatori del ius principale”,
al punto che “lo stesso Giustiniano, del resto, senza necessità alcuna di
rifarsi alla compiuta normazione di Teodosio, bensì trovando solide e neanche
troppo remote radici proprio nelle opzioni legislative marcianee, avrebbe
impostato nelle sue novellae, in tema di catholica fides,
una assoluta identità formale fra manifestazioni del ius principale ed
ecclesiasticae regulae; la cogenza legislativa, cioè, per i sudditi
di qualsiasi provincia del regnum dei numerosi canoni dogmatici e
disciplinari tratti dai concilî ecumenici della catholica ecclesia”.
Il volume di C. Capizzi, Giustiniano I tra politica
e religione, Rubbettino, Soveria Mannelli 1994, è dedicato alla
figura del grande imperatore romano. Nella Prefazione l’A. rileva come Giustiniano
nella sua intensa attività politico-normativa abbia statuito anche nella
materia religiosa ed ecclesiastica, che fu “settore “privilegiato” della sua
politica”. L’importanza che l’imperatore diede a tale argomento rispondeva al
principio di unità dell’impero, “unità “culturale”, diremmo noi oggi; unità
innanzitutto e soprattutto “religiosa” (e, quindi, “ecclesiastica”),
intendevano Giustiniano e i suoi contemporanei”. Infatti, senza coesione
spirituale si sarebbe potuti incorrere nella disgregazione politica. Il Capizzi
sottolinea come in questa ricerca abbia “cercato di dare un’idea panoramica e
relativamente provvisoria - per quanto articolata e documentata - di questo
settore della politica giustinianea”.
Il primo capitolo, Giustiniano:
la sua personalità di imperatore cristiano, traccia una biografia di Flavius
Anicius Iulianus Iustinianus, al quale, grazie ai suoi studi
giovanili promossi dallo zio Giustino I, “fu il primo imperatore bizantino che
riuscì realmente ad emergere in teologia e ad acquistare una conoscenza esatta
non solo della dottrina ortodossa, ma anche delle numerose sette che si
agitavano nell’Impero e contro le quali avrebbe scatenato una guerra
implacabile. Nei suoi scritti teologici, anche a supporre l’aiuto o l’assistenza
dei teologi di corte, Giustiniano riesce ad esprimersi con grande precisione e
in termini di perfetta ortodossia ecclesiale”. Per l’A. l’imperatore possedeva
una profonda convinzione religiosa, ispirata dalla pietas. Per questo
motivo “chi attribuisse alla politica religiosa di Giustiniano la sola spinta
della ragion di Stato, sbaglierebbe di grosso”. L’ideale di Giustiniano, da lui
profondamente sentito, di unificare armonicamente l’imperium con il sacerdotium
si basava sul principio delle monarchie orientali che vedeva l’imperatore
onnipotente: “Giustiniano - dunque - sfrutta al massimo tale eredità ideologica
ed incarna in sé stesso ciò che nei primi decenni del secolo XVIII sarà
chiamato cesaropapismo”.
Il secondo capitolo,
La politica religiosa ed ecclesiastica dal 527 al 543, propone un
excursus storico dell’attività politico-normativa dell’imperatore in
materia religiosa da quando venne nominato Cesare all’anno del decreto
dogmatico sull’origenismo. Si rileva come Giustiniano abbia perseguitato sia i
seguaci di altre religioni, sia gli eterodossi, in base a principi che si erano
affermati nel IV secolo. L’elemento di novità di tale politica era
rappresentato da “una coerenza e una violenza che superavano tutto ciò che fino
allora s’era visto”. Le persecuzioni continuavano, ma il rigore adottato
dall’imperatore mutava “secondo il grado di nocività religiosa e sociale loro
attribuita”, al punto che l’eresia e qualsiasi forma di dissenso religioso
erano considerate crimen publicum.
Il terzo
capitolo, La politica religiosa ed ecclesiastica dal 543 al 560 circa,
continua nella analisi degli avvenimenti storici fino al cosiddetto
“aftartodocetismo” di Giustiniano. In seguito alla rinascita della Chiesa
monofisita, infatti, Giustiniano, pur continuando ad usare la forza contro gli
assertori del monofisismo, “al tempo stesso, proseguì con uguale tenacia nei
tentativi di guadagnarli alla Chiesa cattolica mediante concessioni teologiche,
sia pure entro i limiti invalicabili della fede ortodossa”. Tali concessioni
causarono violenti dissidi soprattutto a Costantinopoli ed in Palestina. Il
papa Vigilio oppose resistenza, e ciò “determinò tra lui e Giustiniano un
braccio di ferro che durò un decennio con momenti di drammaticità quasi tragica.
Lo scontro finì, almeno in apparenza, con la vittoria del despotismo di
Giustiniano che dalla sua aveva anche la forza materiale”.
Alla
morte del papa, Giustiniano riuscì a fargli succedere Pelagio il quale aderì
alla politica dell’imperatore. Pelagio I morì il 3 marzo del 561 e solo dopo
ben quattro mesi si designò il successore, Giovanni III. Il ritardo fu dovuto
al fatto che, secondo la tradizione, la nomina doveva essere effettuata dal
clero romano, ma allora, dietro pagamento di una ingente somma di danaro, tale
designazione doveva essere ratificata dal sovrano di Costantinopoli. Il Capizzi
sottolinea che le testimonianze relative ai secoli VI e VII “sono quasi tutte
concordi nel riferire una specie di nuova svolta della politica religiosa ed ecclesiastica
di Giustiniano, la quale si sarebbe verificata apertamente dal
Nel quarto capitolo, La
legislazione ecclesiastica di Giustiniano come espressione della sua politica,
l’A. afferma che l’imperatore, unico titolare del potere legislativo, “si
serve di editti e costituzioni imperiali per imporre formule di fede, scagliare
anàtemi e promulgare nuove disposizioni costituzionali e amministrative d’ogni
genere, che i sudditi devono semplicemente accettare e la gerarchia
ecclesiastica “semplicemente sottoscrivere, escludendo ogni possibilità di
rifiuto od opposizione”. Rispetto a tale atteggiamento i romanisti “si sono
divisi per lo meno in due partiti: anti-giustinianei e filo-giustinianei”: il
Capizzi, pur riconoscendo i meriti di Giustiniano, afferma che l’imperatore “la
fa da padrone con
Pur non essendosi
Nelle Conclusioni l’A.
rileva che “le conseguenze della maniera “giustinianea” di concepire e vivere i
rapporti tra Stato e Chiesa saranno gravi e irrimediabili: a Bisanzio, come si
sa dalla sua storia, troppi imperatori la faranno da papi, e non pochi
patriarchi la faranno da imperatori con tutte le conseguenze negative che tale
scambio di ruoli comporterà inevitabilmente”.
Il
volume si conclude con una Appendice di documenti, dove vengono
presentate in ordine cronologico diverse testimonianze documentarie, allo scopo
di “facilitare una prima lettura storica di alcune delle molte fonti a
disposizione di chi cerca di studiare la politica religiosa di Giustiniano, ma
senza le dovute conoscenze di greco e di latino”.
A
particolari aspetti della normativa tardo-imperiale è dedicato il volume di A.
M. Demicheli, La
ΜΕΓΑΛΗ
ΕΚΚΛΗΣΙΑ nel lessico e nel diritto di
Giustiniano, Giuffrè, Milano 1990. Nel primo capitolo (Denominazione
di ΜΕΓΑΛΗ
ΕΚΚΛΗΣΙΑ) l’A. evidenzia
come dal Codex e dalle Novellae giustinianee si rilevi un
interesse particolare per
Nel
secondo capitolo,
Alcune
dichiarazioni della Nov. 3, inoltre, “fanno conoscere come molte ordinazioni e
trasferimenti venissero in esse effettuati in via del tutto irregolare
attraverso la pratica del “patrocinio” e precisamente mediante appoggio fornito
agli interessati da individui potenti e bene introdotti - alcuni dei quali
addirittura appartenenti alla cerchia di corte - in grado di intervenire ed
esercitare pressioni nei confronti dei patriarca al fine di indurlo ad
accondiscendere alle concessioni impetrate”. A tal proposito la norma vieta la
pratica del patrocinio, rifacendosi anche ad un canone del concilio di
Calcedonia che sanciva la deposizione in caso di venalità di dignità ed uffici
clericali. Con
Con
Il terzo
capitolo (Altre Novelle, 43 e
Il volume
di R. Maceratini, Ricerche
sullo status giuridico dell’eretico nel diritto romano-cristiano e nel diritto
canonico classico (da Graziano ad Uguccione), CEDAM, Padova 1994, è
dedicato allo sviluppo storico della condizione giuridica dell’eterodossia. Per
l’A., nella Introduzione, è importante capire se nel diritto
romano-cristiano l’eresia fosse considerata come un reato oppure come un fatto
produttivo di incapacità giuridiche. La soluzione a tale dilemma è rilevante
“non solo per gli studi romanistici e per quelli sui glossatori civilisti, ma
anche per il diritto canonico classico poiché la repressione dell’eresia nel
Medio Evo non è certo un fenomeno giuridico nuovo in quanto, appunto, era già
stato conosciuto dall’antichità cristiana”. Si sottolinea, tuttavia, che i
glossatori civilisti, ed in ugual modo i canonisti, ignorarono una parte della
normativa romana diretta contro l’eretico, perché redatta in lingua greca, ed
inoltre, che la compilazione giustinianea venne interpretata sistematicamente
senza seguire un criterio storico. Queste circostanze “rendono molto
interessante un confronto tra il concetto di eresia nel diritto
romano-cristiano e nel diritto canonico classico, per capire se esso sia
rimasto il medesimo in entrambi i periodi considerati e capire se la scienza
del diritto canonico posteriore si sia sviluppata su di una nozione diversa da
quella del diritto romano-cristiano”.
Dopo
aver sottolineato nel primo capitolo della prima parte (Aspetti generali dei
rapporti tra Chiesa e Impero da Costantino a Giustiniano) come
l’etica cristiana abbia comportato, tramite un processo graduale, un mutamento
di valori nella società, nel secondo capitolo, Il problema dell’eresia nei
primi tre secoli della Chiesa, il Maceratini procede
all’esame dell’iter semantico del termine eresia utilizzato nel Vecchio
e nel Nuovo Testamento nel generico significato di scelta, senza l’attribuzione
di alcun giudizio negativo. In seguito “tale termine da un lato venne impiegato
con una connotazione di sfavore per indicare “religioni” o sette estranee o,
almeno, in forte contrapposizione a quella ebraica, dall’altro è stato
utilizzato dagli Apostoli per affermare una realtà che si contrappone alla
Chiesa”. Per ciò che attiene al rapporto tra peccato e reato, l’A. procede all’analisi
degli scritti neotestamentari e patristici. Per la prima volta fu Ignazio di
Antiochia a delineare l’eresia come delitto-peccato, “il quale riprende le
trasgressioni contro l’unità di governo della comunità e contro l’integrità
della fede che è ad essa strettamente connessa”. Nell’ordinamento canonico del
periodo in esame l’eresia viene qualificata come un delitto contro la fede e
contro l’unità della Chiesa, la cui sanzione, per quanto attiene al foro
esterno, consiste nella scomunica.
Il terzo
capitolo, L’eresia nel Codice Teodosiano e nel Codice Giustiniano, è
dedicato all’analisi della terminologia usata nelle due compilazioni, nelle
quali la stessa eresia viene configurata come reato, mentre nel quarto (Gli
eretici), il Maceratini sottolinea come la materia della fede fosse
collocata nel Codex Theodosianus nel sedicesimo libro, a differenza che
nel Codex Iustiniani, dove era posta nel primo. Inoltre, nella
compilazione giustinianea la costituzione con la quale il cristianesimo diviene
religione ufficiale è collocata al primo posto, mentre nell’altro codice essa
viene posposta ad un’altra norma meno rilevante. Questo fatto mostra
l’importanza data da Giustiniano alle problematiche relative alla fede: con
questo imperatore giunge anche al culmine la tendenza a dilatare sempre più il
concetto di eretico, sino a comprendervi anche i lievi dissensi con la fede
ufficiale.
Per ciò che
riguarda le pene, all’eretico veniva comminata la morte solo in casi
particolarmente gravi, mentre tra le pene normalmente applicate si ritrovano
l’esilio (accompagnato dalla confisca dei beni) visto come distacco dalla
comunità, il metallum, spesso irrogato con la fustigazione agli humiliores
in via sostitutiva rispetto alla confisca e alla multa, le sanzioni corporali
e le multae. Inoltre, quando il cristianesimo divenne religione
ufficiale si affermò il principio secondo cui esclusivamente l’ortodosso
cattolico godeva della pienezza dei diritti civili: di conseguenza l’eterodosso
subiva diverse limitazioni di diritto privato e di diritto pubblico. Nel Codex
Theodosianus la conversione all’ortodossia annullava gli effetti penali e
civili del reato di eresia. Tale principio venne recepito nel codice
giustinianeo e con il pentimento e la conversione il beneficio era concesso
all’eretico, ma non all’apostata. Anche nelle Novelle si ritrovano costituzioni
in cui si applicava a casi specifici il principio generale che la conversione
estingue il reato. Secondo l’A., “il legislatore, pur ritenendo l’eresia uno
dei delitti peggiori ed il più pericoloso per l’unità della fede, considera gli
eretici ancora figli, per quanto degeneri, della Chiesa ai quali tende la mano
almeno fino a che non sia da escludere ogni loro possibilità di ravvedimento”.
La
seconda parte si apre con il quinto capitolo, Breve indagine sullo stato del
problema nella legislazione e in opere giuridiche alto medievali, nonché in
autori e collezioni immediatamente precedenti Graziano ed Irnerio, nel
quale il Maceratini evidenzia il riproporsi del problema dell’eresia nell’XI e
nel XII secolo, nonché la costante presenza nella Chiesa di una normativa
antiereticale. Nel sesto capitolo (Le causae XXIII e XXIV del Decretum
Gratiani e riferimenti al rapporto tra diritto romano e diritto canonico)
l’A. si occupa delle relazioni tra le norme civili e canoniche prima di
Graziano, e dell’opera di questo esponente di spicco della scuola di Bologna.
Il Maceratini rileva come nel suo Decretum il maestro bolognese “non
ignorasse affatto il diritto romano che egli, con molta probabilità, ha tratto
da fonti canoniche e ispirandosi anche ai primi commentatori romanisti”.
Tuttavia l’utilizzo di tali fonti fu prudente e mediato in quanto “un loro uso
eccessivo poteva ingenerare l’idea di una Chiesa subordinata all’Impero”. Dall’esame
degli scritti di Graziano l’A. trae alcune conclusioni: “La prima è che in
Graziano, logicamente, è più approfondito l’aspetto relativo alle conseguenze
canoniche, con il particolare riguardo ai sacramenti, che non quelle civili.
Altro punto da mettere in evidenza è che, conseguentemente, gli aspetti civili
dell’eresia (si intende il termine civile in senso lato come contrapposto a
canonico e quindi comprendente anche il diritto penale) sono considerati mezzi
per far riacquistare all’eretico l’unità con
Il
settimo capitolo, I glossatori civilisti da Irnerio all’Apparato Palatino,
è dedicato alla trattazione della materia in esame nel diritto civile
del periodo indicato, sempre tenendo presenti gli influssi del diritto romano e
del diritto canonico. Pertanto l’A. procede ad un excursus delle opere
della glossa, in cui si evidenziano i richiami in materia al Codice di
Giustiniano e la preponderanza nella trattazione degli aspetti civili su quelli
penali dell’eresia, per passare poi, nell’ottavo capitolo (La legislazione
delle decretali da Graziano alla “I Compilatio Antiqua”), alla
descrizione del contenuto di alcune collezioni di decretali frutto della
attività legislativa pontificia, nelle quali prevale, per ciò che attiene al
concetto di eretico, “l’indicazione delle varie sette che sono oggetto dei
provvedimenti più che la sua stessa definizione”. Le fonti considerate in modo
unanime affermano che la pena canonica principale per l’eterodosso e per
chiunque lo favorisse consisteva nella scomunica, alla quale seguiva la
consegna all’autorità secolare.
Nel nono
capitolo, I decretisti sino al decennio precedente la “I Compilatio Antiqua”,
il Maceratini esamina le opere di commento a Graziano della scuola di
Bologna, di quella franco-renana e anglo-normanna con riferimento ai temi
oggetto della ricerca, tra i quali la definizione dell’eretico, i rapporti tra
eresia e sacramento, la classificazione degli eretici, il rientro
dell’eterodosso alla Chiesa, la condanna post mortem dell’eretico.
L’ultimo capitolo, I decretisti del decennio precedente alla “I Compilatio
Antiqua”, è dedicato all’esame di una serie di opere che vanno dalla
Summa di Simone da Bisignano alla Summa ‘De iure canonico
tractaturus’, per ognuna delle quali l’A. illustra gli apporti al
tema in questione, nei suoi diversi aspetti.
È
apparso, per la casa editrice Giuffrè, il volume di G. Luchetti, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di
Giustiniano, Milano 1996. Nella Premessa l’A. indica che
l’oggetto della ricerca consiste non solo e non tanto nell’individuazione delle
singole costituzioni riportate nelle Institutiones Iustiniani, “quanto
piuttosto nel tentativo di valutare nei suoi vari aspetti l’atteggiamento
assunto dai compilatori nei confronti dei testi normativi provenienti dalla
cancelleria così come può desumersi dal confronto testuale tra i passi
istituzionali, che presentano citazioni della legislazione imperiale o rinvii
ad essa, e i testi stessi delle costituzioni richiamate”.
Nei
quattro capitoli seguenti (Il primo libro delle Istituzioni, Il
secondo libro delle Istituzioni, Il terzo libro delle Istituzioni,
Il quarto libro delle Istituzioni) il Luchetti procede all’esame
testuale delle citazioni delle constitutiones principis presenti nel
manuale istituzionale giustinianeo. L’analisi condotta rivela nei quattro
libri, in particolare nel secondo, una prevalenza di rinvii alla normativa
imperiale e, soprattutto, la preponderanza dei richiami alle costituzioni
giustinianee emanate negli anni 530-531, periodo in cui “possono ricondursi
l’ampia maggioranza dei riferimenti istituzionali”. Inoltre, nei primi due
libri è dato ampio spazio a numerose citazioni di costituzioni dell’epoca del
principato. L’A. sottolinea una linea di tendenza: “Nonostante la relativamente
nutrita rappresentanza di costituzioni che pure dovevano far parte del Novus
Iustinianus Codex, appare confermata la riluttanza dei compilatori a
ricordarne l’inserimento nella raccolta di leges e a citarle piuttosto,
al pari delle altre, come materiali estravaganti”.
Nelle
Conclusioni il Luchetti evidenzia “le difficoltà di dare
esaurientemente conto, in un quadro sintetico conclusivo, dei molteplici motivi
di interesse che emergono da un’analisi che investe trasversalmente l’intero
testo delle Institutiones giustinianee con riferimento tra l’altro ad un
aspetto (in cui trovano principale espressione l’aggiornamento e
l’attualizzazione dell’esposizione istituzionale) tra i più delicati
dell’intero manuale ed in cui certamente si esprime maggiormente l’apporto
creativo dei compilatori”. Rappresentano comunque interessanti spunti di
riflessione: la prevalenza dei rinvii alla normativa di Giustiniano; la
tendenza dei compilatori a non citare direttamente il Novus Codex, probabilmente
indicativa del fatto che la raccolta di leges veniva considerata come
superata; la mancanza di costituzioni di Giustiniano databili dopo il 1°
dicembre del 531 e comunque prima del 17 novembre del 533, ciò che induce a ritenere
che l’elaborazione del manuale istituzionale debba collocarsi ben prima di
quanto non tenda a fare la dottrina prevalente; il fatto che la legislazione
intermedia venga ricordata senza attribuzione esplicita, circostanza che
illustra “la volontà dei compilatori di sottolineare una certa frattura con il
passato meno recente forse anche per la riluttanza a ricordare l’opera
legislativa di imperatori, come in particolare Costantino e Teodosio II, che,
sia pure per motivi diversi, potevano in qualche modo oscurare la grandezza
dell’opera legislativa e compilatoria giustinianea”.
Sotto il profilo
dei contenuti, infine, il testo istituzionale si mostra “come vero e proprio trait
d’union tra il mondo della scuola e quello della pratica”, e
presenta quindi “un quadro in cui accanto alla componente propagandistica, che
pure in alcuni casi determina superficialità e imprecisione, trova spazio una
consapevole e profonda riflessione storica che, a fianco delle tendenze
classicistiche tipiche della scuola, produce spesso, rispetto alla legislazione
imperiale, un maggior rigore sul piano sostanziale e terminologico ed in ultima
analisi una più attenta e meditata riflessione dogmatica che peraltro talvolta
… non esclude neppure estensioni ed integrazioni dell’originario dettato
normativo delle costituzioni richiamate dai compilatori”.
In
riferimento a particolari aspetti della normativa recenziore di Giustiniano
segnaliamo il volume di G. Lanata,
Società e diritto nel mondo tardo antico. Sei saggi sulle Novelle giustinianee,
Giappichelli, Torino 1994, che raccoglie una serie di saggi già pubblicati
in altri luoghi.
Nel primo
saggio, Morire di chirurgia o morire di polizia? Variazioni sulla Novella 13,
l’A. prende lo spunto da alcuni versi di Pallada, - in cui l’epigrammista
chiede se sia meglio cadere in mano di Egemone “l’ammazzabriganti”, il quale
applica la giustizia nel rispetto della legalità, od essere uccisi dal chirurgo
Gennadio che per il suo intervento pretende anche l’onorario - per evidenziare
i tentativi di Giustiniano volti a reprimere la “cattiva abitudine dei
magistrati giusdicenti di farsi sostituire, nell’amministrazione della
giustizia criminale, da funzionari di polizia o da avidi quadri militari privi
di preparazione giuridica. In questa penosa situazione, come in molti altri
casi, Giustiniano imbocca la strada della legalità formale, nel presupposto che
una più rigorosa attribuzione di compiti e una più stretta osservanza delle
costituzioni imperiali possa bastare da sola a migliorare lo stato della
giustizia”. Ma la circostanza che tali istruzioni venissero ribadite nel corso
di un ventennio “tradisce da un lato l’incapacità del legislatore di fornire
un’analisi del fenomeno del banditismo che non si limiti alle solite astratte
lagnanze sulla corruzione; dall’altro lato, e conseguentemente, essa è un
sintomo dell’importanza dell’apparato statuale nell’ideare autentici progetti
di riforma, o anche solo nel ristabilire la legalità”.
In Figure
dell’altro nella legislazione giustinianea
Nel terzo
saggio, Sul vocabolario della legge nelle Novelle, l’A. si
propone “di verificare quali risultati si potevano ottenere con una strategia
di questo tipo: annettere al “vocabolario della legge” alcuni termini
significativi che ricorrono frequentemente nei contesti di enunciati normativi
novellari in cui figurino contemporaneamente le parole nómos,
diátaxis eccetera”. In tale prospettiva
Nell’articolo
successivo, L’immortalità artificiale. Appunti sulla Novella 22, l’A.
rileva che le novelle pubblicate tra il 535 ed il 542, redatte in prevalenza da
Triboniano, sono ispirate a principi neoplatonici, per cui la norma, anche se
eterna, deve essere dinamicamente adattata alle mutazioni della natura. Nella
Novella 22, che regola le seconde nozze, si rinviene il principio secondo cui
il matrimonio, in base ad un’ottica non cristiana, è dissolubile. Inoltre, è
evidente l’influsso del pensiero platonico secondo cui le nozze sono una forma
di “immortalità artificiale” per il genere umano, attraverso il perpetuarsi
delle generazioni. Sicuramente l’estensore di tali principi filosofici fu
Triboniano, e comunque “questo particolare frammento di eredità platonica era
leggibile anche in una prospettiva cristiana, era tranquillamente accettabile
sia da parte di Giustiniano che da parte del suo “coltissimo” e “ateo” braccio
destro pagano”.
Il quinto
studio, I figli della passione. Appunti sulla Novella 74, è una
riflessione sul testo novellare emanato il 4 giugno del 538, il quale si occupa
della legittimazione dei figli naturali e degli instrumenta nuziali. La
tutela dei figli illegittimi si ispira ad un principio paragonato a quello del favor
libertatis, e la norma esprime una convinzione giusnaturalista di
ascendenza pagana. Infatti, lo stesso testo denuncia “il carattere puramente
giuridico, ed estraneo a un originario stato di natura, della condizione di
schiavo come di quella di figlio naturale”. Si comprende come tali figli siano
frutto di pulsioni amorose, comportamenti questi che devono essere temperati da
interventi legislativi, e la visione della passione come di una follia ha è un
tema presente nella tradizione platonica: lo stesso Platone, infatti, nel Fedro
analizza le quattro follie in cui ricomprende quella amorosa. Di fronte
alla Novella 74, secondo
La sesta
ricerca, “Aliud vates, aliud interpres”.
In Appendice viene
riportato il saggio Vicende storiche del diritto romano, in cui
si rievocano “alcune forme di una esperienza giuridica, ricordando in apertura
che la definizione romana di molti istituti ha segnato potentemente non solo la
storia, ma anche l’immaginario giuridico dell’Occidente”. I punti ai quali l’A.
presta attenzione in tale excursus sono: “1) alcune forme di
produzione del diritto dall’età regia alla fine della Repubblica; 2)
l’“invenzione” della giurisprudenza; 3) il principe, il giurista, l’ecumene
imperiale; 4) il diritto codificato della tarda antichità”.
Il complesso argomento della normazione nel periodo
tardo imperiale è stato l’oggetto di studi di recente pubblicazione: G. Barone-Adesi, Ricerche sui
“corpora” normativi dell’impero romano. 1 - I “corpora” degli “iura” tardoimperiali,
Giappichelli, Torino 1998; La legislazione di Costantino II, Costanzo II e
Costante (337-361), a cura di P. O. Cuneo,
(Accademia Romanistica Costantiniana, Materiali per una palingenesi delle
costituzioni tardo-imperiali, sotto la direzione di M. Sargenti, serie seconda, 2), Giuffrè,
Milano 1997; A. S. Scarcella, La
legislazione di Leone I, Giuffrè, Milano 1997; D. Dalla, Note minime di un lettore delle Istituzioni di
Giustiniano. Libro I, Giappichelli, Torino 1998; E. Franciosi, Riforme istituzionali e funzioni
giurisdizionali nelle Novelle di Giustiniano. Studi su Nov. 13 e Nov. 80,
Giuffrè, Milano 1998; F. De Marini
Avonzo, Dall’Impero Cristiano al Medioevo. Studi sul diritto
tardoantico, Keip, Goldbach 2001.
L’opera
del Barone-Adesi analizza le
fonti normative tardoimperiali che, inserite nel loro contesto storico, non
costituiscono “soltanto brandelli di diritto classico, travisato o del tutto
travolto dalla decadenza bassoimperiale, ma anche i presupposti delle
successive soluzioni giustinianee”. Il primo capitolo, La tradizione
occidentale, tratta della trasmissione e della circolazione dei corpora
normativi nella pars Occidentis. A tale proposito, l’A. rigetta la
tradizionale bipartizione dottrinale delle fonti tardoimperiali in iura e
leges, che riservava per le costituzioni imperiali un ruolo preminente. Infatti,
si tratta di una distinzione che non trova riscontro nei testi, e presenta
inoltre “il rischio di minimizzare” la basilare “complementarietà” che nel
periodo intercorreva tra materiale giurisprudenziale e norme imperiali,
entrambi definiti iura dalle fonti dell’epoca. Fin dall’età di
Diocleziano si ritrova questa complementarietà, in quanto i codici Gregoriano
ed Ermogeniano rappresentano l’opera di compilazione e di revisione delle
disposizioni imperali (rescripta) interpretative dei corpora
giurisprudenziali, effettuata da esperti di diritto. L’azione di questi
giuristi-burocrati era tesa alla trasmissione della tradizione classica da
accordare con il diritto vigente, senza però produrre nuove opere d’esegesi,
per niente favorite dall’imperatore, solo interprete del ius novum. Da
questo, si arrivò ad una cristallizzazione dei corpora
giurisprudenziali. Nel IV e V secolo ci fu una trasmissione ed una circolazione
insieme alle codificazioni di costituzioni imperiali dei corpora che
contenevano le opere e le opinioni dei giuristi probabilmente maggiormente
utilizzati nella prassi forense. La diffusione privata poteva ingenerare dubbi
d’autenticità, e ciò portò l’autorità imperiale a stabilire dei criteri idonei.
Costantino con due costituzioni conservate in CTh. 1, 4, 1 e 2, cercò di porre
soluzione alle discussioni sorte nella scientia iuris occidentale sui
contenuti dottrinari e sulla autenticità dei testi giurisprudenziali. Tuttavia,
si deve registrare l’assenza di norme imperiali relative ai corpora giurisprudenziali
da Costantino a Valentiniano III. Quest’ultimo imperatore infatti dispose nel
426 una disciplina in base alla quale si sancirono i requisiti formali per la
determinazione di quale disposizione imperiale si dovesse considerare norma
generale vigente, come risposta alle contingenti esigenze sorte nei tribunali.
Inoltre, si sancì, canonizzando cinque corpora, quali opere
giurisprudenziali fossero ius vigente utilizzabile nella prassi.
Nel
secondo capitolo, La tradizione orientale, l’indagine si incentra sulla pars
Orientis. Fino a Giustiniano l’Oriente si sarebbe attenuto alla oratio
di Valentiniano III del 426. Tuttavia, la prospettiva delle due cancellerie era
differente, poiché se in Occidente si cercava di assicurare un rapido
accertamento, dell’autenticità e della generalità della normativa da utilizzare
nei tribunali, nella parte orientale ci si prefiggeva nel 429 (CTh. 1, 1, 5) un
ampio progetto di compilazione di tutte le norme vigenti, da cui emergeva una
profonda cesura tra il ius vetus dei legislatori pagani, e il ius
novum propugnato da Costantino. Secondo il programma prospettato da
Teodosio II si doveva codificare un corpus universum della normativa
generale di Costantino e dei successori. Si progettava la redazione di due
codici, dei quali il primo avrebbe dovuto raccogliere le costituzioni con
carattere edittale e generale sia in vigore, sia prive di vigenza, per
corrispondere ad istanze scientifiche e accademiche; il secondo doveva
contenere la legislazione generale vigente, cioè disposizioni imperiali e
materiali giurisprudenziali, rispondendo così alle attese degli operatori
giudiziari. Non si conoscono i lavori di questa commissione che non portò a
termine il proprio compito; nel 435 una nuova costituzione (CTh. 1, 1, 6) dispose
la redazione di un unico codice in cui raccogliere le disposizioni generali
vigenti da Costantino in poi, ed il progetto fu portato a termine con la
pubblicazione del Codex Theodosianus. La compilazione terminò nel 437:
nella novella del 15 febbraio 438 (Nov.Th. 1) Teodosio II esprime la sua
soddisfazione per il Codex, per l’utilità pratica, vista la grande massa
delle costituzioni imperiali. Dalla entrata in vigore del Teodosiano, le
costituzioni assenti nel codice non avevano vigore, ma si potevano ancora
produrre nella prassi giuridica quotidiana testi di norme generali tratte da
fonti non ufficiali, a condizione che si facesse la collazione con le copie
autentiche del Codice.
L’ultimo
capitolo si occupa de La trasmissione ecclesiastica della legislazione
imperiale. Con il riconoscimento della Chiesa cattolica, sancito da
Costantino, si ebbe la redazione nel IV secolo di raccolte della disciplina
canonica. In tali collezioni, oltre alle fonti patristiche, sono presenti anche
diverse costituzioni imperiali relative alla legislazione religiosa.
Determinante, in tale ambito, è il corpus delle opere storiche del
vescovo Eusebio di Cesarea che attestano la politica di cristianizzazione
perseguita da Costantino dal 313. Nelle fonti patristiche si ritrovano non solo
exempla della normativa religiosa di Costantino e dei suoi successori,
ma anche le deliberazioni sinodali che sollecitavano determinate disposizioni
legislative. Esempi di tali istanze sono quelle dell’episcopato cattolico
africano, del periodo 399-419, raccolte nel registro ecclesiae
Carthaginensis, volte in particolar modo alla soppressione dei culti
pagani, e che furono accolte nel Codice Teodosiano. Nella compilazione di
Teodosio II il diritto ecclesiastico, rispetto al Codice giustinianeo, non fu
raccolto in un unico libro in quanto i suoi compilatori dovettero “codificare
non soltanto una disciplina speciale, inseribile in ambiti idonei ad accogliere
i titoli menzionati, ma … configurare anche tutta la legislazione religiosa
alla luce delle concezioni cristiane vigenti”. Tuttavia, nei corpora
della disciplina cattolica del periodo si rileva “un misterioso silenzio” nei
confronti della compilazione teodosiana, forse perché nei sinodi si seguì
l’indirizzo di favorire la stesura e la trasmissione di corpora conformi
“alla tradizione ecclesiastica, destinata a rimanere anche in seguito estranea,
per non dire restia, ai principi codificatori faticosamente conseguiti dalla
legislazione imperiale mediamente la compilazione teodosiana”.
Nella
Presentazione della ricerca curata dalla Cuneo, il direttore della collana sottolinea come l’opera, che
si rivolge “ad uno dei periodi più complessi e delicati dell’attività normativa
tardoimperiale”, vada a contribuire al lavoro avviato dall’Accademia
Romanistica Costantiniana, teso a ricostruire il corpus delle leges
tardo imperiali “il cui studio troppo spesso si appaga acriticamente delle
indicazioni fornite dall’edizione del Mommsen e dai Regesten del Seeck”.
Nell’Introduzione
In
seguito vengono riportati i Testi annotati, dall’edizione del Mommsen
per il Codice Teodosiano, e da quella del Krüger per il Codex di
Giustiniano. La disposizione dei testi segue l’ordine cronologico sulla base
delle riflessioni fatte nell’Introduzione e nelle note poste nelle
singole costituzioni. Conformemente a ciò che è indicato nelle note, vengono
introdotte nelle inscriptiones e nelle subscriptiones alcune
varianti relative alla datazione e alla paternità.
Il
lavoro della Scarcella si occupa
della normativa di Leone I, imperatore orientale proclamato nel febbraio del
457 “per rivestire un ruolo puramente decorativo”, tesa a dimostrare la propria
auctoritas. Nell’Introduzione si procede ad offrire una
esposizione delle vicende storiche del V secolo, e a tracciare le
caratteristiche del governo di tale imperatore, potere segnato da un dissidio
costante con il potente magister militum Aspar. L’imperatore cercò di
rafforzare il comando centrale, e a tal fine egli adottò una politica
antigermanica; inoltre sostenne la dottrina cattolico-ortodossa sancita dal
concilio di Calcedonia, mostrando così un interesse per i problemi religiosi
che si dibattevano. Nello sforzo di consolidamento del governo, egli si adoperò
per la sua organizzazione, tesa alla prosperità dei sudditi e del regno. I suoi
provvedimenti normativi sono stati conservati nel Codice di Giustiniano, nelle
Novelle post-teodosiane e anche nel Libro Siro-Romano. Nella ricerca queste
norme sono state analizzate sulla base dei loro aspetti formali, cioè della
paternità e dei destinatari, della cronologia, della natura, dello stile e
della loro autenticità. Tali costituzioni ebbero tutte una efficacia generale
che emerge dal loro “linguaggio magniloquente e solenne, ora corredato da
superflue giustificazioni, ora da esaltazioni della saggezza e dei fondamenti
morali”. Con tutta probabilità, le costituzioni leonine subirono dei
rimaneggiamenti da parte dei compilatori giustinianei, pur trattandosi di
interpolazioni di carattere esclusivamente formale.
L’esegesi
della normazione di Leone I si sviluppa sulla base del contenuto, e nel primo
capitolo, Le costituzioni di diritto privato, l’A. esamina la materia
civilistica. L’analisi è articolata in diverse sezioni, “secondo un ordine
ispirato alla sistematica dei moderni manuali istituzionali”. La prima sezione
dedicata alle Fonti del diritto, mostra le cause ispiratrici della
politica di Leone I. In particolar modo l’esame esegetico fa emergere, fin dal
468 (C. 1, 14, 10), la concezione sottesa ai rapporti tra l’imperatore e
l’ordinamento giuridico, concezione molto vicina alla idea giustinianea,
secondo cui il diritto privato si estende a tutta la collettività, ma spetta
comunque all’imperatore la funzione creatrice delle norme. La stessa consuetudo,
di cui si ribadisce la rilevanza, è vincolata alla ratio dell’imperatore,
avvicinandosi così alla consuetudo secundum legem delineata da
Giustiniano. Nella sezione successiva vengono analizzate le costituzioni
relative al Diritto delle persone e della famiglia. Successioni. Il
quadro che emerge presenta una politica, modellata ai principi della Chiesa,
tesa a tutelare l’integrità e la dignità dell’uomo ed a considerare la morale
come entità interna all’ordinamento giuridico. Questo orientamento fu attuato,
in particolare, con l’inasprimento delle sanzioni per il lenocinio (C. 11, 41,
7), e con il divieto del commercio di schiavi eunuchi romani (C. 4, 42, 2). Nel
diritto di famiglia vengono tenute in gran considerazione le esigenze della
persona fondate sul diritto naturale, per cui si afferma il principio
dell’eguaglianza dei discendenti (C. 6, 20, 17) e si parificano i diritti
ereditari del figlio naturale rispetto a quelli legittimi conferendo all’oblatio
curiae un’efficacia legittimante (C. 5, 27, 4). Inoltre, Leone I,
nell’occuparsi del regime giuridico dei beni familiari, mostra una particolare
avversione, anche questa mediata dalla fede cattolica, per le seconde nozze, ad
esempio con la restituzione successoria ai figli di primo letto a danno del
nuovo coniuge (C. 5, 9, 6). Ispirata all’insegnamento di papa Leone Magno, la
normativa leonina pose delle disposizioni contro lo scioglimento del
fidanzamento, assimilato al matrimonio (C. 1, 4, 16; 5, 1, 5), e tese inoltre a
rimuovere alcuni impedimenti sociali al matrimonio, sacramento esortato dal
Cristianesimo (C. 5, 6, 8, con la quale si limitava il divieto di nozze tra la pupilla
ed il tutore). Il Diritto delle obbligazioni è la materia delle
costituzioni studiate nella terza sezione, dalla quale affiorano gli aspetti
caratteristici della normativa dell’imperatore. Viene superato il rigido
formalismo con la valorizzazione dell’elemento soggettivo, in particolare con
la legge in materia di stipulatio (C. 8, 17, 11) e si afferma la volontà
di far valere la veritas nell’instrumentum privatum (C, 2, 4,
42). L’influenza del dettato di papa Leone Magno, che considerava le donazioni come
manifestazione di benignitas Christiana, è da ritrovarsi nel favor
donationis espresso dall’imperatore nelle sue costituzioni inserite nella
sezione quarta. Anche in questo caso emerge la valorizzazione dell’elemento
soggettivo, in quanto il contratto di donazione trovava come fondamento la voluntas,
e quindi si poteva concludere in qualsiasi forma (C. 1, 57, 1; 8, 53, 30).
Il
capitolo seguente, Le costituzioni in materia ecclesiastica, si sofferma
sulle riforme religiose di Leone I, il quale, se per un breve periodo appoggiò
l’Arianesimo a causa dell’influenza di Aspar, sostenne sempre l’ortodossia
calcedonese. Nelle sue costituzioni si può trovare l’alta considerazione per il
sacerdozio, che svolgeva una importante funzione all’interno dell’impero. In
tale materia l’imperatore si discostò dalla precedente normativa, cercando di
separare la sfera religiosa da quella profana, ed espresse un interesse per la
gerarchia ecclesiastica offrendo la disciplina giuridica dell’ordinamento
monastico (C. 1, 3, 29) e regolando l’elezione del vescovo (C. 1, 3, 30). In
tale campo disciplinò positivamente alcuni usi che si erano affermati nella
prassi, come il diritto di asilo nelle chiese (C. 1, 12, 6), e l’utilizzo di
legati o dei fedecommessi che avevano lo scopo di redimere i prigionieri,
compito affidato alla Chiesa (C. 1, 3, 28). Vennero, inoltre, attribuiti dei
privilegi al clero, ad esempio sancendo la diversità di trattamento processuale
per i religiosi (C. 1, 3, 32).
Il
terzo capitolo è dedicato alle Costituzioni sull’ordinamento giudiziario.
Sulla base dei precetti cristiani viene data una connotazione morale e
religiosa all’amministrazione della giustizia, ad esempio considerando la
domenica come il giorno in cui si dovevano sospendere i giudizi e la professione
forense (C. 3, 12, 9). La normativa in materia tendeva a far fronte a due
esigenze: l’aumento del numero degli avvocati e l’ampio sviluppo dei tribunali
speciali, dove troppo spesso si perpetravano degli abusi. Leone I infatti dettò
una norma che introdusse sia nuovi requisiti per l’ammissione all’ordine, sia
il numero chiuso (C. 2, 7, 11), e cercò di rendere difficile l’accesso al
patrocinio giudiziario, considerato come servizio pubblico, con l’impedimento
della mobilità all’interno dell’ordine (C. 2, 7, 12). Chi esercitava la
professione forense doveva possedere una profonda preparazione giuridica, e
doveva appartenere alla religione cattolica (C. 1, 4, 15). Il ruolo della
avvocatura risultava fondamentale per l’impero e venne paragonato all’attività
militare (C. 2, 7, 14). Per ciò che riguarda la riduzione della giurisdizione
speciale al fine di limitarne gli abusi, si tese a semplificare, con
l’estensione delle competenze giurisdizionali del magister officiorum
(C. 11, 10, 6; 12, 5, 3; 12, 20, 4; 12, 25, 3; 12, 59, 8).
Il
quarto capitolo analizza, articolandosi in cinque sezioni, le Costituzioni
riguardanti la pubblica amministrazione e la materia tributaria. Nell’esame
della prima sezione, Burocrazia statale, emerge la volontà di
centralizzare l’amministrazione e d’opporsi all’assenteismo (C. 12, 21, 7) e
agli abusi dei funzionari. Tale politica si nota nella riorganizzazione della schola
degli agentes in rebus (C. 12, 20, 3), di cui si definiscono le
funzioni amministrative (C. 12, 20, 5), e nel controllo delle nomine che appare
sempre più centralizzato (C. 12, 59, 10). La sezione seguente, Esercito,
mostra l’intento di stabilire regole precise per disciplinare le milizie,
importanti per la stabilità e la sicurezza dell’impero. In particolare, viene
fatto divieto ai soldati di dedicarsi agli affari privati, per ottenere una
partecipazione assidua alla vita militare (C. 4, 65, 31; 12, 35, 15-16). Il Commercio
è la materia della terza sezione, regolata con il contrastare la formazione dei
monopoli privati (C. 4, 59, 1), nel tentativo di favorire la produzione
pubblica. Per ciò che attiene alle costituzioni relative alle Finanze,
esaminate nella quarta sezione, emerge il tentativo di evitare l’evasione
fiscale, nel quadro di una politica di perseguimento della utilitas publica,
ad esempio con l’opposizione al patrocinium, istituto al quale
ricorrevano i piccoli proprietari terrieri vessati dalle imposte, trasferendo
la proprietà ai ricchi latifondisti. Nella quinta sezione, Città, si
vede come l’imperatore, pur affrontando questioni marginali, volle incentivare
l’effettivo svolgimento delle cariche curiali (C. 10, 32, 61-63), e
incoraggiare l’autonomia locale, soprattutto limitando le forti influenze da
parte dei governatori (C. 1, 36, 1; 1, 40, 15).
Nelle Conclusioni si evidenziano gli
orientamenti generali della legislazione di Leone I, quali il riconoscimento di
consuetudini avvalse nella prassi, la politica centralizzatrice, la tendenza
unificatrice e semplificativa del regime giuridico degli istituti, la notevole
influenza del Cristianesimo. Per quest’ultimo aspetto si deve rilevare come vi
fosse in Leone I un nuovo modo di concepire la religione, l’imperatore,
infatti, “non si limita a legiferare con la preoccupazione di salvaguardare
anzitutto l’ordinamento esistente, ma prende in considerazione l’aspetto
interno della Chiesa”. Per ciò che attiene alla legislazione leonina si può
notare, inoltre, “una analogia di orientamenti” con la normativa di
Giustiniano: “A Leone I, dunque, per le numerose modifiche apportate con la sua
legislazione a soluzioni normative preesistenti ma soprattutto per aver
compreso che alcuni principî su cui si basava l’ordinamento avevano bisogno di
una diversa impostazione, va riconosciuta una inequivocabile posizione di spicco
tra i predecessori di Giustiniano”.
Il
volume di Dalla, che riporta e
commenta il primo libro delle Istituzioni giustinianee “florilegio-sintesi del ius
controversum e delle innovazioni imperiali”, si pone come scopo quello di
fissare per iscritto le riflessioni evidenziate durante la lettura del manuale
imperiale, in occasione del corso di Diritto romano. Per questo motivo, a detta
dello stesso A., il lavoro presenta alcuni limiti: emerge, infatti, un certo
“aspetto ‘minimale’ ed episodico” a causa sia di un “impari rapporto con
cotanta base testuale”, sia di un incompleto accoglimento, “nella massima
brevità possibile”, degli innumerevoli impulsi forniti dalla monumentale opera
di Giustiniano. Gli stessi titoli iniziali, infatti, sarebbero di per sé “contenitori”
di gran parte della riflessione romanistica. Si sottolinea come, attraverso il
commento del testo, non si pretenda di fornire una trattazione globale, in
quanto il lavoro consiste in “un conglomerato, attorno alla traduzione, di
prime osservazioni, seppur incomplete e diseguali”. Il materiale imperiale, che
rappresenta “a suo modo, un ‘codice’”, risulta di estrema rilevanza in quanto
una sua lettura analitica può ancora offrire istruttive riflessioni e utili
collegamenti. Un’attenta analisi dei testi giustinianei offre un’ulteriore
conferma della loro “natura di insostituibili ‘classici’ dell’esperienza
giuridica, come tali rivolti al nostro tempo, per fornire esempi di soluzioni e
di sistemi”.
Dopo
un’Introduzione di carattere storico, vengono in primo luogo riportate
le costituzioni Imperatoriam e Omnem, a cui fa seguito il
contenuto del primo libro delle Istituzioni. I testi riportano la traduzione a
fronte, e sono corredati di rimandi e commenti rivolti sia alla
interpretazione, con particolare riguardo alla Parafrasi di Teofilo, sia ad un
raffronto con il passato, rappresentato da Gaio e dalla tradizione classica, e
con il futuro, con le successive modifiche legislative; sia infine
all’individuazione dei collegamenti interni al Corpus iuris, in cui le Institutiones
“hanno funzione ora introduttiva ora di sintesi, ma da cui contemporaneamente
presuppongono di essere integrate”. La traduzione e alcune rubriche sono
arricchite da note, mentre il testo latino originale è munito di rinvii a fonti
collegate “per derivazione o assonanza”, o a fonti a cui si fa espresso
richiamo.
Particolare
riguardo alle riforme in campo pubblicistico nelle Novelle giustinianee è
prestato dalla monografia della Franciosi.
Il primo capitolo, Il riformismo e il classicismo pubblicistico di
Giustiniano, mostra il generale movimento di riforma promosso
dall’imperatore, volto alla restaurazione dell’unità intesa sotto diversi
profili: territoriale, politica, istituzionale, legislativa e religiosa.
All’interno di tale corso riformistico è da collocare la produzione legislativa
novellare del periodo 535-
Nel
secondo capitolo si fanno dei Cenni sulla giurisdizione in epoca
giustinianea. V’è da premettere che durante il regno di Giustiniano la
funzione giurisdizionale era normalmente inerente all’attività amministrativa,
per cui “solo ripercorrendo la struttura burocratico-amministrativa
dell’Impero” - sottolinea l’A. - “ed evidenziando la sfera di giurisdizione
riservata a ciascun funzionario od organo, si può in qualche modo conoscere il
sistema della giurisdizione ordinaria e delle eventuali giurisdizioni speciali
o esclusive”. Risulta come, a Costantinopoli, l’esercizio della giurisdizione
civile fosse talmente impegnativo per i funzionari, da far sorgere la
“ineludibile” necessità di un numero maggiore di organi giudicanti. Tra gli
interventi di Giustiniano sull’apparato giurisdizionale si ritrovano i
provvedimenti che introducono due nuove magistrature oggetto di analisi nei
capitoli successivi, Nov. 13 e l’istituzione del “praetor plebis” e Nov.
80 e l’istituzione del “quaesitor”. Le nuove cariche, dall’appellativo di
risalenza classica che denota l’orientamento “classicistico”, rappresentavano
delle “piccole, ma importanti tessere di un complesso ma armonioso mosaico
bizantino”. Le due costituzioni in esame erano tese a risolvere il grave problema
del sovraccarico funzionale della prefettura urbana, che stava compromettendone
l’operatività, in quanto “ciò andava contro il principio dell’efficientismo ...
propugnato come canone primario della funzione burocratica statale e
periferica”. L’imperatore cercò anche di risanare il sistema, prevedendo che i
due nuovi magistrati possedessero adeguati requisiti tecnici, doti morali e
personali ed una rigorosa deontologia professionale prospettata nel “modello”
del “perfetto burocrate” delineato nell’aprile del 535 da due leggi-quadro.
Così, con
Il
testo della De Marini Avonzo raccoglie
15 saggi già pubblicati, che, a detta della A., “non pretendono d’essere
ispirati ad una visione complessiva”, ma rappresentano le “tappe di un lento
cammino” e rispondono “all’esigenza minima” di offrire delle soluzioni
preliminari alle questioni che sorgono dallo studio del periodo in esame.
Mentre si realizzavano le singole ricerche, andava affermandosi in dottrina la
necessità di comprendere appieno il tardoantico, non sulla base di una “idea di
‘decadenza’”, ma sotto gli aspetti della innovazione e della continuità. I temi
trattati concernono sia il perdurare della tradizione classica nel tardoimpero,
sia l’influenza della religione cristiana nella legislazione romana, sia infine
i rapporti tra le due parti dell’impero. Al contrario viene sottolineato come
non si faccia alcun riferimento a temi di attualità che trovano ampia analogia
con il modello giuspolitico del tardo impero romano, in quanto gli argomenti
studiati sono stati inseriti nel loro contesto storico, scevri da qualunque
comparazione diacronica. Gli articoli, pubblicati in edizione anastatica, sono
preceduti da abstracts in lingua italiana ed inglese.
Il
primo saggio, Pagani e cristiani nella cultura giuridica del V secolo
(già in Materiali per una storia della cultura giuridica, II, Bologna
1972, pp. 13 sgg.), apre la prima parte del volume, Le Fonti. In questa
indagine si cerca di individuare la base culturale della normativa relativa
alla stabilizzazione e alla diffusione della conoscenza delle fonti di diritto.
Nel V sec. l’amministrazione della giustizia attraversava una profonda crisi a
causa della corruzione e della scarsa formazione professionale dei giudici,
situazione, questa, complicata dalla vastità e dalla complessità legislativa
vigente. In Occidente Valentiniano III nel 426 dettò i principi per individuare
le opere giurisprudenziali da applicare come autoritative nei tribunali, ed i
criteri per l’utilizzazione delle costituzioni imperiali. La oratio
Valentiniana non era tesa ad un rinnovamento delle fonti del diritto, ma ad
un chiarimento delle regole tradizionali, nel tentativo di rendere efficiente
l’amministrazione della giustizia. Probabile ispiratore di tale politica
legislativa fu l’ambiente senatorio, destinatario della costituzione, in un
certo modo “paganeggiante”, latore di un rinnovato interesse per i testi
classici. In Oriente, con la compilazione Teodosiana si introdusse la regola
dell’autorità del testo legislativo, pur nel rispetto delle antiche tradizioni,
principio presente nell’ambiente cristiano di Costantinopoli. Il Codice
Teodosiano, sulla base di tale regola, “ha fatto molti danni, in quanto ha
portato a privilegiare il principio dell’autorità del testo legislativo nei
confronti della classica e critica libertà del pensiero”.
Il
secondo articolo, I rescritti nel processo del IV e V secolo (già in Atti
Accademia Romanistica Costantiniana, XI Convegno Internazionale 1993,
Napoli 1997, pp. 29 sgg.), si sofferma sui pareri imperiali che offrivano la
corretta interpretazione del diritto, dietro richiesta di giudici o di privati,
in vista di un processo o in pendenza di questo. Nel tardoantico gli imperatori
cercarono di limitare l’emanazione dei rescritti, a causa di possibili
inconvenienti causati da abusi di burocrati. Con diversi interventi, Costantino
sancì l’invalidità dei rescritti emessi su richiesta privata, in svariate
ipotesi, come, ad esempio, qualora la causa fosse stata ancora pendente o fosse
stata già decisa dallo stesso imperatore (CTh. 11, 30, 6). Questa linea venne
proseguita dagli imperatori successivi. In particolar modo, Teodosio II stabilì
che i rescritti non dovessero essere inseriti nella sua compilazione, non per
abolirne la prassi, sempre vitale, ma per limitarla. Infatti, i rescritti
rappresentavano dei validi strumenti sia per la consulenza per i privati, sia
per controllo dei tribunali.
L’indagine
seguente, I libri di diritto a Costantinopoli nell’età di Teodosio II
(già in Annali Genova XXIV, 1991-92, pp. 103 sgg. = Miscellanea
Maffei IV, Goldbach 1995, pp. 51 sgg.), è tesa alla verifica dell’entità
del patrimonio librario giuridico nella pars Orientis, agli inizi del V
secolo, e degli eventuali aggiornamenti editoriali. Poiché Costanzo II aveva
proceduto alla fondazione di uno scriptorium imperiale, successivamente
arricchito dalle nutrite collezioni personali di Giuliano, si può affermare con
certezza che a Costantinopoli erano presenti le opere della giurisprudenza
classica e i codici dioclezianei. Con la duplicazione degli uffici palatini
sotto Valente si acquisirono opere in lingua latina, tra le quali certamente
libri di diritto, in quanto in Oriente si dovevano recuperare le opere latine
che contenevano i principi giuridici utili nell’amministrazione della
giustizia. Tuttavia,
Il contributo Codice Teodosiano e Concilio di
Efeso (già in Atti Accademia Romanistica Costantiniana, V
Convegno Internazionale 1981, Perugia 1984, pp. 105 sgg.) cerca di spiegare
l’abbandono del vasto progetto di codificazione formulato nel 429 da Teodosio
II. Per l’A. risulta interessante la tesi secondo cui il naufragio
dell’ambizioso programma fosse connesso alle vicende del Concilio di Efeso,
poiché i commissari del 429 erano per la maggior parte nestoriani, e dunque
ostili all’imperatore. In realtà, la corte si attivò per la composizione del
conflitto religioso, e dall’indagine prosopografica sui commissari niente
rileva intorno alle loro opinioni religiose. L’imperatore cercò un compromesso
nella diatriba religiosa, e nel Codice Teodosiano si ritrovano, infatti,
costituzioni favorevoli alle minoranze religiose. Tuttavia, tali norme,
disapplicate per volere dello stesso imperatore, furono inserite per offrire
un’immagine di politica della tolleranza.
La
ricerca La pubblicazione in Alessandria di una legge di Teodosio II (già
in Annali Genova XX, 1984-85, pp. 85 sgg.) si incentra sulle diverse
versioni che ci sono state tramandate di una costituzione teodosiana, emanata a
Costantinopoli il 23 marzo 431, attinente al diritto d’asilo nelle chiese. Il
testo è conservato parzialmente in CTh. 9, 45, 4, unica norma bilingue
conservata nel ms. Vaticano, accompagnato da una traduzione greca successiva.
Inoltre, la versione greca è posta in appendice ad una collezione degli Atti
del Concilio di Efeso, detta Vaticana, dove la norma teodosiana è datata 7
aprile 431, ed ha l’Egitto come luogo di pubblicazione. Questo inserimento nei
documenti del Concilio, secondo
Il
saggio Due giuristi severiani per un imperatore sconosciuto (già in Materiali
per una storia della cultura giuridica IV, Bologna 1974, pp. 11 sgg.)
analizza un testo conservato nel Codex giustinianeo (C. 9, 8, 6) senza inscriptio
e subscriptio. La norma contiene due brani dei giuristi del III sec.,
Paolo e Marciano, i quali rammentano che dall’epoca di Marco Aurelio si poteva
esperire un procedimento penale per il crimen maiestatis contro i
defunti, avente come fine la confisca patrimoniale. Alcune tracce presenti
nella tradizione bizantina e in quella medievale indicano che i due brani
latini erano stati inseriti in una costituzione originale greca andata poi perduta.
Tuttavia, dal confronto con la legislazione che va da Alessandro Severo fino a
Giustiniano, si rileva che tale citazione di passi giurisprudenziali è alquanto
singolare. Questo derivò certamente da un recupero del materiale antico da
parte di Triboniano, ma che per motivi stilistici non poteva essere l’autore
della costituzione. Dall’analisi della legislazione del 532 l’A. afferma che la
norma venne redatta dal questore Basilide il quale, in seguito alla rivolta di
Nika, aveva sostituito Triboniano. L’occasione della costituzione, emanata nel
532, venne data dalla confisca postmortem dei beni dei nipoti
dell’imperatore Anastasio e di numerosi senatori che li avevano sostenuti
durante la rivolta. Nel predisporre la norma il nuovo questore richiamò un analogo
giudizio di Marco Aurelio per “giustificare in qualche modo di fronte
all’opinione pubblica senatoria la repressione dei loro illustri colleghi”. Da
ciò si spiega l’insolita struttura della costituzione che, essendo rivolta al
senato di Costantinopoli, venne predisposta in lingua greca.
Lo
studio Secular and clerical culture in Dionysius Exiguus’ Rome (già in Monumenta
Iuris Canonici, Series C, Subsidia, 7, Città del Vaticano 1985, pp. 83
sgg.) si incentra sulla figura di questo personaggio, considerato il fondatore
del diritto canonico, il quale si può accostare agli intellettuali dell’epoca.
Il suo Codex Canonum, che ebbe tre edizioni, riordinava i canoni
ecclesiastici, mentre il Codex Decretorum raccoglieva le disposizioni
pontificali. Le due collezioni successivamente furono riunite nell’opera c.d. Dionysiana,
dalla quale appare una conoscenza di tecniche di codificazione collegate ai
criteri fondamentali del Codice Teodosiano. Questa conoscenza di Dionisio venne
favorita dalla sua frequentazione con il circolo degli Anici, legato alla
cancelleria di Costantinopoli.
L’analisi
Due citazioni del “Codex Iustinianus” nella “Historia Tripartita” di
Cassiodoro (già in Scritti Bensa, Milano 1969, pp. 95 sgg.) si
sofferma su un altro intellettuale del VI sec., Cassiodoro. Nella sua Historia
Tripartita sono riportate due disposizioni di Teodosio I, che risultano
recepite nel Codice giustinianeo e non nel Teodosiano. Probabilmente Cassiodoro
si procurò la compilazione di Giustiniano a Costantinopoli, tra il 540 e il
550, e la portò in Italia nel monastero di Vivarium. Hist. Trip. 9, 7 riporta
una costituzione del 380 che dichiarava eretici coloro che non seguivano la
dottrina del pontefice Damaso (CTh. 16, 1, 2 = C. 1, 1, 1). Hist. Trip. 9, 30
contiene la norma emanata da Teodosio I dopo la rappresaglia di Tessalonica del
390, per eliminare le sanzioni spirituali impostegli da S. Ambrogio (CTh. 9,
40, 13 = C. 9, 47, 20). In tale occasione l’imperatore sancì che le pene
capitali fossero eseguite dopo 30 giorni per consentire un eventuale
ripensamento.
Due
articoli, La giustizia nelle province agli inizi del basso impero. I. I
principi generali del processo in un editto di Costantino (già in Studi
Urbinati XXXI, 1965, pp. 291 sgg. = Synteleia Arangio-Ruiz II, Napoli
1964, pp. 1037 sgg.), e La giustizia nelle province agli inizi del basso
impero. II. L’organizzazione giudiziaria di Costantino (già in Studi
Urbinati XXXIV, 1968, pp. 171 sgg.), aprono la seconda parte dell’opera
Fa
seguito S. Gregorio Nazianzeno e la donazione della lite al fisco (già
in Studi Grosso II, Torino 1968, pp. 327 sgg.), che studia il caso del
vescovo Gregorio il quale nel 369, essendo erede legittimo del fratello minore,
dovette rispondere in giudizio ai supposti creditori del de cuius, in
quanto impossibilitato ad assolvere alle loro pretese. Basilio, vescovo di
Cesarea, nel tentativo di risolvere la questione, propose ad un personaggio
influente, a nome di Gregorio, la donazione del patrimonio ereditario al fisco,
in modo che l’onere fosse assunto dai funzionari fiscali. Nonostante il
silenzio delle fonti, dalle lamentele di Gregorio in ordine alla ingiustizia
dei tribunali e alla perdita dei suoi beni si può ritenere che il vescovo perse
le cause intentate dai creditori, e che la proposta venne rifiutata. La mancata
accettazione è un esempio della applicazione, sotto Valente, del principio
classico che vietava di donare le liti al fisco.
Il
saggio I vescovi nelle ‘Variae’ di Cassiodoro (già in Atti Accademia
Romanistica Costantiniana, VIII Convegno Internazionale 1987, Napoli
1990, pp. 249 sgg.) esamina alcune lettere scritte dall’erudito, in qualità di
questore di Teodorico, che riguardavano la posizione dei vescovi coinvolti
nelle liti giudiziarie, allo scopo di analizzare i rapporti tra la legislazione
imperiale e la sua applicazione nell’Italia ostrogota. In alcuni documenti
cassiodoriani si ritrovano citate costituzioni imperiali da applicare al caso
concreto, a sostegno degli ordini regi. Al contrario, in altre Variae,
quando il caso sottoposto non faceva sorgere problemi giuridici, le lettere del
re possedevano solo retoriche motivazioni, che, di fronte all’impossibilità di
applicare il diritto ufficiale, rimandavano alla collaborazione dell’autorità
vescovile. In tal caso, si invitavano i vescovi ad esercitare il loro magistero
secondo giustizia ed equità.
In Diritto
e giustizia nell’Occidente tardoantico (già in La giustizia nell’Alto
Medioevo, Settimane di Studio XLII, Spoleto 1994, pp. 105 sgg.) si
sottolinea come per Teodosio II bisognasse avere una buona conoscenza giuridica
per una puntuale applicazione del diritto nelle corti (Nov.Theod. 1, 1 del
438). Sulla base dell’esegesi di alcuni verbali d’udienza
L’indagine
Giustiniano e le vicende della “praescriptio centum annorum” (già in Studi
Betti III, Milano 1961, pp. 103 sgg.) studia la normativa giustinianea del
periodo 530-541, che stabilì un termine privilegiato per la prescrizione
estintiva delle azioni della Chiesa e delle opere pie, elevando il decorso in
cento anni. Tale normativa, accusata da alcuni di essere frutto di una interpolazione,
si spiega con un brano della Storia arcana di Procopio. Nel racconto (Anekdota
28) si identifica con un episodio di corruzione l’occasione contingente della
norma. Giustiniano generalizzò il privilegio accordato sulla base della
tendenza di porre in essere un’uniforme regolamentazione dei privilegi concessi
a enti muniti di autonomia patrimoniale. Nel 535, con Nov. 9, l’imperatore
allargò la praescriptio centum annorum anche alla Chiesa romana.
Tuttavia nel 541
Conclude
l’opera La repressione penale della violenza testamentaria (CI.6.34.1)
(già in Iura VI, 1955, pp. 120 sgg.), che si incentra su un rescritto di
Alessandro Severo del 229 (C. 6, 34, 1). La norma sanciva che la vis
usata per costringere taluno a far testamento in proprio favore dava luogo a
procedimento civile e penale. I Glossatori cercarono di individuare il titolo
di reato non determinato nella norma, e lo definirono crimen vis nella
cui fattispecie ricadevano differenti casi di estorsione violenta. Tale crimen,
non previsto dalle leges Iuliae de vi, venne perseguito con le pene
previste dalle leggi augustee. Uno scolio dei Basilici attribuito a Taleleo
conferma l’appartenenza della fattispecie della costrizione testamentaria al crimen
vis. Questo commento di Taleleo mostra come l’interprete greco abbia
utilizzato il testo originale del Codice di Giustiniano.