N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

 

L’EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA IN MATERIA DI PESCA: DAL DIRITTO DELLA NAVIGAZIONE AL DIRITTO AGRARIO *

 

 

Giuseppe Reale

Università di Roma

 

 

 

      Sommario: 1. La pesca nel quadro del diritto della navigazione e della legislazione speciale: premessa metodologica. - 2. Evoluzione della normativa italiana sulla pesca: dall’Unità d’Italia alla fine della prima guerra mondiale. - 3. Il testo unico delle leggi sulla pesca (r. d. 8 ottobre 1931 n. 1604). - 4. La l. 14 luglio 1965 n. 963, sulla disciplina della pesca marittima ed il relativo regolamento di esecuzione (d. P. R. 2 ottobre 1968 n. 1639). - 5. La l. 17 febbraio 1982 n. 41. - 6. Dal permesso di pesca alla licenza di pesca. - 7. Le attribuzioni in materia di pesca ed il conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca. - 8. Il diritto della pesca. - 9. Il diritto della pesca tra esercizio nautico e finalità economico-produttive. - 10. Conclusioni.

 

 

 

1. – La pesca nel quadro del diritto della navigazione e della legislazione speciale: premessa metodologica

 

Il codice della navigazione dedica soltanto cinque articoli alla disciplina della pesca marittima[1] mentre il regolamento per la navigazione marittima tratta della stessa materia soltanto all’art. 408.

Nonostante il poco spazio dedicatole, essa tradizionalmente ha trovato, pur con contrasti e dissensi, la propria naturale collocazione nell’ambito della materia della navigazione[2], sia in ragione della strumentalità del mezzo nautico rispetto al fine, sia per l’uso delle acque, marine ed interne, per la cattura del prodotto.

Al di fuori della disciplina codicistica, invece, il settore della pesca è stato oggetto, nel corso degli anni, di crescente attenzione ed interesse da parte del legislatore[3]. Tuttavia, nei numerosi provvedimenti normativi è mancata, spesso, unitarietà di indirizzo, con la conseguenza che, a tutt’oggi, si ravvisa una normativa di settore non propriamente organica ed omogenea che non facilita il compito dell’interprete, sia per l’individuazione degli interessi tutelati, sia per il coordinamento delle norme al fine della loro concreta applicazione.

Il fenomeno sopra descritto origina dal fatto che detta normativa è il frutto di molteplici provvedimenti emanati in periodi anche molto lontani e diversi tra loro, per cui si è giunti alla coesistenza di disposizioni cui sottendono concezioni del tutto eterogenee e, addirittura, in qualche caso, contrastanti. Ciò rende difficile l’individuazione dei beni giuridici protetti poiché, nel corso degli anni, diversi sono stati gli interessi considerati meritevoli di tutela da parte dei vari legislatori. Così, ad esempio, accanto a disposizioni rivolte alla protezione della pesca intesa quale esercizio di una situazione giuridica soggettiva facente capo al privato, se ne aggiungono altre dirette a tutelare, in via prioritaria, le risorse biologiche del mare e l’ambiente marino.

Lo stato della normativa di settore appena descritto, in ragione dei diversi interessi tutelati, in qualche caso anche in aperto conflitto tra di loro, ha dato vita ad un sistema per certi versi in precario equilibrio, costringendo l’interprete ad un lavoro di coordinamento fra le numerose disposizioni succedutesi nel tempo.

A tutto ciò va aggiunto sia il fatto che le attribuzioni in materia di pesca hanno subito nel corso degli anni più di uno spostamento da un dicastero all’altro, con tutte le immaginabili conseguenze, sia che l’evoluzione del relativo assetto istituzionale ed amministrativo appare sempre più orientato verso un decentramento a favore delle amministrazioni periferiche.

Il settore della pesca, inoltre, è strettamente collegato ad altri, quali, per esempio, l’ambiente, l’urbanizzazione, la lotta all’inquinamento e così via. Come è stato evidenziato, da un esame delle norme vigenti in tali settori sembrerebbe che il legislatore che ha emanato le norme in queste materie non sia poi lo stesso che ha legiferato in materia di pesca, poiché la disciplina normativa non sempre appare coordinata ma, al contrario, è spesso caratterizzata da una profonda disomogeneità.

In definitiva, in alcuni casi, i mali vanno ricercati altrove poiché la pesca finisce per scontare anche i ritardi, le inadempienze e gli errori che sono stati commessi in altri settori ad essa funzionalmente collegati[4].

Date queste premesse e preso atto dello stato attuale del sistema normativo, appare condivisibile, quale approccio di carattere metodologico, partire dall’analisi storico-normativa[5], per cercare di individuare, da un parte, quali siano gli interessi attualmente tutelati dal legislatore in materia di pesca e, dall’altra, se sia possibile, anche alla luce dei più recenti spunti normativi, tentare una rimeditazione, con diversa chiave di lettura, del tradizionale inquadramento sistematico del cd. diritto della pesca.

 

 

2. – Evoluzione della normativa italiana sulla pesca: dall’Unità d’Italia alla fine della prima guerra mondiale

 

Al fine di cogliere le ragioni che hanno portato all’attuale sviluppo della normativa nazionale in materia di pesca appare opportuno, come accennato, in via preliminare, effettuare una breve ricostruzione, di carattere prevalentemente storico[6], di quelle che sono state le principali vicende evolutive del diritto della pesca[7] nel nostro Paese, sia alla luce delle modificazioni intervenute nel diritto interno, sia alla luce di quelle intervenute in campo economico, senza tuttavia tralasciare di dedicare qualche richiamo alle tendenze evolutive del diritto internazionale del mare e della pesca che hanno significativamente inciso sul diritto interno.

All’atto dell’unità nazionale, in ragione di impellenti esigenze di unificazione legislativa, il r. d. 22 dicembre 1861 n. 387 estese all’intero Regno la precedente legislazione sarda sulla pesca che risaliva al r. d. del 9 agosto 1827.

In pratica, al momento dell’unità nazionale la disciplina giuridica della pesca ricalcava quella della caccia e mancavano specifiche differenziazioni sia in ragione del luogo ove essa veniva esercitata, sia in base alle diverse tipologie che l’attività stessa poteva assumere. Le relative attribuzioni e funzioni amministrative erano di spettanza del Ministero dell’agricoltura, industria e commercio dell’epoca.

In seguito vennero emanati la l. 4 marzo 1877 n. 3706 ed i relativi regolamenti di attuazione, il r. d. 13 novembre 1882 n. 1090, per la pesca marittima, e il r. d. 15 maggio 1884 n. 2449, per la pesca nelle acque interne.

Finalità di tali interventi normativi era quella di rendere omogenea ed uniforme la disciplina della pesca nel mare e nelle acque interne con specifico riguardo alla polizia amministrativa, con l’individuazione dei tempi e dei modi per l’esercizio della pesca, con le disposizioni per la tutela delle specie ittiche, con la tutela dell’ordine pubblico e del diritto di proprietà.

Nel periodo giolittiano venne emanata la l. 11 luglio 1904 n. 378, il cui obiettivo principale, a differenza della precedente legislazione dove erano mancati interventi rivolti alla promozione ed allo sviluppo dell’attività di pesca, era quello di favorire, con apposite provvidenze, l’esercizio della pesca e di incrementare la produzione dello specifico settore, il tutto tramite lo sviluppo della cooperazione, l’addestramento del personale, il miglioramento dei sistemi di commercializzazione del pescato e la tutela del lavoro dei pescatori.

La politica di incentivazione della pesca proseguì con la l. 24 marzo 1921 n. 312 e con altri successivi interventi normativi diretti ad introdurre misure di promozione ed incentivazione, anche di carattere fiscale, tra cui l’istituzione del credito peschereccio, per le opere marittime, per l’ammodernamento dei battelli e, altresì, con l’introduzione dell’obbligo di assicurazione per i pescatori dipendenti e con misure di previdenza sociale.

 

 

3. – Il testo unico delle leggi sulla pesca (r. d. 8 ottobre 1931 n. 1604)

 

Le esigenze di riordino della normativa portarono all’approvazione del r. d. 8 ottobre 1931 n. 1604, testo unico delle leggi sulla pesca, avente l’obiettivo principale di fornire una risistemazione organica ed un assetto omogeneo all’abbondante produzione normativa che si era susseguita nel corso degli anni precedenti nel settore della pesca, anche al fine di coordinare la normativa meno recente, regolante prevalentemente l’aspetto amministrativo, con quella più recente, diretta ad incentivare lo sviluppo della pesca con misure di sostegno, agevolazioni e provvidenze a favore dei pescatori[8].

Il testo unico disciplina, innanzitutto, l’esercizio della pesca, dettando disposizioni di carattere generale, norme per i pescatori, norme in materia di vigilanza e sorveglianza sulla pesca e sul commercio dei prodotto ittici, norme concernenti violazioni di carattere penale e di carattere amministrativo con le relative sanzioni. Inoltre, detta norme sulle provvidenze a favore della pesca e dei pescatori, norme in tema di cooperazione, norme sull’assicurazione contro gli infortuni, nonché disposizioni relative alla distribuzione e alla vendita del pescato.

Di particolare interesse, anche al fine di una comparazione con i futuri sviluppi della normativa, sono gli artt. 1 e seguenti del testo unico, ove viene definito l’ambito di applicazione, affermandosi che esso regola la pesca nelle acque del demanio pubblico e del mare territoriale, ed in quelle di proprietà privata nei casi espressamente stabiliti. Non si ravvisa, dunque, una distinzione di disciplina tra la pesca marittima e quella non marittima.

La produzione normativa successiva al testo unico fino alla seconda guerra mondiale seguì le medesime linee guida, essendo diretta all’incentivazione ed allo sviluppo della produzione nel settore, anche in ragione delle idee autarchiche dell’epoca, rivolte ad ottenere nei vari settori produttivi, e quindi anche nella pesca, una produzione sufficiente al fabbisogno nazionale.

Queste ragioni portarono all’istituzione in vari settori, pesca compresa, di nuove figure, dotate di compiti e poteri propulsivi e di coordinamento, al fine di raggiungere una efficace programmazione degli interventi pubblici nei vari settori. Venne così istituito un Commissariato Generale per la Pesca[9], cui furono affidati compiti di coordinamento e di programmazione rivolti a realizzare un incremento sia nella pesca marittima che in quella nelle acque interne.     

 

 

4. – La l. 14 luglio 1965 n. 963, sulla disciplina della pesca marittima ed il relativo regolamento di esecuzione (d. P. R. 2 ottobre 1968 n. 1639)

 

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale la pesca marittima e la pesca nelle acque interne cominciano a seguire strade diverse e ad apparire nettamente differenziate, anche a causa dello sviluppo tecnologico intervenuto[10].

Da ciò è derivata una ricostruzione della materia ed una disciplina giuridica basata sulla netta differenziazione tra pesca marittima e pesca nelle acque interne.

Nelle acque interne, infatti, la pesca si atteggia soprattutto come attività di allevamento ittico, mentre quella marittima, con l’espansione soprattutto della pesca d’altura, appare sempre più avviata verso l’assunzione di dimensioni maggiori con caratteristiche vicine all’impresa industriale, anche se, negli ultimi anni, si è registrato un incremento dell’acquacoltura marina.

La pesca rivierasca e la pesca costiera, invece, che avevano sempre costituito il trait d’union tra quella marittima e quella nelle acque interne, proprio a causa dello sviluppo della pesca d’altura ed il crescente utilizzo di mezzi nautici sempre meglio attrezzati, assumono in misura sempre maggiore la veste di attività concernenti lo sport ed il tempo libero[11].

Tuttavia, la distinzione in parola non trova il suo fondamento nel criterio basato sulla diversità delle metodologie adoperate, rispettivamente, nell’ambito della pesca marittima e di quella nelle acque interne, bensì sul criterio basato sulla diversa natura giuridica delle acque nelle quali la pesca viene esercitata[12].

Con l’approvazione della l. 14 luglio 1965 n. 963, in tema di disciplina della pesca marittima, è considerata pesca marittima[13], indipendentemente dai mezzi adoperati e dal fine perseguito, ogni attività diretta a catturare esemplari di specie il cui ambiente abituale o naturale di vita siano le acque del mare o del demanio marittimo e le zone di mare ove sboccano fiumi ed altri corsi d’acqua, naturali o artificiali, ovvero quelle che comunicano direttamente con lagune e bacini di acqua salsa o salmastra a partire dalla congiungente i punti più foranei delle foci e degli altri sbocchi in mare[14].

Ne consegue che, dopo l’entrata in vigore della l. n. 963/1965, le norme del t. u. n. 1604/1931 sono rimaste in vigore soltanto per la pesca non marittima.

Pesca nelle acque interne è quella che si esercita nelle acque dei fiumi, dei laghi, dei torrenti e dei canali. In tale nozione vengono comunemente fatte rientrare anche la piscicoltura e l’acquacoltura[15]. La l. n. 963/1965, all’art. 1, comma 2, come accennato, considera, invece, pesca marittima ogni attività diretta alla cattura di esemplari di specie il cui ambiente naturale o abituale di vita è costituito dalle acque marine, indicate nel comma 1, indipendentemente dai mezzi adoperati e dal fine perseguito[16].

L’art. 2 del regolamento di esecuzione, riallacciandosi all’art. 1, comma 2, della l. n. 963/65 individua i prodotti della pesca come gli organismi, viventi e non viventi, animali o vegetali, eduli e non eduli, catturati nelle acque indicate dall’art. 1.

Il regolamento, all’art. 7, distingue, poi, in base allo scopo perseguito, tra pesca professionale, definendola come l’attività economica destinata alla produzione per lo scambio dei prodotti della pesca esercitata dai pescatori e dalle imprese di pesca, pesca scientifica, diretta a finalità di studio, ricerca e sperimentazione, e pesca sportiva, esercitata a scopo ricreativo o agonistico.

Nell’ambito della pesca marittima, poi, il codice della navigazione ed il regolamento per la navigazione marittima distinguono tra pesca costiera, pesca mediterranea e pesca oltre gli stretti[17]. Tale classificazione dei tipi di pesca è ripresa dal d. P. R. n. 1639/1968, regolamento di esecuzione della l. n. 963/1965 che, dopo avere individuato, all’art. 8, le categorie di navi da adibire ai vari tipi di pesca professionale, distingue quest’ultima, all’art. 9, in pesca costiera, a sua volta distinta in pesca locale[18] e pesca ravvicinata[19], pesca mediterranea o d’altura[20] e pesca oltre gli stretti od oceanica[21].

Inoltre, all’art. 10, il regolamento chiarisce che è altresì considerata pesca professionale quella esercitata mediante impianti fissi o mobili, temporanei o permanenti, destinati alla catture di specie migratorie, alla piscicoltura, alla molluschicoltura ed allo sfruttamento di banchi sottomarini.

La l. n. 963/1965 istituisce, presso le capitanerie di porto, il registro dei pescatori marittimi (art. 9), nel quale debbono iscriversi coloro che intendano esercitare la pesca marittima, subordinandone l’esercizio professionale a tale iscrizione (art. 10). Il regolamento di esecuzione, agli artt. 32 e seguenti, disciplina le modalità d’iscrizione nel registro, individuando i requisiti, le condizioni, i documenti e le qualifiche per ottenerla nonché i casi di cancellazione.   

Sempre presso le capitanerie di porto è istituito il registro delle imprese di pesca (art. 11) ove hanno l’obbligo di iscriversi coloro che intendano esercitare un’attività imprenditoriale[22]. Anche in questo caso il regolamento di esecuzione, agli artt. 63 ss., disciplina le modalità di iscrizione, i requisiti e documenti necessari, nonché i casi di cancellazione.

L’art. 12 della l. n. 963/1965 stabiliva, poi, che le navi ed i galleggianti abilitati alla navigazione ai sensi dell’art. 149 c. nav., per esercitare la pesca dovevano essere muniti di apposito permesso. Il regolamento individuava sia l’autorità competente a rilasciarlo, sia le condizioni e le modalità per ottenerlo[23].

Dall’esame del dato normativo, appare evidente che il rilascio (come pure il rinnovo) del permesso di pesca avveniva al termine di un procedimento meramente ricognitivo diretto ad accertare la sussistenza, in capo al richiedente, dei requisiti soggettivi ed oggettivi prescritti. Oggi le cose stanno diversamente, essendo stato sostituito il permesso di pesca con la licenza di pesca, come meglio vedremo più avanti.

Infine, l’art. 14 della legge rinvia al regolamento per determinare i limiti e le modalità idonee a garantire la tutela delle risorse biologiche ed il loro migliore rendimento costante tramite norme riguardanti le zone, i tempi, gli strumenti, i tipi di navi non consentiti nell’esercizio della pesca ed il successivo art. 15, al fine di tutelare le risorse biologiche delle acque marine ed assicurare il disciplinato esercizio della pesca, stabilisce una vasta serie di attività vietate.

 

 

5. – La l. 17 febbraio 1982 n. 41

 

Una svolta fondamentale nel settore della pesca si è avuta con la l. 17 febbraio 1982 n. 41, piano per la razionalizzazione e lo sviluppo della pesca marittima, che ha introdotto la programmazione settoriale della pesca[24].

Tale intervento di programmazione si colloca nel più ampio e generale quadro della programmazione nazionale così come si è venuta sviluppando soprattutto a partire dagli anni ‘70 con l’istituzione di vari comitati interministeriali preposti al coordinamento dei principali settori dell’economia nazionale.

La l. n. 41/1982, al fine di promuovere lo sfruttamento razionale e la valorizzazione delle risorse del mare attraverso uno sviluppo equilibrato della pesca marittima, stabilisce che il Ministro della marina mercantile (oggi il Ministro delle politiche agricole), tenuto conto della programmazione statale e regionale, degli indirizzi comunitari e degli impegni internazionali, adotta il piano nazionale triennale della pesca e dell’acquacoltura[25]. Tale piano, elaborato dal comitato nazionale per la conservazione e la gestione delle risorse biologiche del mare, è approvato dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (C.I.P.E.).

La l. n. 41/1982, sempre all’art. 1, individua i seguenti obbiettivi cui sono finalizzati gli interventi previsti dalla legge stessa: gestione razionale delle risorse biologiche, incremento di talune produzioni, razionalizzazione del mercato, miglioramenti occupazionali, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli addetti al settore, miglioramento della bilancia commerciale.

Per il raggiungimento dei predetti obiettivi vengono poi individuate le misure da adottare, quali: lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica, la conservazione e lo sfruttamento ottimale delle risorse biologiche, la regolarizzazione dello sforzo di pesca in funzione delle effettive capacità produttive dell’ambiente marino, la ristrutturazione e l’ammodernamento dei pescherecci e delle strutture a terra, l’incentivazione alla cooperazione, lo sviluppo dell’acquacoltura, l’istituzione di zone di riposo biologico e di ripopolamento, l’organizzazione e lo sviluppo della rete di distribuzione e conservazione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura in acque marine e salmastre, il miglioramento ed il potenziamento delle strutture e delle infrastrutture al servizio della pesca.

Da quanto precede si evince senz’altro un sostanziale mutamento nell’atteggiamento del legislatore, di pari passo ai mutamenti, assai significativi, intervenuti a livello internazionale[26], per ciò che concerne la disciplina della pesca, poiché risulta chiaramente la volontà di razionalizzare ed ottimizzare lo sforzo di pesca, mentre per il passato si era perseguito soltanto l’obiettivo di aumentare la produzione dei prodotti ittici.

Particolare rilievo assume, poi, l’art. 4 della l. n. 41/1982 che, sotto la rubrica “Regolazione dello sforzo di pesca”, istituisce la licenza di pesca sopprimendo il precedente sistema basato sul permesso di pesca, con le relative conseguenze.

In definitiva, con la l. n. 41/1982 il legislatore nazionale ha dato preminente rilievo all’aspetto della conservazione e della gestione razionale delle risorse biologiche del mare, adeguandosi in tal modo agli indirizzi già particolarmente evidenti e sentiti in ambito internazionale, ridimensionando significativamente, come vedremo, il rapporto tra privato ed attività di pesca.

 

 

6. – Dal permesso di pesca alla licenza di pesca

 

Secondo la dottrina tradizionale le situazioni giuridiche soggettive attinenti all’esercizio della pesca venivano ricondotte al diritto soggettivo, per la pesca nell’ambito territoriale dello Stato, ed alla facoltà soggettiva, per quanto concerne la pesca nelle acque internazionali[27].

Per lungo tempo, infatti, la pesca è stata considerata quasi esclusivamente su un piano strettamente privatistico, quale libera estrinsecazione delle facoltà umane. Ciò anche in ragione del fatto che l’attività di pesca, anche se esercitata professionalmente, veniva considerata come scarsamente redditizia ed assai poco influente sul piano dell’economia nazionale[28], diversamente da quanto è invece accaduto da alcuni anni a questa parte.

Tale ricostruzione, sia per quanto concerne il diritto interno, sia per quanto concerne la disciplina internazionale, non corrisponde più all’assetto attuale della materia, poiché la disciplina della pesca ha subito, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, delle significative modifiche ed è stata oggetto di crescente attenzione e di puntuale e specifica disciplina, sia a livello interno, sia a livello internazionale.

In sostanza, si è registrata una significativa riduzione della sfera di libertà del privato nei riguardi dell’attività di pesca dovuta, essenzialmente, a due principali ordini di ragioni: l’importanza crescente delle risorse ittiche per l’alimentazione umana, unitamente alla conseguenziale, rilevante importanza economica ad esse così attribuita, e la preoccupazione del deterioramento irreversibile delle risorse ittiche stesse, dovuto sia a fenomeni di sovrasfruttamento che a fenomeni di inquinamento delle aree marine, con l’allarmante conseguenza dell’estinzione di alcune specie ittiche.

Questi fenomeni si sono mostrati con particolare evidenza soprattutto a partire dalla fine degli anni ‘50, con il passaggio dalla pesca artigianale alla pesca industriale, caratterizzata dalla meccanizzazione delle reti, dalla motorizzazione delle imbarcazioni, da moderni sistemi di conservazione a bordo del pescato e dall’utilizzo di apparecchiature per l’individuazione delle zone di pesca. Si è avuto, di conseguenza, un notevole incremento della produzione mondiale in questo settore.

La prima e più evidente conseguenza dell’incontrollato sviluppo della produzione è stato un impoverimento generalizzato delle risorse biologiche del mare che, già evidente sul finire degli anni ‘60, ha provocato una brusca flessione della produzione nel successivo decennio ‘70.

Anche le esigenze di tutela del mare dai fenomeni di inquinamento hanno assunto particolare rilievo a partire dai primi anni ‘70, soprattutto in seguito ad una serie di incidenti che hanno portato la soglia dell’inquinamento marino a livelli mai raggiunti prima, causando in tal modo danni irreversibili[29].

In un simile contesto, è presto risultata evidente la necessità di proteggere l’ambiente marino e le sue risorse biologiche, nonché l’esistenza di un comune interesse al riguardo facente capo non soltanto ai singoli Stati bensì all’intera Comunità Internazionale.

Alla luce di queste considerazioni, la questione della gestione razionale e della conservazione delle risorse biologiche del mare ha finito per assumere un significato ed una portata diversi rispetto al passato e le relative problematiche hanno iniziato ad essere particolarmente sentite, sia da parte dell’opinione pubblica, sia da parte delle autorità statali.

Tali motivazioni, che sono anche alla base del lento processo di erosione subito dai tradizionali principi del diritto del mare[30], hanno condotto alla riscoperta dell’esauribilità delle risorse ittiche ed al progressivo ridimensionamento dell’esercizio della pesca che da attività essenzialmente libera si è trasformata in attività controllata([31].

In effetti, già la l. n. 963/1965 prevedeva delle cautele, dimostratesi non molto efficaci, per limitare l’esercizio professionale della pesca a chi fosse fornito di apposito permesso e per l’impiego di determinati attrezzi.

Tuttavia, nell’ordinamento interno, l’affievolimento della situazione giuridica soggettiva del privato da diritto soggettivo ad interesse legittimo è intervenuto proprio con l’art. 4 della l. n. 41/1982 che ha sostituito al permesso di pesca, previsto dalla l. n. 963/1965, la cd. licenza di pesca, cioè un documento che autorizza la cattura di una o più specie, in una o più aree, da parte di una nave di determinate caratteristiche, con uno o più attrezzi[32].

Il legislatore del 1982, al fine di contenere lo sforzo di pesca sulla base della consistenza delle risorse biologiche del mare, ha attribuito al Ministro della marina mercantile (oggi al Ministro delle politiche agricole) il potere di stabilire il numero massimo di licenze di pesca, suddivise per zone, attrezzi, specie, distanza dalla costa ed apparato motore della nave. Inoltre, il Ministro determina i criteri per l’assegnazione delle licenze, qualora le richieste siano superiori alle previsioni di rilascio, e adotta le eventuali misure di riduzione del numero delle licenze o le modifiche che si rendessero necessarie in tema di zone di pesca, specie ittiche ed attrezzi utilizzabili.

E’ stabilito, infine, che la proprietà o il possesso di una nave da pesca non costituisce titolo sufficiente per ottenere la licenza.

A parte la terminologia utilizzata dal legislatore, sulla cui esattezza sono state espresse riserve[33], la fondamentale differenza tra permesso e licenza di pesca si registra dal punto di vista sostanziale, giacché dalla funzione di mera registrazione del pescatore o dell’impresa di pesca svolta dal primo si è passati ad un procedimento valutativo di carattere discrezionale da parte dell’autorità amministrativa, alla quale spetta di verificare la compatibilità della richiesta avanzata dall’interessato con gli obiettivi perseguiti dalla programmazione di settore e con le potenzialità produttive (e riproduttive) dell’ambiente marino[34].

Appare chiaro, allora, alla luce di quanto esposto, quali siano il significato e la portata dell’istituto introdotto con la l. n. 41/1982 e quali siano gli interessi tutelati in via principale. Infatti, se il Ministro ha la possibilità di stabilire il numero massimo di licenze di pesca, di determinare i criteri per l’assegnazione delle licenze qualora le richieste siano superiori alle previsioni di rilascio, di adottare le eventuali misure di riduzione del numero delle licenze, oltre al fatto che la proprietà o il possesso di una nave da pesca non costituisce titolo sufficiente per il rilascio della licenza stessa, è evidente che la situazione è profondamente cambiata rispetto al precedente sistema basato sul permesso di pesca.

Il permesso di pesca, infatti, in base alle modalità che caratterizzavano il procedimento di rilascio, veniva conseguito dall’interessato all’esito di un procedimento autorizzatorio a carattere ricognitivo e non discrezionale dei presupposti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla legge e dal regolamento per l’esercizio della pesca, intesa come diritto d’impresa, essendo il suo rilascio subordinato alla richiesta dell’interessato in possesso dei prescritti requisiti ed al possesso di una nave abilitata all’esercizio della pesca[35].

La licenza di pesca, invece, alla luce del procedimento per il suo rilascio, tenuto conto, altresì, dell’insufficienza del presupposto della proprietà o del possesso di una nave da pesca per l’ottenimento della licenza – fattori questi ultimi che hanno determinato la perdita del carattere meramente ricognitivo del procedimento per il conseguimento della licenza stessa – appare rilasciata secondo parametri di carattere discrezionale.

Ne consegue, quindi, che, a causa della progressiva pubblicizzazione subita dalla materia[36], il rapporto tra privato ed attività di pesca ha subito un forte ridimensionamento e si è passati da una situazione giuridica soggettiva qualificabile come diritto soggettivo (jus piscandi), seppure ricostruibile come diritto d’impresa, ad una situazione riconducibile alla fattispecie dell’interesse legittimo, stante il carattere subordinato dell’interesse del privato allo svolgimento dell’attività di pesca rispetto all’interesse primariamente tutelato dalla legge e individuabile nella conservazione e razionale gestione delle risorse ittiche[37].

Da quanto precede, è facile concludere per la perdita del carattere ricognitivo del procedimento autorizzatorio, al quale, invece, nella nuova disciplina, può essere riconosciuto un effetto costitutivo che sembrerebbe attrarre il procedimento di rilascio delle licenze nell’ambito di uno schema procedurale di carattere concessorio[38], con conseguente degradazione della situazione soggettiva facente capo al privato da diritto soggettivo ad interesse legittimo[39].

In conclusione, dalla ricostruzione delle vicende del rapporto tra privato ed attività di pesca ed alla luce delle modificazioni che tale rapporto ha subito in ragione degli interventi legislativi, è evidente che, al momento, l’interesse principalmente tutelato è quello riguardante la salvaguardia, la conservazione e la razionale gestione delle risorse biologiche del mare, passaggio obbligato per raggiungere l’obiettivo del rendimento costante ottimale delle specie ittiche, al quale rimane subordinato l’interesse del privato allo svolgimento dell’attività di pesca[40].

 

 

7. – Le attribuzioni in materia di pesca ed il conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca

 

Uno degli aspetti principali con il quale la pesca italiana ha dovuto e dovrà ancora confrontarsi nei prossimi anni riguarda senz’altro l’assetto istituzionale ed amministrativo del settore.

In particolare, si rende necessario fornire una risposta adeguata alla crescente domanda di decentramento amministrativo nell’ambito dei rapporti tra amministrazione centrale ed amministrazioni periferiche che rispetti, tuttavia, le indispensabili esigenze di coordinamento centrale ed unitario delle risorse e dello sforzo di pesca. In altri termini, occorre favorire il decentramento al fine di consentire un rapporto diretto tra utenti ed operatori del settore con l’amministrazione periferica senza mettere da parte, tuttavia, le esigenze di centralizzazione nella gestione delle risorse derivanti dal fatto che, come è noto, le risorse ittiche non rispettano i confini[41], né internazionali, né tantomeno regionali, ancora più ristretti. Dunque, non è possibile prescindere dalle necessità di omogeneità gestionale e di programmazione generale dello sforzo di pesca in ambito nazionale, oltre che nel più vasto contesto comunitario ed internazionale. 

L’attuale assetto delle competenze in materia di pesca è il frutto di non brevi vicende.

Come già visto, al momento dell’unità nazionale il r. d. n. 387/1861 attribuiva le relative competenze al Ministero dell’agricoltura, industria e commercio, senza operare distinzione alcuna tra pesca marittima e nelle acque interne. Successivamente, venne emanato il r. d. n. 1090/1882 per la pesca marittima e dopo qualche anno il r. d. n. 2449/1884 per la pesca nelle acque interne.

La disciplina della pesca rimase indifferenziata nel r. d. n. 1604/1931, testo unico delle leggi sulla pesca, che, nell’introdurre una disciplina maggiormente articolata, trattava unitariamente della pesca marittima e di quella nelle acque interne. Le relative competenze, acquacoltura compresa, venivano assegnate al Ministero dell’agricoltura e foreste.

Sebbene l’intera materia fosse riunita nel citato testo unico, l’unità di trattazione era soltanto formale e ad essa non corrispondeva una effettiva unità sostanziale. D’altronde il testo unico riguardava principalmente la disciplina della pesca marittima, anche perché, in questa prima fase di sviluppo della legislazione nazionale, l’acquacoltura e le altre forme di allevamento ittico occupavano un posto assolutamente marginale rispetto alla pesca tradizionale.

Già con il t. u. del 1931, dunque, erano evidenti i primi segni di una differenziazione della materia, che il legislatore successivo ha finito per sancire.

Con il r. d. l. 31 dicembre 1939 n. 1539 fu istituito il Commissariato Generale per la Pesca al quale vennero attribuiti compiti di coordinamento e di programmazione al fine di realizzare un incremento nella pesca marittima e, altresì, l’aumento ed il perfezionamento degli allevamenti nelle acque interne, lagunari e marittime. Qualche anno dopo, con il d. lg. lt. 21 settembre 1944 n. 251 il Commissariato venne soppresso e le relative attribuzioni furono di nuovo devolute al Ministero dell’agricoltura e foreste.

Successivamente, con il d. lg. C. p. S. 13  luglio 1946 n. 26 venne istituito il Ministero della marina mercantile al quale, con il d. lg. C. p. S. 31 marzo 1947 n. 396 furono conferite le attribuzioni in materia di pesca già spettanti al Ministero dell’agricoltura e foreste, con esclusione di quelle relative alle acque interne che rimasero a quest’ultimo.

Nel frattempo, con r. d. 30 marzo 1942 n. 327 era stato approvato il codice della navigazione che tratta, brevemente, soltanto della pesca marittima, non facendo cenno alcuno a quella nelle acque interne.

La legislazione successiva, poi, è stata necessariamente influenzata dall’emanazione della Costituzione Repubblicana del 1948 che ha indicato, tra le materie di cui all’art. 117, riservate alla competenza del legislatore regionale, anche la pesca nelle acque interne.

In definitiva, alla scissione della materia hanno finito per corrispondere potestà legislative diverse: quella dello Stato per la pesca marittima e quella delle Regioni per la pesca nelle acque interne[42].

Con l’approvazione della l. n. 963/1965 e del d. P. R. n. 1639/1968 è stata disciplinata ex novo la materia della pesca marittima, per cui il t. u. n. 1604/1931 è rimasto in vigore solo per quella non marittima. Le attribuzioni in materia venivano affidate al Ministero della marina mercantile[43].

L’interesse, sempre maggiore, per il settore della pesca marittima è stato confermato con la l. n. 41/1982 che, come abbiamo visto, ha introdotto la programmazione del settore, attribuendone i compiti all’allora Ministero della marina mercantile.

Con l’approvazione della l. 5 febbraio 1992 n. 102, concernente l’acquacoltura, che ha risolto definitivamente la questione del suo inquadramento giuridico sancendone l’agrarietà, l’art. 3 della legge ha stabilito che le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano adottano programmi di sviluppo dell’acquacoltura in armonia con le disposizioni della legge medesima. Tale disposizione, tuttavia, non fa che ribadire un dato già acquisito, poiché la stessa qualificazione di attività agricola riconosciuta all’acquacoltura dal precedente art. 2 costituisce il presupposto per l’implicito riconoscimento di competenza in materia alle regioni.

In seguito, con la l. 4 dicembre 1993 n. 491, con la quale sono state riordinate le competenze regionali e statali in materia di agricoltura e foreste ed è stato istituito il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, sono state trasferite a quest’ultimo le funzioni in materia di pesca marittima, nonché quelle di già competenza del Ministero della marina mercantile in virtù della l. n. 963/1965 e della l. n. 41/1982.

Successivamente, in attuazione della l. 15 marzo 1997 n. 59, recante delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa, il d. lg. 4 giugno 1997 n. 143, riguardante il conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e di riorganizzazione dell’amministrazione centrale, ha abrogato la l. 4 dicembre 1993 n. 491 e soppresso il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, stabilendo che tutte le funzioni ed i compiti svolti dal predetto Ministero, tra cui quelle relative alla materia della pesca, sono esercitate dalle regioni, direttamente o mediante delega di attribuzione, nel rispetto dell’art. 4 della l. n. 59/1997, alle province, ai comuni o ad altri enti locali e funzionali. Il d. lg n. 143/1997 ha istituito, poi, il Ministero delle politiche agricole che, fino alla ristrutturazione prevista dalla l. n. 59/1997, per quanto già di competenza del soppresso Ministero delle risorse agricole, svolge compiti di disciplina generale e di coordinamento nazionale.

In questo contesto si inseriscono, infine, il d. lg. 5 marzo 1998 n. 60 ed il d. lg. 30 marzo 1999 n. 96, recanti intervento sostitutivo del Governo per la ripartizione di funzioni amministrative tra regioni ed enti locali in materia di agricoltura e pesca ai sensi dell’art. 4, comma 5, della l. n. 59/1997, il d. lg. 31 marzo 1998 n. 112, riguardante il conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali in attuazione della l. n. 59/97, oltre agli interventi di cui alla l. 8 marzo 1999 n. 50, per la delegificazione e la semplificazione di alcuni procedimenti amministrativi ed il  riordino dei testi unici. Tra le materie per le quali è previsto il riordino mediante l’emanazione di un testo unico è compresa quella della pesca e acquacoltura[44].

Significativa, in tale contesto, anche la l. 21 maggio 1998 n. 164, recante “Misure in materia di pesca e di acquacoltura”, che ha modificato la l. n. 41/1982 e ne ha esteso le disposizioni all’attività di acquacoltura[45].

 

 

8. – Il diritto della pesca

 

Alla luce di quanto precede, è ora possibile spostare l’attenzione sulle tematiche concernenti la definizione del diritto della pesca, il suo oggetto, il suo inquadramento sistematico.

Il diritto della pesca è costituito dal complesso delle norme che regolano la materia della pesca, ossia quelle norme che disciplinano, in modo immediato e diretto, i soggetti, i beni, gli atti ed i rapporti giuridici attinenti alla pesca. In definitiva, il diritto della pesca regola il fenomeno della produzione ittica che si concretizza nella separazione degli organismi presenti nelle acque dalle acque medesime[46].

Definito, dunque, il diritto della pesca come quella branca dell’ordinamento che disciplina tale attività, il primo problema è quello di inquadrarne l’ampiezza. Sul punto, nonostante qualche opinione contraria, appare ormai consolidato l’orientamento secondo cui non è possibile fare rientrare nel diritto della pesca qualsiasi norma che abbia comunque attinenza con la predetta attività, bensì l’ambito va necessariamente ristretto alle sole norme che direttamente si riferiscono all’esercizio della pesca[47].

Come è stato rilevato, poi, il diritto della pesca si presenta come una disciplina poco omogenea e si atteggia, quindi, come un tipico diritto composito che trova la sua giustificazione agglomerativa in un’attività economica ma che non riesce a delinearsi a sistema compatto proprio per le sue forti divaricazioni[48].

Oggetto del diritto della pesca, infine, è quell’attività dell’uomo diretta ad ottenere esemplari di specie il cui ambiente naturale o abituale di vita è costituito dalle acque, indipendentemente dai mezzi adoperati e dal fine perseguito[49].

Le maggiori dispute, tuttavia, si registrano su altre questioni. In particolare, si discute se il diritto della pesca sia dotato di una propria autonomia giuridica, prevalendo la soluzione negativa[50] e, soprattutto, se si tratti o meno di un diritto speciale e quale sia la sua esatta collocazione sistematica.

Al riguardo, tra le molteplici soluzioni prospettate, ora è stata accolta quella favorevole alla specialità della materia[51] ora, invece, è stata ritenuta preferibile la sua ricostruzione quale diritto specializzato anziché speciale[52].

Quanto alla sistematica della materia, allo stesso modo, ora è prevalso il suo l’inquadramento nell’ambito del diritto della navigazione, quale navigazione speciale[53], ora ne è stata rivendicata l’appartenenza al diritto marittimo[54], ora, infine, si è cercato di accostarla al diritto agrario[55].

In particolare, una parte della dottrina ammette, in tale branca dell’ordinamento, l’esistenza di principi e di istituti dotati di una propria fisionomia che consentirebbero di configurare il diritto della pesca come un vero e proprio diritto speciale[56].

Altra dottrina, invece, seguendo diverso ragionamento, ritiene che il diritto della pesca, allo stato attuale della legislazione, non possa essere considerato come un diritto speciale né, a maggior ragione, un diritto autonomo, bensì vada ricostruito come un diritto specializzato, cioè una branca del diritto oggettivo che applicando, approfondendo e talvolta adattando principi ed istituti di carattere più generale, regola una materia di natura particolare[57].

Quanto, invece, al problema dell’inquadramento sistematico della materia, secondo l’orientamento tradizionale, la pesca appartiene al diritto della navigazione, inserendosi fra le cd. navigazioni speciali[58].

Questo orientamento, analizzando i delicati rapporti tra diritto della pesca e diritto della navigazione, ripercorrendo alcune tra le tematiche centrali proprie della materia della navigazione, quali quelle riguardanti le differenziazioni tra esercizio nautico ed utilizzazione professionale del mezzo nautico, chiarito che l’esercizio rappresenta la fase tecnica e strumentale ed il presupposto per l’esercizio dell’impresa economica, delineata la distinzione tra esercizio (momento nautico) ed impresa (momento commerciale), conclude che il diritto della pesca, esercitata con mezzi nautici, non sia che parte del diritto della navigazione[59].

Al contrario, vi è chi, pur riconoscendo la specialità, in senso normativo-funzionale, della disciplina della pesca marittima, giunge ad una diversa conclusione, ritenendo forzato ed artificioso l’inquadramento della materia nelle cd. navigazioni speciali e preferendo, piuttosto, inquadrarla nell’ambito del diritto marittimo[60].

La pesca nelle acque interne, invece, in ragione delle sue caratteristiche, in particolare per la prevalenza dell’attività di allevamento rispetto all’attività di cattura degli organismi acquatici (acquacoltura e piscicoltura), è stata spesso accostata all’agricoltura e fatta rientrare nel diritto agrario[61].

La stessa normativa comunitaria, del resto, sembra confermare quest’ultimo inquadramento (economico-funzionale), inserendo i prodotti della pesca nell’ambito dei prodotti agricoli[62].

Per la normativa comunitaria, dunque, non è preminente il mezzo tecnico attraverso il quale la pesca si svolge, bensì prevale l’aspetto economico-produttivo. Per cui, come è stato affermato, ai fini dell’inquadramento sistematico della materia, mentre per il codice della navigazione e per la successiva legislazione nazionale prevale il momento nautico, per la normativa comunitaria rileva soprattutto l’aspetto economico-funzionale[63].

 

 

9. – Il diritto della pesca tra esercizio nautico e finalità economico-produttive

 

L’analisi delle principali linee evolutive della normativa in tema di pesca consente di concludere che si è passati da un sistema, rimasto in vita per lungo tempo, in cui lo sfruttamento e la conservazione delle risorse biologiche del mare era, sostanzialmente, affidato al buon senso degli addetti al settore, ad un sistema basato sullo sfruttamento e l’utilizzazione regolamentati delle risorse stesse, alla luce di una disciplina rivolta ad ottenere, da un lato, il rendimento ottimale delle specie ittiche, salvaguardando, al contempo, dall’altro, le esigenze di conservazione delle risorse e di razionale sfruttamento e gestione delle stesse, in modo tale da garantire non soltanto la continuità, bensì la continuità a livello costante dello sfruttamento delle risorse alieutiche, il tutto nel più vasto contesto della difesa dell’ecosistema, non soltanto marino, inteso quale interesse dell’intera collettività.

In definitiva, le problematiche della pesca marittima possono essere ricondotte nell’alveo del più generale concetto di sviluppo sostenibile (sustainable development) nell’utilizzazione delle risorse naturali[64]. Tale concetto è stato accolto nel codice di condotta per la pesca responsabile adottato dalla F. A. O. (Roma, 1995).

In conclusione, la consapevolezza dell’esauribilità delle risorse biologiche del mare e gli obblighi nei confronti delle generazioni future hanno imposto, come interesse preminente, la difesa di queste ultime rispetto all’interesse del privato allo svolgimento dell’attività di pesca, sia essa intesa come semplice espressione di libertà, sia essa legata ad interessi di carattere economico.

A questo obiettivo, dunque, mira la più recente normativa in materia di pesca, cercando di contemperare le esigenze della produzione e le richieste del mercato con le esigenze di protezione, conservazione e razionale utilizzazione delle risorse biologiche del mare, dirette a preservare le risorse naturali, non soltanto per la difesa dell’ecosistema marino, ma, altresì, alla luce delle necessità, anche alimentari, delle generazioni future, per cui l’attività di sfruttamento deve essere impostata secondo criteri tali da presentare un impatto reversibile sul livello delle risorse.

A di là di tali risultati, tuttavia, gli sviluppi della materia, anche legislativi, offrono spazio, probabilmente, per ulteriori considerazioni.

Una serie di elementi, unitamente ad alcuni interventi normativi, potrebbero condurre ad una seria rimeditazione del tradizionale orientamento favorevole all’inquadramento sistematico del diritto della pesca quale specificazione della navigazione.

Si rifletta attentamente sui seguenti aspetti: il passaggio delle attribuzioni in materia di pesca marittima dal soppresso Ministero della marina mercantile al Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, a sua volta soppresso, e, successivamente, al Ministero per le politiche agricole; lo sviluppo che ha conosciuto nel periodo più recente l’attività di acquacoltura[65], anche marina[66], che si atteggia oggi come vera e propria impresa (agricola)[67], al pari di quella di pesca marittima[68]; l’attribuzione delle competenze legislative alle regioni in materia di pesca interna[69] ed il trasferimento alle stesse delle funzioni amministrative in materia di pesca ed acquacoltura[70]; l’atteggiamento della normativa comunitaria che, al contrario di quella nazionale, non considera prevalente il mezzo tecnico attraverso il quale l’attività di pesca si esercita, bensì rivolge la propria attenzione, in via principale, all’aspetto economico-produttivo rivolto a finalità alimentari. Infatti, l’art. 38 del Trattato di Roma del 1957 contempla tra i prodotti agricoli quelli del suolo, dell’allevamento e della pesca[71].

A tutto ciò si aggiunga l’assimilazione, da tempo e da più parti prospettata, dell’attività di allevamento ittico e di coltivazione delle acque all’agricoltura[72] - che ha trovato accoglimento nell’art. 2 della l. 5 febbraio 1992 n. 102, che considera, a tutti gli effetti, l’attività di acquacoltura come attività imprenditoriale agricola[73] – ed il fatto che accanto alla pesca intesa come cattura in senso stretto di specie già esistenti in natura hanno trovato sempre maggior spazio la piscicoltura e l’acquacoltura, dove l’aspetto dell’apprensione materiale dei prodotti e, quindi, la separazione dall’elemento acquatico assume sicuramente un ruolo secondario rispetto alla pesca in senso proprio, mentre emerge, quale elemento comune alle due attività, il fine economico-produttivo rivolto a soddisfare esigenze alimentari.

Altro dato importante, poi, è costituito dalla crescente attenzione rivolta verso i prodotti ittici ai fini dell’alimentazione della popolazione e la trasformazione della dieta alimentare, sempre più rivolta verso il consumo di pesce, con la conseguenziale, rilevante importanza, economica e nutrizionale, attribuita alle risorse ittiche e la giustificabile preoccupazione del loro deterioramento irreversibile, dovuto sia a fenomeni di sovrasfruttamento (overfishing) che di inquinamento delle aree marine, con l’allarmante conseguenza dell’impoverimento o dell’estinzione di alcune specie[74].

Si tenga conto, inoltre, che la pesca-cattura non è più in grado di soddisfare le necessità alimentari della popolazione, anche perché lo sforzo di pesca non è più indiscriminato ma necessariamente contenuto entro quei limiti che consentano il razionale sfruttamento delle risorse (cd. pesca responsabile), garantendo la loro autorigenerazione ed evitando che la pesca indiscriminata porti all’impoverimento delle risorse, come è accaduto in passato. 

La stessa l. n. 41/1982, poi, che ha introdotto la programmazione settoriale della pesca, ha segnato un notevole progresso rispetto alla precedente normativa, poiché contiene una disciplina comprensiva di una serie di aspetti connessi alla pesca[75], quindi non soltanto disciplina l’attività di cattura ma, altresì, considera la conservazione, la trasformazione, la  commercializzazione dei prodotti, e la stessa acquacoltura[76], in una visione globale integrata nell’ambito di un processo economico-produttivo[77].

Significativa, ancora, in tale contesto, la l. 21 maggio 1998 n. 164, recante misure in materia di pesca e di acquacoltura, che ha modificato la l. n. 41/1982 e ne ha esteso le disposizioni all’attività di acquacoltura[78]. In particolare, tra le varie modifiche introdotte dalla l. n. 164/1998, va sottolineata quella apportata all’art. 1, comma, 4, n. 9, della l. n. 41/1982, ove l’obiettivo della riorganizzazione e dello sviluppo della rete di distribuzione e conservazione, verso il quale sono finalizzati parte degli interventi previsti dalla legge stessa, viene ampliato sostituendo alla precedente espressione «prodotti del mare» la più ampia indicazione «prodotti della pesca e dell’acquacoltura in acque marine e salmastre». Di interesse appare, inoltre, anche la modifica apportata dalla citata l. n. 164/1998 all’art. 1, comma 3, della l. 5 febbraio 1992 n. 72, concernente il fondo di solidarietà nazionale della pesca, che ha equiparato, ai fini di quest’ultima legge, gli acquacoltori ai pescatori[79].

Non vanno sottovalutati, infine, sempre nel contesto in esame, i forti cambiamenti che ha conosciuto l’agricoltura negli ultimi decenni[80] ed il lento processo di erosione (tutt’ora in corso) che sta interessando il concetto di «fondo rustico»[81] che, tradizionalmente, segnava il fondamento della distinzione tra regime agricolo e regime commerciale[82], e che oggi sembrerebbe, invece, alla luce dell’incidenza della legislazione speciale successiva sulla definizione codicistica di imprenditore agricolo[83], mutare il suo ruolo, determinando la necessità (o l’opportunità) di ridisegnare la dicotomia fra l’attività agricola e l’attività commerciale avendo presenti i mutamenti dell’economia ed i progressi della tecnica che incalzano, con una evoluzione che tocca, sembra ovvio, anche l’art. 2135 c. c., in una visione ove il terreno viene ad essere declassato a supporto o strumento eventuale dell’impresa agricola[84], in un’ottica innovatrice e sensibile all’analisi delle norme alla luce del progresso della tecnica e dell’economia.

Come è stato acutamente osservato, la nozione tradizionale di «fondo», inteso quale porzione del suolo terrestre, perde il suo originale valore ed il suo tradizionale significato e «… si annacqua»[85].

A tutto ciò si aggiunga, altresì, la preferenza, accordata da una parte della dottrina, alla concezione dell’agricoltura e della produzione agricola incentrate sullo svolgimento di un ciclo biologico, animale o vegetale, legato, direttamente o indirettamente, allo sfruttamento delle risorse naturali[86], la soggezione dell’attività di pesca a rischi ambientali non molto diversi da quelli che, a giudizio di molti interpreti, danno fondamento al regime agevolativo dell’agricoltura[87] e l’accostamento, ancora una volta operato da una parte della dottrina, tra l’impresa agricola e quella di pesca, le cui affinità con la prima appaiono maggiori di quelle con l’impresa commerciale[88].

In ultimo, infine, appaiono sicuramente significative, in questo particolare contesto caratterizzato dal rivalutato interesse verso le risorse ittiche, alcune delle vicende che hanno caratterizzato l’evoluzione del diritto del mare[89].

A partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, il diritto internazionale marittimo si è sviluppato sulla base di alcuni fattori nuovi e diversi rispetto a quelli tradizionali, soprattutto di ordine economico, che inducono a considerare non più (o non soltanto) la navigazione marittima, bensì lo sfruttamento delle risorse biologiche e minerali del mare e dei fondali come l’utilizzazione di gran lunga prevalente degli spazi marini da parte degli Stati[90].

Nei secoli precedenti, invece, la principale utilizzazione delle aree marine era stata la navigazione, poiché il mare era considerato soprattutto come una importante via di comunicazione e di traffici piuttosto che una fonte da cui attingere risorse[91].

Il sostanziale sovvertimento delle utilizzazioni tradizionali delle aree marine, insieme ai radicali mutamenti intervenuti nella Comunità Internazionale, soprattutto in seguito al fenomeno della decolonizzazione, che hanno provocato, tra l’altro, il sorgere di conflitti d’interessi diversi da quelli esistenti in passato, hanno determinato il rapido invecchiamento dei principi tradizionali del diritto del mare e la necessità, quindi, dell’elaborazione di nuovi principi in grado di meglio rispondere ai nuovi interessi ed alla nuova fisionomia della Comunità Internazionale.

Le caratteristiche del “nuovo” diritto del mare, così come delineato dopo la Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982, sono espressione dei forti cambiamenti intervenuti nel regime giuridico dei mari e possono così sintetizzarsi: il nuovo diritto del mare è essenzialmente un diritto protezionista, poiché dà prevalenza allo sfruttamento delle risorse rispetto alla navigazione ed è, inoltre, un diritto oceanico, poiché favorisce gli Stati che fronteggiano il mare aperto[92].

Il primo aspetto è quello che, nell’ambito del ragionamento seguito, assume maggiore interesse, poiché il nuovo diritto del mare considera prevalente lo sfruttamento delle risorse marine rispetto alla navigazione, confermando, in tal modo, che nel corso degli ultimi decenni la questione dell’utilizzazione delle risorse, specie di quelle biologiche, ha polarizzato l’attenzione dell’intera Comunità Internazionale, suggerendo la predisposizione di idonee misure rivolte al loro sfruttamento ottimale, gestione razionale e conservazione[93], soprattutto per l’importanza che esse rivestono per l’alimentazione della popolazione mondiale e per l’equilibrio degli ecosistemi marini.

Tutti questi indici fanno ritenere che per la pesca, intesa in senso lato, allo stato attuale, piuttosto che il momento nautico, che pure rimane centrale nella (sola) pesca marittima esercitata con navi, è divenuto preminente l’aspetto economico-produttivo per fini alimentari, per cui il diritto della pesca, piuttosto che come navigazione speciale rientrante nel diritto della navigazione, potrebbe collocarsi sistematicamente nel diritto agrario[94], in ragione della finalità perseguita dall’attività stessa, ossia del fine economico-produttivo rivolto a rispondere alle richieste alimentari dei consumatori ed alla crescente domanda del mercato.

 

 

10. - Conclusioni

 

Le profonde modificazioni intervenute negli ultimi decenni nell’economia mondiale hanno condotto verso la razionalizzazione dei processi produttivi e distributivi al fine di adeguare le tecniche di produzione (e la produzione stessa) alla domanda del mercato, soprattutto di lungo periodo.

In questo contesto, alcune attività produttive rivolte a soddisfare finalità di natura alimentare hanno visto accrescere la propria importanza a livello internazionale.

La pesca, appunto per la sua importanza ai fini alimentari, non è affatto rimasta fuori da tale processo evolutivo.

Anche per questa materia[95], dunque, è necessario stabilire se (o fino a che punto) il suo tradizionale inquadramento sistematico sia (ancora) compatibile con il progresso scientifico e tecnologico, con le leggi del mercato, con le esigenze dell’economia, con le mutate abitudini dei consumatori e con molti altri cambiamenti intervenuti nel tessuto normativo, sociale ed economico[96].

In definitiva, al fine dell’inquadramento del diritto della pesca occorre mantenere ben distinti due aspetti, tra loro collegati ma concettualmente diversi: l’aspetto nautico, tecnico e strumentale rispetto allo scopo perseguito (esercizio della pesca), e l’aspetto economico-produttivo, prevalentemente per finalità alimentari. Il primo, presente soltanto nella pesca esercitata con mezzi nautici, rimane saldamente collocato nella materia della navigazione e necessariamente disciplinato dal diritto della navigazione, mentre il secondo, comune a tutte le tipologie di pesca (sia alla cattura – venga effettuata tramite mezzi nautici ovvero disgiuntamente da essi – che all’allevamento) rivolte verso il mercato dei consumatori – e che oggi è diventato prevalente - potrebbe consentire l’inquadramento del diritto della pesca nell’ambito del diritto agrario.

A parte l’allevamento, si deve necessariamente tenere conto che le attività di pesca disgiunte dall’esercizio della nave (per esempio utilizzando navi esercitate da terzi) o che da esso prescindono del tutto (si pensi al caso della pesca realizzata con impianti fissi) costituiscono oggi una evidente realtà, probabilmente destinata ancora a crescere negli anni a venire. Tutto ciò è confermato anche dal dato normativo. Infatti, l’impresa di pesca si esercita sia mediante l’impiego di una o più navi destinate alla pesca professionale, sia mediante l’impiego di un impianto di pesca, cioè con lo stabilimento di apprestamenti, fissi o mobili, temporanei o permanenti, destinati alla cattura di specie migratorie, alla piscicoltura e alla molluschicoltura ed allo sfruttamento di banchi sottomarini[97]. In quest’ultimo caso, è evidente, il momento nautico è del tutto assente.

La stessa utilizzazione di mezzi nautici, poi, del tutto strumentale rispetto alla cattura degli esemplari, a ben guardare, si pone in termini non molto diversi da quelli che si riscontrano nell’utilizzazione di moderni macchinari impiegati nella raccolta dei prodotti agricoli[98].

Potrebbe allora concludersi che le esigenze di ordine economico-produttivo legate alla crescente domanda di prodotti ittici, prevalentemente per finalità alimentari, delle quali una delle manifestazioni più evidenti è il notevole incremento che hanno conosciuto negli ultimi anni il settore dell’acquacoltura, anche marina, ed altre forme di allevamento ittico, stanno operando delle trasformazioni tali da incidere significativamente sul tradizionale inquadramento del diritto della pesca che potrebbe trovare agevole collocazione nell’ambito del diritto agrario, in un’ottica che faccia leva non tanto (o non soltanto) sul momento di collegamento costituito dall’impiego strumentale del mezzo nautico, attraverso il quale una parte della pesca si attua, bensì sul momento teleologico, ossia sull’aspetto di carattere economico-funzionale per finalità produttive rivolte a soddisfare i bisogni alimentari della popolazione.

Il prospettato avvicinamento del diritto della pesca al diritto agrario è, tuttavia, un fenomeno di avvicinamento reciproco: il diritto della pesca, per le motivazioni innanzi esposte, tende ad allontanarsi dal diritto della navigazione per accostarsi al diritto agrario ma, a sua volta, anche quest’ultimo, in ragione dei significativi mutamenti intervenuti in agricoltura, che hanno, in vari casi, determinato l’abbandono di (o l’allontanamento da) talune concezioni tradizionali, fortemente restrittive ai fini del riconoscimento della qualifica agricola di un’attività (in primis, come accennato, la svalutazione del fondo quale elemento qualificatore dell’agrarietà), tende oggigiorno ad ampliare il proprio (sia consentito il gioco di parole) … “terreno”, magari anche a seguito di interventi del legislatore che riconducono espressamente alcune attività, di cui era incerta e discussa la qualifica, nell’alveo del mondo agricolo (come è avvenuto, appunto, per l’acquacoltura), finendo per ampliare i propri confini e per abbracciare nuovi settori, fino a qualche tempo addietro considerati assolutamente non riconducibili ad esso.

Se deve, quindi, valutarsi con favore un regime di disciplina per quanto possibile unitario dell’attività di pesca (intesa in senso lato e, perciò, comprensiva sia della cattura che dell’allevamento), tale regime, dopo la scelta normativa del 1992 che ha ricondotto espressamente l’acquacoltura all’agricoltura, potrebbe non identificarsi con quello commerciale[99].

A favore di questa tesi depone anche il recente avvicinamento operato dal legislatore tra pesca ed acquacoltura[100], oltre il fatto che ciò che accomuna le due attività, pur nella consapevolezza del diverso procedimento tramite il quale si ottiene il prodotto (la semplice «cattura» per la pesca, il più articolato «allevamento» per l’acquacoltura), è il fine economico-produttivo prevalentemente per esigenze alimentari della popolazione e tale fine, comune sia alla cattura che all’allevamento, appare, a livello mondiale, l’aspetto preminente nella materia delle produzioni ittiche, per cui alcuni altri profili, che spesso hanno portato ad abbracciare l’una anziché l’altra qualificazione giuridica dell’attività e l’una anziché l’altra collocazione sistematica della materia, quali l’utilizzo del mezzo nautico per il raggiungimento del fine (esercizio della pesca) ovvero la differenza tra mera apprensione di prodotti già esistenti in natura e la più complessa attività di allevamento, che si articola in varie fasi di un ciclo biologico, potrebbero oggigiorno dover cedere il passo alla soluzione favorevole al complessivo inquadramento della materia, fondato sull’aspetto economico-produttivo per finalità alimentari, ossia sulla destinazione del risultato produttivo all’alimentazione, in riferimento al quale l’applicazione del regime giuridico dell’agricoltura appare quello preferibile.

 

 

 

 



 

(*) Pubblicato in Diritto dei trasporti, 2001, 13 ss.

 

[1] Cfr. artt. da 219 a 223 c. nav.

 

[2] Cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, in Aa. Vv., Regioni e pesca marittima, Milano, 1985, 12 s., nonché La pesca e il nuovo diritto del mare, in Giur. it. 1988, IV, 153; A. Lefebvre D’Ovidio - G. Pescatore - L. Tullio, Manuale di diritto della navigazione, Milano, 2000, 160 e 252 s.

 

[3] Tra i numerosi provvedimenti normativi in materia di pesca basti ricordare, in ordine cronologico, il r. d. 8 ottobre 1931 n. 1604, testo unico delle leggi sulla pesca; la l. 14 luglio 1965 n. 963, sulla disciplina della pesca marittima; il d. P. R. 2 ottobre 1968 n. 1639, regolamento per l’esecuzione della l. n. 963/1965; la l. 17 febbraio 1982 n. 41, piano per la razionalizzazione e lo sviluppo della pesca marittima; la l. 5 febbraio 1992 n. 102, concernente l’attività di acquacoltura; la l. 10 febbraio 1992 n. 165, integrativa e modificativa della l. n. 41/1982; la l. 4 dicembre 1993 n. 491, sul riordino delle competenze regionali e statali in materia agricola e istituzione del Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali; il d. lg. 4 giugno 1997 n. 143, conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e riorganizzazione dell’amministrazione centrale; la l. 21 maggio 1998 n. 164, recante misure in materia di pesca e di acquacoltura. Sulla produzione legislativa nel settore della pesca, v. C. Angelone, Codice delle leggi sulla pesca, Milano, 1994.

 

[4] In tal senso, M. Casanova, La pesca nell’ordinamento giuridico italiano, in Dir. mar. 1990, 433 s., secondo il quale il quadro normativo concernente i principali settori collegati alla materia della pesca, confuso e contraddistinto da un intreccio di competenze statali, regionali e locali, appare tale da non incoraggiare affatto iniziative di riordino.

 

[5] Cfr. A. Giunti, Pesca, in Enc. giur. XIII/1990, 1 s.

 

[6] Sulle vicende storiche del fenomeno della pesca in epoca romana, intermedia, moderna e contemporanea, v. G. Scalfati, Pesca, in Noviss. dig. it. XII/1965, 1173 s.

 

[7] Sul cd. diritto della pesca, cfr. G. Scalfati, Pesca, cit., 1170 s.; G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 14 s. nonché La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 149 s. e  Pesca, in Dig. it. XIII/1995, 536 s.

 

[8] Cfr. F. Cigolini, Lineamenti e principi informatori del nuovo testo unico delle leggi sulla pesca, in Riv. pen. 1933, 312 s.

 

[9] Istituito con  r. d. l. 31 dicembre 1939  n. 1953.

 

[10] Sul punto, cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 8 s.

 

[11] Cfr. G. Di Gaspare, Pesca, in Enc.  dir. XXXIII/ 1983, 565.

 

[12] Il punto di discrimine fra pesca marittima e pesca nelle acque interne è dato dalla diversa natura giuridica delle acque in cui la pesca viene esercitata: il mare e le acque del demanio marittimo per il primo tipo, le altre acque per il secondo. E’ dunque il criterio topografico che prevale su quello della diversità delle tecnologie. Così, G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 9 s. Cfr., altresì, l’art. 219 c. nav.; l’art. 1 della l. n. 963/1965; l’art. 1 del d. P. R. n. 1639/1968.

 

[13] V. art. 1 l. n. 963/1965.

 

[14] Cfr. art. 1 d. P. R. 2 ottobre 1968 n. 1639. Secondo l’art. 1 nelle zone di mare ove sboccano fiumi ed altri corsi d’acqua ovvero in quelle che comunicano direttamente con lagune e bacini di acqua salsa o salmastra le disposizioni del regolamento si applicano, quindi, a partire dalla congiungente i punti più foranei delle foci e degli altri sbocchi in mare. In giurisprudenza è stato chiarito che il criterio da seguire per la delimitazione tra pesca marittima e pesca nelle acque dolci non è quello che identifica il relativo limite nel tratto segnato dal punto in cui comincia la miscela delle acque salse con le acque dolci, ma quello della foce che deve essere intesa come il luogo di sbocco delle acque nel mare. Sul punto, cfr. Cass. 11 dicembre 1964, in Giust. pen. 1965, II, 247.

 

[15] La piscicoltura consiste nell’insieme delle attività che hanno come scopo l’allevamento dei pesci in bacini naturali o artificiali nonché il ripopolamento delle acque. L’acquacoltura, invece, è un concetto più ampio poiché comprende non soltanto la piscicoltura ma anche la molluschicoltura, lo sfruttamento dei banchi sottomarini e in genere l’allevamento di tutti gli organismi acquatici. Sul punto, cfr. G. Di Giandomenico, Pesca e piscicoltura - Le divaricazioni del diritto della pesca, in Riv. dir. agr. 1989, II, 171 s.

 

[16] Sul punto, cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 13, secondo cui da tale definizione dell’attività di pesca, estensibile anche alla pesca nelle acque interne, può ricavarsi la nozione generale di pesca quale «attività di cattura di specie animali acquatiche». In tale nozione generale, per espressa indicazione del legislatore (v. art. 10 del d. P. R. n. 1639/1968), rientrano pure le attività di acquacoltura, di piscicoltura, di molluschicoltura e lo sfruttamento di banchi sottomarini. Infatti, sebbene alcune di tali tipologie appaiano avvicinabili ad una attività di allevamento, sono pur sempre finalizzate all’apprensione delle specie ittiche.

 

[17] Cfr. art. 220 c. nav ed art. 408 del regolamento per la navigazione marittima.

 

[18] Si esercita nelle acque marittime fino ad una distanza di 6 miglia dalla costa con navi di quarta categoria o da terra.

 

[19] Si esercita nelle acque marittime fino ad una distanza di 40 miglia dalla costa con navi da pesca di categoria non inferiore alla terza.

 

[20] Si esercita nel Mediterraneo entro gli stretti di Gibilterra, dei Dardanelli e il canale di Suez con navi da pesca di categoria non inferiore alla seconda.

 

[21] Si esercitata oltre i predetti limiti con navi di prima categoria.

 

[22] L’impresa di pesca è oggi figura di primo piano nella pesca moderna, svolta su base industriale, ed appare fondamentale in qualunque ricostruzione si voglia fare del diritto della pesca. Sull’impresa di pesca, cfr. G. Scalfati, Pesca, cit., 1180 s. nonché Considerazioni sullo sviluppo storico dell’impresa di pesca, in Riv. pesca 1966, 513 s. e Elementi tecnico-economici per una classificazione e una nuova disciplina delle imprese di piscicoltura, in Riv. pesca 1968, 299 s.; D. F. Cagetti, Esercizio della pesca ed impresa, in Riv. pesca 1966,  497 s.; D. Gaeta, L’impresa di pesca marittima, in AA. VV., Regioni e pesca marittima, Milano, 1985, 141 s. nonché  Esercizio della nave, trasporto e impresa di pesca, in Dir. mar. 1990,  999 s.; G. Romanelli, Brevi considerazioni sull’impresa di pesca, in AA. VV., Regioni e pesca marittima, Milano, 1985, 197 s.; G. Oppo, Sulla natura giuridica dell’impresa di pesca marittima, in Riv. dir. civ. 1987, II, 393 s.; G. Righetti, Trattato di diritto marittimo, I-1, Milano, 1987, 92 s.; P. Masi, Oggetto dell’impresa di pesca e registro delle imprese, in Studium iuris 1997, V, 470 s.  Sul fenomeno delle joint ventures, cfr. A. Del Vecchio, Note preliminari ad uno studio sulle joint ventures nel settore della pesca, in Dir. mar. 1992,  30 s.; Aa. Vv., Le società internazionali miste di pesca, Milano, 1987.

 

[23] In particolare, gli artt. 74 ss. del regolamento di esecuzione stabilivano che per ottenere il permesso di pesca l’interessato doveva presentare una domanda all’ufficio di iscrizione della nave con l’indicazione della ragione sociale e le generalità dell’imprenditore, gli elementi di individuazione della nave, la categoria e le caratteristiche degli attrezzi da pesca, le caratteristiche dei sistemi di refrigerazione, la tabella di armamento. Ai sensi del successivo art. 76 l’autorità marittima, accertata la sussistenza dei requisiti e delle condizioni richiesti, rilasciava il permesso di pesca. Inoltre, l’art. 81 stabiliva che per il rinnovo del permesso di pesca l’imprenditore doveva presentare all’ufficio competente apposita istanza; l’ufficio, accertata la persistenza dei requisiti e delle condizioni richieste per il rilascio, provvedeva al rinnovo del permesso.

 

[24] Sul punto, cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 11 e La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 152 s., secondo il quale l’evoluzione della legislazione in materia di pesca è abbastanza netta, poiché si è passati da una normativa di mera disciplina dell’attività di pesca, soprattutto con norme di organizzazione, ad una di protezione e di sostegno per finire, nel periodo più recente, con una programmazione di settore dalle linee abbastanza marcate.

 

[25] Cfr. d. m. 14 agosto 1985, piano nazionale della pesca marittima e dell’acquacoltura nelle acque marine e salmastre per il triennio 1984-86; d. m. 4 agosto 1988, approvazione del secondo piano nazionale della pesca marittima e dell’acquacoltura nelle acque marine e salmastre; d. m. 15 gennaio 1991, adozione del terzo piano triennale della pesca e dell’acquacoltura 1991-93; d. m. 21 dicembre 1993, adozione del quarto piano triennale della pesca e dell’acquacoltura 1994-96; d. m. 24 marzo 1996, adozione del quinto piano triennale della pesca e dell’acquacoltura 1997-99; d. m. 25 maggio 2000, adozione del sesto piano nazionale della pesca e dell’acquacoltura 2000-2002.

 

[26] La pesca appare, senza dubbio, uno dei fattori che ha contribuito maggiormente allo sviluppo progressivo del diritto internazionale del mare. Su questo argomento, non essendo possibile in questa sede esaminare, con la dovuta accortezza, la problematica, cfr. G. Scalfati, Pesca, cit., 1192 s.; G. Di Giandomenico, La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 149 s.; T. Scovazzi., La pesca nell’evoluzione del diritto del mare, I, Milano, 1979  nonché Pesca, in Enc. dir. XXXIII/1983, 589 s.; A. Del Vecchio, Pesca, in Enc. giur. XXIII/1990, 1 s.; U. Leanza, Navigazione marittima internazionale, in Enc. giur. XX/1990, 1 s. e Il nuovo diritto del mare e la sua applicazione nel Mediterraneo, Torino, 1993. Per i più recenti sviluppi della materia, cfr. T. Scovazzi, Pesca, in Enc. dir., II aggiornamento, Milano, 1998, 716 s.

 

[27] Cfr. G. Di Giandomenico, La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 154. Sull’argomento v. inoltre, G. Di Gaspare, Pesca, cit., 567 s., secondo il quale tale ricostruzione corrispondeva al quadro del diritto internazionale e del diritto interno sul finire del secolo scorso. Sullo jus piscandi v. G. Scalfati, Pesca, cit., 1175 s.

 

[28] Cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit. 11.

 

[29] La necessità di proteggere il mare dall’inquinamento si è imposta a seguito delle forti pressioni, anche da parte dell’opinione pubblica, conseguenti ad alcuni incidenti di gravissime proporzioni. Basti ricordare il caso della Torrey Canyon del 1967 nel Canale della Manica e quello dell’Amoco Cadiz del 1978 nel Mare del Nord, che hanno provocato, rispettivamente, una perdita in mare di 120.000 e 210.000 tonnellate di greggio, fino al recentissimo caso della petroliera Erika, naufragata a nord delle coste francesi il 12 dicembre 1999 riversando in mare decine di migliaia di tonnellate di greggio. In generale, sulle problematiche ambientali, v. G. Di Giandomenico - C. Angelone, Pesca e tutela dell’ambiente marino, Milano, 1988.

 

[30] La tradizionale bipartizione tra mare territoriale ed alto mare non è oggi più sufficiente a delineare la ripartizione delle aree marine ed a delineare compiutamente i poteri ed i diritti esercitabili dagli Stati nelle aree medesime. Il principio della libertà dei mari sta attraversando una forte crisi ed ha subito un notevole processo di erosione soprattutto per la tendenza degli Stati costieri ad estendere sempre di più i propri poteri e la propria giurisdizione su una fascia di mare adiacente al mare territoriale (la zona economica esclusiva ne è l’esempio più rappresentativo). Inoltre, il principio della libertà dei mari sembra oggi rispondere meno rispetto al passato alle esigenze degli Stati moderni, soprattutto di quelli industrializzati, che praticano un’utilizzazione sempre maggiore dell’alto mare, il che richiede l’elaborazione di regole in grado di contemperare gli interessi di tutti gli Stati. Alla luce di questi forti cambiamenti intervenuti nel regime giuridico internazionale dei mari, le caratteristiche del cd. nuovo diritto del mare, così come delineato dopo la Convenzione di Montego Bay del 1982, possono così sintetizzarsi: il nuovo diritto del mare si atteggia essenzialmente come un diritto protezionista, che dà prevalenza allo sfruttamento delle risorse rispetto alla navigazione e, inoltre, come un diritto oceanico, poiché favorisce gli Stati le cui coste fronteggiano il mare aperto senza alcun problema di delimitazione di spazi in comune con altri Stati o di definizione di rapporti con Stati frontalieri. Su queste problematiche, cfr. T. Scovazzi, Pesca, cit., 589 ss.; G. Di Giandomenico, La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 149 s.; U. Leanza, Il nuovo diritto del mare e la sua applicazione nel Mediterraneo, cit., 52 s.

 

[31] In tal senso, M. Casanova, La pesca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., 434.

 

[32] Il rilascio delle licenze di pesca è disciplinato dal d. m. 26 luglio 1995, modificato dal d. m. 22 novembre 1996 e dal d. m. 12 gennaio 2000.

 

[33] Cfr. G. Romanelli, Poteri dello Stato in materia di pesca e di tutela del mare, in Pesca e tutela dell’ambiente marino, a cura di G. Di Giandomenico e C. Angelone, Milano, 1988, 13.

 

[34] Cfr. G. Ferrari, Pesca, cit., 2.

 

[35] Cfr. G. Di Gaspare, Pesca, cit., 574 s.; G. Romanelli, Poteri dello Stato in materia di pesca e di tutela del mare, cit., 5 s.

 

[36] Così, G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 11 nonché La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 153. Secondo l’Autore lo jus piscandi ha conosciuto il passaggio da diritto soggettivo ad interesse legittimo soprattutto per la necessità della licenza di pesca rilasciata dall’Amministrazione secondo parametri discrezionali. Nello stesso senso, cfr. M. Casanova, La pesca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., 433 s.

 

[37] Cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 11 e Pesca, cit., 537.

 

[38] La natura giuridica della licenza di pesca è oggetto di controversia in dottrina. Secondo una prima opinione trattasi di un’autorizzazione costitutiva (cfr. S. Zunarelli, Commento alla legge 17 febbraio 1982 n. 41, in Nuove leggi civ. 1983, 384; D. Gaeta, L’impresa di pesca marittima, in Vita not. 1985, 1 s.), secondo altri, invece, si tratta di un provvedimento concessorio (G. Pescatore, L’ambiente e il diritto: considerazioni di sintesi, in Pesca e tutela dell’ambiente marino, a cura di G. Di Giandomenico e C. Angelone, Milano, 1988, 165; G. Romanelli, Poteri dello Stato in materia di pesca e di tutela del mare, cit., 13). Tuttavia, ciò che risulta particolarmente importante evidenziare è il fatto che, in seguito alla subordinazione degli interessi economici del privato rispetto al preminente interesse pubblico alla tutela delle risorse biologiche del mare, la situazione giuridica facente capo al pescatore e all’impresa di pesca è degradata da diritto soggettivo ad interesse legittimo (cfr. C. Angelone, Il provvedimento amministrativo e l’esercizio della pesca. Problematica giuridica e riflessi economico-sociali, in Dir. mar. 1984,  637 s.; G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, in Dir. mar. 1985, 936 s.).

 

[39] Cfr. G. Di Giandomenico, La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 152 s. e Pesca, cit., 537; M. Casanova, La pesca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., 434. Secondo G. Pescatore, L’ambiente e il diritto: considerazioni di sintesi, cit., 165 s., occorre doverosamente precisare che, se la valutazione discrezionale della pubblica amministrazione, anteriore al rilascio della licenza, consente di qualificare come interesse legittimo la pretesa del privato al rilascio della licenza medesima, essa non incide affatto sulla situazione giuridica successiva al rilascio, che è qualificabile come diritto soggettivo.  

 

[40] Sull’argomento, cfr. S. Zunarelli, Commento alla legge 17 febbraio 1982 n. 41, cit., 381 s., secondo il quale l’obiettivo prioritario, al quale rimangono sottordinati tutti gli altri, è quello di mantenere l’equilibrio più conveniente per la collettività nazionale fra livello di sfruttamento delle risorse e loro disponibilità.

 

[41] Cfr. T. Scovazzi, Pesca e diritto internazionale: recenti sviluppi, Seminario di studio tenuto presso l’Università degli Studi del Molise il 5 febbraio 1999 nell’ambito del corso di dottorato di ricerca in “Il diritto della pesca nel sistema del diritto della navigazione” (XII ciclo), i cui atti sono in corso di pubblicazione.

 

[42] Così, G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 10 s.

 

[43] In particolare, al Ministero della marina mercantile spettavano le competenze in materia di pesca marittima ed acquacoltura marina, mentre rimanevano in capo al Ministero dell’agricoltura e foreste quelle relative alla pesca nelle acque interne. Queste ultime, poi, sono passate dal Ministero dell’agricoltura e foreste alle Regioni in base agli artt. 117 e 118 cost.

 

[44] Cfr. art. 7, comma 1, della l. 8 marzo 1999 n. 50 ed il relativo allegato 3. La predetta l. n. 50/1999 prevede, all’art. 7, che il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio e secondo gli indirizzi definiti dalle Camere, adotta il programma di riordino delle norme legislative e regolamentari in varie materie tra le quali quelle di cui all’allegato 3 della legge stessa nelle quali rientra, appunto, la materia della pesca ed acquacoltura. Al riordino di tali norme si procederà entro il 31 dicembre 2001 mediante l’emanazione di testi unici riguardanti materie e settori omogenei, comprendenti, in un unico contesto e con le opportune evidenziazioni, le disposizioni legislative e regolamentari. 

 

[45] L’art. 1, comma 1, della l. n. 164/1998 stabilisce che «Le disposizioni della legge 17 febbraio 1982, n. 41, e successive modificazioni, si applicano all’attività di acquacoltura di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 102, e alla relativa Associazione nazionale».

 

[46] Così, G. Scalfati, Pesca, cit., 1170.

 

[47] Cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 14 s. nonché La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 149 s. e Pesca, cit., 536 s.

 

[48] Così, G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 18 e La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 154. Favorevole alla qualificazione del diritto della pesca come un diritto composito è anche M. Casanova, La pesca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., 433 s.

 

[49] Cfr. art. 1, comma 2, l. 14 luglio 1965 n. 963. Oggetto dell’attività di pesca, invece, sono i prodotti della pesca, ossia gli organismi, viventi e non viventi, animali o vegetali, eduli e non eduli, catturati nelle acque al fine della loro utilizzazione, che può essere diversa a seconda dello scopo perseguito, ma, prevalentemente, comunque, per finalità alimentari. Per cattura, poi, si intende ogni forma di raccolta di tali organismi, sia nelle acque libere che negli spazi acquei sottratti al libero uso o riservati agli impianti di pesca (art. 2 d. P. R. n. 1639/1968). La definizione fornita dall’art. 1 della l. n. 963/1965 è stata oggetto di oculato esame e di critica da parte di alcuni autori che ne hanno lamentato l’incompletezza. E’ lecito domandarsi, infatti, se l’oggetto debba essere limitato alla sola apprensione delle specie acquatiche esistenti in natura allo stato libero ovvero debba estendersi anche all’attività di acquacoltura e piscicoltura. Alla luce del d. P. R. n. 1639/1968 che individua all’art. 2 i prodotti della pesca ed all’art. 10 considera pesca anche quella esercitata tramite lo stabilimento di apprestamenti fissi o mobili destinati alla piscicoltura, alla molluschicoltura ed allo sfruttamento di banchi sottomarini, si può affermare che la materia della pesca, intesa in senso ampio, comprende sia la cattura che l’allevamento degli organismi acquatici, animali o vegetali, sia viventi che non viventi. Su questi temi, cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 13 s.; G. Righetti, Trattato di diritto marittimo, cit., 624 s.

 

[50] Cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 20. Sul punto v. anche G. Scalfati, Pesca, cit., 1172 s.

 

[51] Cfr. M. Grigoli, Diritto della navigazione, Torino, 1982, 580; G. Righetti, Trattato di diritto marittimo, cit., 623 s.

 

[52] Cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 19 s. nonché La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 149 s. e Pesca, cit, 536 s.

 

[53] A. Lefebvre D’Ovidio - G. Pescatore - L. Tullio, Manuale di diritto della navigazione, cit., 160.

 

[54] In tal senso, G. Righetti, Trattato di diritto marittimo, cit., 623.

 

[55] Cfr. G. Scalfati, Elementi tecnico-economici per una classificazione e una nuova disciplina delle imprese di piscicoltura, cit., 299 s.

 

[56] Cfr. G. Scalfati, Pesca, cit., 1172; M. Grigoli, Diritto della navigazione, cit., 580; G. Righetti, Trattato di diritto marittimo, cit., 623 s. In senso contrario, G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 18 s.

 

[57] Così, G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 19 s. e La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 149 ss. e Pesca, cit, p. 536 ss. Secondo l’Autore non è possibile classificare il diritto della pesca come un diritto speciale, intendendo per diritto speciale quel complesso di norme improntate a principi particolari e differenziati rispetto a quelli generali, poiché le differenziazioni normative presenti nel settore della pesca rispetto alla navigazione in generale - diritto già di per sé speciale - si risolvono in affinamenti normativi legati allo scopo di pesca o in elementi di diversità qualitativamente apprezzabili ma quantitativamente poco significativi.

 

[58] In tal senso, A. Lefebvre D’Ovidio - G. Pescatore - L. Tullio, Manuale di diritto della navigazione, cit., 160, secondo cui «la pesca è da considerarsi appartenente, e non soltanto per tradizione, alla materia della navigazione: fra gli altri, momento normale di collegamento è dato dall’impiego (strumentale) del mezzo nautico per la sua attuazione, dall’uso delle acque marine e interne per ritrarne prodotti, dall’appartenenza alla gente di mare del personale che vi è addetto e dal riprodursi, nel suo ambito, dei problemi fondamentali politici, economici e giuridici che contrassegnano i temi propri dell’ordinamento della navigazione». Cfr., inoltre, G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 12 s. e La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 153,  secondo il quale il codice della navigazione del 1942, ove prevale senz’altro il momento nautico, tratta della pesca marittima (ma non di quella interna) tra le cd. navigazioni speciali e se ne occupa ritenendo la pesca quale specificazione della navigazione in genere: tanto che la relazione del Guardasigilli al codice (126-129) afferma che spettano, in linea generale, all’autorità marittima i poteri di vigilanza sulla pesca, per gli innegabili riflessi che quest’ultima ha sull’esercizio della navigazione. Sul punto v. anche M. Casanova, La pesca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., 433 s.

 

[59] Cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 15 s., secondo il quale nella pesca esercitata con mezzi nautici l’esercizio della nave (momento tecnico) è certamente centrale e preordinato all’esercizio dell’impresa di pesca (momento economico).

 

[60] Cfr. G. Righetti, Trattato di diritto marittimo, cit., 623. L’Autore, partendo dal fatto che la pesca in acque interne non trova alcuna regolamentazione nel codice della navigazione e neppure nel regolamento per la navigazione interna ed alla luce di quanto disposto dagli artt. 117 e 118 cost., che riservano la competenza legislativa in materia di pesca nelle acque interne alle regioni, ribadisce la discriminazione, ontologica e sistematica, tra pesca marittima e pesca nelle acque interne affermando l’appartenenza della prima al diritto marittimo.

 

[61] Cfr. G. Scalfati, Considerazioni sullo sviluppo storico dell’impresa di pesca sulla competenza delle regioni e sull’intervento pubblico per la pesca nel programma economico nazionale, in Riv. pesca 1966, 513 s. nonché Elementi tecnico-economici per una classificazione e una nuova disciplina delle imprese di piscicoltura, cit., 299 s.; A. Carrozza, L’ittiocoltura come attività intrinsecamente agricola, in Riv. dir. agr. 1976, I, 48 s. e Per la definizione legislativa del concetto di allevamento del pesce, in Riv. dir. agr. 1977, I, 178 s. e L’inquadramento giuridico della piscicoltura, in Giur. agr. it. 1981, 71 s.

 

[62] Secondo l’art. 38 del Trattato C. E. E. del 1957 per prodotti agricoli si intendono i prodotti del suolo, dell’allevamento e della pesca (l. 14 ottobre 1957 n. 1203).

 

[63] Cfr. G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, cit., 12 e La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 153.

 

[64] Il principio dello sviluppo sostenibile è stato recepito nella dichiarazione della Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo (Rio de Janeiro, 1992) secondo cui gli Stati devono sfruttare le risorse naturali tenendo conto delle esigenze delle generazioni future, per cui l’attività di sfruttamento deve essere impostata secondo criteri tali da presentare un impatto reversibile sul livello delle risorse, in modo tale che la capacita di rigenerazione delle specie non venga compromessa e l’integrità dell’ambiente venga salvaguardata.

 

[65] L’art. 1 della l. 5 febbraio 1992 n. 102, recante norme concernenti l’attività di acquacoltura, stabilisce che per attività di acquacoltura si intende «l’insieme delle pratiche volte alla produzione di proteine animali in ambiente acquatico mediante il controllo, totale o parziale, diretto o indiretto, del ciclo di sviluppo degli organismi acquatici».

 

[66] Il d. m. 24 marzo 1997, adozione del quinto piano triennale della pesca e dell’acquacoltura 1997-1999, individua tra gli obbiettivi da perseguire, nel rispetto delle previsioni di cui alla l. n. 41/1982, il potenziamento dell’acquacoltura in generale e della maricoltura in particolare.

 

[67] Sull’inquadramento giuridico dell’acquacoltura, cfr. A. Carrozza, L’ittiocoltura come attività intrinsecamente agricola, cit., 48 s. e L’inquadramento giuridico della piscicoltura, cit., 71 s.; L. Costato, Commento alla legge 14 gennaio 1992 n. 102, in Nuove leggi civ. 1992, 1275 s. Secondo l’interpretazione che appare preferibile la qualifica agricola di cui all’art. 2 della l. n. 102/1992 investe sia l’acquacoltura nelle acque interne che quella marina.

 

[68] Sulla natura giuridica dell’impresa di pesca marittima, cfr. D. Gaeta, Esercizio della nave, trasporto e impresa di pesca, cit., 999 s. nonché L’impresa di pesca marittima, cit., 141 s.; G. Oppo, Sulla natura giuridica dell’impresa di pesca marittima, cit., 393 s. Sui rapporti e sulle affinità tra impresa di pesca marittima ed impresa agricola, anche alla luce della l. 5 febbraio 1992 n. 102, che ha qualificato agricola l’acquacoltura, cfr. P. Masi, Oggetto dell’impresa di pesca e registro delle imprese, cit., 470 s.

 

[69] La Sicilia e la Sardegna hanno competenza legislativa anche in materia di pesca marittima.

 

[70] V. artt. 117 e 118 cost.; artt. 1 e 4  del d. P. R. 15 gennaio 1972 n. 11; artt. 79 e 100 del d. P. R. 24 luglio 1977 n. 616; l. 15 marzo 1997 n. 59; d. lg. 4 giugno 1997 n. 143; d. lg. 5 marzo 1998 n. 60; d. lg. 31 marzo 1998 n. 112; d. lg. 30 marzo 1999 n. 96.

 

[71] Per la normativa comunitaria, quindi, ciò che prevale ai fini della collocazione della materia non è il momento nautico, bensì l’elemento economico e funzionale. Su queste tematiche, cfr. G. Di Giandomenico, Pesca, cit., 536, secondo il quale l’orientamento teleologico della normativa comunitaria ha fortemente inciso sulla legislazione nazionale, da un lato con il recepimento delle direttive comunitarie, dall’altro con il trasferimento delle competenze sulla pesca, sul piano delle strutture amministrative, dal soppresso Ministero della marina mercantile al Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali (a sua volta soppresso a favore del Ministero delle politiche agricole). 

 

[72] Cfr. G. Scalfati, Elementi tecnico-economici per una classificazione e una nuova disciplina delle imprese di piscicoltura, cit., 299 s.; A. Carrozza, L’ittiocoltura come attività intrinsecamente agricola, cit., 48 s. nonché Per la definizione legislativa del concetto di allevamento del pesce, cit., 178 s. e L’inquadramento giuridico della piscicoltura, cit., 71 s. e  I nuovi confini del diritto agrario, in Riv. dir. agr. 1994, I, 337 s. Inoltre, v. D. F. Cagetti, Esercizio della pesca ed impresa, in Riv. pesca 1966, 528 s., dove l’Autore sottolinea le evidenti e notevoli affinità e la sostanziale somiglianza tra l’impresa acquicola e l’impresa agraria, concludendo che «trattasi di una somma di affinità meritevole d’esser approfondita anche mirando ad una evoluzione legislativa». Non essendo possibile in questa sede approfondire le molteplici argomentazioni favorevoli e contrarie all’inquadramento giuridico dell’acquacoltura nell’ambito delle attività agricole, si rinvia alla letteratura innanzi citata ed a quella indicata nella nota successiva. Per quanto concerne specificamente l’allevamento degli organismi acquatici è prevalso l’orientamento che estende il concetto di allevamento a tutte le specie animali. Infatti, il legislatore, già con la l. 20 novembre 1986 n. 778, ha ricompreso tra le attività agricole l’allevamento delle specie ittiche e, successivamente, con la citata l. n. 102/1992, ha risolto definitivamente la questione, qualificando espressamente l’acquacoltura come attività agricola ed attribuendo la veste di imprenditore agricolo a chi eserciti l’acquacoltura e le connesse attività di prelievo.

 

[73] Fino all’emanazione della l. n. 102/1992 l’inquadramento giuridico dell’attività di acquacoltura non era pacifico. Infatti, secondo una parte della dottrina essa poteva essere qualificata “commerciale”, mentre altri autori preferivano qualificarla “agricola”. In senso contrario alla qualifica agricola, cfr. P. Masi, Attività agricola e “attività connesse”, in Riv. dir. civ. 1973, II, 576 s. nonché Allevamento del bestiame e allevamento zootecnico nella sistematica delle attività di impresa, in Giur. it. 1976, I-1, 1843 s.; M. Bione, L’imprenditore agricolo, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 1978, II, 482 s.; M. Finocchiaro, Sulla natura del rapporto di cessione della disponibilità di laghi per la coltivazione ittica e mitilica, in Giust. civ. 1979, I, 2143 s.; E. Casadei, Utilizzazione di prodotti spontanei, impresa agricola e affitto di fondi rustici, in Riv. dir. agr. 1981, II, 306 s.; F. Galgano, Diritto commerciale, I, cit., 50; D. Gaeta, L’impresa di pesca marittima, in Regioni e pesca marittima, Milano, 1989, 145 s.; G. F. Campobasso, Diritto commerciale, cit., 50 s.  A favore, invece, della qualifica agricola, v. G. P. Cigarini, Contenuto e oggetto dell’attività di allevamento del bestiame e sua natura di impresa agricola, in Riv. dir. agr. 1967, I, 560 s.; A. Carrozza, L’ittiocoltura come attività intrinsecamente agricola, cit., 48 s. e L’allevamento del pesce non costituirebbe, per la Corte di cassazione, attività agricola, in Riv. dir. agr. 1976, II, 234 s. e Per la definizione legislativa del concetto di allevamento del pesce, cit., 179 s. e L’inquadramento giuridico della piscicoltura, cit., 71 s. e Ancora sull’assicurazione contro gli infortuni nella piscicoltura, in Riv. dir. agr. 1982, II, 14 s.; G. Galloni, Lezioni sul diritto dell’impresa agricola, Napoli, 1980, 193 s.; M. Goldoni, Attività di allevamento del pesce e impresa agricola (Alcune riflessioni sulla giurisprudenza in materia), in Riv. dir. agr. 1982, II, 113 s.; S. Masini, Sul concetto di “fondo” destinato all’ittiocoltura in relazione all’applicazione delle norme sui contratti agrari, in Giur. agr. it. 1991, 149 s. Anche la giurisprudenza, dal canto suo, era divisa sul punto. Sull’atteggiamento assunto in materia dalla giurisprudenza, cfr. M. Goldoni, Attività di allevamento del pesce e impresa agricola, cit., 113 s. In senso favorevole all’inquadramento dell’allevamento ittico nell’alveo delle attività agricole, cfr. Cass. 21 luglio 1993 n. 8123, in Riv. dir. agr. 1994, II, 331 s.; App. Lecce 21 maggio 1979, in Giust. civ. 1979, I, 2139 s.; Trib. Bologna 15 febbraio 1994, in Riv. dir. agr. 1996, II, 168 s.; Trib. Rovigo 30 maggio 1980, in Riv. dir. agr. 1982, II, 124. In senso contrario, cfr. Cass. 9 luglio 1993 n. 7547, in Riv. dir. agr. 1994, II, 31 s., ove i giudici, seguendo l’orientamento tradizionale, ma legislativamente superato, hanno escluso che la piscicoltura possa essere qualificata come attività di allevamento mancando ogni connessione con il fondo. Inoltre, sempre in senso contrario, cfr.  Cass. 24 marzo 1980 n. 1975, in Riv. dir. agr. 1982, II, 464 s.; Cass. 8 gennaio 1980 n. 153, in Riv. dir. agr. 1982, II, 134. Il problema rivestiva non poca importanza, poiché diversa è la disciplina giuridica applicabile all’impresa agricola rispetto a quella, maggiormente articolata, di cui è destinataria l’impresa commerciale o industriale (basti pensare alle norme sul registro delle imprese, sulla tenuta delle scritture contabili, sull’assoggettamento al fallimento ed alle altre procedure concorsuali). Il problema è stato poi risolto dall’art. 2 della l. n. 102/1992 che considera a tutti gli effetti l’attività di acquacoltura come attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto (art. 2, comma 1) e considera, altresì, imprenditori agricoli, ai sensi dell’art. 2135 c. c., i soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’acquacoltura e le connesse attività di prelievo sia in acque dolci sia in acque salmaste (art. 2, comma 2). Una parte della dottrina ha evidenziato l’esistenza di alcune imperfezioni nel testo della predetta legge che potrebbero far sorgere seri dubbi interpretativi, rischiando così di compromettere il risultato che il legislatore ha cercato di conseguire. Esse riguardano la stessa definizione legislativa di acquacoltura (art. 1), il criterio della prevalenza del reddito al quale la legge ricorre per riconoscere natura agricola all’acquacoltura (art. 2, comma 1) e la collocazione stessa degli allevamenti (art. 2, comma 2). Per questi rilievi, cfr. A. Carrozza, Ancora progetti di legge per dichiarare l’agrarietà degli allevamenti ittici, in Riv. dir. agr. 1991, I, 583 s. e La partenza falsa delle leggi agrarie, in Riv. dir. agr. 1992, II, 308 s.; L. Costato, Commentario breve al codice civile, a cura di G. Cian e A. Trabucchi, Appendice,  2613 s. e Commento alla legge 14 gennaio 1992 n. 102, cit., 1275 s.

 

[74] Cfr. il rapporto sugli oceani ed il diritto del mare presentato nel 1998 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite (cit. da T. Scovazzi, Pesca, cit., 716 s.).

 

[75] In questo quadro ricostruttivo appare importante richiamare l’art. 27-bis della l. n. 41/1982, aggiunto con l’art. 20 della l. 10 febbraio 1992 n. 165 e modificato dall’art. 1, comma 2, lett. g, della l. 21 maggio 1998 n. 164, rubricato “Iniziative di pesca-turismo”, secondo il quale «Sulle navi da pesca può essere autorizzato a scopo turistico-ricreativo l’imbarco di persone non facenti parte dell’equipaggio, secondo le modalità fissate con decreto del Ministro per le politiche agricole di concerto con il Ministro dei trasporti e della navigazione». All’art. 27-bis ha fatto seguito, di recente, il d. m. 13 aprile 1999 n. 293, secondo cui per pesca-turismo si intendono «le attività intraprese dall’armatore - singolo, impresa o cooperativa - di nave da pesca costiera locale o ravvicinata, che imbarca sulla propria unità persone diverse dall’equipaggio per lo svolgimento di attività turistico-ricreative» (art. 1). Sempre a mente dell’art. 1 del d. m. 13 aprile 1999 n. 293, tra le iniziative di pesca-turismo rientrano: lo svolgimento di attività pratica di pesca sportiva, lo svolgimento di attività turistico-ricreative, quali escursioni lungo le coste, osservazione dell’attività di pesca professionale, ristorazione a bordo o a terra, lo svolgimento di attività finalizzate alla conoscenza ed alla valorizzazione dell’ambiente costiero. Tale attività mostra evidenti e notevoli affinità e punti di contatto con l’attività di agriturismo. Parte della dottrina, sensibile alle affinità della pesca con l’agricoltura, ha suggerito l’opportunità di stimolare l’integrazione dell’oggetto delle imprese di pesca che ricorrono all’utilizzazione di mezzi nautici con un’azione simile all’azione di promozione dell’agriturismo, che permette alle imprese agricole di ampliare il ciclo produttivo e di sviluppare i rapporti con il mercato. Tale attività può estendersi anche alle imprese agricole di acquacoltura, che possono ospitare turisti o somministrare ai medesimi i loro prodotti (cfr. art. 4, comma 3, del d. m. 13 aprile 1999 n. 293). Sulla pesca-turismo v. anche M. Deiana, L’attività di pescaturismo, in Dir. trasp. 2000, 427 s.

 

[76] La l. n. 41/1982, all’art. 1, considera lo sviluppo dell’acquacoltura nelle acque marine e salmastre e la ricerca scientifica nel settore come uno strumento necessario per promuovere e per conseguire lo sfruttamento razionale e la valorizzazione delle risorse biologiche del mare.

 

[77] In tal senso, M. Casanova, La pesca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., 435 s.

 

[78] L’art. 1 della l. n. 164/1998 stabilisce che «Le disposizioni della legge 17 febbraio 1982, n. 41, e successive modificazioni, si applicano all’attività di acquacoltura di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 102, e alla relativa Associazione nazionale». L’estensione delle disposizioni della l. n. 41/1982 all’attività di acquacoltura costituisce, senza dubbio, un altro importante elemento di valutazione nell’ambito del ragionamento seguito, poiché segna un ulteriore momento di avvicinamento tra pesca ed acquacoltura, che appaiono ormai accomunate sotto (e dal) l’aspetto economico-produttivo, rivolto a soddisfare le richieste del mercato ed i bisogni alimentari della popolazione. Inoltre, anche le modifiche apportate dalla l. n. 164/1998 alla l. n. 41/1982 sono indirizzate nel segno dell’equiparazione tra pesca ed acquacoltura.

 

[79] Cfr. art. 1, comma 3, della l. n. 72/1992 come modificato dall’art. 1, comma 5, della l. n. 164/1998. Agli effetti della l. n. 72/1992, che ha istituito il Fondo di solidarietà nazionale della pesca (art. 1, comma 1), le cui risorse sono destinate, in caso di calamità naturali, di avversità meteomarine o ecologiche, alla concessione di contributi ai pescatori, singoli o associati, che abbiano subito gravi danni e si trovino in particolari condizioni di bisogno per la ripresa produttiva delle proprie aziende (art. 1, comma 2), ai pescatori sono equiparati gli acquacoltori in acque marine e salmastre, i molluschicoltori ed i mitilicoltori, singoli o associati (art. 1, comma 3), nonché, dopo la modifica introdotta dall’art. 1, comma 5, della l. n. 164/1998, i soggetti che esercitano l’attività di acquacoltura di cui alla l. 5 febbraio 1992 n. 102.

 

[80] Molteplici sono i fattori che hanno determinato radicali cambiamenti nel mondo agricolo tradizionale e rurale, conducendo ad una agricoltura di tipo industrializzato, che si avvale delle moderne tecnologie. Le trasformazioni del settore agricolo sono in gran parte legate allo sviluppo incessante della ricerca scientifica e tecnologica, che ha consentito di conseguire risultati impensabili all’epoca del legislatore codicistico del 1942. Sull’argomento, cfr. A. Carrozza, L’inquadramento giuridico della piscicoltura, cit., 71 s. e I nuovi confini del diritto agrario, in Riv. dir. agr. 1994, I, 337 s.

 

[81] La questione relativa alla individuazione della nozione giuridica di “fondo rustico” ha da lungo tempo polarizzato l’attenzione della dottrina agraristica che è incentrata soprattutto sul complesso e delicato rapporto tra fondo rustico ed impresa agricola. Senza alcuna pretesa di completezza, su queste tematiche, cfr. G. Azzariti, Sui concetti di impresa e di azienda agricola, in Riv. dir. agr. 1946-1947, I, 116 s.; S. Romano, A proposito dell’impresa e dell’azienda agricola, in Riv. dir. agr. 1946-1947, I, 19 s.; D. Barbero, Fondo e azienda nell’impresa agricola, in Atti del I Convegno intern. di dir. agr., Milano, 1954; G. Carrara, L’azienda agraria, in Foro it. 1957, IV, 37 s.; C. Frassoldati, Fondo, in Noviss. Dig. it. VIII/1961, 508 s.; A. Massart, Contributo alla determinazione del concetto giuridico di “agricoltura”, in Riv. dir. agr. 1974, I, 334 s.; E. Casadei, Impresa e azienda agricola, in Manuale del diritto agrario italiano, a cura di N. Irti, Torino, 1978, 83 s.; L. Costato, Proprietà terriera e imprenditore agricolo. Per una ridefinizione dell’attività agraria, Ferrara, 1979; F. Salaris., La nozione giuridica di fondo, in Riv. dir. agr. 1980, I, 337 s.; S. Masini, Sul concetto di “fondo” destinato all’ittiocoltura in relazione all’applicazione delle norme sui contratti agrari, in Giur. agr. it. 1991, 149 s.

 

[82] Cfr. G. F. Campobasso, Diritto commerciale, cit, 49 s., secondo il quale «il necessario (corsivo originale) collegamento fra produzione agricola e utilizzazione del fattore produttivo terra emerge dallo stesso art. 2135 per la produzione di specie vegetali». Allo stesso modo, per qualificare l’attività zootecnica come impresa agricola è necessario e sufficiente «una qualsiasi forma di collegamento col fondo rustico e, quindi, il solo fatto che l’allevamento sia praticato sul fondo». In conclusione, secondo questo orientamento, «la produzione di specie vegetali ed animali è qualificabile come attività agricola essenziale fin quando costituisca forma di sfruttamento del fattore terra, sia pure con l’ausilio delle moderne tecnologie. Diventa invece attività commerciale quando tale collegamento viene meno del tutto».

 

[83] In generale, sul problema dell’incidenza sulla definizione di imprenditore agricolo fornita dal codice del 1942 da parte della legislazione speciale successiva, che da quella definizione si discosta (o sembra discostarsi), cfr. M. Bione, L’imprenditore agricolo, cit., 468 s.; E. Casadei, Le nuove produzioni agricole nell’esperienza giuridica italiana, in Riv. dir. agr. 1983, I, 308 s.; A. Germanò, L’impresa zootecnica, in Impresa zootecnica e agrarietà, Milano, 1989, 102 s.; Goldoni M., L’art. 2135 cod. civ., in Trattato breve di dir. agr. it. e com., diretto la L. Costato, Padova, 1994, 116 s.; N. Ferrucci, Il riconoscimento legale dell’agrarietà dell’impresa cinotecnica, in Riv. dir. agr. 1994, I, 103 s. Per quanto concerne la legislazione speciale che ha spiegato i propri effetti sulla portata dell’art. 2135 c. c., v. in particolare: l’art. 2, comma 2, della l. 3 maggio 1971 n. 419, riguardante gli avicoltori diretti, ove si afferma che «I titolari di imprese avicole, singoli o associati, che dedichino direttamente ed abitualmente, in modo prevalente, la loro attività o quella dei loro familiari all’allevamento delle specie avicole, sono considerati imprenditori agricoli»; l’art. 2 della l. 5 dicembre 1985 n. 730, sull’agriturismo che definisce attività agrituristiche «le attività di ricezione ed ospitalità esercitate dagli imprenditori agricoli di cui all’art. 2135 c. c., singoli od associati, e dai loro familiari di cui all’art. 230-bis del c. c., attraverso l’utilizzazione della propria azienda, in rapporto di connessione e complementarità rispetto alle attività di coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento del bestiame, che devono comunque rimanere principali»; la l. 5 aprile 1985 n. 126 che stabilisce che «L’attività di coltivazione dei funghi è considerata a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola»; l’art. 2 della l. 5 febbraio 1992 n. 102, che considera a tutti gli effetti l’attività di acquacoltura come «attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto. Sono imprenditori agricoli, ai sensi dell’art. 2135 del codice civile, i soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’acquacoltura e le connesse attività di prelievo sia in acque dolci che in acque salmaste»; l’art. 2 della l. 23 agosto 1993 n. 349, secondo il quale «L’attività cinotecnica è considerata a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto. I soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’attività cinotecnica di cui al comma 1 sono imprenditori agricoli, ai sensi dell’art. 2135 del codice civile»; l’art. 9 del d. lg. 30 aprile 1998 n. 173, recante disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione e per il rafforzamento strutturale delle imprese agricole, secondo il quale «Sono imprenditori agricoli, ai sensi dell’articolo 2135 del codice civile, anche coloro che esercitano attività di allevamento di equini di qualsiasi razza, in connessione con l’azienda agricola».

 

[84] Secondo M. Goldoni, Attività di allevamento del pesce e impresa agricola, cit., 117 s., l’adozione del criterio biologico comporta necessariamente la svalutazione del fondo quale elemento qualificatore dell’agrarietà. Su queste tematiche v. anche P. Magno, Interpretazione evolutiva dell’art. 2135 cod. civ., cit., 207 s.; A. Massart, Contributo alla determinazione del concetto giuridico di “agricoltura”, cit., 334 s.; A. Carrozza, Problemi generali e profili di qualificazione del diritto agrario, I, Milano, 1975, 59 s. e  L’ittiocoltura come attività intrinsecamente agricola, cit., p. 48 ss.; Id., L’inquadramento giuridico della piscicoltura, cit., 71 s.

 

[85] Così, A. Carrozza, La partenza falsa delle leggi agrarie, in Riv. dir. agr. 1992, II, 309 s.

 

[86] La cd. teoria del ciclo biologico perviene ad una nozione ontologica dell’agricoltura che viene fatta consistere «nello svolgimento del ciclo biologico concernente l’allevamento di animali o di vegetali, che appare legato direttamente o indirettamente allo sfruttamento delle forze e delle risorse naturali, e che si risolve economicamente nell’ottenimento di frutti (vegetali o animali) destinabili al consumo diretto, sia come tali, sia previa una o molteplici trasformazioni». Così, A. Carrozza, Problemi generali e profili di qualificazione del diritto agrario, I, Milano, 1975, 59 s. Dello stesso Autore, che della teoria in esame ha espresso la formulazione meglio argomentata, v. anche: L’ittiocoltura come attività intrinsecamente agricola, cit., 48 s. e L’inquadramento giuridico della piscicoltura, cit., 71 s. Sul tema, cfr. anche P. Magno, Interpretazione evolutiva dell’art. 2135 cod. civ., cit., 207 s.

 

[87] Una tra le più convincenti giustificazioni del favor legislativo per l’impresa agricola è costituita dal più accentuato rischio d’impresa insito nello sfruttamento della terra. L’imprenditore agricolo, infatti, corre un doppio rischio: il rischio comune a tutti gli imprenditori di non coprire i costi con i ricavi (cd. rischio economico) ed il rischio di esposizione a calamità naturali che possono compromettere o distruggere la produzione (cd. rischio ambiente o natura). Secondo una parte della dottrina il cd. rischio ambiente o natura è presente anche nell’attività di pesca in termini non molto dissimili da quelli riscontrabili in agricoltura.

 

[88] Cfr. P. Masi, Oggetto dell’impresa di pesca e registro delle imprese, cit., 470 s.

 

[89] Sulle complesse vicende evolutive del diritto internazionale del mare, cfr. T. Treves, La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982, Milano, 1983; U Leanza, Il nuovo diritto del Mare e la sua applicazione nel Mediterraneo, cit.; T. Scovazzi, Elementi di diritto internazionale del mare, Milano, 1994.

 

[90] Cfr. U. Leanza, Il nuovo diritto del Mare e la sua applicazione nel Mediterraneo, cit., 10 s.

 

[91] Cfr. G. Di Giandomenico, La pesca e il nuovo diritto del mare, cit., 149 s.

 

[92] Le caratteristiche del nuovo diritto del mare discendono dal fatto che la maggior parte degli Stati che hanno sostenuto la formazione di nuovi principi era costituita da Paesi in via di sviluppo, che avevano maggiore interesse allo sfruttamento delle risorse marine, biologiche e minerali, rispetto alla navigazione. Per conseguire tale obiettivo, tenuto conto che lo sfruttamento delle risorse marine richiede ingenti capitali e moderne tecnologie, spesso carenti in questi Paesi, si è reso necessario da parte di questi ultimi esercitare forti pressioni per ottenere un generale ampliamento dei poteri degli Stati costieri su una fascia di mare adiacente alle coste e più ampia rispetto al mare territoriale, al fine di ipotecare, quanto meno, le risorse ivi presenti, sottraendole allo sfruttamento indiscriminato da parte degli Stati industrializzati, forniti di mezzi economici e tecnologie. Quanto poi alla qualifica di diritto oceanico, essa dipende dal fatto che l’accennata dilatazione dei poteri degli Stati costieri su una fascia di mare adiacente alle acque territoriali è stata favorita dal fatto che la stragrande maggioranza degli Stati che hanno sostenuto lo sviluppo del nuovo diritto del mare era formata da Stati oceanici, cioè da Stati che non avevano alcun problema di delimitazione degli spazi marini poiché le loro coste si trovano a fronteggiare il mare aperto e non avevano, quindi, alcun problema di delimitazione di spazi in comune con altri Stati o di definizione di rapporti con Stati frontalieri.

 

[93] A queste tematiche dedica ampio spazio la Convenzione di Montego Bay. Al riguardo appaiono significativi gli artt. 61 e 62, sullo sfruttamento e la conservazione delle risorse biologiche nella zona economica esclusiva, e gli artt. 116 e ss., sulla conservazione e gestione delle risorse biologiche dell’alto mare.

 

[94] Nel senso e con i limiti indicati nel paragrafo seguente.

 

[95] La questione oggigiorno non riguarda soltanto la pesca, bensì investe molti altri settori per i quali si rende necessario stabilire la compatibilità delle concezioni tradizionali con i radicali cambiamenti apportati dal progresso tecnologico e dalle pressioni del sistema economico. Su tali problematiche nell’ambito dell’agricoltura, cfr. A. Carrozza, I nuovi confini del diritto agrario, cit., 337 s. Secondo l’Autore, che effettua un attento esame dei nuovi beni d’interesse agrario, dei nuovi contratti che si affacciano in questa materia e delle nuove attività (corsivi originali) che sono entrate a far parte del contenuto dell’impresa agricola, è possibile oggi disegnare la nouvelle frontière del diritto agrario. I più recenti ritrovati tecnici e le scoperte biotecnologiche consentono, infatti, di aggiornare ed ampliare l’elenco dei beni che interessano il diritto agrario. Allo stesso modo, la qualificazione di agrarietà ex lege di certe attività, che per lungo tempo era rimasta incerta sia in dottrina che in giurisprudenza, intervenuta tramite alcuni provvedimenti normativi che tali attività hanno ricondotto all’agricoltura (oltre al già citato caso dell’acquacoltura si pensi a quelli della funghicoltura  e dell’attività cinotecnica), consente di registrare un sensibile ampliamento complessivo della materia del diritto agrario.

 

[96] L’indagine rivolta a conseguire questo risultato muove attraverso alcuni passaggi fondamentali. Il punto di partenza è necessariamente costituito dalla definizione dell’attività di pesca, del suo oggetto e dalla possibilità di addivenire ad un concetto generale di tale attività (al riguardo, infatti, sono stati analizzati il concetto generale di attività di pesca, desumibile dalla definizione legislativa di cui all’art. 1 della l. n. 963/1965, quale «attività di cattura di specie animali acquatiche» comprendente, quindi, sia la cattura, in mare e nelle acque interne, che l’allevamento ittico - acquacoltura e piscicoltura - nonché l’oggetto dell’attività di pesca). Definita l’attività il passaggio successivo conduce alla sua qualificazione, cioè al suo inquadramento giuridico (l’attività di pesca non è prevista espressamente tra quelle che possono costituire oggetto dell’impresa agricola - art. 2135 c. c. - o dell’impresa commerciale - art. 2195 c. c. - per cui non è pacifica la sua riconducibilità alla prima o alla seconda categoria, se non addirittura alla categoria delle imprese “civili”, quale tertium genus tra quelle commerciali e quelle agricole. Su queste tematiche, cfr. P. Masi, Oggetto dell’impresa di pesca e registro delle imprese, cit., 470 s.  Non è pacifico, altresì, per coloro che propendono per la tesi della commercialità, quale ne sia il fondamento, riconducendola alcuni alle attività industriali contemplate al n. 1 dell’art. 2195 - cfr. D. Gaeta, L’impresa di pesca marittima, cit., 141 s. nonché  Esercizio della nave, trasporto e impresa di pesca, cit., 999 s. -  altri invece all’attività di trasporto per terra, per acqua e per aria di cui al n. 3 della stessa norma - cfr. G. Oppo, Sulla natura giuridica dell’impresa di pesca marittima, cit., 393 s.). Effettuato l’inquadramento giuridico, aspetto particolarmente delicato poiché ad esso segue automaticamente l’individuazione della disciplina giuridica applicabile, va individuato il trattamento giuridico che spetta all’attività (la disciplina dell’impresa agricola per l’acquacoltura e l’allevamento ittico e, secondo una parte della dottrina, lo statuto dell’impresa commerciale per l’impresa di pesca marittima - sempre che ricorra una fattispecie in cui siano presenti tutti gli elementi richiesti dall’art. 2082 c. c. - salvo attribuire rilievo positivo alle indicazioni contenute negli artt. 2135 e 2195 c. c., ricorrendo, pertanto, all’analogia in caso di attività non riconducibili alle fattispecie fissate nelle due norme, concludendo che le affinità dell’impresa di pesca con l’impresa agricola siano maggiori di quelle con l’impresa commerciale. Sul punto, cfr. P. Masi, Oggetto dell’impresa di pesca e registro delle imprese, cit., 473). La disciplina giuridica applicabile, cioè il complesso delle norme che regolano direttamente lo svolgimento dell’attività, costituisce il diritto della pesca, del quale bisogna disegnare la fisionomia e chiarire la natura (si è trattato perciò dell’ampiezza di tale branca dell’ordinamento e si è ricostruito il diritto della pesca come un tipico diritto composito, speciale o specializzato, a seconda delle opinioni). Di quest’ultimo, poi, bisogna procedere all’inquadramento sistematico (potendosi collocare, a seconda delle opinioni, nell’ambito del diritto della navigazione, quale navigazione speciale, del diritto marittimo o del diritto agrario). Al tal fine, occorre individuare quale sia, allo stato attuale, il connotato che caratterizza in maniera prevalente questa branca dell’ordinamento e, perciò, analizzare concettualmente e distinguere tra loro il “momento nautico” ed il “momento economico”. Quest’ultimo passaggio, quindi, diventa essenziale ai fini della sistematica della materia.

 

[97] Cfr. art. 10 del d.P.R. n. 1639/1968.

 

[98] Cfr. P. Masi, Oggetto dell’impresa di pesca e registro delle imprese, cit., 473, secondo il quale una eventuale differenza di trattamento delle imprese di pesca marittima che utilizzino navi, di pesca con impianti fissi e di acquacoltura, quando non sia distinto il mercato in cui esse collocano il prodotto, potrebbe con ogni evidenza tradursi in uno svantaggio per gli operatori soggetti al regime (commerciale) più gravoso (e cioè gli imprenditori di pesca).

 

[99] Così, P. Masi, Oggetto dell’impresa di pesca e registro delle imprese, cit., 473.

 

[100] V. la legge n. 164/1998 che ha reso applicabili all’acquacoltura le disposizioni della l. n. 41/1982.