N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso –
Contributi
La situazione
dell'alieno nel dār al-Islām e negli Stati della Chiesa
Sommario: 1. Il caso Mortara. - 2.Devshirme
e "pagani necandi". - 3.
Dār al-islām e dār al-harb. - 4. Fitra.
- 5. Nemici. - 6.
Stadio intermedio e pluralismo. - 7. Membri
della stessa società. - 8. Ghetto. - 9. Predica coattiva. - 10. Meglio sotto i Musulmani. - 11. Due mondi differenti. - 12. Aggiornamento.
Leggo nel libro di un professore universitario americano
un singolare racconto. La sera del 20 giugno 1858, nella città di Bologna, si
presentano i gendarmi pontifici alla casa del commerciante israelita Momolo
Mortara. Lui non è in casa e sua moglie, sette figli e la domestica, sono
sgomenti alla vista dei militari. Quando il padre, Momolo, torna con il figlio
maggiore, tredicenne, è sbigottito alla vista dei soldati. Perché sono venuti?
Vogliono identificare i membri della famiglia, come si trattasse di un
censimento. E quando all'appello, pronunciato il nome di Edgardo, viene loro
indicato il piccolo addormentato su un divano, i militari dicono che lo devono
portare via per ordine dell'inquisitore di Santa Romana Chiesa. Il padre allora
vuole subito recarsi dall'inquisitore bolognese per sciogliere l'equivoco e
sventare quel piano di sequestro di minore. Il Padre Pier Gaetano Feletti O.P.
riceve il genitore come già aspettasse quella reazione. Concede in via
eccezionale una dilazione di 24 ore, ma non transige altrimenti. L'Inquisizione
ha saputo che il bimbo ebreo è stato battezzato in pericolo di vita da una
domestica cristiana. Ha fatto con zelo tutte le indagini e gli interrogatori.
Non c'è alternativa. Bisogna sottrarre il piccolo cristiano al contesto
familiare israelita. Il piano, architettato nei particolari, prevede
l'immediata sottrazione del bimbo alla famiglia, il suo trasferimento a Roma,
alla Casa dei Catecumeni e la sua educazione in quell'istituto secondo i
dettami cristiani. E tutto si svolge a puntino, conforme alle regole. Dopo
quella compassionevole dilazione, per allontanare madre e fratellini, il giorno
dopo, Momolo Mortara assiste impotente alla partenza del figlioletto Edoardo,
che si allontana nella carrozza chiusa, scortata dai militari, alla volta di
Roma[1].
Il cosiddetto "caso Mortara"[2] suscita un'eco
internazionale, non solo presso gli Ebrei d'Europa[3] e d'America, ma anche
nell'opinione pubblica mondiale e perfino tra i capi di stato. Napoleone III
deplora il "caso" come gravemente lesivo dei sacrosanti diritti dei
genitori. Sir Moses Montefiore si reca a Roma nel 1859 per ottenere il ritorno
del fanciullo alla casa paterna. Moritz Daniel Oppenheim, detto "il
pittore dei Rotschilds", dipinge un quadro che si intitola, il rapimento
di Edgardo Mortara. Sembra che l'Alliance Israélite Internationale, nata nel
Un fatto di questo tipo, capitato a un piccolo ebreo
suddito del Papa Re, è pensabile per un piccolo non-musulmano in una società
musulmana? Ci viene subito in mente a questo proposito il fenomeno del devshirme o tributo di sangue
secondo il quale il governo ottomano prelevava periodicamente ragazzi cristiani
per farne giannizzeri o funzionari nel palazzo sultaniale e
nell'amministrazione governativa. Infatti il devshirme rendeva addirittura collettiva e ricorrente la
sottrazione di minori, strappati a famiglie non musulmane. In realtà, quest'uso
del devshirme fu introdotto alla fine del secolo XIV,
provocando proteste cristiane. Gli stessi giuristi islamici sono in difficoltà
nel metterlo d'accordo con la shari´a
o legge canonica[6]. Cercano di giustificarlo
adducendo una sentenza shafi'ita che afferma attuarsi con popoli divenuti
cristiani dopo l'epoca del Profeta, ai quali perciò non possono concedersi i
diritti dei dimmi o protetti.
La prospettiva sarebbe dunque del bellum
iustum. Di fatto il devshirme è
in vigore nell'impero ottomano durante i secoli XV e XVI, cessando all'inizio
del secolo XVII. Non solo, ma il devshirme
non ha mai prelevato bambini ebrei[7].
Si tratta dell'importante discorso dell'altro,
all'interno di una data società. E tale discorso costituisce di per sé un
terreno sul quale è possibile un paragone tra società cristiana e società
musulmana come tali. A proposito delle due religioni, cristianesimo e islam,
viene spontanea la domanda se il rapporto fra società cristiana ed Ebrei non
sia paragonabile al rapporto fra società musulmana e ahl al-kitâb,
quelli del Libro, Vecchio e Nuovo Testamento, ovvero Ebrei e Cristiani.
Infatti, se nel cristianesimo il Nuovo Testamento si presenta in continuità con
il Vecchio («non veni solvere sed adimplere» Mt 5.17) nell'Islam il Corano
riconosce Turah (Antico Testamento) e Ingil (Nuovo Testamento)
anzi venera molti personaggi dell'uno e dell'altro, da Abramo a Mosè, da Gesù a
Maria sua madre[8].
Un'altra considerazione
storica fattuale, di comunità ebraiche mantenutesi attraverso secoli
all'interno della società cristiana, sembrerebbe confermare la somiglianza del
comportamento delle due società cristiana e islamica nei confronti dell'altro.
Data e non concessa la giustificazione addotta dai
Musulmani al devshirme, anche
l'atteggiamento di Bernardo di Chiaravalle nei confronti dei musulmani è da
porsi nella prospettiva del bellum iustum.
Ecco infatti le espressioni di Bernardo nel suo Libro ai Templari o dell'elogio della nuova milizia. «In morte pagani christianus gloriatur, quia
Christus glorificatur». Il cristiano si gloria della morte del pagano in
quanto Cristo in tal modo è glorificato. «Non
quidem vel pagani necandi essent, si quo modo aliter possent a nimia
infestatione seu oppressione fidelium cohiberi». I pagani non sarebbero da uccidere, se soltanto si potessero
altrimenti impedire dall'opprimere i cristiani. «Nunc autem melius est ut occidantur, quam certe relinquatur virga
peccatorum super sortem iustorum, ne forte extendant iusti ad iniquitatem manus
suas»[9]. È
minor male che loro siano uccisi piuttosto che l'arma dei peccatori continui a
minacciare la sorte dei giusti, cosicché non rischino i giusti di stendere le
loro mani verso l'iniquità. Nella concezione di Bernardo non datur tertium, ma
soltanto cristiani e non cristiani, i "nostri" e gli
"altri", che sono nemici, cosiddetti pagani o politeisti, benché
l'Islam, lungi dall'essere politeista, si glori del titolo del più puro monoteismo
mai esistito.
Messa da parte la questione
del devshirme, non perché
irrilevante o perché limitata nel tempo e nello spazio, ma per l'obiezione
sollevata dai musulmani, quasi riguardi non l'ambito di dār al-islām o casa dell'Islam, ma di dār al-harb o casa della guerra,
cioè il resto del mondo, atteniamoci strettamente a quello che avvenga in una
società musulmana in quanto tale o dār
al-islām, paragonando con quanto avveniva al piccolo ebreo membro
della società del Papa Re. Un fenomeno come quello capitato alla famiglia
Mortara non è pensabile all'interno della società islamica. Non solo perché
l'Islam non ha nulla che corrisponda al battesimo, che può essere ricevuto
validamente anche prima dell'uso di ragione. L'ingresso nell'Islam di uno che
non sia nato in famiglia musulmana coincide con la sua professione di fede
islamica, ovvero al suo proclamare pubblicamente che non c'è altro dio che Dio
e che Muhammad è il profeta di Dio. Il che non è ammissibile per un infante
prima dell'età di ragione. Ma c'è inoltre un principio giuridico affermato dal
Corano:
«L'Islam - scrive il musulmano Yūsuf
al-Qaradāwī - non costringe nessuno ad abbandonare la sua religione e
non giustifica indebite pressioni perché uno si converta. Il fondamento di ciò
è la stessa parola di Dio: 'nessuna violenza in religione. La via diritta si
distingue ormai bene dall'errore'»[10]. Così pure: 'Se il tuo
Signore volesse, tutti coloro che sono sulla terra sarebbero credenti. Tocca
forse a te costringere gli uomini a essere credenti?'[11]. «La prima libertà umana -
continua Qaradāwī - consiste nel lasciare a ciascuno la sua religione
e il suo rito»[12].
I bambini di una famiglia dimmi, cioè di non-musulmani
protetti, sono considerati
appartenenti alla religione dei loro genitori.
C'è infatti la tradizione o hadīt in cui il Profeta
dice:
«Ogni bambino nasce secondo
la fitra, cioè in conformità al piano
salvifico di Dio. Sono i suoi genitori che ne fanno un ebreo, un cristiano o un
mazdeo».
Ora è opinione accreditata
presso gli specialisti di fiqh o
diritto islamico che si possa dedurre da questa tradizione che la fitra dell'Encyclopédie de l'Islam,
«Quant à la religion
légale de l'enfant, elle est par le fait même celle de ses parents, bien qu'en
réalité il n'embrasse cette religion que quand sa raison a mûri»[13].
Nessun militare inviato da governo islamico si
introdurrà pertanto all'interno di una casa cristiana a dire che il piccolo
bambino addormentato non appartiene più a quella famiglia ma appartiene alla ummah cioè alla comunità dei credenti islamici. Il modo di
reagire nei confronti dell'altro è diverso nelle due società, cioè in quella
cristiana e in quella musulmana. La differenza sta a monte, cioè nella maniera
di concepire la società cristiana e la società musulmana. Non è nella
situazione privilegiata che ha la religione cristiana negli Stati della Chiesa
e la religione musulmana nel dār
al-Islām. In questo le due religioni monoteistiche vogliono ambedue
uno statuto privilegiato di priorità, trattandosi
in ambedue i casi di religioni che hanno, per dirla con G. Mensching, lo stesso
"Absolutheitseinspruch", cioè l'affermazione esclusiva della propria
assolutezza[14]. Ambedue le società,
cristiana e musulmana, subiscono la tentazione di praticare la discriminazione
giuridica, l'una fra cristiano e non-cristiano e l'altra fra musulmano e
non-musulmano. Al contrario, nella società politeistica in cui aveva avuto
origine il diritto romano, questa tentazione non c'era.
«La religione non rappresenta nel più antico diritto
romano una causa modificatrice della capacità giuridica... Così si spiega che
l'estendersi dell'impero abbia fatto accogliere nel mondo romano un numero
sempre maggiore di dei e di culti, a cominciare dalla ricezione delle divinità
greche fino alla vera e propria invasione di culti asiatici che si verificò in
epoca imperiale e sotto i Severi specialmente... È noto d'altronde che le
persecuzioni non furono suscitate da motivi puramente religiosi, anzi dal conflitto
insanabile fra l'insegnamento di Cristo e la concezione romana dell'impero e,
come espressione pratica di questo conflitto dal rifiuto pertinace che i
cristiani opposero di sacrificare all'imperatore e di giurare sulla sua maestà.
In ogni modo, neanche in questo periodo l'aspra lotta contro la religione ebbe
riflessi sulla capacità giuridica. Questi si ebbero invece dopo il trionfo del
Cristianesimo, sancito dall'editto di Costantino del 313. Nel diritto
giustinianeo i cittadini che per motivi religiosi sono posti in condizioni
inferiori si distinguono in tre gruppi: i pagani e gli ebrei; gli apostati e
gli eretici; da ultimi, i più gravemente colpiti, i manichei»[15].
«A partire dal IV secolo - scrive Giuseppe Ruggieri
nell'opera collettiva da lui curata, I
nemici della cristianità, - il cristianesimo ... accettando di configurarsi
come religione civile fu costretto a modificare la propria immagine del
nemico... Questi nemici nel decreto di
Graziano sono di fatto appartenenti a tre gruppi: i giudei, gli eretici, gli
infedeli»[16]. Possibile che non ci sia
alternativa al vedere nell'alieno un nemico, sia esterno che interno alla
società? «La res publica christiana -
conferma Maria Isabel Mendez Romano nella stessa opera collettiva - acquista una
coscienza di sé e una identità propria, contrapponendosi al diverso, al
differenziato, agli "altri", sia esterni ad essa, gli infedeli, sia
interni, gli eretici e gli ebrei». E la stessa autrice cita due famosi monaci,
Pietro il Venerabile e Bernardo di Chiaravalle. Il primo dei due, Pietro il
Venerabile, denuncia il paradosso già menzionato da Guibert de Nogent - andare
a combattere gli infedeli in terre lontane, quando i peggiori nemici di Cristo,
dei cristiani e della fede cristiana, bestemmiatori, increduli, assassini di
Cristo, ancora più detestabili dei saraceni, gli Ebrei, li abbiamo in casa
nostra! Pietro il Venerabile infatti scrive un'opera esplicitamente
antigiudaica, Adversus iudeorum
inveteratam duritiem e manifesta i propri dubbi circa l'umanità degli
ebrei, data l'evidente mancanza di razionalità nel non riconoscere Cristo.
Bernardo esprime opinioni simili a quelle di Pietro di Cluny detto il
Venerabile. È vero che a differenza degli infedeli da uccidere, pagani sunt necandi, proibisce di uccidere
gli Ebrei e di usare la forza per la loro conversione, ma soltanto perché
devono continuare a vivere in una condizione di dispersione, miserabile e
umiliata, affinché in tal modo paghino per il loro delitto. In conclusione,
tanto l'uno che l'altro, negano la soppressione degli ebrei ma ne vogliono la
sopravvivenza in condizione miserabile. Rappresentano emblematicamente la
posizione teorica e pratica della Chiesa del loro tempo verso gli Ebrei,
paradossale binomio di 'protezione e sottomissione'[17]. A questo punto qualcuno
troverà un'ulteriore somiglianza fra il modo nel quale i Cristiani hanno
trattato gli Ebrei e il modo nel quale i Musulmani hanno trattato i dimmī o protetti. Anche per
i dimmī si verificò nella
società musulmana una condizione di sottomissione umiliante, collegata con le
parole della sura nona, o del pentimento, «Combattete coloro cui fu data
Il libro curato da Ruggieri sui Nemici ha un altro rilievo interessante: Nel secolo XVI la scoperta
al di là dell'Atlantico di un mondo che ignora il Vangelo mette in crisi
l'identificazione del "totus orbis" con la cristianità e provoca
Francisco de Vitoria O.P. a riconoscere un diritto dei popoli. Ma se il
Cristianesimo non applica all'indio
americano l'antica concezione di
"nemico", la conserva nei confronti del turco, contro il quale c'è un
"bellum perpetuum"[19].
Comunque, pure ammessa la
somiglianza tra la situazione degli Ebrei nella società cristiana e dei dimmi nella società musulmana, a
cosa si deve la diversità che la storia testimonia?
L'Islam ha fatta ben presto
la distinzione di dār al-Islām e
dār al-harb. Nel dār al-Islām entrano di
diritto i non musulmani che, appartenendo alla famiglia biblica, ahl al-kitâb, Ebrei, Cristiani e
assimilati, si arrendono condizionatamente all'Islam vincitore. Il
"protetto" o dimm
non appartiene alla religione privilegiata, cioè l'Islam, ma non è "nemico", perché inserito quale
membro nella società islamica. Il dār
al-Islām considera nemici i kāfirūn
o infedeli, ma riconosce la figura intermedia degli appartenenti alla
famiglia della Bibbia che, pur non identificandosi con i musulmani, non sono da
equipararsi ai miscredenti o kāfirūn.
Con questa distinzione, il dār
al-Islām nutre al suo interno un pluralismo, per così dire,
istituzionale.
Muhammad Ra'fat ´Utmân,
scrivendo sui rapporti dei musulmani con i dimmī
riferisce l'opinione di giuristi shafi'iti.
«Con il passaggio di territori sotto autorità
musulmana, a condizione che vi rimangano quanti si sono sottomessi, salvo a
pagarne la tassa, è altrettanto concesso di stipulare in loro favore, il
mantenimento delle loro chiese e sinagoghe riservate al loro culto. Infatti se
è lecito concludere un armistizio, a
fortiori è lecito lasciare ai vinti parte del territorio conquistato»[20].
Lo stesso autore aggiunge:
«Quanto a chiese in territori che i musulmani hanno
conquistato in seguito ad armistizio, preferiamo seguire l'opinione dei
giuristi Shafi'iti che la terra rimanga dei dimmī dietro pagamento della tassa. Hanno diritto a
costruire e a conservare le loro chiese e luoghi di culto in base alle clausole
dell'armistizio»[21].
L'islamologa Biancamaria
Scarcia Amoretti scrive in un libro recente:
«Il dimmī
acquisisce il diritto di una relativa libertà di culto e soprattutto quella di
essere difeso nella persona e nei beni... Nell'insieme l'integrazione di
cristiani e di ebrei è stata più forte di quanto ci si potesse aspettare. Si
conoscono ministri e funzionari di religione cristiana o giudaica, non
costretti a convertirsi per accedere o mantenere la loro posizione. Il fenomeno
continua nel tempo. Infatti, stati che non rinnegano la loro prioritaria
identità musulmana, come l'Egitto, registrano oggi, come ieri, la presenza di
cristiani nelle alte sfere del potere. Comunità cristiane sono
ininterrottamente testimoniate fino ad oggi nell'area siro-palestinese... così
quelle giudaiche, almeno fino alla fondazione dello stato di Israele»[22].
Scrive ancora Yūsuf
al-Qaradāwī:
«I protetti hanno diritto ad accedere alle cariche
dello stato come i musulmani, salvo quelle cariche che sono piuttosto di ordine
religioso, come l'imamato, la presidenza dello stato, il comando dell'esercito,
l'esercizio della giustizia nei riguardi dei musulmani, l'amministrazione
dell'elemosina legale prescritta dal Corano. A parte queste speciali cariche,
tutte le altre funzioni statali possono affidarsi ai protetti, nella misura in
cui verificano le condizioni indispensabili di competenza, di onestà e
dedizione»[23].
Altri musulmani sottolineano
ulteriormente il pluralismo della società musulmana, per esempio, Fahmī Huwaydī:
«Se alcuni musulmani dubitano, come alcuni
orientalisti, della uguaglianza legale di dimmī
e musulmani nella società islamica, non mancano testimonianze che provano
tale parità. Per es. i versetti coranici sulla dignità umana. Così pure
l'esortazione del Corano a esser giusti con quelli che non hanno resistito con
le armi»[24].
Fahmī Huwaydī cita pure la tradizione che
ammonisce di ricompensare adeguatamente l'alleato, altrimenti il Profeta ne
patrocinerà i diritti a riparazione dei torti subiti. È interessante notare
come questo musulmano odierno citi anche, quale argomento a favore della parità
legale dei dimmī, la costituzione di Medina, benché
quell'accordo stipulato dal Profeta non continui sotto i Califfi nella penisola
arabica. Infatti, non soltanto gli occidentali approfonditi nella conoscenza
delle origini islamiche, per es. Kister e Serjeant, ma anche studiosi musulmani
ritengono che l'esclusione di non
musulmani dalla penisola arabica non corrisponda alla tradizione genuina della sirat
al-nabi o vita del Profeta, ma provenga piuttosto da tempi successivi alla fitna,
crisi susseguente alla morte di Muhammad, cioè ai tempi dei califfi[25]. Il Profeta aveva detto a
Medina:
«Se qualcuno degli ebrei ci
segue, ha diritto agli stessi sussidi dei credenti. Infatti gli ebrei
sostengono, come i credenti il peso della guerra. Gli ebrei abbiano pure la
loro religione e i musulmani la loro, ma gli ebrei danno il loro contributo,
così come i musulmani il loro. Da loro viene la solidarietà nell'opporsi ai
comuni nemici e l'amicizia sincera senza tradimento».
E il musulmano odierno
commenta:
«Altrimenti che senso hanno le parole dell'imām
´Alī b. Abī Tālib e di tutti i giuristi musulmani che
autorizzano i musulmani a difendere anche con le armi i loro protetti, se poi
li privano di qualcuno dei loro diritti? A monte del patto con i dimmī c'è il patto dei
musulmani con Dio l'Altissimo per realizzare l'equità sulla terra. E la difesa
della dignità dell'uomo è dovere fondamentale della società islamica... I non
musulmani sono autentici partners nei territori musulmani... Se gli Shafi'iti
hanno sostenuto che la giziyyah è
compenso simbolico dei padroni di casa e se Māwardī l'ha detta canone
d'affitto per rimanere nel territorio conquistato, tali parole sono private interpretazioni
di un dato periodo, di una pagina ormai voltata. Le terre musulmane sono
proprietà di musulmani e non musulmani, senza diritti o precedenza degli uni
sugli altri, dal momento che l'uomo non ha altra superiorità sul suo simile che
quella della sua fedeltà e della sua buona condotta»[26].
Nell'Islam non ci fu mai una
legislazione discriminante dei non musulmani come quella del codice teodosiano
nei confronti degli Ebrei, esclusi tassativamente dalla vita pubblica:
«In omne aevum lege sancimus neminem Judaeum ad
honores et dignitates accedere; nulli administrationem patere civilis obsequii
nec defensionis saltem officio»[27].
Il Corano e
«È' oltremodo assurdo e disdicevole che gli ebrei, condannati per propria colpa a
perenne schiavitù, sotto il pretesto che la pietà dei cristiani li riceve, accettando
di convivere con loro, siano poi così ingrati verso i cristiani da ripagarli
della loro benignità con offese, pretendendo dominarli, mentre devono servirli»[29].
Il documento impone agli
ebrei di abitare separati dai cristiani, tutti insieme nello stesso luogo, poi
chiamato ghetto.
«Volendo salutarmente provvedere di conseguenza,
stabiliamo con questa nostra bolla di validità perpetua, che in Roma, o in
altri centri o località della Chiesa, gli Ebrei abitino tutti assolutamente
nello stesso luogo, o in due o tre luoghi, se uno solo non può contenerli
tutti. Tali luoghi saranno designati da noi tramite i nostri magistrati,
saranno totalmente separati dai luoghi dove abitano i Cristiani e unici ne
saranno ingresso e uscita»[30].
La stessa bolla proibisce che ci siano due sinagoghe
nella stessa località, impone che gli Ebrei abbiano come segno distintivo un
berretto di colore azzurro, se uomini, o un capo di vestiario dello stesso
colore, se donne. Vieta agli ebrei le nutrici e i domestici cristiani; di
lavorare pubblicamente la domenica, di far contratti con i cristiani, di
trattare o giocare d'azzardo con loro; di stampare libri in ebraico, di
esercitare il commercio, con la sola eccezione del mestiere dello
straccivendolo e del venditore di generi alimentari di prima necessità, come
frumento e orzo; se sono medici, non è loro permesso di curare cristiani. Non
possono farsi chiamare padroni da cristiani, né servirsi del mese lunare di 28
giorni per computare i loro crediti, ma devono adeguarsi in questo al mese
solare di trenta giorni[31].
Per gli Ebrei negli Stati
della Chiesa, il libro di Kertzer cita l'editto su di loro, emanato nel giugno
1733 dall'arcivescovo di Bologna, il cardinale Prospero Lambertini, futuro papa
Benedetto XIV. L'editto specifica che non possono lasciare di notte il loro
quartiere, che non possono leggere il Talmud, né alcun altro libro proibito,
non possono mangiare o bere con i cristiani o intrattener qualunque rapporto
con loro. L'A. osserva che un ghetto vero e proprio a Bologna nel 1858, anno
del "caso Mortara", non c'è più e che tali direttive sono quelle del
ghetto di Roma, i cui abitanti addirittura sono obbligati ad ascoltare, nella
chiesa vicina, S. Angelo in Pescheria, la predica che li esorta alla
conversione. Allora, gli ascoltatori forzati, portano con sé un lavoro manuale
per occupare quel tempo e si tappano le orecchie con la bambagia per non essere
disturbati dalle perorazioni del frate. C'è una croce sulla facciata della
chiesa con il versetto di Isaia 65,2, in ebraico e in latino. «Ho teso la mano
ogni giorno a un popolo ribelle; essi andavano per una strada non buona
seguendo i loro capricci». Più tardi la croce è distrutta e qualcuno pensa di
riprodurne la scritta sulla facciata della chiesa di fronte al ghetto, della
Madonna della Divina Pietà. La scritta è rimasta e chi sa l'ebraico può
leggerla tuttora. Questa "predica coattiva", per convincere gli Ebrei
ad abbandonare la propria religione, è forma di violenza spirituale sconosciuta
al mondo islamico, dove tutt'al più la voce del muezzin rintrona in orecchie
cristiane ed ebraiche.
Giorgio Levi della Vida
scrive nel 1924:
«Salvo casi isolati non vi fu mai un divieto
assoluto e generale del culto ebraico, che poté così mantenersi fino ai nostri
giorni. In alcuni periodi e in alcune età gli Ebrei godettero anzi di una
relativa libertà e poterono raggiungere grande prosperità economica e
intellettuale... soprattutto in Spagna dove al tempo del dominio musulmano
ebbero una splendida fioritura letteraria e scientifica (in genere gli Ebrei
vennero trattati meglio dai Musulmani che non dai Cristiani), ma donde vennero
espulsi nel 1492 dal re Ferdinando il Cattolico»[32].
Quello che dice Levi della Vida confrontando la
situazione degli Ebrei sotto i Musulmani e sotto i Cristiani in Spagna, dove i
Musulmani fanno migliore figura che i Cristiani, è giudizio fondato sulla storia. Quando gli Ebrei sono
espulsi dalla Spagna nel 1492, molti di loro raggiungono il territorio
ottomano, dove vengono bene accolti e si sistemano adeguatamente. Un passo di
Elijah Capsali, nel Seder Eliyahu Zuta,
commisera il re di Spagna per la dabbenaggine con la quale arricchisce i Turchi
di gente colta e dinamica e ne priva invece il suo regno[33]. La miglior situazione
degli Ebrei in terra musulmana piuttosto che in terra cristiana è confermata
dal parallelo con il trattamento di certi cristiani in terra musulmana e in
terra cristiana. Per esempio, cristiani assiri o della Chiesa di Oriente, i
cosiddetti Nestoriani, ebbero vita più facile sotto i califfi abbasidi, che,
precedentemente, nei territori bizantini sotto Giustiniano. Lo stesso si può
dire dei cosiddetti Giacobiti, o Sirortodossi, divergenti dalla cristologia
imperiale calcedonese e per questo perseguitati in terra bizantina, mentre
hanno lo stesso trattamento dei cristiani melkiti o imperiali nelle terre
islamiche.
Pietra di paragone per la situazione degli alieni
nelle società cristiana e musulmana sono le Crociate. J. Prawer, specialista
della storia del regno crociato di Gerusalemme, afferma che le comunità
ebraiche di Palestina devono bere il calice dell'amarezza fino alla feccia,
durante i primi anni del dominio franco[34]. I Crociati infatti massacrano
la popolazione musulmana ed ebrea di Gerusalemme[35]. Soltanto in seguito cambia
gradualmente l'atteggiamento dei Crociati, che si accorgono di aver bisogno
della popolazione locale[36]. Ma negano agli Ebrei di
risiedere a Gerusalemme finché non sono sconfitti da Saladino[37].
È recente l'opera di un grande specialista, il
francese Jean Richard, che in una sintesi magistrale mette in evidenza il mutuo
scambio fra Oriente e Occidente che si verifica nelle Crociate, dopo un lungo
periodo di isolamento e di incomprensione fra le due parti del mondo[38]. Ho letto con interesse
quel libro. Ma non mi ha fatto dimenticare l'opera di un altro grande
specialista, Claude Cahen, che ha dedicato gran parte della sua produzione
letteraria allo stesso fenomeno storico delle Crociate.
Claude Cahen[39], dopo aver descritto
l'Oriente, in particolare il cosiddetto Levante e l'Africa nordoccidentale,
prima delle Crociate, li studia ambedue nel corso delle singole Crociate e
negli insediamenti orientali latini, attraverso gli eventi bellici, gli
edifici, il commercio e le trasformazioni culturali, le istituzioni, i
personaggi, per es. Saladino, i periodi ayyubide e mongolo. Con il suo
procedere chiaro e ben documentato, Cahen giunge a conclusioni critiche
smitizzanti. Secondo lui, i due mondi, orientale e occidentale, sono diversi
prima delle Crociate e si mantengono tali anche dopo e nonostante l'attività e
la presenza latina in Oriente. Il mondo dell'Oriente è pluriconfessionale. Il
mondo cristiano di Occidente non riesce, meno che mai in Sicilia, dopo la
seconda generazione normanna, o in Spagna, con la reconquista, a realizzare una pluriconfessionalità. Se non si
possono negare influssi e contraccolpi crociati sull'Oriente, bisogna
circoscrivere questi effetti a livello locale e regionale e qualificarli di
segno negativo. È quindi errata la tendenza di storici occidentali a
magnificare gli effetti delle Crociate sull'Oriente. Quanto alla cultura, non
vi è alcuna prova che il Rinascimento siriaco e la fioritura spirituale
caratterizzanti nella stessa epoca vaste zone del Vicino Oriente, siano dovute
all'influsso crociato. Nessuno è riuscito a provare in questo caso un influsso
spirituale concreto dell'Occidente sull'Oriente. Quanto poi al commercio del
Levante,
Cahen deve essere preso in seria considerazione non
solo per aver cominciato la sua attività orientalistica con
Quando dico che la
situazione degli Ebrei nella società islamica è migliore di quella degli Ebrei
nella società cristiana, intendo parlare di società cristiana e di società
islamica come tali. Ma oggi, data la secolarizzazione, non c'è più una società
cristiana come tale, mentre c'è ancora una società islamica come tale e, forse
proprio per questo, la situazione dell'alieno oggi è migliore nel mondo
cosiddetto cristiano che non nel dâr al-islâm, benché il mondo cosiddetto
cristiano debba fare molto cammino nel dialogo con i Musulmani, sempre più
numerosi nel suo territorio.
L'affermazione, che in un
dato periodo della storia la situazione dell'alieno fosse migliore presso i
Musulmani che presso i Cristiani, non deve, per così dire, far riposare sugli
allori i Musulmani, a rischio di mantenere immutato un sistema che invece esige
un aggiornamento. Tanto più che questo aggiornamento è auspicato da alcuni
musulmani che vogliono un profondo cambio della loro società tradizionale.
Il giurista tunisino
Muhammad Charfi si augura che la società islamica separi diritto e religione.
Non vuole separare la moschea dallo stato, come ha fatto il laicismo turco, ma
la religione dal diritto.
«La religione islamica è tollerante, conforme al
principio coranico là ikrà fi al-din,
non si può indurre nessuno sul retto cammino con la violenza[43]. Nel passato questo aspetto
dell'Islam ha costituito un progresso rispetto alle antiche pratiche di
violenza religiosa. Questo però oggi non basta. I non-musulmani della casa dell'Islam non accettano più di
essere semplicemente tollerati e rivendicano giustamente un pieno e integro
statuto di cittadini»[44].
Muhammad Talbi, storico e
islamologo tunisino di chiara fama, che nel
«Tolleranza è insieme condanna, degradazione,
condiscendenza più o meno sprezzante, emarginazione, esclusione e solo nel
migliore caso carità e generosità. Dire che si tollerano i cittadini è un non
senso. Non hanno bisogno di essere tollerati. Per tutte queste ragioni alla
tolleranza io preferisco il rispetto: il rispetto è un diritto. Ogni essere
umano ha diritto al rispetto che si deve di diritto alla dignità umana. A me
non piace essere tollerato. Ogni essere umano ha diritto di esigere il rispetto
per sé, tale quale egli è e quale desidera essere»[45].
Talbi cita il confronto fra
Ebrei e Arabi fatto da uomo di cultura nordafricano.
«Lo scrittore algerino Habib Tengur, rattristato per
ciò che accade nel suo paese, si interroga sul perché il mondo arabo, oggi, non
conti un solo pensatore di portata universale e fa notare: gli ebrei non hanno
tappeto volante di sorta, né il molle fasto degli abbasidi, ma destano
ammirazione nel mondo intero. E sono nostri cugini. Certamente sono nostri
cugini, benché ciò sia stato spesso dimenticato. Dobbiamo perciò cercare le
ragioni del loro successo e delle nostre sconfitte. Perché i nostri cugini sono
liberi, mentre dovunque nel mondo arabo-musulmano liberato dal colonialismo non
si è fatto altro che cambiare gogna - mediocre consolazione - più o meno
pesante da un luogo all'altro. Questa è la verità nella sua nudità. Quando si
rompono le penne non rimangono che i coltelli. Poche restano le scelte: il
silenzio... In simile contesto, sognare un pensatore arabo-musulmano di portata
universale è evidentemente assurdo»[46].
A questa emulazione
fraterna, o per lo meno cuginesca, fra Musulmani ed Ebrei, formulata da un
Musulmano algerino, così come al superamento della sola tolleranza, auspicato
da intellettuali musulmani, unisco l'auspicio che l'Occidente prenda sempre più
coscienza del suo dovere di gestire la terra - come dice il musulmano Muhammad
Talbi - non contro gli altri (l'alieno non deve identificarsi con il nemico
come abbiamo fatto spesso anche noi
Cristiani) ma insieme agli altri. Lo propone un vescovo cattolico in terra
musulmana, dopo aver rammentato con lucidità le difficoltà del dialogo e averne
sollecitato il rinnovamento. La sua proposta rivolta a Cristiani e Musulmani è
valida anche per gli Ebrei e per tutti i credenti:
«Il ne faut pas
minimiser l'entreprise du dialogue. Cependant la tâche doit être poursuivie,
car il n'y a d'avenir, ni pour la religion ni pour l'humanité, si les croyants
ne deviennent pas des hommes de paix, et leurs responsables des hommes du
dialogue»[47].
[1] DAVID I. KERTZER, Prigioniero del Papa re. Storia di Edgardo Mortara, ebreo, rapito
all'età di sei anni da Santa Romana Chiesa nella Bologna del 1858, Milano,
Rizzoli 1996, pp.11-22.
[2] GIAN LUDOVICO MASETTI ZANNINI, "Nuovi
documenti sul caso Mortara", Rivista
della Storia della Chiesa in Italia 13 (1959); G. MARTINA S.J., Pio IX (1851-1866), Roma, Editrice Pontificia
Università Gregoriana 1986, pp. 31-35.
[4] PIO EDGARDO MORTARA, Stanze recitate alla presenza della Santità di Nostro Signore papa Pio
IX da Edgardo Mortara in S. Agnese fuori le Mura il dì 12 aprile 1866, s.d.
et l.
[6] V. L. MÉNAGE, "Devshirme",
EIsl. II
(1965) 217-219; P. WITTEK, "Devshirme and sharī`a",
BSOAS 17 (1955) 271-278.
[7] BASILIKE D. PAPOULIA, Ursprung und Wesen der 'Knabenlese' im
osmanischen Reich, München, Oldenbourg 1963, pp. 44-45; P. WITTEK,
"Devshirme and sharī`a", BSOAS 17 (1955) 271-278,
qui 278.
[10] Corano, sura 2 o della vacca, v. 256.
[12] YÛSUF AL- QARADĀWĪ, Ghayr al-muslimīn fī
mugtama' l-islāmī, Beyrouth
1983, 9-42. Études Arabes, Dossiers, 80-81 (Rome, Inst. Pont.
d'Études Arabes, 1991) 37-39.
[13] EIsl. II (1965) 954.
[14] G. MENSCHING, Zum Phänomen des Absolutheitsanspruches in Christentum und in Islam,
in Der Orient in der Forschung, Festschrift
für Otto Spies zum 8. April 1966, Hgbn von Hoenerbach, Wiesbaden 1967, pp. 444-452.
[15] V. ARANGIO-RUIZ, Corso di istituzioni di Diritto Romano, Napoli 1921, pp. 54-55.
[17] M. I. MENDEZ ROMANO, "
[19] G. RUGGIERI, "Bellum perpetuum. La
difficile fine della cristianità di Francisco de Vitoria", in G. RUGGIERI
(a c. di), I nemici della Cristianità, op. cit., pp. 205-223.
[20] MUHAMMAD RA'FAT UTMĀN,
"Alāqat al-muslimīn bi-ahl al-dimmah", Magallat al-Azhar 45 (1973) 361-373,
446-454; Études Arabes, Dossiers 80/81, (Rome, IPEA 1991) 71.
[21] Id., "Alaqat al-muslimīn bi-ahl al-dimmah",
Magallat al-Azhar 45 (1973); Études
Arabes, Dossiers 80/81, 85.
[23] YŪSUF AL-QARADĀWI, Ghayr al-muslimīn fī
l-mugtama` l-islāmī,
Beyrouth 1983, 9-42; Études Arabes, Dossiers, 80/81, 45.
[24] FAHMĪ HUWAYDĪ, Muwātinūn lā
dimmiyyūn, Beyrouth 1985,
117-127; Études Arabes, Dossiers 80/81 1991, 249.
[25] HICHEM DJAÏT, La grande discorde, Religion et politique dans l'Islam des
origines, Gallimard 1989.
[26] FAHMĪ HUWAYDĪ, Muwātinūn lā dimmiyyūn,
Beyrouth 1985, pp. 117-127; Études Arabes, Dossiers 80/81 1991, 249-255.
[27] Nov. Theod. 3 (Cfr L. de GIOVANNI, Chiesa e stato
nel Codice teodosiano, Napoli 1980; G. G. Archi, Teodosio II e la sua codificazione, Napoli 1976, p. 69),
[28] Paulus III, Bulla, Cupientes Judaeos, in Bullarium
Diplomatum et Privilegiorum, Tomus VI, Augustae Taurinorum, Franco et
Henrico Dalmazzo Editoribus 1860, 336-337.
[29] Paulus IV, Bulla, Cum nimis absurdum, in Bullarium Diplomatum et Privilegiorum,
Tomus VI, 498.
[32] G. LEVI della
VIDA, Gli Ebrei, Storia, Religione, Civiltà, Messina, Principato 1924, p. 100.
[33] J. MANN, Texts and Studies in Jewish History and Literature, Philadelphia
1935, vol. 2, pp. 302-315, cit. da M. A. EPSTEIN,"The Leadership of the
Ottoman Jews in the XVth and XVIth C.s", in B. Braude & B. Lewis
(editors), Christians and Jews in the
Ottoman Empire, New York-London, Holmes & Meier 1982, vol. I, pp. 101-115, qui 105.
[34] J. PRAWER, Histoire du Royaume Latin de Jérusalem, tr. par G. Nahon revu et
complété par l'A., Paris, Éditions du CNRS 1969, I, p. 528.
[39] Cl.
CAHEN, Orient et Occident au temps des
Croisades, Paris 1983.
[40] Scoperto in un manoscritto dell'Escurial da H.
DEREMBOURG, pubblicato e tradotto da lui, Ousâma
Ibn Mounqid. Un émir syrien au premier siècle des Croisades(1095-1188),
Paris, Leroux 1886, 1889, ebbe una versione tedesca a Innsbruck nel 1905, una
russa nel 1922, una inglese nel 1927 e un'altra tedesca nel 1978. Non c'è finora alcuna versione italiana.
[41] NICHOLAS COUREAS, The Latin Church in Cyprus, 1195-1312,
Aldershot GB- Brookfield USA, Ashgate Publ. C. 1997; NICHOLAS COUREAS and
CHRISTOPHER SCHABEL (Editors), The
Cartulary of the Cathedral of Holy Wisdom of Nicosia, (= Texts and Studies
in the History of Cyprus, XXV), Nicosia, Cyprus Research Centre 1997.
[42] RONALD C. JENNINGS, Christians and Muslims in Ottoman
[43] Corano, sura 2 o della vacca, v. 256.
[44] MUHAMMAD CHARFĪ,
"L'influence de la religion dans le droit international privé des mays
musulmans", Académie de droit international, Recueil des Cours 1987, III
321-454, qui 433. Cfr
V. POGGI S.J., "Non-musulmani nella società musulmana", in Il diritto romano canonico quale diritto
proprio delle comunità cristiane dell'Orente mediterraneo, IX Colloquio
internazionale romanistico canonistico, Roma, Libreria Ed. Lateranense 1994,
553-566.
[45] MOHAMED TALBI, "Gestire insieme la terra.
Dialogo, tolleranza, bioetica", Un'urgenza
dei tempi moderni: il dialogo fra gli universi culturali; Documenti del
Premio Senatore Giovanni Agnelli, Torino, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli
1997, 19-32, qui 24-25.
[46] Ibid, pp. 29-30.