Università di Siena
Ho adoperato l’espressione
‘giusto processo’ un po’ ad effetto, dato l’uso che se ne fa oggi, non solo a
proposito del diritto moderno, ma perfino a proposito del diritto romano in una
visione comparatistica di tipo diacronico[1].
In effetti la questione su
cui vorrei soffermarmi qui sarebbe meglio indicata parlando più semplicemente
di “parità fra le parti nel processo”. Non c’è dubbio infatti che questa cosa
stesse particolarmente a cuore a Costantino come può ricavarsi non da uno, ma
da almeno tre diversi interventi normativi suoi e per di più sia in tema di
processo civile che di processo penale.
1. – Il primo di tali
interventi è rappresentato da una singolare costituzione del 325 (C.Th.
11.39.1), con cui l’imperatore aveva sancito a tutte lettere che nei processi
di rivendicazione, quando cioè qualcuno agisse per ottenere il riconoscimento
della sua proprietà sulla cosa posseduta da altri, fosse conforme ad equità e
giustizia che non ci si limitasse, come era avvenuto in passato ed era stato
ribadito anche da precedenti imperatori, ad esigere dal solo attore la prova
della sua pretesa signoria sulla cosa, ma, se costui non riusciva a dare tale
prova, si dovesse imporre anche al convenuto di dimostrare il fondamento del
suo possesso[2].
Il testo è stato anche
recentemente studiato dalla Solidoro, nella sua ricerca su “La tutela del
possesso in età costantiniana” (Napoli 1998), dove fra l’altro (p. 162) si
mette in luce:
a) come il principio,
introdotto per la prima volta da Costantino, si contrapponesse a quanto aveva
ribadito da parte sua Antonino Caracalla un secolo prima (C. 4.19.2, p. 157)
circa la inesistenza per il possessore di una “necessitas probandi” in ordine alla titolarità delle cose
controverse, la cui “disponibilità” sarebbe rimasta presso di lui se l’attore
non riusciva a dare prova della propria pretesa;
b) come il medesimo
principio fosse stato ispirato a Costantino dal desiderio di tener conto dei
sistemi giuridici greco-ellenistici praticati nei tribunali locali delle
province, dove ciascuna delle parti si adoperava per dimostrare, relativamente
all’altra, la propria posizione poziore rispetto al bene controverso, in
mancanza di una precisa differenziazione come quella romana fra proprietà e
possesso.
Circa invece la questione se
il principio in parola fosse stato abrogato da un successivo intervento di
Arcadio nel 396 o
Mi preme di più soffermarmi
su di un'altra opinione della Solidoro che, preoccupandosi di conciliare la sua
ricostruzione con altre prese di posizione della dottrina moderna (in
particolare di Archi e di Pugliese), ammette, sì, come si è già notato, che la
riforma costantiniana sarebbe stata ispirata dalla prassi del processo
provinciale (anche se «piuttosto volta ad operare una fusione tra l’antico
regime romano e le prassi praticate nei tribunali delle province, che a
soppiantare radicalmente la disciplina tradizionale con le regole elaborate
dagli ordinamenti ellenistici», come viene precisato a p. 169), affermando però
nel contempo che essa sarebbe stata «intimamente collegata con il nuovo modo di
intendere il processo privato, al quale -nell’ambito della trasformazione in
senso pubblicistico- vien impresso un indirizzo inquisitorio» (p. 167).
Orbene, secondo me, questo
preteso carattere inquisitorio, che ritorna anche in ordine ad un testo
concernente il processo penale su cui ci soffermeremo fra poco, ben
difficilmente potrebbe essere accordato con un’ispirazione della riforma
costantiniana del 325 al processo provinciale.
Possiamo rifarci al riguardo
ad un interessante processo del
Una sentenza questa che,
oltretutto, mentre documenta ictu oculi, in confronto con quella che
sarebbe stata la pronuncia del iudex in un
processo romano, quanto si era
avuto modo di accennare circa il valore relativo delle pronunce giudiziali del processo
di tipo greco a proposito di quelli che noi chiamiamo diritti reali, conferma
in pari tempo anche quanto già accennato circa la mancanza di una netta
distinzione fra proprietà e possesso. Tale mancanza era stata del resto
affermata autorevolmente da H.J. Wolff[4],
trattando espressamente del diritto dei papiri e facendo riferimento ad un
sintagma “kratein und/oder kuriein” che noi incontriamo anche nel
nostro documento. Non solo infatti nella ricordata sentenza si allude alla
posizione soggettiva riconosciuta a una delle parti in conflitto con
l’espressione verbale kratein (X.4)
resa appunto dal Wilcken con «besitzen», e cioè con lo stesso verbo usato per
tradurre il kuriein che si incontra
poco sopra sempre in ordine alla posizione goduta in epoca precedente dai
medesimi soggetti (col. IX.16) [oltre che per il verbo diakatéchein: IX.18 e X.5], ma nei discorsi svolti dagli avvocati
compaiono anche insieme le due espressioni (kuriein
e kratein) in forma sostantivata,
sia in giustapposizione fra loro: «medemias
krateseos medè kurieias» (V.36 s.),
sia in forma endiadica: «ten kratesin kai kurieian tes oikias»
(VII.16), espressioni che sempre il Wilcken tenta di tradurre parlando di
«Besitz- oder Herrschaftsrecht» e di «Besitz- und Herrenrecht am dem Hause»[5].
Un’altra considerazione che
Non per niente, e questo è
vorrei dire un punto centrale, lo stesso Costantino aveva dichiarato
espressamente di essere intervenuto a modificare l’onere della prova - come
annota la stessa Solidoro a p. 166- per «l’esigenza di fare luce sulla ‘verità’
secondo equità e giustizia», equità che si sarebbe realizzata parificando la
posizione delle parti e non certo favorendo l’attore!
2. – Il secondo intervento
di Costantino a cui si alludeva all’inizio si ritrova in una costituzione che
nel Codice Teodosiano è datata al 326 e nel Codice di Giustiniano al 320.
In essa (C.Th. 9.19.2 = C.
9.22.22), in ordine ad una questione incidentale di falso nata nell’ambito di
un processo civile, innanzitutto si era stabilito che, contrariamente al
passato, non occorresse più sospendere la questione principale con il rischio
di un rinvio illimitato, non essendoci appunto termini per l’esercizio
dell’azione penale di falso, e in secondo luogo, ciò che c’interessa in questa
sede, che «nell’indagine circa l’autenticità del documento contestato, la
necessità della prova non dovesse più gravare esclusivamente sull’accusator... bensì essere ripartita fra
le parti processuali».
Questo è almeno il modo in
cui secondo me intende giustamente
Nec
accusatori tantum quaestio incumbat nec probationis ei tota necessitas
indicatur, sed inter utramque personam sit iudex medius nec ulla quae sentiat
interlocutione divulget, sed tamquam ad imitationem relationis, quae solum
audiendi mandat officium, praebeat notionem, postrema sententia quid sibi
liqueat proditurus.
Altri studiosi hanno invero
inteso diversamente questo testo, come cioè se Costantino - per dirla con le parole
della Solidoro - «nell’intento di facilitare l’accusa di falso documentale»
avesse voluto imporre «al giudice di collaborare con l’accusator, assumendo una posizione intermedia tra le parti (così
Spagnuolo Vigorita) o addirittura esercitando i suoi poteri d’indagine (così
Pugliese)»[6].
Ma qui io non voglio inoltrarmi oltre in questa problematica[7].
Che d’altronde le prove non
dovessero essere fornite solo dall’accusatore ma anche dalla controparte è
quanto verrà ripetuto in maniera questa volta che non lascia spazio a dubbi
interpretativi dai figli di Costantino nel
...non solum is, qui de ea
dubitat, falso conscribtam cogatur ostendere, verun etiam ille, qui eadem utitur, veritate subnixam
probare cogatur.
Il fatto che nel modo di
esprimersi di Costantino ci fosse, tutto sommato, una certa ambiguità potrebbe
essere dovuto anche ad un’altra circostanza su cui varrà la pena di insistere e
cioè alla preoccupazione di dire non solo che entrambi i soggetti coinvolti
nella controversia avrebbero dovuto darsi carico di fornire le prove delle loro
posizioni, ma che il giudice avrebbe dovuto tenere un atteggiamento neutrale
fra loro, nel che si potrebbe ritrovare un altro aspetto di fondo della riforma
costantiniana. È infatti quanto meno suggestivo il linguaggio usato dalla
Cancelleria imperiale per esprimere questo concetto affermando, come si è
visto, «inter utramque personam sit iudex medius», una frase che parrebbe
addirittura anticipare in certo modo la questione tutta moderna della terzietà
del giudice.
Prima di chiudere sul punto,
vorrei aggiungere qualcosa circa il problema della datazione che come si è
lasciato intendere è discusso, essendo in presenza di indicazioni contrastati
nella subscriptio nei due Codici che
ci riportano il provvedimento costantiniano, e che ci conducono quella del
Teodosiano al 326 (figurando come consoli Constantino per
Gli autori e fra essi uno
specialista di questi problemi come il Seeck (come annota
Ma se si guarda al contenuto
del provvedimento si trova anzitutto che la stessa introduzione anche in campo
penale (sia pure in ordine solo a certe questioni incidentali) di una modifica
circa l’onere della prova, espressa per di più in maniera alquanto ambigua,
tanto che se ne è discusso il significato, potrebbe essere meglio giustificata
se si fosse stati nel 326, l’anno successivo a quello in cui era stata fatta la
riforma in materia di processo civile. Quello che appare tuttavia ancor più
decisivo in questo senso è che nella costituzione in esame si parla
ripetutamente alludendo alla prova documentale contestata tanto di petitor quanto di posssor riferendo inoltre chiaramente all’una o all’altra delle
parti (“alteruter litigantium”) la
promozione dell’accusa di falso, il che non può intendersi se non, di nuovo, in
riferimento ad un momento successivo alla riforma del 325, quando la prova nel
processo petitorio era stata appunto posta a carico di entrambe le parti[9].
3. – Il terzo intervento
costantiniano che rimane da trattare riguarda ancora il processo penale e si
presenta come un provvedimento di carattere generale. Seppur precedente nel
tempo agli altri due di cui ci siamo già occupati, se ne parla ora, poiché non
attiene all’onere della prova, ma alla pena o per meglio dire a quello che è
stato chiamato il principio della ‘reciprocità della pena’.
Di un tale principio sembrerebbe parlarsi per
la prima volta in C.Th. 9.10.3, che, essendo un testo in materia di spoglio
violento, per il quale si prevede e disciplina il concorso fra azione civile e
azione criminale, è stato anch’esso studiato dalla Solidoro, la quale tuttavia,
se ho ben visto, vi accenna solo di sfuggita (p. 56).
A proposito dell’azione
criminale, si dice infatti che l’accusatore avrebbe potuto opponere il crimen violentiae,
«non ignarus
eam se sententiam subiturum, si crimen obiectum non potuerit comprobare, quam
reus debet excipere».
In effetti il modo
incidentale in cui si allude qui a quella che appare come una vera e propria
rivoluzione processuale potrebbe anche essere indizio di un qualche precedente
intervento che avesse introdotto in maniera più palese il nuovo principio,
principio che si andrà affermando decisamente nel corso del IV secolo ed è
testimoniato in diverse costituzioni posteriori, come annota Bernardo
Santalucia[10]
con richiamo fra l’altro a C. 9.3.2, di Graziano Valentiniano e Teodosio, dove
compare per la prima volta l’espressione poena
reciproci.
Per conto suo la Pietrini[11] ha
ipotizzato che il primo intervento costantinano in materia si potrebbe
rintracciare in un famoso editto de
accusatoribus pervenutoci in via epigrafica e solo in alcune parti
riprodotto nei Codici (FIRA, I.94),
qualora, contrariamente a ciò che si ritiene per lo più, si potesse supporre
una priorità della legge epigrafica rispetto a C.Th. 9.10.3. Il che d’altronde
non dovrebbe essere troppo improbabile se si sta alle indicazioni secondo cui
la legge epigrafica sarebbe da collocare fra il 313 e il 323, mentre la data di
C.Th. 9.10.3 sarebbe ricompresa fra il 315 e il 319.
E, in effetti, il modo in
cui, nell’editto di Costantino, dopo aver già messo in guardia tutti quanti,
col dire che si sarebbe dovuto permettere di adire i tribunali solo a chi fosse
fiducioso di riuscire a provare le sue accuse, si avvertiva l’accusatore sulle
conseguenze negative a cui sarebbe andato incontro se non fosse riuscito a
dimostrare quae intentaverit, alludendo alla necessità di sottostare ad una
sentenza più severa (scire debet severiori [se] sententiae subiugandum), anche se non estremamente
perspicuo, farebbe pensare ad un principio che venisse introdotto qui per la
prima volta[12].
Orbene,
questo editto, il cui testo sarebbe stato «in loco aliquo Asiae propositum» (come
si legge in FIRA), era stato dettato,
stando allo stesso Costantino, dall’intenzione di dare sicurezza alle provincie
(consulentes securitati provinciarum
nostrarum), quelle provincie orientali dove è verosimile che continuassero
a sussistere i gravi inconvenienti prodotti dalla c.d. sicofantia, contro cui
si erano mossi con vari mezzi gli ateniesi del IV sec. a.C., non essendo
evidentemente bastato stabilire che chi promoveva un’azione pubblica (graphè), fosse sottoposto comunque ad
una sanzione pecuniaria (1000 dracme) se non otteneva almeno 1/5 dei voti a suo
favore[13].
Siamo per ciò anche in
questo caso ricondotti ad una particolare relazione fra Costantino e il mondo
delle province.
Quello che a noi preme
comunque ancor di più è che nel modo di «éviter des accusations téméraires»,
come dice il Mer[14],
trovato da Costantino col mettere anche l’accusatore di fronte al rischio di
dover sottostare alla stessa pena che pendeva sulla testa dell’accusato,
qualora egli non fosse riuscito a provarne la colpevolezza, sembrerebbe
cogliersi la medesima idea di pareggiamento fra le parti che lo avrebbe
indotto, in un secondo momento, per dichiarate ragioni di equità, a sottoporre
entrambi i contendenti all’onere della prova (anche se ciò ci è attestato solo
per alcuni tipi di processo sia civili che penali come si visto nelle pagine
precedenti).
[2] Si legge, infatti, in C.Th.
11.39.1, Imp.Constantinus A. Aurelioi
Helladio: Etsi veteris iuris
definitio et retro principum rescripta in iudicio petitori eius rei quam petit
necessitatem probationis dederunt, tamen nos aequitate et iustitia moti,
iubemus, ut, si quando talis emerserit causa, in primordio, iuxta regulam iuris
petitor debeat probare, unde res ad ipsum pertineat; sed si deficiat pars eius
in probationibus, tunc demum possessori necessitas imponatur probandi, unde
possideat vel quo iure teneat, ut sic veritas examinetur. Data Naisso XV Kal. Octob. Paulino et
Iuliano coss.
[3] Si veda il suo famoso ed
importante Reichsrecht und Volksrecht in
den östlichen Provinzen des römischen Haiserreichs, Leipzig 1891
(rist.1963), p. 503 nt. 1, dove, avendo parlato per di più espressamente di
supposte applicazioni della famosa diadikasia
di tipo greco, fra le quali viene annoverato il nostro «Hermiasprocess»
(già studiato a p. 48 ss.), si dice che con tali rapporti aveva verosimilmente
a che fare anche il «merkwürdigen Erlass des Costantin» di C.Th. 11.39.1 (e ciò
dopo aver concluso nel testo che l’ultima traccia di una tale procedura della diadikasia sarebbe stata da rintracciare
nella costituzione di Arcadio che abbiamo avuto modo anche noi di richiamare
poco sopra).
[4] In ZSS, 91,1974, p. 84 s.
[5] Quanto al Wolff, egli aveva
già cercato di mettere in luce, a proposito del diritto ellenistico (in ZSS, 90, 1973, p. 76) la relatività di
entrambe le espressioni usate dalla prassi «kurieia
d.h. Verfügungsmacht und kratesis d.h. effective, nicht notwendig
unmittelbar körperlich, aber zum Zugriff berechtigende Beherrschung, ... deren
Inhalt und relatives Gewicht sich
nach der Stärke der jeweils in Rede stehenden konkreten Position bestimmten,
sei sie ‘Eigenthum’ im vollen Sinn, Pfandrecht oder eine ebenfalls in gewissem
Umfang Kyrieia und Kratesis vermittelnde Nutzungbefugnis
einschliesslich derjenigen des Pächters bzw. Mieters».
[6] In questa frase della Solidoro si accenna anche ad un altro
aspetto della disposizione imperiale, la quale, sempre secondo gli autori,
avrebbe voluto facilitare l’accusa di falso slegando l’accusa stessa «dalle
formalità della inscriptio». Ma
questa deduzione, su cui sembrerebbe concordare
[7] Per la quale vorrei
richiamarmi, come del resto fa la stessa Solidoro
(ibid. nt. 128), a quanto scritto in
proposito dalla mia allieva Pietrini,
Sull’iniziativa del processo criminale
romano (IV-V sec.), Milano 1996,
p. 86 nt. 115, secondo cui proprio la raccomandazione rivolta da Costantino al
giudice di collocarsi in posizione intermedia fra le parti e di non esprimere
il suo pensiero con alcuna interlocutio,
sembrerebbe escludere un intervento inquisitorio del giudice stesso, al quale
sarebbe stato addirittura imposto di «guardarsi bene dall’intervenire nella
fase di raccolta delle prove». Il che mi parrebbe in effetti chiaramente
ribadito quando si aggiunge che il giudice avrebbe dovuto offrire la sua
disponibilità a prendere conoscenza della questione (praebeat notionem) come se si trattasse di una relatio che comportava esclusivamente l’obbligo di ascoltare (“quae
solum audiendi mandat officium”). E ciò nonostante che nella frase precedente
si fosse alluso alla necessità di una “acerrima indago argumentis, testibus,
scripturarum conlatione alisque vestigis veritatis”, da considerare secondo noi
oggetto di quella quaestio che
sarebbe spettato realizzare non soltanto
a chi sostenesse la falsità del documento, ma anche a chi se ne volesse
avvalere nella controversia petitoria.
[8] Cfr. Pietrini, op. cit., p. 85 nt. 115.
[9] Il testo della costituzione
nella parte precedente (già studiato dalla Solidoro a p. 135 ss.) è infatti il
seguente: Cum in praeterito is mos in
iudiciis servaretur, ut prolatis instrumentis, si ea falsa quis diceret, a
sententia iudex civilis controversiae temperaret, eoque contingeret, ut
imminens accusatio nullis clausa temporibus petitorem possesoremve deluderet,
commodum duximus, ut, etsi alteruter litigantium falsi strepitum intulisset,
petitori tamen posserorive momemtum prolatorum instrumentorum conferret
auctoritas, ut tunc civili iurgio terminato secunda falsi actio subderetur.
Volumus itaque, ut primum cesset inscribtio. Sed ubi falsi examen inciderit,
tunc ad morem pristinum quaestione civili per sententia terminata acerrima fiat
indago argumentis testibus scribturarum conlatione aliisque vestigiis
veritatis. Nec accusatori tantum... Quanto alle difficoltà interpretative
della frase «petitori-auctotitas», si v. Solidoro,
p. 139 ss. la quale conclude (p. 141) attribuendo a momentum il significato di «possesso provvisorio».
[10] Diritto e procedura penale nell’impero romano, Milano 1998, p. 283
[11] Sull’iniziativa, cit., p. 97 e nt. 137.
[12] È da notare che, sempre
nell’editto epigrafico di Costantino, per il caso specifico del crimen maiestatis, si parla, sebbene ancora una volta in modo non
estremamente chiaro, della possibilità di sottoporre “anche a tormenta”, l’accusatore che non avesse
potuto provare la sua accusa, tormenti ai quali non avrebbe potuto sottrarlo, a
quanto par di capire, nessuna specie di privilegio. È quanto emerge dal seguito
del discorso (riprodotto con qualche modifica lessicale anche in C. 9.8.3),
dove, in riferimento ad uno che avesse intentato appunto un’accusa per il crimen maiestatis si afferma: sciat
se quoque tormentis esse subdendum, si aliis manifestis indicis atque
argumentis accusationem suam non potuerit comprobare. E non basta perché si
aggiunge che lo stesso trattamento della sottoposizione ai tormenti -
parlandosi per di più di squarciare, trafiggere coi tormenti (erui tormentis) - avrebbe coinvolto
anche chi avesse indotto o istigato ad accusare, di modo da eseguire una sorta
di vendetta nei confronti di tutti i
responsabili di tale grave fatto (ut ab
omnibus tanti commissi conscis vindicta possit reportari). Quello che resta
alquanto oscuro in tutto questo è se si trattasse di tormenti intesi come pena o non piuttosto come
mezzi per estorcere una prova (come potrebbe far pensare l’aliis della frase sopra riprodotta).
[13] Non per niente nel canone 6
del II Concilio di Costantinopoli del 381 ripetendo anche per i processi
ecclesiastici la stessa norma introdotta da Costantino e che si era andata
precisando nell’obbligo per l’accusatore di impegnarsi formalmente mediante una
sottoscrizione alla poena reciproci,
si arriverà a parlare di un rimedio che sarebbe scattato contro coloro che
fossero apparsi sukophantountes.
[14] L’accusation dans la procédure
pénale du Bas-Empire romain, Rennes 1953, p. 215.
* Non
sarà male aggiungere a mo’ di postilla che la collega Cimma, presente quando io
leggevo questo intervento al Convegno su Costantino promosso dall’Università di
Sassari (4 luglio 2002), è intervenuta per contestare piuttosto vivacemente che
si potesse parlare di giusto processo a proposito della prima costituzione di
Costantino (C.Th. 11.39.1), dove, a suo dire, saremmo in presenza piuttosto di
uno stravolgimento dei principi equitativi, operato probabilmente da degli
ecclesiastici presenti nella Cancelleria ed ignoranti di diritto, come quelli
cui aveva alluso Volterra a proposito di un altro famoso testo costantiniano
con il quale si erano introdotte delle giuste causae per il divorzio unilaterale (C.Th. 3.16.1). Per conto mio
sul momento mi sono limitato a replicare che lo stravolgimento dei principi
intravisto dalla Cimma nella costituzione in parola sarebbe stato singolarmente
ribadito ancora una settantina d’anni dopo da Arcadio in C.Th. 11.39.12,
secondo un’opinione tutt’altro che isolata, anche se non “dominante” in
dottrina. Successivamente, in un colloquio personale, ho cercato anche di
ribadire l’importanza della supposta ispirazione di Costantino al sistema
processuale ellenistico, dove praticamente si sarebbe trattato di controversie
di tipo possessorio (come quelle risolte a Roma con gli interdetti), in cui si
tutelava la posizione poziore di una parte rispetto all’altra, donde la
necessità della prova imposta ad entrambe. Ma anche ciò, almeno apparentemente,
non ha per niente smosso