N° 2 - Marzo 2003 – Strumenti - Rassegne

 

 

diritto romano

 

LEGISLAZIONE NEL TARDO ANTICO (*)

rassegne di Cristiana Rinolfi

 

 

(*) Rassegne pubblicate in Studi Romani XLVIII (1-2, 1997) e L (1-2, 2002).

 

 

I

 

È stato pubblicato nell’ambito dell’Accademia Romanistica Costantiniana, in Materiali per una palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali, sotto la direzione di Manlio Sargenti (serie prima 5), il volume a cura di M. Navarra, Riferimenti normativi e prospettive giuspubblicistiche nelle Res Gestae di Ammiano Marcellino, Giuffrè, Milano 1994. Nella premessa il Sargenti evidenzia come un’analisi attenta delle Res Gestae di Ammiano Marcellino presenti “una messe di dati di interesse giuridico assai più ricca di quanto si è fin qui ritenuto”. Inoltre, tale lettura “offre, soprattutto, un insegnamento, suggerisce un criterio di valutazione che, mentre consente di trarre dalle pagine dello storico un frutto quasi insperato, può fornire, più in generale, una guida appropriata per lo studio dei fenomeni giuridici, del modo di essere giuridico, del tardo Impero”. Tale lettura ci fa comprendere “quanto possa essere fuorviante” considerare il fatto normativo nel suo ristretto significato di legge generale ed astratta, e ci offre un criterio di metodo per la ricostruzione della normativa tardo-imperiale “ammonendo che le sue componenti vanno ricercate non solo nelle costituzioni di carattere generale, ma in tutta la complessa attività di governo, nel senso più ampio, che l’imperatore svolge”.

Nella Introduzione la Navarra sottolinea come l’opera di Ammiano Marcellino, benché sia stata sempre oggetto di ricerche storiche e letterarie, solo ultimamente abbia interessato gli storici del diritto “che, per conto loro, fino a poco tempo fa si erano limitati a qualche tralatizia citazione”. Questo indirizzo di ricerca è da ricondursi nell’ambito di un maggiore e recente riguardo da parte degli studiosi del diritto pubblico per le fonti non giuridiche. L’opera storiografica di Ammiano fornisce preziosi elementi di valutazione per conoscere la normativa tardo-imperiale, in quanto le Res Gestae si presentano come fonte “pressoché unica” relativa al periodo 353-378 d.C., di cui Ammiano fu testimone. Lo storico si trovò infatti “in contatto con le più alte gerarchie militari e civili e doveva ben conoscere non solo i fatti, ma anche l’organizzazione militare ed amministrativa dell’Impero”. Secondo la curatrice, è possibile “che almeno in parte la sua narrazione abbia in qualche modo tenuto conto di quanto poteva risultare dagli archivi pubblici, ai quali non è escluso che egli abbia potuto accedere”. Lo stesso storico richiama esplicitamente prove documentali riguardo a ciò che afferma, anche se la maggiore fonte di informazione è orale. La Navarra ammonisce che “se i precisi riferimenti all’attività normativa imperiale sono apparentemente poco numerosi e sembrano deludere, a prima vista, le aspettative connesse allo scopo primario di questa ricerca”, tuttavia “il quadro che Ammiano disegna della vita dell’Impero e del funzionamento del suo apparato amministrativo e giurisdizionale, imperniato sulla figura dell’imperatore e mosso dalla sua volontà, ha, in effetti, un intrinseco significato normativo, che occorre saper cogliere ed interpretare”. Per tale motivo, oltre ai brani che contengono rinvii a constitutiones principum, si riportano passi “da cui, pur senza un apparente specifico riferimento normativo, appare possibile ricavare dati che rivelano in qualche modo la struttura ed il funzionamento delle istituzioni”.

Il maggior numero dei dati riguardanti la produzione normativa imperiale è relativo “all’attività di Giuliano, che agli occhi dello storico costituisce il modello ideale del buon principe e di cui viene, perciò, particolarmente valorizzata, a parte qualche spunto critico, l’opera di governo”. Così, nell’opera di Ammiano sono presenti i provvedimenti di Giuliano “che, dato il contenuto anticristiano, o per il loro carattere contingente, non sono stati conservati nei Codici”. Va sottolineata inoltre l’importanza delle Res Gestae per la conoscenza della attività dei funzionari sia centrali, sia periferici, ed importanti sono anche i dati circa i rapporti tra l’amministrazione centrale e gli organi provinciali. Un altro aspetto giuridicamente rilevante riguarda “la conclusione dei trattati, in particolare nei numerosi conflitti con le formazioni germaniche e sarmate che premono sul Reno e sul Danubio ai confini dell’Impero. Le notizie che Ammiano fornisce a questo riguardo consentono di constatare il persistere di forme consuete ai rapporti di Roma con le organizzazioni politiche straniere, il loro adattamento ad una realtà nuova e mutevole ed il realizzarsi di istituzioni come quelle originate dallo stanziamento nei territori dell’Impero di contingenti di popolazioni vinte o pacificate”.

Le Res Gestae, inoltre, consentono di ricostruire le linee di tendenza dell’assetto giuspubblicistico del IV secolo, con particolare riguardo a tre aspetti: i criteri di legittimazione del potere dell’imperatore, la nomina e i poteri dei Cesari, il processo criminale. Per quanto riguarda il primo problema, le linee di tendenza del periodo “sono ravvisabili nello sforzo di conciliare l’esistenza di un dato fattuale, il peso della volontà dei militari, che non può essere né eliminato né ignorato, con l’esigenza di attribuire al potere imperiale un crisma di legittimità”. Tale contemperamento viene ricercato “nel concorso tra designazione ed acclamazione, che è, poi, a ben guardare, un principio profondamente radicato nella tradizione romana”. Per ciò che attiene al secondo punto, la posizione dei Cesari, si ottiene dalle “Storie” “un quadro ben più complesso e variato, consentendo di riconoscere alla figura dei Cesari, per lo meno in questo periodo storico, un rilievo costituzionale di fondamentale importanza nel sistema di governo dell’Impero”. Circa il terzo aspetto Ammiano mostra un notevole interesse per la materia criminale e per le vicende processuali a sfondo politico, desideroso come è di denunciare gli abusi e le ingiustizie. Senza soffermarsi su particolari tecnico-giuridici, lo storico ricorda processi giudiziali, relativi in particolare al crimen maiestatis, alle pratiche magiche, al veneficio, al peculato, al falso, all’adulterio e allo stupro. Inoltre, sono forniti dal racconto dati circa gli organi ai quali si deferivano i processi, per lo più organi straordinari a cui l’imperatore affidava il giudizio. Un interessante dato dell’attività processuale “è quello originato dalle relationes e consultationes degli organi normalmente investiti della giurisdizione, nonché quello degli appelli, eventualmente ante sententiam, o delle istanze altrimenti a loro rivolte da privati”. Vi sono anche parecchi rinvii all’attività giurisdizionale sia del praefectus urbi, sia del vicarius urbis Romae, “riguardo alla quale Ammiano costituisce la fonte più informata e ricca di notizie per il periodo che va dal 350 al 378, in grado di integrare vantaggiosamente, per questo aspetto, le fonti normative, le quali si limitano a regolare la giurisdizione d’appello che al praefectus urbi è deferita, vice sacra, contro le sentenze del vicarius urbis Romae e ad indicare in qualche altro caso la speciale competenza del praefectus urbi. Inoltre, le Res Gestae testimoniano il frequente ricorso alla pena capitale e all’uso della tortura. La pena di morte viene applicata soprattutto nei numerosi casi di delitto di lesa maestà, ma anche per delitti come la magia. In conclusione la curatrice sottolinea come “piena è in Ammiano la consapevolezza che il frequente ricorso all’istituzione di tribunali straordinari, gli abusi dei giudici, la repressione della magia e della divinazione sotto il titolo di crimen maiestatis, i frequenti tentativi usurpatori, siano tutti segnali della debolezza del potere centrale. Ed è proprio questa lucida percezione del proprio tempo che fa, a maggior ragione, delle Res Gestae una testimonianza particolarmente utile e significativa per la conoscenza di alcuni aspetti della realtà istituzionale del IV sec. d.C. e per la ricostruzione dell’attività normativa tardo-imperiale”.

All’Introduzione della Navarra seguono i Testi Annotati tratti dall’edizione di W. Seyfart, Ammiani Marcellini Rerum Gestarum libri qui supersunt, Leipzig 1978: i passi vengono raggruppati secondo gli imperatori (o i Cesari) a cui si riferiscono, inclusi gli “usurpatori” Silvano e Procopio, in relazione agli specifici argomenti trattati.

 

In tema di diritto postclassico e giustinianeo segnaliamo una raccolta di saggi di G. G. Archi, Scritti di Diritto romano, vol. IV, Il lascito dell’esperienza giuridica del V e VI secolo, Giuffrè, Milano 1995, saggi già pubblicati in altri luoghi o allora in corso di stampa.

Nel primo saggio, I principî generali del diritto. Compilazione teodosiana e legislazione giustinianea, l’A. definisce l’entrata in vigore del Codice Teodosiano il 1° gennaio 439 come “il risultato di uno sforzo consapevole ed estremamente significativo della cancelleria imperiale di Costantinopoli, della prima metà del V secolo, al fine di superare la crisi della giuridicità dell’epoca”. L’Archi si pone così in contrapposizione con l’opinione generale della romanistica precedente, secondo la quale la compilazione teodosiana, presentando una sistematica non innovativa, sarebbe un semplice aggiornamento del Codice Gregoriano e di quello Ermogeniano. Tale convincimento non consentiva di accertare se la scelta di un nuovo codice fosse dettata dall’emergere di “specifiche esigenze giuridiche e metagiuridiche, che si imponevano come di per sé determinanti a una decisione di tanto impegno”. L’A. dunque intende far luce sui “reali intendimenti” della cancelleria imperiale, malgrado “la non felice tradizione manoscritta” attraverso la quale il codice Teodosiano ci è giunto. L’Archi sottolinea tre dati peculiari: “la radicalità innovativa” nell’esposizione delle fonti del diritto; “la vastità della parte dedicata alla normativa concernente le strutture dell’organizzazione dello Stato e della società, come pure la parte connessa con le nuove funzioni assunte dall’apparato statale”; e da ultimo “la presa di coscienza dell’avvento della Chiesa cristiana cattolica come istituzione religiosa, della quale i fatti impongono di prendere atto”.

Nell’affrontare l’analisi della compilazione giustinianea l’A. afferma che nel Codice Giustinianeo “rispetto al Teodosiano, religione, politica e diritto nei loro reciproci rapporti, e quindi anche nelle loro finalità, si pongono su posizioni nuove, e che sono intelligibili solo con la nuova situazione dell’inizio del VI secolo”. Secondo l’Archi l’opera giustinianea è stata, nella quasi totalità dei casi, “valutata secondo un metro confacente alle convinzioni personali degli interpreti condizionati dalle esigenze del loro tempo”. Al contrario l’A. propone un’analisi tesa ad inserire “Giustiniano nel momento storico, nel quale egli operava e nelle condizioni, nelle quali gli era consentito di operare”, dalla quale emerge che l’imperatore “non pensa affatto di far rivivere un passato, che a volte nelle sue costituzioni riformatrici non si perita di criticare e anzi di ridicolizzare. Ciò nonostante, e questo è il suo merito imperituro, egli è in grado d’ammirare gli insegnamenti della tradizione in quanto in essa vi è di ‘utile’ (la parola è del suo linguaggio) per lo sviluppo futuro”.

Nel secondo saggio, La critica romanistica attuale e l’esegesi del ‘Corpus iuris’, l’Archi sottolinea come “il prevalere sempre maggiore dell’interesse storico ha enfatizzato ancora di più la necessità dell’esegesi. Infatti, volendo rimanere fedeli a questo interesse, il giurista deve proporsi di acquisire la conoscenza più esatta possibile in merito al come la funzione della giuridicità viene intesa nel periodo di tempo, che è alla sua attenzione”. L’A. intende dunque prospettare nuovi spunti per l’analisi esegetica della compilazione giustinianea “quale espressione del mondo giuridico del VI secolo” in base alla convinzione che il Codice, le Istituzioni ed il Digesto presentano ciascuno problematiche proprie. Una esegesi, quindi, non più astratta dalla realtà storica, ma “inerente all’iter storico delle varie parti del Corpus. Infatti solo procedendo alla storicizzazione del periodo “si avrà la possibilità di afferrare in pieno il vero significato dell’opera di Giustiniano, e cioè l’essere questa, nell’ambito della giuridicità, il lascito di una esperienza umana coinvolta in un memorabile incontro-scontro tra civiltà diverse”.

Nella terza ricerca, Le ‘Institutiones’ di Giustiniano e l’unità del ‘Corpus iuris’, l’Archi sottolinea la rilevanza del manuale istituzionale giustinianeo per la storia della scientia iuris, rilevanza che nel tempo “ha variato a seconda del modo con il quale l’aggancio fra la tradizione romana e le esigenze dei periodi storici interessati al richiamo trovava la sua giustificazione”. L’A. si chiede con quali interessi attualmente, in un periodo di crisi della giuridicità, i cultori del diritto possano accostarsi alle Istituzioni di Giustiniano: secondo l’Archi “la dottrina romanistica attuale non dovrebbe limitarsi a considerare il lascito romano racchiuso nel Corpus Iuris come si considera un passato irripetibile. Valido come modello, ma solo per gli aspetti tecnici. Il lascito di Giustiniano legislatore, invece, è ancora vivo e degno di studi proprio per la sua aderenza a quanto avveniva nella storia degli anni suoi e per il tentativo, in detta opera espresso, di dominare eventi di portata raramente verificabile nel corso della storia”.

Nello studio successivo, Per il rinnovamento della didattica, l’A. afferma che “la didattica del docente di Istituzioni di diritto romano non ha per oggetto il mondo del diritto attuale, entro il quale i giovani sono coinvolti e sono in qualche modo interessati ad apprendere, ma un mondo del passato, del quale spetta all’insegnante per l’appunto far intendere le connessioni con il presente e, si dica pure, almeno per chi condivide l’idea della continuità del diritto, con il futuro”. Essendo il corso di Istituzioni di diritto romano parallelo a quello di Istituzioni di diritto privato, l’Archi si chiede se “non sarebbe giunto il momento di utilizzare questa contemporaneità a un fine diverso da quello usualmente accettato secondo la tradizione”. L’A. è persuaso “che sia dovere del giurista in quanto ricco di esperienza storica e ... in quanto fa professione di educatore, uscire da un distacco di comodo. Egli deve compromettersi con il presente”. L’Archi dunque, condivide “l’opinione di quanti pensano essenziale il conoscere l’esperienza giuridica romana come maestra nell'adeguare il vivere secundum leges di una società umana degna di questo nome al perenne evolversi strutturale della medesima”.

In I codici civili moderni e la tradizione romanistica l’A. osserva che il lavoro della nostra scientia iuris dopo l’Unità d’Italia “è rimasto in gran parte ignoto al mondo della cultura italiana, in particolare a quella nei cui confronti questo silenzio può destare meraviglia”, riferendosi in particolare a quella storiografia politica dalla quale vennero dati importanti contributi per respingere l’idea di storia considerata soltanto “come storia di battaglie”. Mentre l’Italia unita si inseriva “ad alto livello nella problematica europea”, la scientia iuris si dedicava ad una elaborazione che “non in altro si sostanziava se non nella presa di coscienza che la società italiana stava mutando in consonanza con quanto avveniva in quella Europa, entro la quale era ormai necessario inquadrare il nostro futuro”. Nel lavorio scientifico del decennio precedente il Codice civile del 1942, il problema più rilevante “fu quello di chiarire per prima cosa la funzione, e quindi il potere, dello Stato legislatore nei confronti di quello che ancora si chiamava la materia civilistica”. Attualmente, se si volesse redigere un nuovo codice conforme ai principi affermati nel secondo dopoguerra “il primo dovere di ogni giurista sarebbe quello di meditare a fondo sulla formula ... hominum causa omne ius constitutum est. Parole che debbono essere intese non nel loro riferimento a un uomo fuori della storia, come piaceva ai giuristi dell’epoca illuministica, ma all’homo inteso nella sua condicio humana, come invece piaceva dire ai maestri bizantini di Giustiniano”. L’Archi invita dunque “a considerare per il futuro della privatistica l’affermarsi dei diritti umani come una svolta del nostro tempo” in quanto “non siamo di fronte a nuove astrazioni. Dobbiamo essere convinti della necessità di prendere atto, nell’ambito dell’esperienza giuridica, di una realtà che, impostasi attraverso un tragico evento, non può essere ignorata”.

 

Il tema del rapporto fra legislazione imperiale e legislazione canonica forma oggetto del volume di E. Dovere, “Ius principale” e “catholica lex”. Dal Teodosiano agli editti su Calcedonia, Jovene, Napoli 1995. Nella Prefazione l’A. dichiara che lo studio è “una sorta di tentativo approfondito e documentato di riassumere e proporre talune ‘letture’ di certi fatti interni alla realtà culturale tardoromana vista in uno dei suoi tanti aspetti giuridici”. Per tale analisi saranno necessari ulteriori studi “non foss’altro che per estendere la profondità temporale” e ottenere così un quadro più consistente.

Nel primo capitolo, Prolegomeni, il Dovere sottolinea come nel periodo che va da Teodosio II fino a Giustiniano vi sia un problema di “deficit” documentario, per cui assai preziose risultano le testimonianze non tradizionali per il giurista, come il materiale riguardante gli Atti dei concili ecumenici e le antiche informazioni degli storici-ecclesiastici. Per l’A. con riferimento diretto “a certi anni tardoantichi, assai complessi sotto l’angolo visuale delle coeve esperienze culturali, solo prescindendo da aprioristiche e convenzionali delimitazioni documentarie, e facendo astrazione da quella sorta di condizione separata in cui per più motivi versa tuttora, lo studio storico del diritto pubblico romano potrebbe trovare un vero arricchimento di sostanza: un arricchimento tale da coinvolgere sia nuovi e mai troppo numerosi apporti testuali sia, ma in una luce diversa, le ordinarie fonti giuridiche”. Scopo della ricerca sarà quello di tratteggiare un quadro del ius che riguarda il tema della fede e la posizione del principe nel rapporto tra la sua normazione e il mondo religioso cristiano. A tale fine il Dovere opta per “un approccio strettamente documentario”, che analizzerà il ius principale in relazione alla lex catholica nello spazio temporale che va dal Codex Theodosianus fino agli editti di Marciano coevi al IV concilio ecumenico di Calcedonia. In tale periodo vi è da rilevare un’ampia “reciproca influenza fra le tante attività degli ambienti ecclesiastici e quelle, pur esse non meno intense, degli officia legislativi del principe, quasi che ormai si andasse coniugando in via definitiva una sorta di vita parallela fra le istituzioni civili e quelle ecclesiastiche”.

Nel secondo capitolo (L’evento-Teodosiano) l’A. analizza la compilazione di Teodosio II, la quale “sembra che apparisse con le caratteristiche di un ordinamento giuridico pienamente consapevole di rappresentare lo speculum potenzialmente omnicomprensivo di una ben determinata e vasta situazione sociale, quand’anche molto sfaccettata, in un ben preciso momento storico”, in cui la Chiesa si forma quale “istituzione” dotata di forme non diverse da quelle dell’impero. Il Dovere si sofferma inoltre sui testi di autori ecclesiastici quali Teodoreto, Sozomeno, Socrate di Costantinopoli e Evagrio Scolastico, in quanto, nonostante alcune imprecisioni, essi “costituiscono un buon momento di riscontro in specie per l’indagine giuspubblicistica sulla tarda antichità”. Ancora del Codice Teodosiano si tratta nel terzo capitolo, L’indirizzo normativo nell’età del Codice, dove l’A. si occupa della sistematica della compilazione, la quale si presenta come una codificazione di “novità assoluta in più sensi tranquillizzante”, che regolava i vari settori della società. Il Dovere indica tre rubriche che esplicitamente “avrebbero teso a regolare gli aspetti del reale più vicini alla sostanza della fede”: CTh. 16. 1 De fide catholica, CTh. 16. 4 De his, qui super religione contendunt, CTh. 16. 11 De religione. La terza rubrica riguarda la religione cattolica ortodossa e comprende tre costituzioni di Onorio relative all’Africa, databili tra il IV ed il V secolo. Esse si ispiravano alla ratio per cui problemi connessi unicamente con la religione erano estranei alla potestà dell’imperatore e spettavano alla Chiesa: “il ‘residuo’, le ceterae causae del dettato normativo, apparteneva viceversa alla sfera materiale, ‘laica’, di evidente competenza dell’imperium.

Dai titoli citati emerge lo stretto legame tra il legislatore ed il vescovo circa l’attività normativa riguardante la materia religiosa. I sacerdoti “rimanevano gli unici referenti che il principe consentiva alla propria volontà normativa nell’individuare i contenuti della professione di fede”. Tale rapporto del ius principale con l’argomento religioso si trova anche in diversi testi teodosiani ed in altro materiale documentario più o meno contemporaneo a questi, come gli scritti patristici a cavallo tra il IV ed il V secolo. Dati preziosi emergono dall’epistolario di Ambrogio, il pastore di Milano. Ad esempio in una epistola ambrosiana del 386 inviata a Valentiniano II si ribadiva che l’imperium era estraneo alla materia religiosa di competenza esclusiva dei vescovi, riferendosi ad una norma con la quale Valentiniano I si sarebbe dichiarato espressamente incompetente rispetto ai fatti della catholica lex. Anche nella “Storia” di Sozomeno si ritrova la stessa linea di pensiero. Qui si ricorda infatti come Valentiniano avrebbe dichiarato di essere un cattolico laico, e di non poter quindi intervenire nelle questioni in materia di fede, di autonoma competenza vescovile.

Nel quarto capitolo, Da Teodosio II a Marciano, l’A. analizza le tarde norme teodosiane d’argomento religioso “sia quelle codificate, sia le successive ‘sfuggite’ ai florilegî romanistici”. In esse “andrebbe intravisto il primo e decisivo tratto di passaggio fra due diversi e caratteristici orientamenti del tardo ius principale sull’argomento della catholica fides: dalla smaccata considerazione, quale esclusivo referente normativo, del ‘momento episcopale’ singolarmente inteso, alla piena ed altrettanto esclusiva considerazione, in funzione sostanzialmente e formalmente analoga, del concilio ecumenico e dei suoi deliberati canonici”. Questo indirizzo risulta rigorosamente affermato nella legislazione di Marciano, i cui editti emanati negli anni 451-452 rappresentano una sorta di “corpus conciliare”, “ispirato alla massima difesa della ortodossia del Credo calcedonese”. L’analisi di tale legislazione consente al Dovere di concludere che “proprio l’opzione conciliare tanto coerente ed estesa che aveva contraddistinto la normazione marcianea avrebbe costituito, a cavaliere fra V e VI secolo, ben più che un exemplum significativo per gli operatori del ius principale”, al punto che “lo stesso Giustiniano, del resto, senza necessità alcuna di rifarsi alla compiuta normazione di Teodosio, bensì trovando solide e neanche troppo remote radici proprio nelle opzioni legislative marcianee, avrebbe impostato nelle sue novellae, in tema di catholica fides, una assoluta identità formale fra manifestazioni del ius principale ed ecclesiasticae regulae; la cogenza legislativa, cioè, per i sudditi di qualsiasi provincia del regnum dei numerosi canoni dogmatici e disciplinari tratti dai concilî ecumenici della catholica ecclesia.

 

Il volume di C. Capizzi, Giustiniano I tra politica e religione, Rubbettino, Soveria Mannelli 1994, è dedicato alla figura del grande imperatore romano. Nella Prefazione l’A. rileva come Giustiniano nella sua intensa attività politico-normativa abbia statuito anche nella materia religiosa ed ecclesiastica, che fu “settore “privilegiato” della sua politica”. L’importanza che l’imperatore diede a tale argomento rispondeva al principio di unità dell’impero, “unità “culturale”, diremmo noi oggi; unità innanzitutto e soprattutto “religiosa” (e, quindi, “ecclesiastica”), intendevano Giustiniano e i suoi contemporanei”. Infatti, senza coesione spirituale si sarebbe potuti incorrere nella disgregazione politica. Il Capizzi sottolinea come in questa ricerca abbia “cercato di dare un’idea panoramica e relativamente provvisoria - per quanto articolata e documentata - di questo settore della politica giustinianea”.

Il primo capitolo, Giustiniano: la sua personalità di imperatore cristiano, traccia una biografia di Flavius Anicius Iulianus Iustinianus, al quale, grazie ai suoi studi giovanili promossi dallo zio Giustino I, “fu il primo imperatore bizantino che riuscì realmente ad emergere in teologia e ad acquistare una conoscenza esatta non solo della dottrina ortodossa, ma anche delle numerose sette che si agitavano nell’Impero e contro le quali avrebbe scatenato una guerra implacabile. Nei suoi scritti teologici, anche a supporre l’aiuto o l’assistenza dei teologi di corte, Giustiniano riesce ad esprimersi con grande precisione e in termini di perfetta ortodossia ecclesiale”. Per l’A. l’imperatore possedeva una profonda convinzione religiosa, ispirata dalla pietas. Per questo motivo “chi attribuisse alla politica religiosa di Giustiniano la sola spinta della ragion di Stato, sbaglierebbe di grosso”. L’ideale di Giustiniano, da lui profondamente sentito, di unificare armonicamente l’imperium con il sacerdotium si basava sul principio delle monarchie orientali che vedeva l’imperatore onnipotente: “Giustiniano - dunque - sfrutta al massimo tale eredità ideologica ed incarna in sé stesso ciò che nei primi decenni del secolo XVIII sarà chiamato cesaropapismo”.

Il secondo capitolo, La politica religiosa ed ecclesiastica dal 527 al 543, propone un excursus storico dell’attività politico-normativa dell’imperatore in materia religiosa da quando venne nominato Cesare all’anno del decreto dogmatico sull’origenismo. Si rileva come Giustiniano abbia perseguitato sia i seguaci di altre religioni, sia gli eterodossi, in base a principi che si erano affermati nel IV secolo. L’elemento di novità di tale politica era rappresentato da “una coerenza e una violenza che superavano tutto ciò che fino allora s’era visto”. Le persecuzioni continuavano, ma il rigore adottato dall’imperatore mutava “secondo il grado di nocività religiosa e sociale loro attribuita”, al punto che l’eresia e qualsiasi forma di dissenso religioso erano considerate crimen publicum.

Il terzo capitolo, La politica religiosa ed ecclesiastica dal 543 al 560 circa, continua nella analisi degli avvenimenti storici fino al cosiddetto “aftartodocetismo” di Giustiniano. In seguito alla rinascita della Chiesa monofisita, infatti, Giustiniano, pur continuando ad usare la forza contro gli assertori del monofisismo, “al tempo stesso, proseguì con uguale tenacia nei tentativi di guadagnarli alla Chiesa cattolica mediante concessioni teologiche, sia pure entro i limiti invalicabili della fede ortodossa”. Tali concessioni causarono violenti dissidi soprattutto a Costantinopoli ed in Palestina. Il papa Vigilio oppose resistenza, e ciò “determinò tra lui e Giustiniano un braccio di ferro che durò un decennio con momenti di drammaticità quasi tragica. Lo scontro finì, almeno in apparenza, con la vittoria del despotismo di Giustiniano che dalla sua aveva anche la forza materiale”.

Alla morte del papa, Giustiniano riuscì a fargli succedere Pelagio il quale aderì alla politica dell’imperatore. Pelagio I morì il 3 marzo del 561 e solo dopo ben quattro mesi si designò il successore, Giovanni III. Il ritardo fu dovuto al fatto che, secondo la tradizione, la nomina doveva essere effettuata dal clero romano, ma allora, dietro pagamento di una ingente somma di danaro, tale designazione doveva essere ratificata dal sovrano di Costantinopoli. Il Capizzi sottolinea che le testimonianze relative ai secoli VI e VII “sono quasi tutte concordi nel riferire una specie di nuova svolta della politica religiosa ed ecclesiastica di Giustiniano, la quale si sarebbe verificata apertamente dal 562 in poi, vale a dire negli ultimi tre anni di regno. Si tratta del passaggio di Giustiniano dall’ortodossia, diciamo, calcedoniano-tricapitolina alla forma estrema del monofisismo rappresentata dal cosiddetto aftartodocetismo”. Infatti, sul finire del 564 l’imperatore emanò un editto che faceva propria la dottrina di Giuliano d’Alicarnasso secondo cui la natura di Cristo era incorruttibile ed impassibile, ma, per alcuni studiosi moderni, questa svolta religiosa di Giustiniano fu un’invenzione atta a gettare discredito sull’imperatore. Giustino II, alla morte dello zio Giustiniano “si affrettò a passare un colpo di spugna su quest’ultima sua iniziativa - la più singolare di tutte le iniziative di Giustiniano in materia religiosa”.

Nel quarto capitolo, La legislazione ecclesiastica di Giustiniano come espressione della sua politica, l’A. afferma che l’imperatore, unico titolare del potere legislativo, “si serve di editti e costituzioni imperiali per imporre formule di fede, scagliare anàtemi e promulgare nuove disposizioni costituzionali e amministrative d’ogni genere, che i sudditi devono semplicemente accettare e la gerarchia ecclesiastica “semplicemente sottoscrivere, escludendo ogni possibilità di rifiuto od opposizione”. Rispetto a tale atteggiamento i romanisti “si sono divisi per lo meno in due partiti: anti-giustinianei e filo-giustinianei”: il Capizzi, pur riconoscendo i meriti di Giustiniano, afferma che l’imperatore “la fa da padrone con la Chiesa e, malgrado tutte le attenuanti e scusanti che la riflessione storica possa suggerirci, in certi momenti egli ci dà l’impressione di trattare sia la Chiesa ufficiale che le altre Chiese o religioni come un ragazzino imbizzito tratta le bambole strappate di mano alla sorellina piangente”. Da tutto il materiale della normativa ecclesiastica giustinianea emergono delle peculiarità che ne mostrano “la natura dispotica”: tali provvedimenti “ci fanno toccar con mano a) che egli, da una parte, usurpa spesso il diritto di legiferare che era proprio dei papi e delle più alte gerarchie ecclesiastiche riunite o no in sinodi coi propri suffraganei, benché sia evidente il suo sforzo di armonizzare le “leges” dell’Impero coi “canones” della Chiesa, verso i quali intende mantenersi fedele ratificandoli con la sua autorità imperiale; b) che, dall’altra, conferisce alla Chiesa ufficiale tanti e tali privilegi in materia civile e amministrativa, da renderla sempre più un organo esecutivo dello Stato, ossia della volontà imperiale”.

Pur non essendosi mai Giustiniano dichiarato competente in materia riservata al clero, per l’A. la sua politica può definirsi “oggettivamente” cesaropapista. Egli, infatti, oltre ad intervenire in materia di definizione dell’ortodossia, pose le condizioni di accesso all’ordine ecclesiastico; si occupò delle elezioni dei vescovi; regolò la condotta dei clerici e l’organizzazione monastica; restrinse il diritto di asilo sacro, privilegiò l’autorità ecclesiastica nell’amministrazione delle città. Ad esempio, una costituzione del 529 attribuì ai vescovi il compito di liberare i detenuti nelle carceri private, di cui rinnovava la proibizione, ed affidò loro poteri di vigilanza nelle carceri pubbliche. Al Capizzi, “riflettendo sulla sua legislazione ecclesiastica tutta tesa a rafforzare le strutture e le funzioni della Chiesa, sorge il sospetto che, mentre l’imperatore pensava di trasformare l’istituzione ecclesiastica in “strumento” del potere civile, la gerarchia della Chiesa, sia lasciandolo fare che collaborando attivamente, mirava a strumentalizzare il potere civile a favore delle proprie strutture istituzionali”, tanto da essere indotto “a considerare la legislazione ecclesiastica di Giustiniano come un ambiguo do ut des tra Stato e Chiesa, praticato sotto la maschera del “privilegio” in senso filo-ecclesiastico”.

Nelle Conclusioni l’A. rileva che “le conseguenze della maniera “giustinianea” di concepire e vivere i rapporti tra Stato e Chiesa saranno gravi e irrimediabili: a Bisanzio, come si sa dalla sua storia, troppi imperatori la faranno da papi, e non pochi patriarchi la faranno da imperatori con tutte le conseguenze negative che tale scambio di ruoli comporterà inevitabilmente”.

Il volume si conclude con una Appendice di documenti, dove vengono presentate in ordine cronologico diverse testimonianze documentarie, allo scopo di “facilitare una prima lettura storica di alcune delle molte fonti a disposizione di chi cerca di studiare la politica religiosa di Giustiniano, ma senza le dovute conoscenze di greco e di latino”.

 

A particolari aspetti della normativa tardo-imperiale è dedicato il volume di A. M. Demicheli, La ΜΕΓΑΛΗ ΕΚΚΛΗΣΙΑ nel lessico e nel diritto di Giustiniano, Giuffrè, Milano 1990. Nel primo capitolo (Denominazione di ΜΕΓΑΛΗ ΕΚΚΛΗΣΙΑ) l’A. evidenzia come dal Codex e dalle Novellae giustinianee si rilevi un interesse particolare per la Grande Chiesa, definizione, questa, che normalmente indica la cattedrale costantinopolitana fatta ricostruire da Giustiniano dopo la rovina causata durante la rivolta di Nika. Secondo l’Historia Ecclesiastica di Socrate Scolastico con tale denominazione venne designato l’edificio fin dalla sua costruzione, avvenuta durante il periodo di Costanzo II. Nel codice di Giustiniano sono presenti diverse costituzioni di precedenti imperatori, le quali indicano la posizione preminente di tale cattedrale, prevalenza che si riscontra anche nella normativa giustinianea. I diversi testi di Giustiniano che si occupano del principale edificio ecclesiastico confermano il carattere ufficiale della denominazione di Grande Chiesa.

Nel secondo capitolo, La Novella 3, le chiese di Costantinopoli e la ΜΕΓΑΛΗ ΕΚΚΛΗΣΙΑ, la Demicheli esamina la Nov. 3, indirizzata all’arcivescovo di Costantinopoli, Epifanio, emanata nel marzo del 535. Il provvedimento riguardava un urgente problema finanziario sorto nelle chiese costantinopolitane e soprattutto nella Grande Chiesa. Secondo un’inchiesta voluta dall’imperatore, emergeva infatti che le chiese di Costantinopoli avevano disatteso le disposizioni del concilio ecumenico e ordinato un numero di chierici superiore ai limiti imposti. Si capisce quindi il motivo per cui “l’ammontare complessivo delle spese sostenute esclusivamente per il mantenimento del clero non solo assorbisse ma addirittura eccedesse il totale delle entrate delle chiese menzionate”. A causa delle difficoltà finanziarie le chiese dovevano ricorrere a prestiti che venivano onorati il più delle volte tramite l’alienazione di beni ecclesiastici, soluzione disapprovata non soltanto dalla Nov. 3, ma anche da differenti altre costituzioni giustinianee. Giustiniano ordinava che fosse ripristinato l’organico originario dei chierici, fatta eccezione per quello della Grande Chiesa: questa deroga, secondo l’imperatore, era voluta in quanto la cattedrale, assieme alle chiese di S. Irene, S. Teodoro, della Vergine, formava un ““complesso” unitario” con il medesimo canone di ecclesiastici. Inoltre in essa confluiva un maggior numero di fedeli, afflusso dovuto al ravvedersi in Costantinopoli di una schiera di eterodossi, “grazie soprattutto alla assidua opera di proselitismo svolta dall’imperatore”. L’A. non sa se quest’ultima affermazione corrisponda a verità, in quanto la legislazione più o meno coeva avente per oggetto gli eretici induce a pensare che molti erano stati indotti a rientrare nell’ortodossia soprattutto dalla severità delle sanzioni previste.

Alcune dichiarazioni della Nov. 3, inoltre, “fanno conoscere come molte ordinazioni e trasferimenti venissero in esse effettuati in via del tutto irregolare attraverso la pratica del “patrocinio” e precisamente mediante appoggio fornito agli interessati da individui potenti e bene introdotti - alcuni dei quali addirittura appartenenti alla cerchia di corte - in grado di intervenire ed esercitare pressioni nei confronti dei patriarca al fine di indurlo ad accondiscendere alle concessioni impetrate”. A tal proposito la norma vieta la pratica del patrocinio, rifacendosi anche ad un canone del concilio di Calcedonia che sanciva la deposizione in caso di venalità di dignità ed uffici clericali. Con la Nov. 6. 1. 9 e la Nov. 123. 2. 1 Giustiniano sanciva la deposizione e l’espulsione dall’ecclesia in caso di venalità, e sanzionava la cessione dei beni corrisposti per tale venalità alla sede ricoperta in maniera indebita. La Nov. 3 prevedeva anche sanzioni per il vescovo e gli economi che non avessero rispettato il divieto di ordinare chierici oltre il numero fissato dalla legge, e per la conseguente elargizione di fondi prelevati dai patrimoni ecclesiastici. Questi soggetti avrebbero dovuto risarcire la Chiesa con beni propri. Si dovevano infatti combattere le irregolarità della gestione dei beni ecclesiastici, i quali potevano servire anche per fini caritativi, a vantaggio degli indigenti.

Con la Nov. 3 quindi, benché emanata per un caso contingente, Giustiniano toccò degli aspetti importanti per la sua legislazione ecclesiastica. La Demicheli suppone che il provvedimento, soprattutto in riguardo al numero dei chierici della Grande Chiesa, venne realmente applicato, in quanto l’imperatore non intervenne successivamente sul tema. Ma due novelle dell’imperatore Eraclio, la 22 dei 612 e la 23 del 619, che consistevano in provvedimenti simili a quelli di Giustiniano, dimostrano che il problema della consistenza numerica dei canoni ecclesiastici si ripresentò.

Il terzo capitolo (Altre Novelle, 43 e 59, in tema di ΜΕΓΑΛΗ ΕΚΚΛΗΣΙΑ) analizza il contenuto della Nov. 43, del 17 maggio 537 e della Nov. 59 del 3 novembre dello stesso anno, anch’esse relative alla Grande Chiesa. Le due norme presentano affinità sia dal punto di vista formale, perché entrambe erano state sollecitate da richieste rivolte all’imperatore, sia sotto il profilo contenutistico, in quanto la prima riguardava gli ergasteri di Costantinopoli e le immunità di quelli che facevano capo alla Grande Chiesa, e la seconda si riferiva alle spese per le esequie.

La Nov. 43 informava delle lamentele rivolte a Giustiniano da parte degli esponenti delle corporazioni delle arti e dei mestieri della capitale, in quanto vi era una estensione abusiva di vaste proporzioni dell’esenzione delle imposte sulle esequie, esenzione, in realtà, prevista solo come beneficio dei 1100 ergasteri appartenenti alla Grande Chiesa. La Novella ribadiva l’immunità solo in favore di questa, per il servizio caritativo svolto, e sanzionava la trasgressione del precetto. Dalla Nov. 59 si evince che furono i parenti dei defunti a lamentarsi presso Giustiniano poiché le norme funeralizie non venivano rispettate: a tale proposito l’imperatore emanava precise direttive per una corretta gestione dei beni ecclesiastici, volte ad incentivare le iniziative a scopo benefico (nella specie le esequie). Basandosi sulla Nov. 12 dell’imperatore Leone VI il Saggio, dalla quale risulta che le rendite degli ergasteri venivano utilizzate per fini differenti dalle esequie, l’A. sottolinea che “anche per i provvedimenti di Nov. 43 e Nov. 59 l’aspettativa giustinianea di una durata “per l’eternità” non sortì tuttavia l’esito sperato”.

 

Il volume di R. Maceratini, Ricerche sullo status giuridico dell’eretico nel diritto romano-cristiano e nel diritto canonico classico (da Graziano ad Uguccione), CEDAM, Padova 1994, è dedicato allo sviluppo storico della condizione giuridica dell’eterodossia. Per l’A., nella Introduzione, è importante capire se nel diritto romano-cristiano l’eresia fosse considerata come un reato oppure come un fatto produttivo di incapacità giuridiche. La soluzione a tale dilemma è rilevante “non solo per gli studi romanistici e per quelli sui glossatori civilisti, ma anche per il diritto canonico classico poiché la repressione dell’eresia nel Medio Evo non è certo un fenomeno giuridico nuovo in quanto, appunto, era già stato conosciuto dall’antichità cristiana”. Si sottolinea, tuttavia, che i glossatori civilisti, ed in ugual modo i canonisti, ignorarono una parte della normativa romana diretta contro l’eretico, perché redatta in lingua greca, ed inoltre, che la compilazione giustinianea venne interpretata sistematicamente senza seguire un criterio storico. Queste circostanze “rendono molto interessante un confronto tra il concetto di eresia nel diritto romano-cristiano e nel diritto canonico classico, per capire se esso sia rimasto il medesimo in entrambi i periodi considerati e capire se la scienza del diritto canonico posteriore si sia sviluppata su di una nozione diversa da quella del diritto romano-cristiano”.

Dopo aver sottolineato nel primo capitolo della prima parte (Aspetti generali dei rapporti tra Chiesa e Impero da Costantino a Giustiniano) come l’etica cristiana abbia comportato, tramite un processo graduale, un mutamento di valori nella società, nel secondo capitolo, Il problema dell’eresia nei primi tre secoli della Chiesa, il Maceratini procede all’esame dell’iter semantico del termine eresia utilizzato nel Vecchio e nel Nuovo Testamento nel generico significato di scelta, senza l’attribuzione di alcun giudizio negativo. In seguito “tale termine da un lato venne impiegato con una connotazione di sfavore per indicare “religioni” o sette estranee o, almeno, in forte contrapposizione a quella ebraica, dall’altro è stato utilizzato dagli Apostoli per affermare una realtà che si contrappone alla Chiesa”. Per ciò che attiene al rapporto tra peccato e reato, l’A. procede all’analisi degli scritti neotestamentari e patristici. Per la prima volta fu Ignazio di Antiochia a delineare l’eresia come delitto-peccato, “il quale riprende le trasgressioni contro l’unità di governo della comunità e contro l’integrità della fede che è ad essa strettamente connessa”. Nell’ordinamento canonico del periodo in esame l’eresia viene qualificata come un delitto contro la fede e contro l’unità della Chiesa, la cui sanzione, per quanto attiene al foro esterno, consiste nella scomunica.

Il terzo capitolo, L’eresia nel Codice Teodosiano e nel Codice Giustiniano, è dedicato all’analisi della terminologia usata nelle due compilazioni, nelle quali la stessa eresia viene configurata come reato, mentre nel quarto (Gli eretici), il Maceratini sottolinea come la materia della fede fosse collocata nel Codex Theodosianus nel sedicesimo libro, a differenza che nel Codex Iustiniani, dove era posta nel primo. Inoltre, nella compilazione giustinianea la costituzione con la quale il cristianesimo diviene religione ufficiale è collocata al primo posto, mentre nell’altro codice essa viene posposta ad un’altra norma meno rilevante. Questo fatto mostra l’importanza data da Giustiniano alle problematiche relative alla fede: con questo imperatore giunge anche al culmine la tendenza a dilatare sempre più il concetto di eretico, sino a comprendervi anche i lievi dissensi con la fede ufficiale.

Per ciò che riguarda le pene, all’eretico veniva comminata la morte solo in casi particolarmente gravi, mentre tra le pene normalmente applicate si ritrovano l’esilio (accompagnato dalla confisca dei beni) visto come distacco dalla comunità, il metallum, spesso irrogato con la fustigazione agli humiliores in via sostitutiva rispetto alla confisca e alla multa, le sanzioni corporali e le multae. Inoltre, quando il cristianesimo divenne religione ufficiale si affermò il principio secondo cui esclusivamente l’ortodosso cattolico godeva della pienezza dei diritti civili: di conseguenza l’eterodosso subiva diverse limitazioni di diritto privato e di diritto pubblico. Nel Codex Theodosianus la conversione all’ortodossia annullava gli effetti penali e civili del reato di eresia. Tale principio venne recepito nel codice giustinianeo e con il pentimento e la conversione il beneficio era concesso all’eretico, ma non all’apostata. Anche nelle Novelle si ritrovano costituzioni in cui si applicava a casi specifici il principio generale che la conversione estingue il reato. Secondo l’A., “il legislatore, pur ritenendo l’eresia uno dei delitti peggiori ed il più pericoloso per l’unità della fede, considera gli eretici ancora figli, per quanto degeneri, della Chiesa ai quali tende la mano almeno fino a che non sia da escludere ogni loro possibilità di ravvedimento”.

La seconda parte si apre con il quinto capitolo, Breve indagine sullo stato del problema nella legislazione e in opere giuridiche alto medievali, nonché in autori e collezioni immediatamente precedenti Graziano ed Irnerio, nel quale il Maceratini evidenzia il riproporsi del problema dell’eresia nell’XI e nel XII secolo, nonché la costante presenza nella Chiesa di una normativa antiereticale. Nel sesto capitolo (Le causae XXIII e XXIV del Decretum Gratiani e riferimenti al rapporto tra diritto romano e diritto canonico) l’A. si occupa delle relazioni tra le norme civili e canoniche prima di Graziano, e dell’opera di questo esponente di spicco della scuola di Bologna. Il Maceratini rileva come nel suo Decretum il maestro bolognese “non ignorasse affatto il diritto romano che egli, con molta probabilità, ha tratto da fonti canoniche e ispirandosi anche ai primi commentatori romanisti”. Tuttavia l’utilizzo di tali fonti fu prudente e mediato in quanto “un loro uso eccessivo poteva ingenerare l’idea di una Chiesa subordinata all’Impero”. Dall’esame degli scritti di Graziano l’A. trae alcune conclusioni: “La prima è che in Graziano, logicamente, è più approfondito l’aspetto relativo alle conseguenze canoniche, con il particolare riguardo ai sacramenti, che non quelle civili. Altro punto da mettere in evidenza è che, conseguentemente, gli aspetti civili dell’eresia (si intende il termine civile in senso lato come contrapposto a canonico e quindi comprendente anche il diritto penale) sono considerati mezzi per far riacquistare all’eretico l’unità con la Chiesa Cattolica, più che come pene in se stesse. Infine che, nel discorso sulla posizione giuridica dell’eretico non si può prescindere anche dal considerare l’influenza che su questo problema ha avuto anche la legislazione contro la simonia, e che non è sempre agevole distinguere quando una norma si riferisca all’uno o all’altro dei reati, il che, relativamente a questo problema, porta ad una situazione di ambiguità ineliminabile, come ineliminabile del resto è sempre stata la considerazione della simonia in questo periodo”. Nella seconda metà dell’XI secolo crebbe l’attenzione per la normativa giustinianea, ma solo per le opere redatte in latino “si svolse il lavoro fecondo della loro esegesi e solo esse esercitarono la loro influenza, subendola a loro volta, nell’ambiente culturale e normativo circostante”.

Il settimo capitolo, I glossatori civilisti da Irnerio all’Apparato Palatino, è dedicato alla trattazione della materia in esame nel diritto civile del periodo indicato, sempre tenendo presenti gli influssi del diritto romano e del diritto canonico. Pertanto l’A. procede ad un excursus delle opere della glossa, in cui si evidenziano i richiami in materia al Codice di Giustiniano e la preponderanza nella trattazione degli aspetti civili su quelli penali dell’eresia, per passare poi, nell’ottavo capitolo (La legislazione delle decretali da Graziano alla “I Compilatio Antiqua”), alla descrizione del contenuto di alcune collezioni di decretali frutto della attività legislativa pontificia, nelle quali prevale, per ciò che attiene al concetto di eretico, “l’indicazione delle varie sette che sono oggetto dei provvedimenti più che la sua stessa definizione”. Le fonti considerate in modo unanime affermano che la pena canonica principale per l’eterodosso e per chiunque lo favorisse consisteva nella scomunica, alla quale seguiva la consegna all’autorità secolare.

Nel nono capitolo, I decretisti sino al decennio precedente la “I Compilatio Antiqua”, il Maceratini esamina le opere di commento a Graziano della scuola di Bologna, di quella franco-renana e anglo-normanna con riferimento ai temi oggetto della ricerca, tra i quali la definizione dell’eretico, i rapporti tra eresia e sacramento, la classificazione degli eretici, il rientro dell’eterodosso alla Chiesa, la condanna post mortem dell’eretico. L’ultimo capitolo, I decretisti del decennio precedente alla “I Compilatio Antiqua”, è dedicato all’esame di una serie di opere che vanno dalla Summa di Simone da Bisignano alla Summa ‘De iure canonico tractaturus’, per ognuna delle quali l’A. illustra gli apporti al tema in questione, nei suoi diversi aspetti.

 

È apparso, per la casa editrice Giuffrè, il volume di G. Luchetti, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1996. Nella Premessa l’A. indica che l’oggetto della ricerca consiste non solo e non tanto nell’individuazione delle singole costituzioni riportate nelle Institutiones Iustiniani, “quanto piuttosto nel tentativo di valutare nei suoi vari aspetti l’atteggiamento assunto dai compilatori nei confronti dei testi normativi provenienti dalla cancelleria così come può desumersi dal confronto testuale tra i passi istituzionali, che presentano citazioni della legislazione imperiale o rinvii ad essa, e i testi stessi delle costituzioni richiamate”.

Nei quattro capitoli seguenti (Il primo libro delle Istituzioni, Il secondo libro delle Istituzioni, Il terzo libro delle Istituzioni, Il quarto libro delle Istituzioni) il Luchetti procede all’esame testuale delle citazioni delle constitutiones principis presenti nel manuale istituzionale giustinianeo. L’analisi condotta rivela nei quattro libri, in particolare nel secondo, una prevalenza di rinvii alla normativa imperiale e, soprattutto, la preponderanza dei richiami alle costituzioni giustinianee emanate negli anni 530-531, periodo in cui “possono ricondursi l’ampia maggioranza dei riferimenti istituzionali”. Inoltre, nei primi due libri è dato ampio spazio a numerose citazioni di costituzioni dell’epoca del principato. L’A. sottolinea una linea di tendenza: “Nonostante la relativamente nutrita rappresentanza di costituzioni che pure dovevano far parte del Novus Iustinianus Codex, appare confermata la riluttanza dei compilatori a ricordarne l’inserimento nella raccolta di leges e a citarle piuttosto, al pari delle altre, come materiali estravaganti”.

Nelle Conclusioni il Luchetti evidenzia “le difficoltà di dare esaurientemente conto, in un quadro sintetico conclusivo, dei molteplici motivi di interesse che emergono da un’analisi che investe trasversalmente l’intero testo delle Institutiones giustinianee con riferimento tra l’altro ad un aspetto (in cui trovano principale espressione l’aggiornamento e l’attualizzazione dell’esposizione istituzionale) tra i più delicati dell’intero manuale ed in cui certamente si esprime maggiormente l’apporto creativo dei compilatori”. Rappresentano comunque interessanti spunti di riflessione: la prevalenza dei rinvii alla normativa di Giustiniano; la tendenza dei compilatori a non citare direttamente il Novus Codex, probabilmente indicativa del fatto che la raccolta di leges veniva considerata come superata; la mancanza di costituzioni di Giustiniano databili dopo il 1° dicembre del 531 e comunque prima del 17 novembre del 533, ciò che induce a ritenere che l’elaborazione del manuale istituzionale debba collocarsi ben prima di quanto non tenda a fare la dottrina prevalente; il fatto che la legislazione intermedia venga ricordata senza attribuzione esplicita, circostanza che illustra “la volontà dei compilatori di sottolineare una certa frattura con il passato meno recente forse anche per la riluttanza a ricordare l’opera legislativa di imperatori, come in particolare Costantino e Teodosio II, che, sia pure per motivi diversi, potevano in qualche modo oscurare la grandezza dell’opera legislativa e compilatoria giustinianea”.

Sotto il profilo dei contenuti, infine, il testo istituzionale si mostra “come vero e proprio trait d’union tra il mondo della scuola e quello della pratica”, e presenta quindi “un quadro in cui accanto alla componente propagandistica, che pure in alcuni casi determina superficialità e imprecisione, trova spazio una consapevole e profonda riflessione storica che, a fianco delle tendenze classicistiche tipiche della scuola, produce spesso, rispetto alla legislazione imperiale, un maggior rigore sul piano sostanziale e terminologico ed in ultima analisi una più attenta e meditata riflessione dogmatica che peraltro talvolta … non esclude neppure estensioni ed integrazioni dell’originario dettato normativo delle costituzioni richiamate dai compilatori”.

 

In riferimento a particolari aspetti della normativa recenziore di Giustiniano segnaliamo il volume di G. Lanata, Società e diritto nel mondo tardo antico. Sei saggi sulle Novelle giustinianee, Giappichelli, Torino 1994, che raccoglie una serie di saggi già pubblicati in altri luoghi.

Nel primo saggio, Morire di chirurgia o morire di polizia? Variazioni sulla Novella 13, l’A. prende lo spunto da alcuni versi di Pallada, - in cui l’epigrammista chiede se sia meglio cadere in mano di Egemone “l’ammazzabriganti”, il quale applica la giustizia nel rispetto della legalità, od essere uccisi dal chirurgo Gennadio che per il suo intervento pretende anche l’onorario - per evidenziare i tentativi di Giustiniano volti a reprimere la “cattiva abitudine dei magistrati giusdicenti di farsi sostituire, nell’amministrazione della giustizia criminale, da funzionari di polizia o da avidi quadri militari privi di preparazione giuridica. In questa penosa situazione, come in molti altri casi, Giustiniano imbocca la strada della legalità formale, nel presupposto che una più rigorosa attribuzione di compiti e una più stretta osservanza delle costituzioni imperiali possa bastare da sola a migliorare lo stato della giustizia”. Ma la circostanza che tali istruzioni venissero ribadite nel corso di un ventennio “tradisce da un lato l’incapacità del legislatore di fornire un’analisi del fenomeno del banditismo che non si limiti alle solite astratte lagnanze sulla corruzione; dall’altro lato, e conseguentemente, essa è un sintomo dell’importanza dell’apparato statuale nell’ideare autentici progetti di riforma, o anche solo nel ristabilire la legalità”.

In Figure dell’altro nella legislazione giustinianea la Lanata si chiede “se certe forme di dichiarata benevolenza nei confronti di alcune figure sociali come ad esempio quella dell’ágroikos, del contadino, non finiscano per integrare forme più o meno radicali di esclusione. E sorge in certi momenti il sospetto che la legislazione giustinianea concorra a celare, non menzionandole, altre forme di marginalità che pure hanno lasciato tracce oblique di sé”. Ed in effetti, secondo l’A., “la concessione di esenzioni apparentemente favorevoli finisce col rendere una parte dei sudditi, diseredati, contadini, soldati semplici, una sorta di specie separata a cui non si applicano, o si applicano solo in minima parte, le regole e i valori “normali””, si è in presenza, quindi, della “asserzione di una vera e propria alterità”. Per i casi di anormalità Giustiniano nelle sue norme si scontra con omosessuali, eretici e pagani con un “lessico dell’odio” ed un linguaggio che fa riferimento all’impurità, alla malattia ed alla follia. Inoltre la presenza nelle costituzioni giustinianee di numerosi richiami ad istituzioni filantropiche fa pensare che vere e proprie bande di malati e di diseredati vagassero nell’impero, e che in tali luoghi, in cui venivano ospitati, essi fossero così separati dal resto della comunità. Forse “fra i malati o i mendichi veri, in provincia, avrebbe potuto ritrovarsi anche qualche pagano condannato a scontare il suo esilio nello “xenodochio dei malati””. Per la Lanata “di fronte a queste figure della marginalità estrema, per cui non c’è posto nei testi legislativi né in quelli letterari, e che trovano qualche accoglienza solo in quelli agiografici, la reazione dei normali sembra dunque essere stata in epoca giustinianea quella della segregazione; non, per altro, quella della marginalizzazione o dell’espulsione rispetto al territorio urbano”.

Nel terzo saggio, Sul vocabolario della legge nelle Novelle, l’A. si propone “di verificare quali risultati si potevano ottenere con una strategia di questo tipo: annettere al “vocabolario della legge” alcuni termini significativi che ricorrono frequentemente nei contesti di enunciati normativi novellari in cui figurino contemporaneamente le parole nómos, diátaxis eccetera”. In tale prospettiva la Lanata evidenzia come Giustiniano, per introdurre nella coscienza sociale le proprie leggi, si avvalesse di vari strumenti, quali la pubblicità delle norme e l’utilizzo di un linguaggio capace di offrire ai destinatari “una chiave di lettura che metta in luce, nella formulazione della regola, i vantaggi che potrebbero sfuggire a una lettura troppo rapida; bisogna inserire degli indicatori che evidenziano lo sforzo del legislatore per formulare un testo che non sia né risibile, kataghélastos, né degno di disprezzo, kataphrónesis, né duro, pikrós, né oppressivo, thliberós”. Inoltre l’imperatore ripropone in modo continuo “lo stesso messaggio in nuove stesure che non sono quasi mai identiche alle precedenti, ma comportano variazioni redazionali e stilistiche più o meno rilevanti”: tuttavia la ridondanza non indica inefficacia della legge, ma ne favorisce la trasmissione e la pubblicità.

Nell’articolo successivo, L’immortalità artificiale. Appunti sulla Novella 22, l’A. rileva che le novelle pubblicate tra il 535 ed il 542, redatte in prevalenza da Triboniano, sono ispirate a principi neoplatonici, per cui la norma, anche se eterna, deve essere dinamicamente adattata alle mutazioni della natura. Nella Novella 22, che regola le seconde nozze, si rinviene il principio secondo cui il matrimonio, in base ad un’ottica non cristiana, è dissolubile. Inoltre, è evidente l’influsso del pensiero platonico secondo cui le nozze sono una forma di “immortalità artificiale” per il genere umano, attraverso il perpetuarsi delle generazioni. Sicuramente l’estensore di tali principi filosofici fu Triboniano, e comunque “questo particolare frammento di eredità platonica era leggibile anche in una prospettiva cristiana, era tranquillamente accettabile sia da parte di Giustiniano che da parte del suo “coltissimo” e “ateo” braccio destro pagano”.

Il quinto studio, I figli della passione. Appunti sulla Novella 74, è una riflessione sul testo novellare emanato il 4 giugno del 538, il quale si occupa della legittimazione dei figli naturali e degli instrumenta nuziali. La tutela dei figli illegittimi si ispira ad un principio paragonato a quello del favor libertatis, e la norma esprime una convinzione giusnaturalista di ascendenza pagana. Infatti, lo stesso testo denuncia “il carattere puramente giuridico, ed estraneo a un originario stato di natura, della condizione di schiavo come di quella di figlio naturale”. Si comprende come tali figli siano frutto di pulsioni amorose, comportamenti questi che devono essere temperati da interventi legislativi, e la visione della passione come di una follia ha è un tema presente nella tradizione platonica: lo stesso Platone, infatti, nel Fedro analizza le quattro follie in cui ricomprende quella amorosa. Di fronte alla Novella 74, secondo la Lanata: “ci troviamo, da un lato, implicati in quel complesso gioco di specchi, così frequente nel mondo tardo-antico, per cui un linguaggio pagano può rimandare a un referente cristiano. Ma non è nemmeno escluso che ci troviamo di fronte a un testo in cui un rigorismo etico fondato su una dottrina filosofica pagana viene a coincidere, fatti salvi i presupposti, con le esigenze di un’etica cristiana”.

La sesta ricerca, “Aliud vates, aliud interpres”. La Novella 146 di Giustiniano, i Settanta, Aquila, inizia con la traduzione della costituzione, riguardante i giudei, in quanto “la hermeneía in una lingua moderna costituisce pur sempre la prima forma di interpretazione”. L’intervento imperiale, che andava a colpire l’autonomia religiosa dell'ebraismo, con certezza fu sollecitato da una delle comunità giudaiche in conflitto tra loro circa la lettura delle scritture bibliche in israeliano od in greco. L’iniziativa proveniva dalla fazione di coloro che accettavano la lettura della Bibbia anche in lingua greca; tuttavia “nello sposare la tesi degli “ellenisti” Giustiniano va, sotto molti aspetti, ben oltre la loro richiesta, ammettendo fra l’altro la liceità anche del latino o di qualsiasi altra lingua risultasse più familiare agli ascoltatori. La comprensibilità del messaggio ottenuta attraverso le scelte linguistiche è una preoccupazione attestata anche altrove nelle Novelle, e fu certo uno dei motivi che orientarono il bilinguismo giustinianeo”.

In Appendice viene riportato il saggio Vicende storiche del diritto romano, in cui si rievocano “alcune forme di una esperienza giuridica, ricordando in apertura che la definizione romana di molti istituti ha segnato potentemente non solo la storia, ma anche l’immaginario giuridico dell’Occidente”. I punti ai quali l’A. presta attenzione in tale excursus sono: “1) alcune forme di produzione del diritto dall’età regia alla fine della Repubblica; 2) l’“invenzione” della giurisprudenza; 3) il principe, il giurista, l’ecumene imperiale; 4) il diritto codificato della tarda antichità”.

 

 

 

II

 

Il complesso argomento della normazione nel periodo tardo imperiale è stato l’oggetto di studi di recente pubblicazione: G. Barone-Adesi, Ricerche sui “corpora” normativi dell’impero romano. 1 - I “corpora” degli “iura” tardoimperiali, Giappichelli, Torino 1998; La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), a cura di P. O. Cuneo, (Accademia Romanistica Costantiniana, Materiali per una palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali, sotto la direzione di M. Sargenti, serie seconda, 2), Giuffrè, Milano 1997; A. S. Scarcella, La legislazione di Leone I, Giuffrè, Milano 1997; D. Dalla, Note minime di un lettore delle Istituzioni di Giustiniano. Libro I, Giappichelli, Torino 1998; E. Franciosi, Riforme istituzionali e funzioni giurisdizionali nelle Novelle di Giustiniano. Studi su Nov. 13 e Nov. 80, Giuffrè, Milano 1998; F. De Marini Avonzo, Dall’Impero Cristiano al Medioevo. Studi sul diritto tardoantico, Keip, Goldbach 2001.

 

          L’opera del Barone-Adesi analizza le fonti normative tardoimperiali che, inserite nel loro contesto storico, non costituiscono “soltanto brandelli di diritto classico, travisato o del tutto travolto dalla decadenza bassoimperiale, ma anche i presupposti delle successive soluzioni giustinianee”. Il primo capitolo, La tradizione occidentale, tratta della trasmissione e della circolazione dei corpora normativi nella pars Occidentis. A tale proposito, l’A. rigetta la tradizionale bipartizione dottrinale delle fonti tardoimperiali in iura e leges, che riservava per le costituzioni imperiali un ruolo preminente. Infatti, si tratta di una distinzione che non trova riscontro nei testi, e presenta inoltre “il rischio di minimizzare” la basilare “complementarietà” che nel periodo intercorreva tra materiale giurisprudenziale e norme imperiali, entrambi definiti iura dalle fonti dell’epoca. Fin dall’età di Diocleziano si ritrova questa complementarietà, in quanto i codici Gregoriano ed Ermogeniano rappresentano l’opera di compilazione e di revisione delle disposizioni imperali (rescripta) interpretative dei corpora giurisprudenziali, effettuata da esperti di diritto. L’azione di questi giuristi-burocrati era tesa alla trasmissione della tradizione classica da accordare con il diritto vigente, senza però produrre nuove opere d’esegesi, per niente favorite dall’imperatore, solo interprete del ius novum. Da questo, si arrivò ad una cristallizzazione dei corpora giurisprudenziali. Nel IV e V secolo ci fu una trasmissione ed una circolazione insieme alle codificazioni di costituzioni imperiali dei corpora che contenevano le opere e le opinioni dei giuristi probabilmente maggiormente utilizzati nella prassi forense. La diffusione privata poteva ingenerare dubbi d’autenticità, e ciò portò l’autorità imperiale a stabilire dei criteri idonei. Costantino con due costituzioni conservate in CTh. 1, 4, 1 e 2, cercò di porre soluzione alle discussioni sorte nella scientia iuris occidentale sui contenuti dottrinari e sulla autenticità dei testi giurisprudenziali. Tuttavia, si deve registrare l’assenza di norme imperiali relative ai corpora giurisprudenziali da Costantino a Valentiniano III. Quest’ultimo imperatore infatti dispose nel 426 una disciplina in base alla quale si sancirono i requisiti formali per la determinazione di quale disposizione imperiale si dovesse considerare norma generale vigente, come risposta alle contingenti esigenze sorte nei tribunali. Inoltre, si sancì, canonizzando cinque corpora, quali opere giurisprudenziali fossero ius vigente utilizzabile nella prassi.

          Nel secondo capitolo, La tradizione orientale, l’indagine si incentra sulla pars Orientis. Fino a Giustiniano l’Oriente si sarebbe attenuto alla oratio di Valentiniano III del 426. Tuttavia, la prospettiva delle due cancellerie era differente, poiché se in Occidente si cercava di assicurare un rapido accertamento, dell’autenticità e della generalità della normativa da utilizzare nei tribunali, nella parte orientale ci si prefiggeva nel 429 (CTh. 1, 1, 5) un ampio progetto di compilazione di tutte le norme vigenti, da cui emergeva una profonda cesura tra il ius vetus dei legislatori pagani, e il ius novum propugnato da Costantino. Secondo il programma prospettato da Teodosio II si doveva codificare un corpus universum della normativa generale di Costantino e dei successori. Si progettava la redazione di due codici, dei quali il primo avrebbe dovuto raccogliere le costituzioni con carattere edittale e generale sia in vigore, sia prive di vigenza, per corrispondere ad istanze scientifiche e accademiche; il secondo doveva contenere la legislazione generale vigente, cioè disposizioni imperiali e materiali giurisprudenziali, rispondendo così alle attese degli operatori giudiziari. Non si conoscono i lavori di questa commissione che non portò a termine il proprio compito; nel 435 una nuova costituzione (CTh. 1, 1, 6) dispose la redazione di un unico codice in cui raccogliere le disposizioni generali vigenti da Costantino in poi, ed il progetto fu portato a termine con la pubblicazione del Codex Theodosianus. La compilazione terminò nel 437: nella novella del 15 febbraio 438 (Nov.Th. 1) Teodosio II esprime la sua soddisfazione per il Codex, per l’utilità pratica, vista la grande massa delle costituzioni imperiali. Dalla entrata in vigore del Teodosiano, le costituzioni assenti nel codice non avevano vigore, ma si potevano ancora produrre nella prassi giuridica quotidiana testi di norme generali tratte da fonti non ufficiali, a condizione che si facesse la collazione con le copie autentiche del Codice.

          L’ultimo capitolo si occupa de La trasmissione ecclesiastica della legislazione imperiale. Con il riconoscimento della Chiesa cattolica, sancito da Costantino, si ebbe la redazione nel IV secolo di raccolte della disciplina canonica. In tali collezioni, oltre alle fonti patristiche, sono presenti anche diverse costituzioni imperiali relative alla legislazione religiosa. Determinante, in tale ambito, è il corpus delle opere storiche del vescovo Eusebio di Cesarea che attestano la politica di cristianizzazione perseguita da Costantino dal 313. Nelle fonti patristiche si ritrovano non solo exempla della normativa religiosa di Costantino e dei suoi successori, ma anche le deliberazioni sinodali che sollecitavano determinate disposizioni legislative. Esempi di tali istanze sono quelle dell’episcopato cattolico africano, del periodo 399-419, raccolte nel registro ecclesiae Carthaginensis, volte in particolar modo alla soppressione dei culti pagani, e che furono accolte nel Codice Teodosiano. Nella compilazione di Teodosio II il diritto ecclesiastico, rispetto al Codice giustinianeo, non fu raccolto in un unico libro in quanto i suoi compilatori dovettero “codificare non soltanto una disciplina speciale, inseribile in ambiti idonei ad accogliere i titoli menzionati, ma … configurare anche tutta la legislazione religiosa alla luce delle concezioni cristiane vigenti”. Tuttavia, nei corpora della disciplina cattolica del periodo si rileva “un misterioso silenzio” nei confronti della compilazione teodosiana, forse perché nei sinodi si seguì l’indirizzo di favorire la stesura e la trasmissione di corpora conformi “alla tradizione ecclesiastica, destinata a rimanere anche in seguito estranea, per non dire restia, ai principi codificatori faticosamente conseguiti dalla legislazione imperiale mediamente la compilazione teodosiana”.

 

          Nella Presentazione della ricerca curata dalla Cuneo, il direttore della collana sottolinea come l’opera, che si rivolge “ad uno dei periodi più complessi e delicati dell’attività normativa tardoimperiale”, vada a contribuire al lavoro avviato dall’Accademia Romanistica Costantiniana, teso a ricostruire il corpus delle leges tardo imperiali “il cui studio troppo spesso si appaga acriticamente delle indicazioni fornite dall’edizione del Mommsen e dai Regesten del Seeck”.

          Nell’Introduzione la Cuneo presenta una ricostruzione degli eventi storici, ed espone i problemi relativi alla attività normativa, nonché le linee della legislazione degli anni 337-361. Nell’esposizione del quadro storico si rileva la difficoltà di procedere ad una ricostruzione a causa della natura e dello stato delle fonti. Infatti, i primi libri delle importantissime Res Gestae di Ammiano, che riguardavano gli eventi fino al 353, sono andati perduti, e le fonti storiografiche per il periodo non coperto dalle Storie di Ammiano risultano alquanto sintetiche. Esclusivamente sulla base dei dati forniti dalle fonti, vengono ricostruiti quei particolari eventi che incisero sull’assetto dell’impero, e che muovono dal 22 maggio 337, data dalla morte di Costantino il Grande. Si aprì, infatti, un periodo di interregno, finché, il 9 settembre dello stesso anno Costantino, Costanzo e Costante, i suoi 3 figli, divennero ufficialmente Augusti, ripartendosi, così, il governo dell’impero. Dalle testimonianze antiche non risulta chiara la ripartizione dei territori: “Certamente dietro la facciata di un Impero ben organizzato e diviso in modo concorde tra i fratelli doveva esistere una situazione tutt’altro che chiara e pacifica”. Dopo vari avvenimenti l’impero nel 351 venne riunificato sotto Costanzo fino alla sua morte improvvisa, avvenuta il 3 novembre del 361. Aveva termine così “un periodo storico complesso e tormentato, di cui i figli di Costantino si erano trovati ad affrontare gli eventi senza possedere, probabilmente, le doti e la statura che avevano consentito al loro padre di prevalere sugli avversari, di riunificare l’Impero e di dargli un assetto per vari aspetti nuovo”. Per ciò che attiene alla ricostruzione della legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante, questa risulta “fortemente condizionata oltre che dai fattori di incertezza comuni a tutta la legislazione del tardo Impero, dall’incertezza della situazione politico-istituzionale”. Tra il materiale conservato nei codici sono 235 le costituzioni emanate nel periodo 337-361 riportate nel Codice Teodosiano, e solo 62 di queste sono conservate nel Codice di Giustiniano insieme con altre 12. Tuttavia, alcune di queste leggi sono in realtà frammenti di un’unica costituzione smembrata dai compilatori del Teodosiano, ed il testo sovente è stato modificato. Nella ricostruzione del quadro normativo vengono affrontati i vari problemi di datazione, di attribuzione, di applicazione delle costituzioni. Queste questioni, per la pluralità di titolari del potere, sono notevoli e rendono la ricostruzione assai difficile e i risultati altamente incerti, pur permanendo, secondo l’A., una sostanziale unità normativa dell’impero. Per ciò che attiene alle linee della legislazione del periodo 337-361, si riscontra una certa continuità rispetto all’opera già avviata da Costantino il Grande, sebbene anche i suoi figli abbiano dato un proprio apporto. I più importanti interventi legislativi dei figli di Costantino riguardano la materia testamentaria, l’ordinamento delle curie municipali, il processo, la materia criminale e la politica religiosa, mentre, come del resto in tutta la legislazione tardo imperiale, viene dato scarso spazio alle materie civilistiche.

          In seguito vengono riportati i Testi annotati, dall’edizione del Mommsen per il Codice Teodosiano, e da quella del Krüger per il Codex di Giustiniano. La disposizione dei testi segue l’ordine cronologico sulla base delle riflessioni fatte nell’Introduzione e nelle note poste nelle singole costituzioni. Conformemente a ciò che è indicato nelle note, vengono introdotte nelle inscriptiones e nelle subscriptiones alcune varianti relative alla datazione e alla paternità.

 

          Il lavoro della Scarcella si occupa della normativa di Leone I, imperatore orientale proclamato nel febbraio del 457 “per rivestire un ruolo puramente decorativo”, tesa a dimostrare la propria auctoritas. Nell’Introduzione si procede ad offrire una esposizione delle vicende storiche del V secolo, e a tracciare le caratteristiche del governo di tale imperatore, potere segnato da un dissidio costante con il potente magister militum Aspar. L’imperatore cercò di rafforzare il comando centrale, e a tal fine egli adottò una politica antigermanica; inoltre sostenne la dottrina cattolico-ortodossa sancita dal concilio di Calcedonia, mostrando così un interesse per i problemi religiosi che si dibattevano. Nello sforzo di consolidamento del governo, egli si adoperò per la sua organizzazione, tesa alla prosperità dei sudditi e del regno. I suoi provvedimenti normativi sono stati conservati nel Codice di Giustiniano, nelle Novelle post-teodosiane e anche nel Libro Siro-Romano. Nella ricerca queste norme sono state analizzate sulla base dei loro aspetti formali, cioè della paternità e dei destinatari, della cronologia, della natura, dello stile e della loro autenticità. Tali costituzioni ebbero tutte una efficacia generale che emerge dal loro “linguaggio magniloquente e solenne, ora corredato da superflue giustificazioni, ora da esaltazioni della saggezza e dei fondamenti morali”. Con tutta probabilità, le costituzioni leonine subirono dei rimaneggiamenti da parte dei compilatori giustinianei, pur trattandosi di interpolazioni di carattere esclusivamente formale.

          L’esegesi della normazione di Leone I si sviluppa sulla base del contenuto, e nel primo capitolo, Le costituzioni di diritto privato, l’A. esamina la materia civilistica. L’analisi è articolata in diverse sezioni, “secondo un ordine ispirato alla sistematica dei moderni manuali istituzionali”. La prima sezione dedicata alle Fonti del diritto, mostra le cause ispiratrici della politica di Leone I. In particolar modo l’esame esegetico fa emergere, fin dal 468 (C. 1, 14, 10), la concezione sottesa ai rapporti tra l’imperatore e l’ordinamento giuridico, concezione molto vicina alla idea giustinianea, secondo cui il diritto privato si estende a tutta la collettività, ma spetta comunque all’imperatore la funzione creatrice delle norme. La stessa consuetudo, di cui si ribadisce la rilevanza, è vincolata alla ratio dell’imperatore, avvicinandosi così alla consuetudo secundum legem delineata da Giustiniano. Nella sezione successiva vengono analizzate le costituzioni relative al Diritto delle persone e della famiglia. Successioni. Il quadro che emerge presenta una politica, modellata ai principi della Chiesa, tesa a tutelare l’integrità e la dignità dell’uomo ed a considerare la morale come entità interna all’ordinamento giuridico. Questo orientamento fu attuato, in particolare, con l’inasprimento delle sanzioni per il lenocinio (C. 11, 41, 7), e con il divieto del commercio di schiavi eunuchi romani (C. 4, 42, 2). Nel diritto di famiglia vengono tenute in gran considerazione le esigenze della persona fondate sul diritto naturale, per cui si afferma il principio dell’eguaglianza dei discendenti (C. 6, 20, 17) e si parificano i diritti ereditari del figlio naturale rispetto a quelli legittimi conferendo all’oblatio curiae un’efficacia legittimante (C. 5, 27, 4). Inoltre, Leone I, nell’occuparsi del regime giuridico dei beni familiari, mostra una particolare avversione, anche questa mediata dalla fede cattolica, per le seconde nozze, ad esempio con la restituzione successoria ai figli di primo letto a danno del nuovo coniuge (C. 5, 9, 6). Ispirata all’insegnamento di papa Leone Magno, la normativa leonina pose delle disposizioni contro lo scioglimento del fidanzamento, assimilato al matrimonio (C. 1, 4, 16; 5, 1, 5), e tese inoltre a rimuovere alcuni impedimenti sociali al matrimonio, sacramento esortato dal Cristianesimo (C. 5, 6, 8, con la quale si limitava il divieto di nozze tra la pupilla ed il tutore). Il Diritto delle obbligazioni è la materia delle costituzioni studiate nella terza sezione, dalla quale affiorano gli aspetti caratteristici della normativa dell’imperatore. Viene superato il rigido formalismo con la valorizzazione dell’elemento soggettivo, in particolare con la legge in materia di stipulatio (C. 8, 17, 11) e si afferma la volontà di far valere la veritas nell’instrumentum privatum (C, 2, 4, 42). L’influenza del dettato di papa Leone Magno, che considerava le donazioni come manifestazione di benignitas Christiana, è da ritrovarsi nel favor donationis espresso dall’imperatore nelle sue costituzioni inserite nella sezione quarta. Anche in questo caso emerge la valorizzazione dell’elemento soggettivo, in quanto il contratto di donazione trovava come fondamento la voluntas, e quindi si poteva concludere in qualsiasi forma (C. 1, 57, 1; 8, 53, 30).

          Il capitolo seguente, Le costituzioni in materia ecclesiastica, si sofferma sulle riforme religiose di Leone I, il quale, se per un breve periodo appoggiò l’Arianesimo a causa dell’influenza di Aspar, sostenne sempre l’ortodossia calcedonese. Nelle sue costituzioni si può trovare l’alta considerazione per il sacerdozio, che svolgeva una importante funzione all’interno dell’impero. In tale materia l’imperatore si discostò dalla precedente normativa, cercando di separare la sfera religiosa da quella profana, ed espresse un interesse per la gerarchia ecclesiastica offrendo la disciplina giuridica dell’ordinamento monastico (C. 1, 3, 29) e regolando l’elezione del vescovo (C. 1, 3, 30). In tale campo disciplinò positivamente alcuni usi che si erano affermati nella prassi, come il diritto di asilo nelle chiese (C. 1, 12, 6), e l’utilizzo di legati o dei fedecommessi che avevano lo scopo di redimere i prigionieri, compito affidato alla Chiesa (C. 1, 3, 28). Vennero, inoltre, attribuiti dei privilegi al clero, ad esempio sancendo la diversità di trattamento processuale per i religiosi (C. 1, 3, 32).

          Il terzo capitolo è dedicato alle Costituzioni sull’ordinamento giudiziario. Sulla base dei precetti cristiani viene data una connotazione morale e religiosa all’amministrazione della giustizia, ad esempio considerando la domenica come il giorno in cui si dovevano sospendere i giudizi e la professione forense (C. 3, 12, 9). La normativa in materia tendeva a far fronte a due esigenze: l’aumento del numero degli avvocati e l’ampio sviluppo dei tribunali speciali, dove troppo spesso si perpetravano degli abusi. Leone I infatti dettò una norma che introdusse sia nuovi requisiti per l’ammissione all’ordine, sia il numero chiuso (C. 2, 7, 11), e cercò di rendere difficile l’accesso al patrocinio giudiziario, considerato come servizio pubblico, con l’impedimento della mobilità all’interno dell’ordine (C. 2, 7, 12). Chi esercitava la professione forense doveva possedere una profonda preparazione giuridica, e doveva appartenere alla religione cattolica (C. 1, 4, 15). Il ruolo della avvocatura risultava fondamentale per l’impero e venne paragonato all’attività militare (C. 2, 7, 14). Per ciò che riguarda la riduzione della giurisdizione speciale al fine di limitarne gli abusi, si tese a semplificare, con l’estensione delle competenze giurisdizionali del magister officiorum (C. 11, 10, 6; 12, 5, 3; 12, 20, 4; 12, 25, 3; 12, 59, 8).

          Il quarto capitolo analizza, articolandosi in cinque sezioni, le Costituzioni riguardanti la pubblica amministrazione e la materia tributaria. Nell’esame della prima sezione, Burocrazia statale, emerge la volontà di centralizzare l’amministrazione e d’opporsi all’assenteismo (C. 12, 21, 7) e agli abusi dei funzionari. Tale politica si nota nella riorganizzazione della schola degli agentes in rebus (C. 12, 20, 3), di cui si definiscono le funzioni amministrative (C. 12, 20, 5), e nel controllo delle nomine che appare sempre più centralizzato (C. 12, 59, 10). La sezione seguente, Esercito, mostra l’intento di stabilire regole precise per disciplinare le milizie, importanti per la stabilità e la sicurezza dell’impero. In particolare, viene fatto divieto ai soldati di dedicarsi agli affari privati, per ottenere una partecipazione assidua alla vita militare (C. 4, 65, 31; 12, 35, 15-16). Il Commercio è la materia della terza sezione, regolata con il contrastare la formazione dei monopoli privati (C. 4, 59, 1), nel tentativo di favorire la produzione pubblica. Per ciò che attiene alle costituzioni relative alle Finanze, esaminate nella quarta sezione, emerge il tentativo di evitare l’evasione fiscale, nel quadro di una politica di perseguimento della utilitas publica, ad esempio con l’opposizione al patrocinium, istituto al quale ricorrevano i piccoli proprietari terrieri vessati dalle imposte, trasferendo la proprietà ai ricchi latifondisti. Nella quinta sezione, Città, si vede come l’imperatore, pur affrontando questioni marginali, volle incentivare l’effettivo svolgimento delle cariche curiali (C. 10, 32, 61-63), e incoraggiare l’autonomia locale, soprattutto limitando le forti influenze da parte dei governatori (C. 1, 36, 1; 1, 40, 15).

Nelle Conclusioni si evidenziano gli orientamenti generali della legislazione di Leone I, quali il riconoscimento di consuetudini avvalse nella prassi, la politica centralizzatrice, la tendenza unificatrice e semplificativa del regime giuridico degli istituti, la notevole influenza del Cristianesimo. Per quest’ultimo aspetto si deve rilevare come vi fosse in Leone I un nuovo modo di concepire la religione, l’imperatore, infatti, “non si limita a legiferare con la preoccupazione di salvaguardare anzitutto l’ordinamento esistente, ma prende in considerazione l’aspetto interno della Chiesa”. Per ciò che attiene alla legislazione leonina si può notare, inoltre, “una analogia di orientamenti” con la normativa di Giustiniano: “A Leone I, dunque, per le numerose modifiche apportate con la sua legislazione a soluzioni normative preesistenti ma soprattutto per aver compreso che alcuni principî su cui si basava l’ordinamento avevano bisogno di una diversa impostazione, va riconosciuta una inequivocabile posizione di spicco tra i predecessori di Giustiniano”.

 

          Il volume di Dalla, che riporta e commenta il primo libro delle Istituzioni giustinianee “florilegio-sintesi del ius controversum e delle innovazioni imperiali”, si pone come scopo quello di fissare per iscritto le riflessioni evidenziate durante la lettura del manuale imperiale, in occasione del corso di Diritto romano. Per questo motivo, a detta dello stesso A., il lavoro presenta alcuni limiti: emerge, infatti, un certo “aspetto ‘minimale’ ed episodico” a causa sia di un “impari rapporto con cotanta base testuale”, sia di un incompleto accoglimento, “nella massima brevità possibile”, degli innumerevoli impulsi forniti dalla monumentale opera di Giustiniano. Gli stessi titoli iniziali, infatti, sarebbero di per sé “contenitori” di gran parte della riflessione romanistica. Si sottolinea come, attraverso il commento del testo, non si pretenda di fornire una trattazione globale, in quanto il lavoro consiste in “un conglomerato, attorno alla traduzione, di prime osservazioni, seppur incomplete e diseguali”. Il materiale imperiale, che rappresenta “a suo modo, un ‘codice’”, risulta di estrema rilevanza in quanto una sua lettura analitica può ancora offrire istruttive riflessioni e utili collegamenti. Un’attenta analisi dei testi giustinianei offre un’ulteriore conferma della loro “natura di insostituibili ‘classici’ dell’esperienza giuridica, come tali rivolti al nostro tempo, per fornire esempi di soluzioni e di sistemi”.

          Dopo un’Introduzione di carattere storico, vengono in primo luogo riportate le costituzioni Imperatoriam e Omnem, a cui fa seguito il contenuto del primo libro delle Istituzioni. I testi riportano la traduzione a fronte, e sono corredati di rimandi e commenti rivolti sia alla interpretazione, con particolare riguardo alla Parafrasi di Teofilo, sia ad un raffronto con il passato, rappresentato da Gaio e dalla tradizione classica, e con il futuro, con le successive modifiche legislative; sia infine all’individuazione dei collegamenti interni al Corpus iuris, in cui le Institutiones “hanno funzione ora introduttiva ora di sintesi, ma da cui contemporaneamente presuppongono di essere integrate”. La traduzione e alcune rubriche sono arricchite da note, mentre il testo latino originale è munito di rinvii a fonti collegate “per derivazione o assonanza”, o a fonti a cui si fa espresso richiamo.

 

          Particolare riguardo alle riforme in campo pubblicistico nelle Novelle giustinianee è prestato dalla monografia della Franciosi. Il primo capitolo, Il riformismo e il classicismo pubblicistico di Giustiniano, mostra il generale movimento di riforma promosso dall’imperatore, volto alla restaurazione dell’unità intesa sotto diversi profili: territoriale, politica, istituzionale, legislativa e religiosa. All’interno di tale corso riformistico è da collocare la produzione legislativa novellare del periodo 535-539, a carattere prevalentemente pubblicistico, tesa a risolvere le gravi questioni legate “alla crisi dello Stato apertasi in coincidenza della fine dei lavori della Compilazione”. Dall’analisi delle leggi riformatrici emanate negli anni dal 535 al 539 si può ricostruire un disegno di innovazione, basato su principi omogenei ed unitari, “costruito con criteri di vera e propria ingegneria costituzionale”. In tale opera l’imperatore fu guidato dal suo classicismo pubblicistico, che lo spinse a riprodurre le antiche istituzioni “collaudate dall’esperienza e dalla storia ... per riportare la situazione contingente dallo stato di degrado alla condizione ottimale”.

          Nel secondo capitolo si fanno dei Cenni sulla giurisdizione in epoca giustinianea. V’è da premettere che durante il regno di Giustiniano la funzione giurisdizionale era normalmente inerente all’attività amministrativa, per cui “solo ripercorrendo la struttura burocratico-amministrativa dell’Impero” - sottolinea l’A. - “ed evidenziando la sfera di giurisdizione riservata a ciascun funzionario od organo, si può in qualche modo conoscere il sistema della giurisdizione ordinaria e delle eventuali giurisdizioni speciali o esclusive”. Risulta come, a Costantinopoli, l’esercizio della giurisdizione civile fosse talmente impegnativo per i funzionari, da far sorgere la “ineludibile” necessità di un numero maggiore di organi giudicanti. Tra gli interventi di Giustiniano sull’apparato giurisdizionale si ritrovano i provvedimenti che introducono due nuove magistrature oggetto di analisi nei capitoli successivi, Nov. 13 e l’istituzione del “praetor plebis” e Nov. 80 e l’istituzione del “quaesitor”. Le nuove cariche, dall’appellativo di risalenza classica che denota l’orientamento “classicistico”, rappresentavano delle “piccole, ma importanti tessere di un complesso ma armonioso mosaico bizantino”. Le due costituzioni in esame erano tese a risolvere il grave problema del sovraccarico funzionale della prefettura urbana, che stava compromettendone l’operatività, in quanto “ciò andava contro il principio dell’efficientismo ... propugnato come canone primario della funzione burocratica statale e periferica”. L’imperatore cercò anche di risanare il sistema, prevedendo che i due nuovi magistrati possedessero adeguati requisiti tecnici, doti morali e personali ed una rigorosa deontologia professionale prospettata nel “modello” del “perfetto burocrate” delineato nell’aprile del 535 da due leggi-quadro. Così, con la Nov. 13, promulgata il 15 ottobre del 535, Giustiniano sancì l’abrogazione della carica del praefectus vigilum, che aveva perso ormai importanza, e istituì quella del praetor plebis o praetor populis, che si presentava con un articolato corpo burocratico che constava di un officium, di un reparto militare e di una divisione giudiziaria. I compiti assegnati erano di natura amministrativa e giurisdizionale, ma riguardavano anche numerose iniziative dirette al benessere e alla tutela del popolo. Giustiniano si riservò la nomina e la legittimazione della nuova magistratura, stabilendo esatti principi per l’arruolamento, quali autorità indiscussa, alta considerazione e provata esperienza. L’imperatore creò, al contempo, un collegamento funzionale e non gerarchico tra questa magistratura e il prefetto urbano. Quattro anni più tardi, con Nov. 80, del 10 marzo del 539, Giustiniano istituì la magistratura autonoma del questore urbano, carica, anche questa, di nomina e legittimazione imperiale. Al quaesitor furono attribuite alcune competenze del praefectus urbi, il nuovo ufficio doveva controllare i flussi migratori verso Costantinopoli e contrastare l’esodo delle campagne per evitare una crisi produttiva. Il successo della riforma fu tale che le due magistrature, conservate anche dagli imperatori bizantini, con molta probabilità rimasero attive fino al Medioevo.

 

          Il testo della De Marini Avonzo raccoglie 15 saggi già pubblicati, che, a detta della A., “non pretendono d’essere ispirati ad una visione complessiva”, ma rappresentano le “tappe di un lento cammino” e rispondono “all’esigenza minima” di offrire delle soluzioni preliminari alle questioni che sorgono dallo studio del periodo in esame. Mentre si realizzavano le singole ricerche, andava affermandosi in dottrina la necessità di comprendere appieno il tardoantico, non sulla base di una “idea di ‘decadenza’”, ma sotto gli aspetti della innovazione e della continuità. I temi trattati concernono sia il perdurare della tradizione classica nel tardoimpero, sia l’influenza della religione cristiana nella legislazione romana, sia infine i rapporti tra le due parti dell’impero. Al contrario viene sottolineato come non si faccia alcun riferimento a temi di attualità che trovano ampia analogia con il modello giuspolitico del tardo impero romano, in quanto gli argomenti studiati sono stati inseriti nel loro contesto storico, scevri da qualunque comparazione diacronica. Gli articoli, pubblicati in edizione anastatica, sono preceduti da abstracts in lingua italiana ed inglese.

          Il primo saggio, Pagani e cristiani nella cultura giuridica del V secolo (già in Materiali per una storia della cultura giuridica, II, Bologna 1972, pp. 13 sgg.), apre la prima parte del volume, Le Fonti. In questa indagine si cerca di individuare la base culturale della normativa relativa alla stabilizzazione e alla diffusione della conoscenza delle fonti di diritto. Nel V sec. l’amministrazione della giustizia attraversava una profonda crisi a causa della corruzione e della scarsa formazione professionale dei giudici, situazione, questa, complicata dalla vastità e dalla complessità legislativa vigente. In Occidente Valentiniano III nel 426 dettò i principi per individuare le opere giurisprudenziali da applicare come autoritative nei tribunali, ed i criteri per l’utilizzazione delle costituzioni imperiali. La oratio Valentiniana non era tesa ad un rinnovamento delle fonti del diritto, ma ad un chiarimento delle regole tradizionali, nel tentativo di rendere efficiente l’amministrazione della giustizia. Probabile ispiratore di tale politica legislativa fu l’ambiente senatorio, destinatario della costituzione, in un certo modo “paganeggiante”, latore di un rinnovato interesse per i testi classici. In Oriente, con la compilazione Teodosiana si introdusse la regola dell’autorità del testo legislativo, pur nel rispetto delle antiche tradizioni, principio presente nell’ambiente cristiano di Costantinopoli. Il Codice Teodosiano, sulla base di tale regola, “ha fatto molti danni, in quanto ha portato a privilegiare il principio dell’autorità del testo legislativo nei confronti della classica e critica libertà del pensiero”.

          Il secondo articolo, I rescritti nel processo del IV e V secolo (già in Atti Accademia Romanistica Costantiniana, XI Convegno Internazionale 1993, Napoli 1997, pp. 29 sgg.), si sofferma sui pareri imperiali che offrivano la corretta interpretazione del diritto, dietro richiesta di giudici o di privati, in vista di un processo o in pendenza di questo. Nel tardoantico gli imperatori cercarono di limitare l’emanazione dei rescritti, a causa di possibili inconvenienti causati da abusi di burocrati. Con diversi interventi, Costantino sancì l’invalidità dei rescritti emessi su richiesta privata, in svariate ipotesi, come, ad esempio, qualora la causa fosse stata ancora pendente o fosse stata già decisa dallo stesso imperatore (CTh. 11, 30, 6). Questa linea venne proseguita dagli imperatori successivi. In particolar modo, Teodosio II stabilì che i rescritti non dovessero essere inseriti nella sua compilazione, non per abolirne la prassi, sempre vitale, ma per limitarla. Infatti, i rescritti rappresentavano dei validi strumenti sia per la consulenza per i privati, sia per controllo dei tribunali.

          L’indagine seguente, I libri di diritto a Costantinopoli nell’età di Teodosio II (già in Annali Genova XXIV, 1991-92, pp. 103 sgg. = Miscellanea Maffei IV, Goldbach 1995, pp. 51 sgg.), è tesa alla verifica dell’entità del patrimonio librario giuridico nella pars Orientis, agli inizi del V secolo, e degli eventuali aggiornamenti editoriali. Poiché Costanzo II aveva proceduto alla fondazione di uno scriptorium imperiale, successivamente arricchito dalle nutrite collezioni personali di Giuliano, si può affermare con certezza che a Costantinopoli erano presenti le opere della giurisprudenza classica e i codici dioclezianei. Con la duplicazione degli uffici palatini sotto Valente si acquisirono opere in lingua latina, tra le quali certamente libri di diritto, in quanto in Oriente si dovevano recuperare le opere latine che contenevano i principi giuridici utili nell’amministrazione della giustizia. Tuttavia, la De Marini Avonzo è del parere che non vi siano prove fondate per affermare l’esistenza di lavori di aggiornamento testuale, e dunque, i testi giuridici romani detenuti in Oriente erano prossimi all’edizione originale.

Il contributo Codice Teodosiano e Concilio di Efeso (già in Atti Accademia Romanistica Costantiniana, V Convegno Internazionale 1981, Perugia 1984, pp. 105 sgg.) cerca di spiegare l’abbandono del vasto progetto di codificazione formulato nel 429 da Teodosio II. Per l’A. risulta interessante la tesi secondo cui il naufragio dell’ambizioso programma fosse connesso alle vicende del Concilio di Efeso, poiché i commissari del 429 erano per la maggior parte nestoriani, e dunque ostili all’imperatore. In realtà, la corte si attivò per la composizione del conflitto religioso, e dall’indagine prosopografica sui commissari niente rileva intorno alle loro opinioni religiose. L’imperatore cercò un compromesso nella diatriba religiosa, e nel Codice Teodosiano si ritrovano, infatti, costituzioni favorevoli alle minoranze religiose. Tuttavia, tali norme, disapplicate per volere dello stesso imperatore, furono inserite per offrire un’immagine di politica della tolleranza.

          La ricerca La pubblicazione in Alessandria di una legge di Teodosio II (già in Annali Genova XX, 1984-85, pp. 85 sgg.) si incentra sulle diverse versioni che ci sono state tramandate di una costituzione teodosiana, emanata a Costantinopoli il 23 marzo 431, attinente al diritto d’asilo nelle chiese. Il testo è conservato parzialmente in CTh. 9, 45, 4, unica norma bilingue conservata nel ms. Vaticano, accompagnato da una traduzione greca successiva. Inoltre, la versione greca è posta in appendice ad una collezione degli Atti del Concilio di Efeso, detta Vaticana, dove la norma teodosiana è datata 7 aprile 431, ed ha l’Egitto come luogo di pubblicazione. Questo inserimento nei documenti del Concilio, secondo la De Marini Avonzo, fu dovuto alla politica religiosa del vescovo Cirillo diretta a far conoscere “ai monaci alcune testimonianze delle sua lunga battaglia”. L’incomprensibile aggiunta del testo greco nel Codice Teodosiano è posta in relazione con l’ambiente ecclesiastico di Lione, luogo in cui nel VI sec. venne redatto il manoscritto vaticano.

          Il saggio Due giuristi severiani per un imperatore sconosciuto (già in Materiali per una storia della cultura giuridica IV, Bologna 1974, pp. 11 sgg.) analizza un testo conservato nel Codex giustinianeo (C. 9, 8, 6) senza inscriptio e subscriptio. La norma contiene due brani dei giuristi del III sec., Paolo e Marciano, i quali rammentano che dall’epoca di Marco Aurelio si poteva esperire un procedimento penale per il crimen maiestatis contro i defunti, avente come fine la confisca patrimoniale. Alcune tracce presenti nella tradizione bizantina e in quella medievale indicano che i due brani latini erano stati inseriti in una costituzione originale greca andata poi perduta. Tuttavia, dal confronto con la legislazione che va da Alessandro Severo fino a Giustiniano, si rileva che tale citazione di passi giurisprudenziali è alquanto singolare. Questo derivò certamente da un recupero del materiale antico da parte di Triboniano, ma che per motivi stilistici non poteva essere l’autore della costituzione. Dall’analisi della legislazione del 532 l’A. afferma che la norma venne redatta dal questore Basilide il quale, in seguito alla rivolta di Nika, aveva sostituito Triboniano. L’occasione della costituzione, emanata nel 532, venne data dalla confisca postmortem dei beni dei nipoti dell’imperatore Anastasio e di numerosi senatori che li avevano sostenuti durante la rivolta. Nel predisporre la norma il nuovo questore richiamò un analogo giudizio di Marco Aurelio per “giustificare in qualche modo di fronte all’opinione pubblica senatoria la repressione dei loro illustri colleghi”. Da ciò si spiega l’insolita struttura della costituzione che, essendo rivolta al senato di Costantinopoli, venne predisposta in lingua greca.

          Lo studio Secular and clerical culture in Dionysius Exiguus’ Rome (già in Monumenta Iuris Canonici, Series C, Subsidia, 7, Città del Vaticano 1985, pp. 83 sgg.) si incentra sulla figura di questo personaggio, considerato il fondatore del diritto canonico, il quale si può accostare agli intellettuali dell’epoca. Il suo Codex Canonum, che ebbe tre edizioni, riordinava i canoni ecclesiastici, mentre il Codex Decretorum raccoglieva le disposizioni pontificali. Le due collezioni successivamente furono riunite nell’opera c.d. Dionysiana, dalla quale appare una conoscenza di tecniche di codificazione collegate ai criteri fondamentali del Codice Teodosiano. Questa conoscenza di Dionisio venne favorita dalla sua frequentazione con il circolo degli Anici, legato alla cancelleria di Costantinopoli.

          L’analisi Due citazioni del “Codex Iustinianus” nella “Historia Tripartita” di Cassiodoro (già in Scritti Bensa, Milano 1969, pp. 95 sgg.) si sofferma su un altro intellettuale del VI sec., Cassiodoro. Nella sua Historia Tripartita sono riportate due disposizioni di Teodosio I, che risultano recepite nel Codice giustinianeo e non nel Teodosiano. Probabilmente Cassiodoro si procurò la compilazione di Giustiniano a Costantinopoli, tra il 540 e il 550, e la portò in Italia nel monastero di Vivarium. Hist. Trip. 9, 7 riporta una costituzione del 380 che dichiarava eretici coloro che non seguivano la dottrina del pontefice Damaso (CTh. 16, 1, 2 = C. 1, 1, 1). Hist. Trip. 9, 30 contiene la norma emanata da Teodosio I dopo la rappresaglia di Tessalonica del 390, per eliminare le sanzioni spirituali impostegli da S. Ambrogio (CTh. 9, 40, 13 = C. 9, 47, 20). In tale occasione l’imperatore sancì che le pene capitali fossero eseguite dopo 30 giorni per consentire un eventuale ripensamento.

          Due articoli, La giustizia nelle province agli inizi del basso impero. I. I principi generali del processo in un editto di Costantino (già in Studi Urbinati XXXI, 1965, pp. 291 sgg. = Synteleia Arangio-Ruiz II, Napoli 1964, pp. 1037 sgg.), e La giustizia nelle province agli inizi del basso impero. II. L’organizzazione giudiziaria di Costantino (già in Studi Urbinati XXXIV, 1968, pp. 171 sgg.), aprono la seconda parte dell’opera La Giustizia, e mostrano gli interventi dell’imperatore in materia processuale. Nel 331 Costantino emanò due editti diretti ai provinciali con i quali dettava i principi generali del processo. Il primo saggio si occupa della disposizione emanata il 1° novembre, di cui sono conservati due brani nel Codice Teodosiano (CTh. 1, 16, 6 e 7), che mostrano il decadimento dell’amministrazione della giustizia nelle province. Nel primo si ribadiva il principio della pubblicità processuale, con delle connotazioni differenti rispetto alla tradizione in quanto si rilevava mezzo di informazione e di controllo della popolazione sull’operato dei giudici. Si stabiliva, inoltre, che i giudici non lasciassero l’aula d’udienza se non dopo aver terminato l’esame delle cause e averne curato gli atti pubblici a garanzia della regolarità del giudizio e della libertà di accedere al magistrato. Infine, disciplinava il potere di controllo dei provinciali sull’operato dei governatori, e si disponeva che le eventuali rimostranze contro l’operato dei giudici fossero espresse con delibere del concilio provinciale da inoltrare ai conti delle provincie o ai prefetti del pretorio. L’altro brano riaffermava la pubblicità e la gratuità dei processi anche rispetto ai funzionari minori, ai quali veniva fatto divieto di operare indebite esazioni; veniva inoltre sanzionata con la morte la responsabilità dell’officium praesidis. Il secondo saggio propone l’esegesi dell’editto emanato il 1° agosto. Il testo normativo si conserva parzialmente in otto brani del Codice Teodosiano, di quello di Giustiniano e nella lex Romana Burgundionum. Con tale norma si disciplinavano gli effetti della litis contestatio, i principi di distribuzione delle competenze di primo grado, l’appello delle sentenze ed i suoi collegamenti con il rimedio straordinario della supplicatio. La riunione dei diversi brani dell’editto evidenzia la direzione unitaria della politica costantiniana, che, sulle orme di Diocleziano, il quale nel 294 restrinse la facoltà del preside di dare iudicem, era diretta alla riorganizzazione strutturale del processo attraverso una rigorosa disciplina gerarchica imposta all’organizzazione giudiziaria.

          Fa seguito S. Gregorio Nazianzeno e la donazione della lite al fisco (già in Studi Grosso II, Torino 1968, pp. 327 sgg.), che studia il caso del vescovo Gregorio il quale nel 369, essendo erede legittimo del fratello minore, dovette rispondere in giudizio ai supposti creditori del de cuius, in quanto impossibilitato ad assolvere alle loro pretese. Basilio, vescovo di Cesarea, nel tentativo di risolvere la questione, propose ad un personaggio influente, a nome di Gregorio, la donazione del patrimonio ereditario al fisco, in modo che l’onere fosse assunto dai funzionari fiscali. Nonostante il silenzio delle fonti, dalle lamentele di Gregorio in ordine alla ingiustizia dei tribunali e alla perdita dei suoi beni si può ritenere che il vescovo perse le cause intentate dai creditori, e che la proposta venne rifiutata. La mancata accettazione è un esempio della applicazione, sotto Valente, del principio classico che vietava di donare le liti al fisco.

          Il saggio I vescovi nelle ‘Variae’ di Cassiodoro (già in Atti Accademia Romanistica Costantiniana, VIII Convegno Internazionale 1987, Napoli 1990, pp. 249 sgg.) esamina alcune lettere scritte dall’erudito, in qualità di questore di Teodorico, che riguardavano la posizione dei vescovi coinvolti nelle liti giudiziarie, allo scopo di analizzare i rapporti tra la legislazione imperiale e la sua applicazione nell’Italia ostrogota. In alcuni documenti cassiodoriani si ritrovano citate costituzioni imperiali da applicare al caso concreto, a sostegno degli ordini regi. Al contrario, in altre Variae, quando il caso sottoposto non faceva sorgere problemi giuridici, le lettere del re possedevano solo retoriche motivazioni, che, di fronte all’impossibilità di applicare il diritto ufficiale, rimandavano alla collaborazione dell’autorità vescovile. In tal caso, si invitavano i vescovi ad esercitare il loro magistero secondo giustizia ed equità.

          In Diritto e giustizia nell’Occidente tardoantico (già in La giustizia nell’Alto Medioevo, Settimane di Studio XLII, Spoleto 1994, pp. 105 sgg.) si sottolinea come per Teodosio II bisognasse avere una buona conoscenza giuridica per una puntuale applicazione del diritto nelle corti (Nov.Theod. 1, 1 del 438). Sulla base dell’esegesi di alcuni verbali d’udienza la De Marini Avonzo si propone di indagare intorno all’applicazione del diritto nelle corti tardoantiche. Dall’analisi dei documenti si rileva come il diritto si applicasse sulla base della conoscenza della normativa vigente, principio questo che rappresenta un tema dominante nella compilazione Teodosiana. Tuttavia, dai documenti dell’Italia Ostrogota emerge che gli spietati abusi di giustizia tipici della prassi giudiziaria occidentale discordavano con i principi espressi dall’orientamento pubblicistico.

          L’indagine Giustiniano e le vicende della “praescriptio centum annorum” (già in Studi Betti III, Milano 1961, pp. 103 sgg.) studia la normativa giustinianea del periodo 530-541, che stabilì un termine privilegiato per la prescrizione estintiva delle azioni della Chiesa e delle opere pie, elevando il decorso in cento anni. Tale normativa, accusata da alcuni di essere frutto di una interpolazione, si spiega con un brano della Storia arcana di Procopio. Nel racconto (Anekdota 28) si identifica con un episodio di corruzione l’occasione contingente della norma. Giustiniano generalizzò il privilegio accordato sulla base della tendenza di porre in essere un’uniforme regolamentazione dei privilegi concessi a enti muniti di autonomia patrimoniale. Nel 535, con Nov. 9, l’imperatore allargò la praescriptio centum annorum anche alla Chiesa romana. Tuttavia nel 541 la Nov. 3, in seguito all’aumento delle controversie, revocò le disposizioni precedenti riducendo a quarant’anni il termine centenario.

          Conclude l’opera La repressione penale della violenza testamentaria (CI.6.34.1) (già in Iura VI, 1955, pp. 120 sgg.), che si incentra su un rescritto di Alessandro Severo del 229 (C. 6, 34, 1). La norma sanciva che la vis usata per costringere taluno a far testamento in proprio favore dava luogo a procedimento civile e penale. I Glossatori cercarono di individuare il titolo di reato non determinato nella norma, e lo definirono crimen vis nella cui fattispecie ricadevano differenti casi di estorsione violenta. Tale crimen, non previsto dalle leges Iuliae de vi, venne perseguito con le pene previste dalle leggi augustee. Uno scolio dei Basilici attribuito a Taleleo conferma l’appartenenza della fattispecie della costrizione testamentaria al crimen vis. Questo commento di Taleleo mostra come l’interprete greco abbia utilizzato il testo originale del Codice di Giustiniano.